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Lettere da Iwo Jima – Le due guerre

Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood si può annoverare fra i film di guerra di produzione occidentale più sui generis del cinema contemporaneo – basti solo pensare al fatto che è interpretato tutto da attori giapponesi in giapponese.

A fronte di un budget piuttosto contenuto per una produzione del genere – appena 19 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con 69 milioni di incasso.

Di cosa parla Lettere da Iwo Jima?

Diverse storie di soldati semplici e generali innamorati del proprio paese si susseguono sullo sfondo della drammatica sorte dell’isola di Iwo Jima, ultima linea di confine per l’Impero Giapponese nella Seconda Guerra Mondiale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lettere da Iwo Jima?

Kazunari Ninomiya in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

Assolutamente sì.

Lettere da Iwo Jima è una riproposizione dell’opera precedente dello stesso Eastwood, Flags of our fathers (2006), però portando il punto di vista giapponese della turbolenta vicenda di questa ultima linea di confine, in cui i soldati nipponici dovettero veramente dimostrare il loro valore

Attraverso una regia attenta e una scrittura il più possibile realistica e verosimile, con questa pellicola il regista statunitense porta in scena uno spaccato piuttosto variegato dei diversi sentimenti che popolavano l’altra parte del fronte…

Insomma, non ve lo potete perdere.

Lettere da Iwo Jima realtà

Alcune utili indicazioni per orientarsi nel film.

La battaglia di Iwo Jima (硫黄島の戦い Iōtō no tatakai?) si svolse durante la Guerra nel Pacifico (19 Febbraio-26 marzo 1945) nell’omonima isola giapponese tra le forze statunitensi e le truppe dell’esercito imperiale giapponese.

Insieme a Okinawa, Iwo Jima rappresentava uno scudo avanzato per le isole metropolitane dell’Impero giapponese che potevano essere coinvolte in uno sbarco degli Alleati: le due posizioni erano perciò presidiate da guarnigioni numerose e bene armate.

Anche per gli Stati Uniti, Iwo Jima rivestiva notevole interesse, poiché dagli aeroporti dell’isola sarebbero potute decollare le scorte di caccia ai bombardieri strategici Boeing B-29 Superfortress basati nelle isole Marianne e in Cina, che dal giugno 1944 colpivano le industrie e le infrastrutture giapponesi.

I lavori di fortificazione precedenti lo sbarco avevano trasformato l’isola in una vera e propria fortezza che, nonostante i bombardamenti preliminari effettuati dall’8 dicembre 1944, oppose una strenua resistenza alle unità statunitensi, principalmente del Corpo dei Marine, sbarcate il 19 febbraio sotto lo schermo protettivo di una completa supremazia aeronavale.

La feroce battaglia si concluse ufficialmente il 26 marzo 1945 con il quasi totale annientamento della guarnigione giapponese e la perdita di oltre 23 000 uomini fra morti e feriti per gli Stati Uniti (unico episodio della campagna di riconquista del Pacifico in cui gli USA soffrirono più perdite dei giapponesi).

Ecco una piccola galleria di foto d’epoca.

L’onore

Come per La sottile linea rossa (1998), anche Lettere da Iwo Jima può essere letto su più livelli.

Il primo livello è quello della guerra ideale.

Il senso di onore e di fedeltà all’Imperatore rendeva l’esperienza nipponica diversa per molti aspetti da quella statunitense: se all’interno del fronte americano vi era una ricerca dell’eroismo individuale, al contrario l’azione dell’esercito giapponese era volta alla salvezza della comunità.

Così vi è una generale consapevolezza persino da parte delle alte cariche dell’esercito di quanto la missione sia fondamentalmente suicida e senza speranza, al punto che persino la madrepatria si rifiuta di inviare i rinforzi adeguati.

Nonostante questo, sbocciano facilmente negli animi di questi personaggi slanci di patriottismo che li porta persino ad una sorta di suicidio fra il politico e rituale, all’urlo di 万歳 (banzai!) – Mille anni di vita all’ imperatore!

Di fatto per questi soldati è proibito tornare alla propria vita, non è possibile né arrendersi né farsi catturare, ma solo dimostrare fino all’ultimo la loro tenacia e fedeltà alla madrepatria, anche quando la stessa non sta facendo niente per aiutarli…

A metà

Ken Watanabe in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

In questo senso, Tadamichi Kuribayashi è una figura di mezzo fra le due guerre.

Dopo aver avuto un’esperienza fondamentale nella realtà militare statunitense, il generale cerca di trovare una via alternativa per risolvere con maggior successo una situazione già di per sé insalvabile, scegliendo la strategia dell’imboscata al posto della trincea suicida.

Tuttavia, le gallerie di Kuribayashi rappresentano due volti della sua personalità.

Ken Watanabe in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

Se da una parte quegli intricati sotterranei possono diventare una roccaforte, un ultimo tentativo di protezione dei suoi soldati, al contempo è piuttosto rivelatorio il discorso di Saigo nelle lettere alla moglie:

This is the hole that we will fight and die in. Am I digging my own grave?

Questo è il buco in cui combatteremo e in cui moriremo. Sto scavando la mia tomba?

Di fatto il generale è animato da ultimo e atipico fervore, che lo porta a combattere fianco a fianco con i suoi sottoposti, cercando in tutto e per tutto di proteggerli dal peggio, dando persino valore alla loro individualità.

Ken Watanabe in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

In questo senso è indicativa la differenza dell’utilizzo delle luci nella scena in cui Kuribayashi cerca di incoraggiare i soldati:

Come il generale è illuminato da una luce piuttosto netta, che ne evidenzia l’entusiasmo del discorso, al contrario i soldati sono inghiottiti dall’oscurità dell’ambiente, sferzati da queste ombre drammatiche che evidenziano l’arrendevolezza dei loro cuori.

L’ultimo tentativo di ricongiungersi con la sua patria è nel finale, in cui Kuribayashi sceglie di compiere un 切腹 (seppuku), ovvero un suicidio rituale per morire con onore ed evitare di essere catturato dal nemico.

Ma un colpo di pistola gli nega anche questo ultimo desiderio.

Reale

Kazunari Ninomiya in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

Do what is right because it is right.

Fa ciò che è giusto, perché lo ritieni giusto, non perché devi farlo.

L’altro livello narrativo è la guerra reale.

Per la scrittura dei soldati semplici si sceglie un taglio il più possibile realistico e verosimile, a tratti quasi comico, mostrando fin da subito quanto la maggior parte di loro siano fortemente disillusi dalla guerra e non si facciano problemi a fare discorsi considerati antipatriottici.

Nello specifico Saigo è il fulcro di questa narrazione, mostrandosi il più delle volte del tutto lontano dal modello di soldato perfetto della propaganda, anzi apparendo piuttosto trasandato, molto improvvisato – e infatti ammette subito di non essere un soldato.

Kazunari Ninomiya in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

Per questo il giovane soldato sfugge consapevolmente tutte le dinamiche di patriottismo e di sacrificio immotivato che i suoi superiori cercano di imporgli, sottraendosi al sacrificio rituale e cercando anche di ribaltare la narrazione patriottistica a suo favore:

We can die here, or we can continue fighting. Which would better serve the emperor?

Possiamo morire qui, oppure continuare a combattere. In che modo serviremmo meglio l’imperatore?

Anzi infine sceglie di evadere il conflitto stesso, venendo spalleggiato da un altro compagno che dice testualmente di non poterne più di questa guerra, a sottolineare un senso di frustrazione generale che pervade l’esercito.

Significativo anche la sua decisione finale, in cui aggredisce il soldato inglese quando si accorge che lo stesso ha requisito la pistola del generale Kuribayashi: a suo modo il protagonista sceglie di fare un attacco banzai (suicida), ma per qualcosa in cui credeva veramente.

Ovvero, una persona a cui davvero teneva e che non meritava di essere spogliata del suo valore.

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Forrest Gump – Una semplice corsa

Forrest Gump (1994) rappresenta indubbiamente una delle opere più di culto della filmografia di Robert Zemeckis, nonché uno dei maggiori successi della carriera di Tom Hanks.

Non a caso, a fronte di un budget comunque consistente – 55 milioni di dollari – fu un incredibile successo commerciale: quasi 700 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Forrest Gump?

