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Matilda – La lotta inizia da piccole

Matilda (1996) di Danny DeVito è la più famosa trasposizione dell’opera omonima di Roald Dahl – uscita in Italia con l’infelice titolo di Matilda 6 mitica (che mi rifiuto di utilizzare in questa sede).

A fronte di un budget medio – 36 milioni di dollari, circa 70 milioni oggi – fu un pesante flop commerciale – solo 33 milioni di incasso, circa 64 oggi – diventando un piccolo cult solamente successivamente.

Di cosa parla Matilda?

Matilda è una bambina geniale, capace di leggere perfettamente già a quattro anni. E che paradosso che una persona del genere sia nata in una famiglia così ignorante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Matilda?

Sara Magdalin in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Dipende.

Matilda è un film a cui sono molto legata perché è stata una delle mie visioni preferite dell’infanzia, ma, a differenza di altri prodotti dello stesso genere – come Genitori in trappola (1998) – è una pellicola pensata principalmente per un pubblico di giovanissimi.

Il romanzo originale al confronto ha uno sguardo molto più maturo e adulto – come tipico della narrativa di Dahl. Ma nondimeno, se amate il romanzo di ispirazione, potrete ritrovare in questa pellicola una trasposizione complessivamente fedele e con una regia piuttosto piacevole.

Al contempo, è un film che guardato con un occhio più critico offre molti spunti di riflessione, che lo spettatore sia un bambino o un adulto.

Per questa recensione ho preso spunto dall’ottimo contributo ad opera di Heroica.it (che potete trovare qui) ed ho utilizzato tendenzialmente la traduzione ad opera della Salani (2004) per i nomi dei personaggi.

Nascere soli

La scelta di ambientare la storia negli Stati Uniti permette di dare tutto un altro sapore all’incipit.

Mentre infatti il romanzo non approfondisce la nascita di Matilda, l’accenno allo spreco di soldi per far venire al mondo la protagonista è del tutto comprensibile nel contesto statunitense, in cui un parto può venire a costare anche diverse decine di migliaia di dollari.

E così da quando è nata Matilda non è solo rifiutata, ma proprio dimenticata, anzitutto in macchina.

Ma Matilda non è una bambina qualunque: proprio nella sua incomprensione del mondo sia adulto che infantile, rifiuta di essere una semplice bambina, perché la sua mente geniale la spinge ad andare ben oltre.

Il potere della conoscenza

La scelta di Matilda di andare in biblioteca è estremamente simbolica.

Pur essendo nata in una realtà così culturalmente arida, proprio grazie al disinteresse dei genitori nei suoi confronti, non eredita nulla dalla sua famiglia, ma sceglie invece di alimentare la sua mente curiosa proprio al di fuori della stessa.

La scelta di uscire dal perimetro stabilito racconta, anche indirettamente, una prospettiva incredibilmente femminista di sottrarsi agli schemi sociali convenzionali e al controllo della figura maschile – in questo caso il padre, che la disprezza anche in quanto femmina.

Fra l’altro, proprio come nel romanzo, anche il film non spinge troppo sul versante della bambina prodigio.

Si sceglie invece il taglio più realistico: Matilda è comunque una bimba che non ha ancora affrontato né la scuola né la vita adulta, e per questo non riesce a comprendere fino in fondo le tematiche proposte dalle opere dei grandi autori del passato.

Ma non per questo si arrende.

Imparare a combattere

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Dopo essersi riuscita a ritagliare un piccolo angolo in cui dare sfogo alla sua genialità, Matilda comincia a non accettare più l’ostilità dei suoi genitori verso di lei, e anzi sono gli stessi ad insegnarle involontariamente il diritto alla punizione.

Questo aspetto è molto più ammorbidito rispetto al libro: nel romanzo le piccole vendette di Matilda erano sistematiche ad ogni sgarbo del padre e della famiglia in generale – in particolare, uno dei dispetti del romanzo, ai danni di tutti i suoi parenti, è omesso nella pellicola.

Nel film invece l’unico target è il padre, principale personaggio da punire: il Signor Dalverme non è solamente un piccolo uomo disonesto e pieno di sé, ma è proprio la figura che più di tutte limita Matilda e cerca di ricondurla all’idea di femmina stupida e sottomessa – l’unica che può accettare.