Forrest è un bambino molto stupido ha un IQ pari a 75 – che però si troverà a diventare protagonista delle tappe più importanti della storia statunitense, mantenendo intatta la sua inguaribile semplicità di visione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Forrest Gump?

Tom Hanks in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

Per quanto personalmente non la consideri l’opera più brillante di questo autore, Forrest Gump è una pellicola piacevolissima e che gode di una scrittura attenta ed intelligente, che riesce perfettamente a modulare l’apparato comico con i momenti più profondamente drammatici.

Questo cult degli Anni Novanta ci permette di seguire con ironia e leggerezza la storia di quest’uomo tanto stupido quanto fondamentale per la storia di una nazione, proponendoci anche riflessioni morali e sociali per nulla scontate.

Insomma, vale assolutamente una visione.

Un passo indietro

Michael Conner Humphreys in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Forrest comincia un passo indietro agli altri.

Per quanto sia un bambino del tutto innocente e pieno di buone intenzioni, viene fin da subito ostacolato dal mondo sia degli adulti che dei pari: i primi lo bloccano sia fisicamente – i tutori alle gambe – che intellettualmente – volendolo relegare ad una scuola per ragazzi speciali

…e anche i suoi compagni fin da subito – e ancora negli anni successivi – lo emarginano e lo bullizzano.

In questo senso, Jenny e la madre sono considerabili i suoi angeli custodi.

Michael Conner Humphreys e Hanna R. Hall in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Per quanto complessivamente il suo percorso sia sostanzialmente autonomo, sarebbe stato di fatto impossibile senza l’intervento iniziale di questi due personaggi chiave: anzitutto la madre, che dona letteralmente il suo corpo e la sua dignità per permettergli di frequentare una scuola normale.

Allo stesso modo Jenny, pur non riuscendo a contrastare direttamente i suoi aguzzini, è una figura educativa – lo aiuta ad imparare a leggere, fra le altre cose – ma anche, e soprattutto, ispiratrice.

Banalmente, se la bambina non l’avesse incoraggiato a correre, e così a liberarsi delle sue limitazioni, Forrest non sarebbe riuscito a vivere la sua vita allo stesso modo.

Una figura sfuggente

Jenny è una figura fondamentale quanto sfuggente.

Il protagonista si ritrova spesso a rincorrerla, a cercarla, ma anche ad essere sistematicamente abbandonato da questa donna troppo malinconica e tormentata dai suoi demoni per poter davvero accettare nella sua vita la bontà di Forrest.

Infatti, fin da bambina Jenny è vittima di abusi, prima dal padre, poi dai diversi uomini che si susseguiranno nella sua vita, in cui Forrest è sulle prime solo spettatore, poi figura attiva di protettore e salvatore.

Tuttavia, il ruolo di Forrest nella vita di Jenny non va assolutamente banalizzato: il protagonista non si limita a salvarla fisicamente dalle aggressioni, ma ha soprattutto la funzione di far comprendere la gravità degli abusi che sta subendo.

Una lezione che purtroppo la donna capirà solamente alla fine della sua vita, quando dovrà fare i conti con il peso delle sue scelte – con ogni probabilità, una malattia sessuale – che la porterà però a vivere finalmente un momento felice, accettando l’amore di Forrest.

Salvato da sé stesso

Gary Sinise in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Un’altra figura fondamentale nella vita di Forrest è il tenente Dan.

L’uomo è del tutto ubriaco della retorica dell’eroismo militare, e per questo preferirebbe morire sotto il fuoco nemico, anzi sente di essere destinato a questa fine, prima che Forrest rovini ogni cosa – idea che gli rinfaccerà più e più volte nel corso della pellicola.

In questo senso, il protagonista, nella sua semplicità di pensiero, assume un ruolo non tanto dissimile da quello che ha per la vita di Jenny: Forrest sa solamente che è giusto salvare la vita del suo compagno – e questo fa, nonostante le proteste dello stesso.

Gary Sinise e Tom Hanks in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

A margine, si può notare come tutta l’esperienza militare di Forrest sia una sottile satira della realtà militaresca americana, in cui il protagonista eccelle proprio perché incapace di sviluppare un pensiero critico e, per questo, essere del tutto ligio al dovere.

Ma lo stesso pensiero bidimensionale gli permette di salvare Dan in un senso più ampio, ovvero mostrandogli come ci possa essere un’altra vita, non da eroe, ma da privato cittadino, altrettanto soddisfacente quanto quella sul campo di battaglia.

Notevole per questo il parallelismo fra le protesi del veterano sul finale e i tutori di Forrest all’inizio del film: se per il giovane protagonista erano un impedimento, per Dan sono il suo modo per accettare finalmente quella seconda vita.

Un simbolo?

Tom Hanks in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

A livello più ampio, Forrest diventa un simbolo.

Zemeckis riesce a rappresentare con grande lucidità – per la corsa senza fine tanto in quella del misterioso discorso – la turbolenta realtà sociale degli Stati Uniti negli Anni Sessanta – Settanta, in cui vi era una ricerca disperata ad un’icona.

Per questo così tante persone seguono ed incitano la corsa di questo strano soggetto, proprio come a voler partecipare allo sconvolgimento politico e sociale dell’epoca, trovandoci ognuno un proprio riscatto sociale.

Tom Hanks in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Ma Forrest non vuole essere un simbolo.

Il protagonista non abbraccia nessuna battaglia sociale, ma riesce comunque a portare inconsapevolmente nel mondo una bontà semplice, senza malizia, una nuova prospettiva su una realtà politica complessa e combattuta.

Forrest è solamente un uomo seduto su una panchina, che si trova a dialogare con diversi spettatori che si susseguono in scena, persone del tutto comuni che si arricchiscono indirettamente con i suoi insegnamenti.

E, come loro traggono importanti lezioni dalla sua storia, così noi, vedendola sullo schermo, ne siamo profondamente arricchiti.

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The Whale – Il dramma insoluto

The Whale (2022) una pellicole di Darren Aronofsky, in cui il regista statunitense sceglie un taglio più strettamente realistico, pur non abbandonando del tutto l’elemento fantastico-simbolico.

A fronte di un budget veramente risicato – appena 3 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, con 54 milioni di dollari di incasso.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per The Whale (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior attore protagonista
Migliore trucco e acconciatura
Miglior attrice non protagonista

Di cosa parla The Whale?

Charlie è un professore universitario in un collage online, che, ad un passo dalla morte, sceglie di riallacciare i contatti con la figlia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Whale?

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Dipende.

Personalmente mi sono approcciata a questa pellicola con l’idea di riavvicinarmi alla filmografia di Aronofsky, dopo il passo falso di Madre! (2017), che mi aveva totalmente respinto e, di fatto, portato a detestare la poetica di questo autore.

Grazie a The Whale mi sono parzialmente ricreduta, in quanto sono riuscita ad apprezzarlo decisamente di più rispetto alla sua opera precedente. Tuttavia, questa visione ha anche confermato la mia insofferenza per un taglio narrativo volto in una certa misura all’autocompiacimento un po’ fine a sé stesso.

Nondimeno, ho indubbiamente apprezzato il ritorno di Brendan Fraser in scena, che riesce a reggere sulle sue spalle una performance veramente complessa e per nulla facile da rendere senza cadere nel ridicolo.

Insomma, dipende tutto da che tipo di aspettative avete su questa pellicola.

Nido

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie è il protagonista della sua tragedia personale.

Da anni ha scelto ormai di non prendersi più cura di sé stesso, ma di sprofondare in una trascuratezza e in una condizione tale da non potersi neanche più muovere, vivendo quasi del tutto isolato all’interno del suo nido.

Una sorta di lenta morte autoindotta, in cui porta avanti le sue due missioni più importanti: ispirare l’originalità e l’autonomia di pensiero nei suoi studenti, e il lasciarsi alle spalle un patrimonio tale da rendere la vita della figlia molto più soddisfacente della propria.

E qui risiede il primo problema.

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Per quanto Charlie – e il film stesso – cerchino di raccontarci il contrario, Ellie non è un personaggio positivo.

Il protagonista sembra infatti incapace di giudicare la figlia al di fuori di quel saggio scritto in tenera età, in cui Ellie dimostra effettivamente una lucidità e maturità mentale tale da saper analizzare un’opera così complessa come Moby Dick...

…ma il suo personaggio è ben altro.

Ideale

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Sulla carta Ellie è un personaggio che doveva mostrare una caratterizzazione variegata e interessante, ma nell’effettivo mi è parsa maggiormente un personaggio tagliato con l’accetta.

Di fatto, la riconduco senza problemi al modello della ragazza ribelle, anche piuttosto stupida ed immatura, che però nasconde dentro di sé dei talenti che, per la sua situazione sociale, sembra incapace di sfruttare appieno – non tanto diversa da Maeve di Sex Education, insomma.

In questo senso, Charlie vorrebbe farla sbocciare, ma riesce infine solamente a trovare un riscatto personale e puramente apparente, quando sembra ricondurre la figlia sulla strada più proficua dell’originalità di pensiero e di maturazione personale.

Ma è davvero così?

Salvezza

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie non vuole essere salvato.

Nella sua casa sono presenti due stanze: in una alberga il suo presente – la trascuratezza e l’autodistruzione – nell’altro il suo passato, e possibile futuro – l’ordine, la disciplina, la cura dell’ambiente e quindi del sé.

Nella sua persona è quindi presente il potenziale per una salvezza, continuamente incoraggiata dai personaggi che lo circondano, anche grazie al patrimonio che ha conservato con tanta fatica e che potrebbe svoltargli l’esistenza.

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Ma allora perché sceglie la distruzione?

Dopo i profondi drammi che ha attraversato, Charlie si è ormai convinto che, qualunque strada prenda, giungerà ad un’infelicità ancora maggiore: il solo tentare sarebbe già di per sé perfettamente inutile.

Per questo, sceglie Ellie.

L’importanza che viene data al patrimonio economico di Charlie è forse derivante da una mentalità estremamente statunitense del potere insito nella disponibilità economica, che può potenzialmente aprire infinite porte ed opportunità.

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Ma Ellie ha bisogno di molto altro che i soldi.

Charlie si congeda da sua figlia con una promessa, ignorando i segnali che raccontano una personalità assai problematica e fuori controllo, scegliendo di donarle solamente il mezzo per la salvezza che lui stesso non ha mai trovato, ma lasciandola senza una guida.

Una guida che poteva, anzi doveva essere Charlie, che invece ha preferito regalare la sua vita alla figlia, sembrando del tutto ignaro dell’importanza che avrebbe potuto avere per Ellie da vivo – molto più, appunto, del mero denaro.

Ma non è neanche l’unico colpevole.

Ignavia

Hong Chau in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie è circondato dai complici della sua disfatta.

Il problema di fondo non è tanto il fatto che il protagonista abbia un’idea così deviata e distruttiva della sua esistenza, ma che le persone che lo circondano non siano mai veramente capaci di salvarlo.

Da Liz a Thomas, fino alla stessa Ellie, tutti potevano effettivamente prendersi il ruolo di salvatori, ma tutti al contempo sembrano, nel loro piccolo, afflitti dalla stessa malattia di Charlie: l’incapacità di migliorarsi.

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

A questo proposito, non voglio dire che ogni protagonista tragico debba avere il suo riscatto o che debba per forza vivere un arco evolutivo con esito positivo, ma che lo stesso dovrebbe essere un minimo più significativo.

Diverse sono le figure che si susseguono in diverse storie che, incapaci di trovare un riscatto, si ritrovano soffocate dalle loro stesse debolezze – uno fra tutti, il protagonista di Beau is afraid (2023) – ma una buona scrittura è capace di arricchire questi drammi di importanti significati.

Al contrario in The Whale io ho trovato solamente un dramma fine a sé stesso, la storia di un uomo illuso e di fatto egoista, costretto a vivere in mondo terribile e che lo disprezza, senza che questo mi spingesse ad un’effettiva riflessione, lasciandomi invece solo con una profonda amarezza.

E nient’altro…

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La sottile linea rossa – La guerra umana

La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick è probabilmente il miglior film di guerra mai realizzato, che porta il genere ad un altro livello, per profondità di tematiche e realismo della messinscena.

A fronte di un budget neanche eccessivo per una produzione del genere – appena 52 milioni di dollari – ebbe un riscontro non entusiasmante al botteghino: 98 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La sottile linea rossa?

La pellicola segue le vicende di diversi soldati durante la Campagna di Guadalcanal, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Vi lascio il trailer (incredibilmente bello) per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La sottile linea rossa?

Assolutamente sì.

La sottile linea rossa non solo è una delle opere più profonde e interessanti mai realizzate, ma è anche uno dei migliori film di guerra che potrete mai vedere in vita vostra, soprattutto se non apprezzate le pellicole contaminate dalla retorica americana della guerra degli eroi – in questo caso totalmente assente, anzi pesantemente criticata.

La storia spazia fra le drammatiche e incredibilmente realistiche vicende dei soldati all’interno di un conflitto che non ha né eroi né nemici, ma solo uomini sporchi di sangue, fango e disperazione che lottano per la loro vita.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La sottile linea rossa realtà

Alcune utili indicazioni per orientarsi nel film.

La Campagna di Guadalcanal, nota anche come Battaglia di Guadalcanal, ebbe luogo tra il 7 agosto 1942 e il 9 febbraio 1943 nel teatro del Pacifico della Seconda Guerra Mondiale.

I protagonisti furono gli Alleati sbarcati sull’isola di Guadalcanal, nelle Salomone Meridionali, e l’Impero Giapponese, che all’inizio del luglio 1942 aveva cominciato a costruirvi sulla costa nord una pista aerea.

Questo evento rappresentò la prima grande offensiva lanciata dagli Alleati contro il Giappone, che fino ad allora aveva mantenuto l’iniziativa bellica.

Ecco una piccola galleria di foto d’epoca.

La follia

La sottile linea rossa può essere letto su tre livelli.

Il livello più semplice, più immediato, è la follia: la follia del potere, della conquista, della vittoria, del racconto degli eroi.

La follia è quella del Colonnello Tall, che vive nel sogno di una vittoria senza sangue, una vittoria di eroi, una rivalsa, del tutto cieco davanti alla realtà della guerra umana che si sta svolgendo davanti ai suoi occhi.

I don’t think you fully understand what is going on.

Non credo che lei capisca veramente cosa sta succedendo.

Lo testimonia l’acceso confronto con Taros, in cui Tall richiede l’attacco diretto al bunker, in cui proprio si dimostra ignaro della pericolosità dell’impresa, che porterebbe non ad una vittoria, ma ad un suicidio collettivo.

La sua follia è dettata anche da una incontenibile fretta, forse per la paura di risvegliarsi lui stesso da quel sogno di gloria inconsistente di cui si nutre, arrivando persino a mettere da parte i più basilari bisogni umani – l’acqua – pur di vincere.

Infatti, per sua stessa ammissione, sono ben quindici anni che viene preparato a questa guerra, nascendo probabilmente nell’ombra e nel sogno del primo conflitto mondiale, senza aver ancora avuto la sua occasione per dimostrare il suo valore.

Proprio per questo sceglie di sollevare Taros dal compito: se Tall parla di quanti uomini si devono sacrificare per raggiungere la vittoria, Taros invece vuole preservare se non la vita, quantomeno la dignità dei suoi soldati, dei suoi figli.

Più in generale, il personaggio di Tall rappresenta come il potere politico e militare riesca a distruggere un uomo che poteva dare amore al suo prossimo, ma che invece è stato deumanizzato dal potere politico militare:

La carne

We are just meat

Siamo solo carne

Il secondo livello è la carne.

La sottile linea rossa ci mette costantemente davanti alla realtà del fronte, con lo sguardo registico che ci permette di sentirci accanto a questi soldati sperduti, disperati, sempre ad un passo dalla morte.

Nessuno di loro riesce infatti mai a vivere il sogno della guerra, ritrovandosi invece spesso ad interrogarsi sulle sue stesse dinamiche, sul destino guidato non dall’eroismo, non dalle capacità del singolo, ma unicamente dalla pura fortuna di riuscire a non mettere il piede in fallo.

Così vediamo in scena soldati che piangono davanti all’atto peggiore di tutti – l’omicidio – mai sentendosi glorificati dallo stesso, ma piuttosto cercando di sostenersi anche negli ultimi momenti, anche solo per non morire soli…

Il pensiero più cinico è rappresentato dal personaggio di Sean Penn, Welsh.