Mara Wilson e Danny DeVito in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Particolarmente iconico lo scontro nell’officina, in cui il padre sminuisce la protagonista ricordandole che è piccola e stupida, mentre lui è grande e intelligente, e ha tutto il potere e l’autorità dalla sua.

Proprio questo spinge Matilda a vendicarsi, dimostrando – nella totale inconsapevolezza del padre – di essere molto più scaltra di quanto lui credesse, mettendolo nel sacco non una, ma per ben due volte – prima col cappello, e poi con la tinta per capelli.

Ed è esilarante se si pensa che il padre non sospetta mai di lei, proprio perché la crede così stupida.

L’altro nemico

Pam Ferris in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Quando Matilda finalmente si affaccia al mondo adulti al di fuori della sua sfera familiare, viene a contatto con due modelli femminili fondamentalmente opposti.

Il primo è la Signorina Trinciabue, che racconta fondamentalmente un modello di estrema anti-femminilità, anzi un rifiuto della stessa, andando invece a rifugiarsi in un più violento e sicuro modello maschile.

Pam Ferris in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ma anche più che rifiutare il femminile, Agata ne respinge la sua rappresentazione più debole: l’infanzia. Per questo Matilda è inevitabilmente la sua nemesi: una bambina che non dimostra debolezza ma, anzi, grande intraprendenza.

In generale, proprio come il Signor Dalverme, la Signorina Trinciabue sottovalutata i bambini, mettendoli continuamente alla prova con ostacoli apparentemente insormontabili, al fine di schiacciarli sotto al suo totale dominio.

Ma proprio per questo viene sconfitta più volte.

Alla riscossa!

Anzitutto da Bruno Mangiapatate.

Nel romanzo lo stesso riusciva senza alcuna fatica a mangiare l’enorme dolce della preside, mentre nel film si sceglie di puntare sull’idea che l’unione fa la forza, permettendo così al personaggio di concludere la prova grazie al sostegno dei suoi compagni.

Successivamente, anche Violetta riesce a ridicolizzarla: come nel libro la bambina organizzava il piano con cura e su ispirazione delle gesta di Matilda, nel film invece improvvisa totalmente.

In ogni caso, il risultato è lo stesso: riuscire a mostrare quella debolezza che Agata aveva sempre cercato accuratamente di celare.

Oltre all’anti-femminilità, la pellicola – a differenza del romanzo – si impegna a raccontare ancora questo personaggio come di fatto anti-umano, bestiale, proprio per sottolineare come si tratti di fatto di un mostro da sconfiggere.

La femminilità anomala

Embeth Davidtz in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Il personaggio della Signorina Dolcemiele è ancora più interessante.

Come Agata rappresenta l’anti-femminile, Betta invece ne incarna totalmente i valori, almeno quelli esteriori: una donna minuta, delicata, che parla poco e che non osa opporsi direttamente alla tirannia della preside, fungendo da figura materna secondaria per Matilda.

In realtà, il suo personaggio ricopre la funzione di insegnante nel senso più ampio del termine, essendo l’unica figura della storia – insieme alla Signora Felpa – a riconoscere, anzi ad incoraggiare le potenzialità della protagonista.

Embeth Davidtz e Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ed è proprio quando deve mettersi alla prova in questo senso, che Betta dimostra il suo potenziale.

Pur trovandosi davanti ad una figura sostanzialmente analoga a quella della Signorina Trinciabue, Betta non accetta di arrendersi davanti al pessimo comportamento del Signor Dalverme, che anzi disprezza e attacca direttamente in più momenti del loro incontro.

E, così come non aveva rinunciato al suo progetto davanti al diniego di Agata, allo stesso modo non si lascia sminuire dal superficiale ragionamento della Signora Dalverme, che la disprezza per aver scelto i libri invece che la bellezza.

Il potenziale inespresso

Embeth Davidtz e Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ma l’effettiva potenzialità di Betta risiede nel suo passato.