Nei diversi monologhi e soprattutto all’interno degli scambi con Witt, Welsh racconta tutta la sua amarezza e il suo disfattismo, negando l’importanza dell’individuo, e scegliendo invece di barricarsi dietro ad un nichilismo che lo protegge da una realtà altrimenti insopportabile.

Il suo personaggio ha così accettato un destino di morte e sofferenza, in un mondo devastato dalla follia dell’uomo stesso, negando l’esistenza di una redenzione, di un mondo altro, di una scintilla che possa salvarlo.

Per questo, al funerale di Welsh, si chiede:

 Where’s your spark now?

Dov’è finita la tua luce ora?

Consapevole che l’ultima luce di speranza che poteva animare il suo animo è ormai andata perduta…

La sottile linea rossa giapponesi

Anche il nemico è carne.

L’ultimo barlume del sogno del riscatto eroico si infrange quando infine i soldati si trovano davvero davanti a quel terribile nemico, conoscendo invece nient’altro che un uomo con la divisa di un altro colore.

I soldati giapponesi sono infatti solo un gruppo di disperati, costretti a battersi, ad uccidere fino ad arrivare persino alla follia, in un incubo di incomunicabilità che porta solo a riflettere ancora più profondamente sull’origine di questo grande male, che affligge l’uomo di ogni colore.

Il sogno

This great evil…where’s it come from?

L’ultimo livello, quello più profondo, è il sogno.

L’esperienza della guerra porta con sé la riflessione e l’evasione, la ricerca di un significato di una dinamica incomprensibile: da dove viene questo grande male che affligge il mondo, chi lo sta causando, chi ci sta uccidendo?

La risposta, semplicemente, è l’uomo.

L’uomo è artefice della sua distruzione, l’uomo si nasconde dietro ad un sogno di gloria per giustificare un atto altrimenti ingiustificabile, per legittimare un mondo senza legge e senza morale, carne contro carne.

Ma esiste una via d’evasione.

A contrapporsi al grande male vi è una forza ancora più inscalfibile: l’amore.

Per tutta la pellicola Bell si rifugia nel sogno della quotidianità e di quella semplice felicità casalinga che ha potuto vivere con la moglie, sicuro di poter contare su quel sentimento, quella fiamma che nessuno – nemmeno la guerra – potrà mai spegnere.

E invece la guerra è tanto distruttiva da recidere anche quell’unico legame con quella realtà altra, la realtà della redenzione e della piccola felicità terrena, persa nel peso della solitudine, della lontananza, dissolta in un ricordo ormai troppo flebile.

La sottile linea rossa Witt

Infine, la vera evasione è quella di Witt.

Witt è l’unico che veramente riesce a sconfiggere il grande male, che riesce continuamente a vedere al di là dello stesso, ad essere sicuro della possibilità di un mondo altro, del riscatto morale dell’uomo persino all’interno del conflitto.

Per questo si nutre di quell’apparente paradiso terrestre – il villaggio locale – per questo continua ad osservare il nemico con curiosità e benevolenza, scegliendo una visione panpsichista del mondo, dell’armonia col naturale e della fratellanza universale degli uomini.

E proprio quando quel sogno si spezza, quando vede la realtà del villaggio molto più dura e meno idilliaca di quanto ricordava, proprio a quel punto sceglie di uscire di scena, di sacrificare la sua vita per il compagno, e di farsi uccidere dal soldato giapponese

…nonostante l’uomo lo pregasse del contrario:

I have no desire to kill you. You are surrounded, please surrender.

Non voglio ucciderti. Sei circondato, ti prego arrenditi.

In questo modo Witt non muore, ma di fatto rinasce, si congeda dal terribile mondo umano in cui ormai non si riconosce più, e sceglie invece di abbracciare l’armonia naturale che sempre faceva da contorno persino ad un panorama di morte così desolante.

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La morte ti fa bella – Un’ossessione eterna

La morte ti fa bella (1992) è uno dei film forse più particolari della prolifica carriera di Robert Zemeckis, che poté godere di un terzetto di protagonisti incredibili: Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn.

A fronte di un budget abbastanza importante – 50 milioni di dollari – fu complessivamente un buon successo commerciale: 149 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La morte ti fa bella?

Madeline è un’attrice senza talento e con un solo punto di forza: la bellezza. E farebbe di tutto per mantenerla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La morte di fa bella?

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

La morte ti fa bella è un piccolo cult della filmografia di Zemeckis, in cui sceglie delle strade già percorse in parte con Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), con un umorismo profondamente grottesco, quasi orrorifico, ma che impreziosisce un importante tema di fondo.

Una pellicola che brilla in particolare per il terzetto di attori protagonisti, che riescono a gestire una recitazione molto caricata, ma mai eccessiva, all’interno di un reparto di effettistica davvero incredibile.

Insomma, da non perdere.

Un prologo improvviso

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’incipit di La morte ti fa bella viaggia a due velocità.

Il personaggio di Mad e la sua nomea vengono introdotti fuori scena, con uno scambio piuttosto aspro fra due spettatori scontenti per la sua prestazione attoriale, seguito dall’inquadratura su un volantino abbandonato sotto alla pioggia battente…

E, all’interno del teatro, la situazione non è differente: nonostante la baldanzosa performance della protagonista, buona parte degli spettatori è annoiata, addirittura addormentata, abbandona in massa la sala in uno scontento generale.

Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Tutti tranne uno.

L’entusiasmo travolgente di Ernest lo accompagna fino al camerino di una Madeline che già si dimostra ossessionata del suo aspetto, che però basta perché i due si scambiano sguardi languidi davanti ad una Helen terrorizzata – e, a posteriori, scopriremo anche il perché.

Il matrimonio improvviso, introdotto dalla rassicurazione di Ernest ad Helen – Non ha alcun interesse per Madeline! – introduce perfettamente il personaggio: un uomo che, anche per la sua professione, si fa facilmente e superficialmente ammaliare dalla bellezza e dal fascino di una donna che conosce appena.

I due estremi

Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

La condizione di Helen sette anni più tardi è rivelatoria della natura delle protagoniste.

Le due amiche si nutrono di due ossessioni: la ricerca ostinata della bellezza e del vivere eternamente giovani, e il profondo odio covato per anni l’una verso l’altra, raccontato perfettamente dal godurioso entusiasmo di Helen mentre guarda la scena in cui Madeline viene strangolata.

Al contempo questo lasciarsi totalmente andare rivela come entrambe siano di fatto incapaci di prendersi cura di sé stesse, tanto da limitare la loro esistenza solamente a due estremi: o l’obesità impossibile o la bellezza ricercata ad ogni costo.

Per questo all’interno di questo contrasto omicida, Ernest è infine solamente un trofeo, la prova di essere effettivamente riuscite a raggiungere un grado di desiderabilità tale da poter conquistare un uomo neanche così tanto desiderabile…

Il ribaltamento

Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’atto centrale è caratterizzato da un continuo ribaltamento di ruoli.

Una Helen tirata a lucido si ripropone agli occhi dell’ex-fidanzato, cominciando a muovere le prime pedine del suo piano omicida, in cui Ernest, ancora una volta, non è altro che un mezzo per la realizzazione di una personale vendetta.

Interessante in questo senso la sequenza che rappresenta il piano di Helen, in cui Madeline ne prende simbolicamente il suo posto – indossa infatti il vestito rosso – mentre Madeline e Ernest sono vestiti di bianco, come se si stessero finalmente sposando…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Questo incontro è anche il momento che mette davvero in crisi Madeline, attonita davanti ad un marito che, per quanto non sia neanche più così interessante, è un simbolo sociale troppo importante per lasciarselo sfuggire dalle mani dell’arcinemica.

Il picco drammatico è rappresentato dalla disastrosa fuga in macchina: dopo essere stata respinta persino dal suo giovane amante – trofeo sostitutivo del marito – una Madeline disperata getta uno sguardo al suo volto devastato dal pianto…

…e lancia un urlo di terrore.

Segue la splendida sequenza dell’elisir di lunga vita, che sembra risolvere tutti i problemi della protagonista, che anzi non avrà neanche più bisogno della conferma del marito per considerarsi bella, in quanto il suo aspetto parlerà già da sé.

Il momento della trasformazione è anche quello in cui il film comincia a dare sfoggio del suo splendido reparto di effettistica, che funziona ottimamente e con pochissime sbavature -l’unico momento poco credibile è quando Madeline ha la testa rivoltata.

L’arco evolutivo…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Il terzo atto è il più sorprendente.

L’unico personaggio che gode effettivamente di un arco evolutivo è Ernest, che sceglie di liberarsi della moglie autonomamente rispetto al piano di Helen, nonostante sia inizialmente pronto a salvarla dalla caduta dalle scale, ricredendosi immediatamente quando la donna si rivela nuovamente per la sua acidità.

Allo stesso modo, l’uomo ricomincia a prendersi cura di lei non tanto per un ritrovato amore, ma per riuscire finalmente a tornare a praticare la sua professione, iniziativa che però lo porterà ad essere nuovamente l’oggetto del desiderio delle due donne – anche se per motivi diversi…

Bruce Willis in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Ma più si immerge nel sogno folle della vita eterna delle due donne, che pur essendo morte, pur cadendo a pezzi, vogliono continuare ad essere ricostruite e messe a posto – una rappresentazione piuttosto sagace dell’inseguimento perfezione estetica tramite la chirurgia plastica – più se ne vuole allontanare.

Addirittura, scegliendo di togliersi la vita.

Pur in maniera molto semplicistica, nel finale il film racconta come la ricerca della bellezza e della vita eterna può essere ricercata al di fuori della mera realtà materiale ed estetica, riscoprendo la nuova vita di Ernest nei suoi ultimi trentasette anni di vita.

…e involutivo

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Invece, nel loro arco involutivo, le due protagoniste dimostrano tutta la loro ristrettezza mentale.

Se fino ad un momento prima cercavano di distruggersi a vicenda, appena si rendono conto della reciproca immortalità, si ricongiungono per un motivo puramente egoistico: sostenersi in questa fragile vita eterna.

Allo stesso modo, l’interesse a tenersi vicino Ernest è del tutto dettato dalla paura di non poter effettivamente essere belle per sempre, dando anzi per scontato che questa orrenda vita eterna sia un desiderio condiviso anche dall’uomo.

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Infatti, in diversi momenti si nota come la ruggine fra le due non sia mai stata risanata, al punto che, con un piacevolissimo parallelismo, Madeline lascia che Helen cada giù dalle scale, pensando finalmente di aver vinto…

…ma la sua ben più scaltra compagna la afferra per il bavaro, così che entrambe si trovino ancora più rovinate e inguardabili di quanto già non fossero, ma con una battuta di chiusura che fa forse presupporre che non è la prima volta che succede una cosa del genere…

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Il Corvo – Un semplice amore

Il Corvo (1994) di Alex Proyas, tratto dall’omonimo fumetto di James O’Barr, è uno dei più grandi cult cinematografici degli Anni Novanta.

La sua fama è legata anche all’infausto incidente dell’attore protagonista, Brandon Lee, che morì sul set a soli ventott’anni e non poté mai vedere il film finito…

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 23 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo, tanto da portare a ben due sequel.

Di cosa parla Il Corvo?

Eric e Shelly sono una giovane coppia innamorata, il cui destino viene stroncato da un evento improvviso. Ma la vendetta è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il Corvo?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

In generale, sì.

Non voglio troppo sbilanciarmi: Il Corvo è un film che va veramente inquadrato nel periodo in cui è uscito, in quanto figlio di un’estetica che ad oggi potrebbe essere considerata quasi trash e dozzinale.

Inoltre, se siete appassionati del fumetto d’origine, potreste rimanere parzialmente delusi – per me è stato così – in quanto questa trasposizione cerca di rendere più digeribile una vicenda davvero cupa e malinconica.

Tuttavia, al di là di questo, Il Corvo è indubbiamente una lettera d’amore verso l’opera di James O’Barr – presente anche con un piccolo cameo – che riesce al meglio delle sue possibilità – e con scelte complessivamente vincenti – a rendere una graphic novel così complessa e sofferta.

Insomma, da vedere.

In questa recensione inevitabilmente ci saranno dei confronti con l’opera originale, che vi invito a riscoprire.

Frammenti di dolore

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Non era semplice rendere la scena dell’omicidio iniziale de Il Corvo.

Il film sceglie un taglio peculiare, ma assolutamente adatto alla narrazione dell’opera originale: un montaggio travolgente, in cui frammenti della scena si susseguono sullo schermo, attimi di dolore e paura…

Inoltre la pellicola opera alcuni cambiamenti funzionali alla riuscita del film: la violenza non avviene in strada, ma nell’appartamento della coppia, e così Shelly non viene uccisa con un colpo alla testa, ma affronta trenta ore di dolore in ospedale.

La monumentalità ammorbidita

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Allo stesso modo, anche portare in scena Eric era la sfida più ardua.

Nel fumetto il protagonista è una figura monumentale e paurosa, che vive del contrasto fra l’orrido presente e la morbidezza delle scene d’amore quotidiano con Shelly, che sottolineano la profondità del dolore e del desiderio di vendetta del suo personaggio.

La pellicola in questo senso sceglie un taglio leggermente diverso: Brandon Lee sembra quasi uno zombie che riemerge dalla tomba…

…e riesce nel complesso a reggere sulle spalle un personaggio così complesso, con una buona presenza scenica e una resa visiva veramente calzante.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Al contempo però il film sceglie anche di riportare il protagonista più coi piedi per terra, di non giocare troppo con il contrasto fra presente e passato…

…ma piuttosto di mantenere questa dicotomia nel presente stesso: come Eric è un killer insaziabile, al contempo è anche un giovane ragazzo distrutto dal lutto, ma ancora legato agli affetti terreni.

Nello specifico, al personaggio di Sarah.

La felicità intrusiva

Nonostante ne comprenda la funzione, Sarah è l’elemento che ho meno apprezzato.

Nel fumetto Sarah ha un ruolo minore, limitato a pochi momenti, mentre nel film diventa una figura fondamentale per rendere più umano il protagonista e permettere allo stesso di trovare col suo ritorno in terra una funzione ulteriore oltre alla vendetta.

Insomma, serve a dare un briciolo di speranza in più allo spettatore.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Sempre per lo stesso fine, la madre di Sarah segue un percorso di redenzione proprio grazie al protagonista, liberandosi dalla dipendenza dalle droghe e ricominciando a curare la figlia.

Una scena di per sé inutile ai fini della trama, ma del tutto funzionale per ammorbidire il tono del film.

E lo stesso avviene nel finale.

Il vero amore?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Il finale del film ruota principalmente intorno al personaggio di Sarah.

A differenza del fumetto, Eric nel terzo atto ha fondamentalmente concluso la sua missione ed è pronto a ricongiungersi con Shelly, ma ritorna in campo proprio per salvare la ragazzina, perdendo anche parte dei suoi poteri – l’immortalità – e quindi dovendo combattere ad armi pari T-D.

Nel complesso tuttavia ho apprezzato il cambiamento della fine di del boss, che solo alla fine Eric comprende essere il vero artefice del suo dramma: per questo decide di punirlo con qualcosa di peggiore della morte stessa.

Ovvero, fargli provare l’insopportabile dolore di Shelly prima di morire.

Al contrario, mi è ha meno convinto la chiusura del film.

Per rendere la vicenda più comprensibile allo spettatore medio, si sceglie di glissare totalmente sul motivo originario – nel fumetto – della vendetta di Eric, ovvero il tentativo di liberarsi dalla colpa di non essere riuscito a salvare la sua amata, così da poter lasciare questa vita di mezzo e ricongiungersi con lei.

Il film sceglie una via più semplice, sottolineando la forza di un amore così sincero ed immortale come quello fra Eric e Shelly, che gli ha permesso di tornare in vita e di punire i suoi aguzzini, e, infine, di ricongiungersi amorevolemente con lei.

Il Corvo Sequel

A cura di Carmelo.

Vale la pena di vedere i sequel de Il Corvo?

Il secondo film è molto vicino allo spirito del primo capitolo: nonostante il protagonista sia diverso, la sua motivazione e le dinamiche della sua storia sono simili.

Fra l’altro, è presente un collegamento diretto con il film del 1994, per la presenza di Sarah, che funge da guida per il nuovo protagonista.

Un sequel che si distingue per un taglio più onirico e surreale, ma che può essere comunque apprezzato.