Come la protagonista di un dramma ottocentesco, la Signorina Dolcemiele nonostante fosse – fisicamente e simbolicamente – schiacciata dalla figura di Agata, riesce a trovare una sua via di fuga, pur dovendo accettare tutte le ristrettezze che quella libertà porta con sé.

Nel libro si racconta più specificatamente della paura del suo personaggio verso la zia, di come fosse anche economicamente dipendente da lei, dovendo per questo vivere con non più di una sterlina alla settimana.

Ma Betta è ancora oppressa dal terrore di Agata, e non riesce a liberarsi completamente.

A questo punto interviene Matilda.

Il passaggio di testimone

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

La protagonista eredita dalla maestra la sua forza nel ribellarsi, ma non la paura verso Agata, scegliendo di portare la sua rivalsa fino in fondo, ed esercitandosi nello sviluppo dei poteri proprio per questo fine – nel libro proprio specificamente ed unicamente per quello.

Interessante quanto funzionale l’aggiunta del film per cui Matilda si impegna per recuperare la bambola della Signorina Dolcemiele – e, simbolicamente, l’infanzia che è stata ingiustamente strappata alla sua maestra.

Ma la sua vera vittoria è riuscire a mettere Agata letteralmente al tappeto, facendo proprio leva sulla sua debolezza – l’essere molto superstiziosa – e dando così lo slancio anche ai suoi compagni per ribellarsi totalmente verso il mostro che li aveva compromesso l’infanzia.

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Questa aggiunta rispetto al libro – in cui semplicemente la Signorina Trinciabue scappava dopo lo scherzo di Matilda – mi ha convinto a metà: per quanto interessante distribuire la rivalsa su tutti i bambini, in questo modo si rende meno personale la vittoria di Matilda.

Allo stesso modo ho trovato molto più interessante la scelta del romanzo di limitare il potere della protagonista – un potere stancante e che terminava alla fine del libro – mentre il film ha scelto di renderlo più digeribile e legato ad una realtà fantastica e divertente.

Ma sono dettagli per un prodotto complessivamente molto rispettoso della sua fonte.

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Hannah e le sue sorelle – Una famiglia a pezzi

Hannah e le sue sorelle (1986) è una delle commedie più conosciute della produzione di Woody Allen, godendo fra l’altro di un cast piuttosto nutrito di star – o future tali – fra cui Carrie Fisher, Michael Caine e Diane West.

Fu anche uno dei più grandi successi economici della produzione di Woody Allen: con un budget di circa 6,4 milioni di dollari – circa 18 milioni ad oggi – incassò ben 40 milioni – circa 110 milioni ad oggi.

Di cosa parla Hannah e le sue sorelle?

La storia ruota intorno alle turbolente vite sentimentali di Hannah e delle sue due sorelle, April e Lee, che si intersecano in maniera piuttosto inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hannah e le sue sorelle?

Mia Farrow in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

In generale, sì.

Hannah e le sue sorelle si va ad incasellare in quel tipo di commedia della produzione di Woody Allen non particolarmente originale nelle tematiche, ma piacevole da fruire, nonché elegante e curata nella messinscena.

I suoi grandi punti di forza sono il cast di grandi attori – quell’anno, fra l’altro, ampiamente premiati agli Oscar – e l’irresistibile ironia di Woody Allen stesso, che, come tipico delle sue commedie, è il punto focale della comicità della pellicola.

Insomma, nel complesso ve la consiglio.

L’inizio di un amore

Mia Farrow e Michael Caine in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

L’incipit di Hannah e le sue sorelle racconta uno dei temi preferiti di Allen: un amore impossibile.

La voce fuori campo dell’ancora sconosciuto Elliot ci accompagna alla scoperta di Lee e dei suoi sentimenti segreti quanto problematici – niente di meno che per la giovane sorella della moglie.

Tutto sembra essere apparecchiato per lo svolgersi di uno struggente dramma romantico a lieto fine: entrambi sono ingabbiati in relazioni a loro dire insoddisfacenti, e sembrano invece ritrovarsi negli interessi intellettuali comuni.

Michael Caine in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

Ma questa non è una qualunque commedia romantica.