Lo stesso si può dire de Il Corvo 3 – Salvation (2000).

In questo caso il protagonista è un ragazzo condannato alla sedia elettrica per il presunto omicidio della sua fidanzata, e torna per vendicarsi dei veri assassini.

Insomma due sequel che cercano di mantenere il taglio del primo film, e che possono comunque essere apprezzati se vi intriga la dinamica raccontata.

Assolutamente sconsigliato invece il quarto capitolo, Il Corvo – Preghiera maledetta (2005): girato tutto alla luce del sole – quindi mancando totalmente dell’atmosfera originale – porta l’elemento magico-fantastico in direzioni molto meno desiderabili, snaturando l’opera originale.

Insomma, da evitare.

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Chi ha incastrato Roger Rabbit – L’inganno perfetto

Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) è probabilmente l’opera più ambiziosa di Robert Zemeckis, uno dei migliori esempi dell’uso della tecnica mista nella storia del cinema.

Con un budget piuttosto consistente – 50 milioni di dollari, circa 130 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 350 milioni di incasso (circa 900 oggi).

Di cosa parla Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Eddie è un detective privato pieno di debiti e ubriacone, che viene coinvolto in una vicenda piuttosto piccante ma con retroscena inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Roger Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Assolutamente sì.

Chi ha incastrato Roger Rabbit è un classico della filmografia di Zemeckis, in cui sperimentò splendidamente con una tecnica piuttosto complessa, ovvero l’utilizzo del live action misto all’animazione…

…raccontando sostanzialmente un noir crudelmente realistico e con riferimenti culturali piuttosto attuali – nello specifico, il razzismo – ma cambiando un paio di elementi in scena e riuscendo a portarlo al cinema come un film per tutta la famiglia.

Un’opera imperdibile, insomma.

La seguente interpretazione più sul versante politico-sociale è avvallata anche dal libro di ispirazione, Who Censored Roger Rabbit? (1981, inedito in Italia), che presenta queste tematiche in maniera più netta.

Strappo

L’incipit di Chi ha incastrato Roger Rabbit è perfetto.

Infatti, volendo rivolgere la sua opera ad un pubblico piuttosto variegato, Zemeckis sceglie di mettere tutti sullo stesso livello.

Se il pubblico più adulto può riconoscersi nelle follie cartoonesche di Hanna & Barbera con cui è cresciuto, così anche gli spettatori più giovani, magari più abituati ai nuovi cartoni di derivazione nipponica, riescono a riavvicinarsi ad un taglio narrativo del tutto diverso.

Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La sequenza iniziale non è infatti altro che il più classico episodio di un prodotto di animazione degli Anni Quaranta, nelle sue follie violente e profondamente comiche, che richiamano le dinamiche di serie popolarissime come Tom & Jerry e Willy il Coyote…

…che viene improvvisamente interrotta, accompagnandoci nel ben più crudo realismo del film, in uno studio hollywoodiano con star capricciose e artisti sottopagati, allontanando progressivamente l’inquadratura da un Roger Rabbit disperato, per rivelare un burbero figuro di spalle, che in una sola battuta rivela tutta la sua personalità:

Toons.

Un classico noir

Jessica Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Quello che segue è l’avvio piuttosto classico di un film noir.

Più Eddie ci viene introdotto, più scopriamo quanto sia un detective ormai fallito, pieno di debiti e schiavo dell’alcol, disposto a tutto per guadagnare qualcosa, persino scattare delle foto piccanti per far risvegliare le energie di un personaggio come Roger Rabbit.

Per il resto, l’introduzione di Jessica Rabbit è tutto un programma.

Betty Boop e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La donna è incredibilmente fascinosa e sensuale, ma svelerà a suo tempo come questa sua apparenza risulti col tempo insopportabile, in quanto la vincola ad essere un puro oggetto sessuale e nient’altro, anche facilmente dimenticabile come la povera Betty Boop, che cerca ancora di essere ammiccante…

…ma che è lasciata nel dimenticatoio, in quanto cartone d’altri tempi.

Per questo la battuta iconica Non sono cattiva, mi disegnano così racconta proprio la tragicità di questo personaggio intrappolato in un corpo più deleterio che premiante, e che infatti ricerca un compagno che la apprezzi non solo per la sua bellezza.

Il doppio inganno

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Proprio su questa linea, tutta la costruzione del Patty-Cake (in italiano farfallina) inganna lo spettatore per due volte.

Lasciando per lungo tempo le immagini esplicite fuori scena, Zemeckis fa credere abilmente che Jessica si stia intrattenendo sessualmente con Acme – e, oltre al velo della finzione filmica, è esattamente quello che succede – fingendo di utilizzare un’espressione gergale per indicare il tradimento sessuale…

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

quando in realtà il Patty-Cake non è altro che un gioco per bambini.

Ad un livello più profondo, si tratta del primo tassello di una storia ben più complessa di ricatti e di sesso, in cui sia Jessica Rabbit – personaggio molto più attivo di quanto sembri – sia Roger sono coinvolti apparentemente come i colpevoli, in realtà come vittime incastrate in un complotto.

L’autodistruzione

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Il giudice Morton – Judge Doom in inglese – è probabilmente l’elemento più iconico di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

Interpretato in maniera magistrale da un Christopher Lloyd che dopo Back to the future (1985) era ormai il feticcio di Zemeckis, bastano pochi dettagli di trucco per caratterizzare un villain lugubre e spietato, che non è nient’altro che una rappresentazione neanche troppo edulcorata di un boss del crimine.

In una dinamica che ricorda molto da vicino quella di Wilson Fisk in Daredevil, questo spietato imprenditore ha ripulito la sua immagine e si è riproposto sullo scenario politico in modo da prendere lentamente il possesso di Cartoonlandia, sviluppando contro la stessa un piano di totale distruzione.

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Se non ci vuole tanta fantasia per rileggere la salamoia come l’acido in cui i mafiosi sono soliti a sciogliere le loro vittime, non viene neanche difficile sostituire i toons con delle minoranze etniche nel mondo dello spettacolo, dove sono maltrattate e sottopagate – si veda Dumbo, che si accontenta di un pugno di noccioline.

Secondo questa lettura, Morton non è altro che un uomo che faceva parte della stessa suddetta minoranza che ora perseguita, in una totale follia autodistruttiva che l’ha portato non solo a scalare la gerarchia sociale, ma a distruggere le sue stesse radici, nello specifico Cartoonlandia, un ghetto per i Toons, mal accettati in molti altri contesti per umani.

Edulcorare

Salamoia in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Dopo una rocambolesca fuga propria dei migliori buddy movie, quasi per caso Eddie scopre la verità dietro alle mosse di Morton, arrivando così ad un finale incredibilmente classico per il genere, ma nondimeno anche straordinariamente avvincente e scandito sul filo dei secondi.

Potrebbe risultare piuttosto sorprendente la scelta di non mostrare del tutto il vero aspetto del Giudice Morton, ma limitarsi ad un agghiacciante quanto iconico confronto con Eddie, che rivela la malvagità e la spietatezza di questo cartone…

Tuttavia, questa scelta è dettata da una motivazione metanarrativa.

Per questo film Zemeckis si fece prestare un gran numero di personaggi animati da altre case di produzione, evidentemente a patto che nessuna di queste ne uscisse danneggiata – e infatti sono tutti personaggi positivi – e un personaggio così diabolico come Morton non poteva essere in alcun modo associato al mondo dei cartoni.

Infatti, nonostante anche la spietata violenza che caratterizzava in quel periodo l’animazione per bambini, nessuno poteva essere considerato effettivamente cattivo come Morton, ma piuttosto le azioni negative dei villain venivano spesso stemperate da un taglio comico e grottesco a misura di bambino.

Non è quindi un caso che in chiusura Topolino e tutti gli altri toons si interroghino sulla vera identità del villain, chiosando che sicuramente non era né un papero, né un topo

…insomma, niente di associabile ai personaggi tanto amati dai bambini del periodo.

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Back to the future Part III – Una buona conclusione?

Back to the future Part III (1990) è il capitolo conclusivo della trilogia iconica creata da Robert Zemeckis.

A fronte di un budget complessivo fra secondo e terzo film – 40 milioni di dollari, circa 100 oggi – questa pellicola confermò il successo del precedente, anche se con un incasso leggermente inferiore: 245 milioni di dollari (circa 576 oggi).

Di cosa parla Back to the future Part III?

Dopo aver ricevuto la sua lettera dal passato, Marty raggiunge Doc nel Vecchio West…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future Part III?

Christopher Lloyd (Doc) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

Con Back to the future Part III Zemeckis riesce a mantenere una qualità costante anche per il finale della trilogia, pur ambientandolo in un contesto veramente anomalo per un’avventura fantascientifica, ma che invece permette di trovare nuovi spazi di esplorazione della storia e dei personaggi.

Il terzo capitolo infatti riprende i ritmi serrati e adrenalinici del film precedente, ma non manca di portare a compimento anche quegli spunti interessanti per l’evoluzione dei protagonisti già accennati nel secondo film.

Insomma, da vedere.

Il solito aggancio

Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Come per Back to the future Part II (1989), anche in questo caso il film si riaggancia direttamente al precedente.

Ma invece di ricalcare la scena finale del secondo capitolo, la pellicola fa rivivere allo spettatore l’iconico finale di Back to the future (1985), in cui il Marty del futuro si ricongiunge con il Doc del 1955, al tempo convinto di aver risolto tutti i problemi del viaggio nel tempo…

E bastano poche scene ben contestualizzate per preparare lo spettatore al nuovo scenario della pellicola – nello specifico, al nuovo villain – e ad introdurre un elemento già esplorato nei precedenti capitoli, ma ancora perfettamente funzionante: la morte di uno dei personaggi principali.

Due filoni

Ancora una volta Marty viene accolto nella casa dei suoi antenati…

…ma, in questo caso, introducendo il primo punto di riflessione del film – nonché il più importante: dalle parole del suo bisnonno il protagonista ritrova nel suo antenato defunto quel comportamento testardo e permaloso che attraversa tragicamente la sua famiglia.

Per il resto, i due antenati di Marty sono quasi del tutto limitati a questa funzione, rimanendo di fatto sullo sfondo per la maggior parte della pellicola, pur ben contestualizzati all’interno del panorama del Selvaggio West.

Thomas F. Wilson (Biff) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Segue l’introduzione della parte più adrenalinica della pellicola, ovvero la minaccia di Biff Mad Dog: si comincia col più classico incontro fra il villain e Marty, che però a sorpresa non serve a portare ad una rocambolesca fuga del protagonista e alla conseguente umiliazione di Biff…

…ma piuttosto a reintrodurre in maniera veramente ottima Doc: con un breve scambio fra Brown e Biff si ripercorre una discordia emersa in precedenza – con al centro, come sempre, un antagonista sbruffone e spaccone – coronata dall’epifania di Marty sulla futura morte dell’amico.

La minaccia formativa

Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Tutta la dinamica fra Biff e Marty è funzionale alla maturazione del protagonista.

Trovandosi costretto ad affrontare Biff in un duello all’ultimo sangue, Marty raggiunge due consapevolezze: l’importanza di essere più scaltri che violenti, proprio riuscendo a sconfiggere il nemico non con la banale forza bruta, ma piuttosto la sua furbizia ed inventiva.

E, soprattutto, anche memore delle sue sconsolanti prospettive future, il protagonista riesce finalmente ad abbandonare quella sciocca permalosità che gli ha portato – e gli porterà – solamente guai, e a diventare molto più maturo e capace di scegliere le giuste battaglie da combattere.

Come confermato, fra l’altro, dallo scontro in auto evitato nel 1985.

Fughe & ritorni

Christopher Lloyd (Doc) e Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Per quanto riguarda le battute finali, Back to the future Part III delude.

Anzi, forse il piano per ritornare al futuro è il migliore della saga, perché inserisce l’incognita non tanto del possibile insuccesso – e del conseguente rimanere bloccati nel passato – ma proprio il pericolo di lasciarci la pelle, eventualità evitabile solamente sulla base di calcoli scientifici ed ipotesi totalmente teoriche.

Ma proprio per questo la conclusione è così emozionante e al contempo così ben contestualizzata nel panorama del film, con diversi picchi emotivi, non ultimo il ricongiungimento fra Doc e Clara, portando apparentemente ad un finale tragico sia per la macchina del tempo che per Doc.

Christopher Lloyd (Doc) e Mary Steenburgen (Clara) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Invece, il finale è perfetto.

Come Marty aveva avuto un assaggio del suo futuro, al contrario Doc non aveva niente di particolarmente esaltante a cui puntare. Per questo è fondamentale per il suo personaggio trovare una compagna con cui condividere la sua passione, e, di conseguenza, con cui poter continuare le sue avventure nel tempo.

Così la coppia di amici si lascia con delle ottime prospettive all’orizzonte: il destino di entrambi non è ancora scritto, ma è totalmente nelle mani dei protagonisti e nella loro capacità di giocare al meglio le loro carte per un futuro migliore.

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Night & Day of the dead – L’inizio della fine

Night of the living dead (1968) e Day of the dead (1985) rappresentano rispettivamente l’inizio e la fine della trilogia originale degli zombie di George Romero, che ha come perno centrale il ben più famoso Dawn of the Dead (1978).

Rispetto al grande successo commerciale del capitolo mediano, gli altri due film ebbero un riscontro minore, ma comunque positivo: entrambi incassarono intorno ai 30 milioni di dollari, con un budget rispettivamente di 114 mila dollari e di 3,4 milioni.

Di cosa parlano Night & Day of the dead?

Come primo capitolo della saga, in Night of the living dead si racconta l’inizio dell’epidemia zombie e i primi tentativi di arginarla:

Al contrario, il capitolo conclusivo è ambientato negli Anni Ottanta e racconta i tentativi dei pochi sopravvissuti di ricostruire la società umana:

Vale la pena di vedere Night & Day of the dead?

Bub lo zombie in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

In generale, sì.

Partiamo col dire che si tratta di due film molto diversi, sia per taglio narrativo che per tematiche proposte: in Night of the living dead troviamo una poetica ancora acerba, per cui Romero riflette sulla società umana, ma senza aver un target specifico come per Dawn of the Dead.

Al contrario Day of the dead è il film più vicino al capitolo mediano, che rappresenta in maniera anche piuttosto diretta un periodo storico molto lontano per noi, ovvero quello della politica reaganiana, con tutte le conseguenze nella mentalità e nella società con la Guerra Fredda agli sgoccioli e dopo il disastro della Guerra del Vietnam.

Insomma, da vedere.

Night of the Living Dead

Il film è stato interpretato in diverse direzioni, nessuna delle quali secondo me definitiva.

In questa sede, per puro divertissement, ho scelto di abbracciare la lettura sulla Guerra Fredda.

Molto umani

John zombie in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Uno dei grandi meriti di Romero, soprattutto in Night of the living dead, è il riuscire a portare in scena gli zombie con poco.

I non-morti infatti sono definiti esteticamente giusto da pochi tocchi di trucco, mentre l’efficacia dei loro personaggi risiede nell’ottima presenza scenica degli attori, che risultano assolutamente credibili – sicuramente grazie alla direzione piuttosto abile e consapevole di Romero.

In questo senso si apre il primo spunto nei confronti del tema della Guerra Fredda: gli zombie non sono così tanto indistinguibili dagli umani, tanto che nella primissima scena John non riesce a comprendere il pericolo imminente del cimitero, anzi schernisce Barbra per il suo essere spaventata.

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

In questo elemento si può leggere una rappresentazione dell’isteria collettiva che serpeggiava negli anni di una guerra non più materiale, ma principalmente psicologia e di propaganda, in cui per gli statunitensi era davvero semplice dubitare di chiunque e di additarlo come nemico.

Per questo, gli zombie rappresenterebbero appunto i sovietici.

Una storia di uomini

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Come sarà poi anche per Dawn of the dead, il centro della storia non sono gli zombie, ma i personaggi umani.

Di fatto i non-morti sono degli elementi sostanzialmente di contorno, una minaccia presente e pressante, ma che raramente è al centro della scena, ma che anzi è posta ai margini della stessa fino all’ultimo atto, quando l’home invasion ha finalmente la sua esecuzione.

Barbra in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Nei rapporti fra i personaggi dentro la casa si può leggere una rappresentazione dei diversi atteggiamenti nel contesto post-bellico: se infatti da una parte troviamo un Ben che sceglie di stare in prima linea, con lo sguardo puntato sulla minaccia esterna e pronto a combatterla…

…dall’altra Harry insiste nel rifugiarsi nella cantina, che può essere letta come una rappresentazione dei rifugi anti-atomici che non pochi statunitensi avevano dentro le porte di casa, il rifugio estremo all’interno dell’angoscia costante del periodo.

Ma infine nessuna tecnica è vincente.

Divorati dall’interno

Ben in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Le morti dei personaggi sono estremamente esplicative.

Anzitutto la dipartita di Barbra, ormai distrutta dalla nevrosi, che si butta fra le braccia del fratello perduto e tanto ricercato, incapace di accettare che lo stesso è ormai un nemico – ovvero, secondo questa lettura, una spia sovietica.

Altrettanto interessante è la morte di Harry, che cercava un rifugio estremo e sicuro nella cantina, del tutto cieco davanti al pericolo che lui stesso ha in casa – in un altro senso, ignaro di come dei simpatizzanti col nemico fossero proprio dentro le mura domestiche.

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Ma la morte più indicativa è quella di Ben, che sembra essere riuscito a scampare la morte grazie alla sua intelligenza e lucidità, ma che viene abbattuto dai suoi stessi compatrioti, che neanche si sprecano nel controllare che il personaggio sia effettivamente un loro nemico.

Per questa scena si possono prendere due strade interpretative, che in realtà si congiungono: Ben è ucciso da un gruppo di bianchi che utilizzano la situazione solamente come occasione per perpetuare il loro razzismo violento…

…e che al contempo continuano a ricercare il nemico all’esterno, mentre la vera ostilità è interna agli Stati Uniti stessi.

Day of the Dead

Per Day of the Dead la tematica sottostante è più chiara: una critica piuttosto aspra al modello economico e sociale di Ronald Reagan, che all’uscita del film era alla vigilia del suo secondo mandato.

Ricostruire e distruggere

Rodhes in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Day of the dead si apre su un paesaggio desolante, in cui ormai gli zombie dominano il mondo e la civiltà umana è ridotta ad uno sparuto gruppo di personaggi.

Un barlume di speranza rimane nel laboratorio sotterraneo, dove si cerca di trovare una soluzione all’epidemia, ma è che è fin troppo sferzata da un Capitano Rhodes sempre più tirannico.

Nella visione di Romero, questo personaggio rappresenta il peggio della società reaganiana: una corsa alla soluzione facile e veloce, con uno stringente militarismo esaltato come eroico in una società americana appena uscita dalla Guerra in Vietnam e nel pieno della Guerra Fredda.

Il femminile anomalo

Sarah in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Altrettanto indicativo del pensiero reaganiano è il trattamento del femminile.

La Dottoressa Sarah è costantemente osteggiata dalla maggior parte dei personaggi maschili, proprio in quanto donna indipendente e senza figli, condizione che la rende un perfetto bersaglio da umiliare ed insultare.

Il suo personaggio è infatti troppo lontano dall’ideale femminile materno e casalingo, esaltato dalla politica reaganiana, contro invece personaggi femminili fin troppo indipendenti raccontati come il motivo del fallimento del modello familiare.

Proprio per questo Sarah perde tutta la sua dignità davanti agli altri uomini, che la umiliano costantemente per avere una relazione extra-matrimoniale.

Isteria

Bub zombie in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Nel trattamento dedicato agli zombie si può intravedere un racconto piuttosto crudele dell’attività politica reaganiana nei confronti dell’abuso di droghe.

Bub, lo zombie rieducato dal Dottor Logan, potrebbe in questo senso raccontare la figura del tossicodipendente che tenta una via di riabilitazione all’interno di un centro di cura, e così l’epidemia zombie può essere anche letta come un racconto del picco di dipendenza da sostanze che si registrò negli USA in quel periodo.

Rodhes in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Così nell’atteggiamento totalmente ostile di Rhodes si può altresì leggere un racconto della semplificazione di Reagan nella sua lotta all’abuso di droghe, che sostanzialmente risultava nel dividere i cittadini fra buoni e cattivi.

In questo senso Bub agli occhi del Capitano è disgustoso ed irrecuperabile, al punto da sottovalutarlo e così da portare alla morte stessa del suo personaggio, aiutata in gran parte dal preciso colpo di pistola dello zombie, che non lo uccide, ma gli impedisce di fuggire…

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Halloween – Il nuovo horror

Halloween (1978) è uno dei film più importanti della filmografia di John Carpenter, che non solo lanciò la carriera attoriale di Jamie Lee Curtis, ma fu anche uno dei punti di partenza del genere slasher.

La pellicola fu anche un grande successo commerciale: a fronte di un budget veramente minuscolo – appena 700 mila dollari, circa 3 milioni oggi – incassò 70 milioni in tutto il mondo (circa 330 oggi).

Di cosa parla Halloween?

Haddonfield, 1963. Il giovanissimo Michael Myers uccide la sorella a sangue freddo. E quindici anni dopo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Halloween?

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

In generale, sì.

Per quanto non lo consideri uno dei migliori lavori di Carpenter – per il budget e la realizzazione può essere considerato quasi amatoriale – è un film altresì davvero sperimentale, nonché un caposaldo del genere slasher.

Infatti, in Halloween troviamo tutti gli elementi distintivi di questo sottogenere dell’horror, che avrà la sua fortuna negli anni successivi, soprattutto con film come Venerdì 13 (1980) e Nightmare (1984)

Insomma, una pellicola piuttosto fondamentale.

L’origine del male

L’incipit di Halloween è sperimentale quanto iconico.

Tutta la sequenza è filtrata dalla soggettiva di Michael, che si muove nelle ombre sinistre della casa natale, appropriandosi dei due elementi che definiranno il suo personaggio: la maschera e il coltellaccio – ormai iconico sia per Psycho (1960) che, successivamente, per Scream (1996)

E così anche il suo movente, anche se non è mai dichiarato, è tipico dei killer degli slasher: una sorta di purismo e punizione nei confronti delle pulsioni sessuali che Michael non può comprendere e che non può esperire, essendo fin da subito un emarginato sociale.

Lo svelamento infine del volto innocente del bambino omicida racconta la profondità della malvagità del personaggio, alla ricerca di un’identità alternativa dietro cui nascondersi, che in questa scena – e così anche alla fine del film – gli viene violentemente strappata di dosso.

La distinzione del femminile

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

Secondo un sentimento comune al genere, vi è una distinzione del femminile.

I personaggi femminili che circondano la protagonista sono accomunati dall’essere posseduti da un profondo desiderio sessuale, e dall’essere raccontate come ragazze poco serie che non si impegnano nello studio e che vogliono solo divertirsi.

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

Al contrario, Laurie è vestita in maniera piuttosto distintiva, è molto più contenuta nella sua sessualità ed è anzi da associare al modello materno, in quanto è l’unico personaggio che effettivamente si impegna per gestire i bambini fino alla fine.

Proprio per questo all’inizio a lei spetta il ruolo di vedere – a differenza di tutti gli altri – il mostro in agguato, che si nasconde dietro ad ogni angolo, funzione che poi passerà al piccolo Tommy, la cui voce di allarme verrà costantemente ignorata dagli altri personaggi.

Uccidere il sesso

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

L’avversione per il sesso è costante per tutti gli omicidi.

E si accompagna anche ad una certa lascivia dei corpi: la prima vittima, Annie, è costretta a privarsi degli abiti e a rimanere sostanzialmente nuda in scena per moltissimo tempo, e così viene uccisa mentre si sta dirigendo proprio verso il prossimo appuntamento sessuale.

Ma il parallelismo più evidente è l’uccisione di Lynda, che viene strangolata dal fantasma della sua colpa, proprio mentre si trova senza vestiti a letto ad aspettare il fidanzato dopo che la sua passione è stata soddisfatta, proprio come la sorella di Michael all’inizio del film.

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

E, nonostante Laurie non sia associabile a questo modello, il killer con il primo fendente cerca di renderla una vittima lasciva, proprio strappandole parte della camicia e rivelandone la pelle nuda…

Ma proprio per il suo non aderire a quel tipo di ragazza, la protagonista è l’unica capace di usare la propria inventiva per combattere il mostro, con la sua stessa arma o con tecniche improvvisate, non riuscendo a vincere solamente perché il male non si può veramente mai sconfiggere…