Come aveva già sperimentato sia in Io e Annie (1977) e Manhattan (1979), Allen sceglie un taglio più amaramente realistico: per quanto Elliot si racconti di essere perdutamente innamorato di Lee e di volerla salvare da Frederick, in realtà è divorato dall’angosciante prospettiva di ferire Hannah.

E la troppa attesa preclude per sempre i rapporti.

Alla fine, Lee salva sé stessa: si lascia alle spalle la problematica relazione con Frederick – che era più un padre che un compagno – ed evita di affiancarsi nuovamente ad un uomo così distante da lei per età e per affinità.

Il ritaglio comico

Woody Allen in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

La storia dei Mickey è quella che ho più apprezzato della pellicola.

Con questo personaggio Woody Allen riesce a mantenere la comicità surreale tipica soprattutto della sua prima produzione: un incurabile ipocondriaco, tormentato da un’ansia costante e quasi grottesca.

Tramite un inaspettato crescendo drammatico, sembra veramente che i più tragici sogni del protagonista si siano avverati, e che la morte sia veramente venuta a bussargli alla porta, tanto da immaginarsi l’infausto annuncio del dottore.

Ma ancora più inaspettata – e, per questo, irresistibile – è la crisi esistenziale che lo assale, portandolo a riflettere sulla sua vita e il suo matrimonio finito, ricercando una fede in cui rifugiarsi, con un’ironia che già aveva sperimentato in Prendi i soldi e scappa (1969).

E poi c’è Holly.

Il lato debole

Mia Farrow, Barbara Hershey e Dianne Wiest in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

Holly, è a mio parere, la storia più debole del terzetto.

La debolezza risiede nella difficoltà che ho trovato nell’empatizzare con il personaggio: una bisbetica insoddisfatta che insegue amori impossibili e sogni irrealizzabili, ma sembrando più un peso per le sue sorelle che altro.

Ho trovato altresì piuttosto antipatica la sua scelta di umiliare la sorella con una sceneggiatura che svelasse la fallacia del suo matrimonio, idea per fortuna messa da parte e che conduce il personaggio ad un – a mio parere – davvero improbabile lieto fine.

Proprio per il tipo di commedie con finali piuttosto amari tipici della produzione di Allen, ho trovato quasi fuori luogo come Holly e Mickey si ritrovano, arrivando nel giro di poco tempo anche a sposarsi, a fronte di un primo appuntamento divertente quanto rivelatorio della loro incompatibilità.

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2023 Biopic Dramma familiare Drammatico Film Oscar 2024

Oppenheimer – Una bomba per tutte

Oppenheimer (2023) è il film forse più ambizioso della filmografia di Christopher Nolan, già costellata di pellicole di grande successo, che si distinguono ogni volta per la loro superba qualità tecnica.

La pellicola si è rivelata uno dei più grandi incassi del 2023 – al terzo posto nella classifica mondiale – con quasi un miliardo di incasso in tutto il mondo a fronte di appena 100 milioni di dollari di budget.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Oppenheimer (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista

Miglior sceneggiatura non originale
Miglior attore protagonista a Cillian Murphy
Migliore attore non protagonista a Robert Downey Jr.

Migliore attrice non protagonista a Emily Blunt
Miglior colonna sonora
Miglior fotografia
Migliori costumi
Miglior montaggio
Migliore trucco e acconciatura
Migliore scenografia
Miglior sonoro

Di cosa parla Oppenheimer?

La pellicola segue la storia di Robert Oppenheimer, considerato impropriamente padre della bomba atomica, ma sicuramente una delle figure più interessanti e complesse del secolo scorso.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Oppenheimer?

Cillian Murphy in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Assolutamente sì.

Oppenheimer è un film che mi ha letteralmente travolto, per il suo ritmo frenetico e incalzante, il suo apparato tecnico elegantissimo e sublime, oltre ad una scelta di interpreti di prim’ordine, a partire dell’attore feticcio di Nolan – ma mai protagonista finora – Cillian Murphy.

Anche se le tre ore di durata possono far paura, personalmente non riesco a considerare questa pellicola pesante, proprio per la scelta di far proseguire la trama spedita e su più piani temporali: al più la definirei una pellicola complessa, ma in generale anche comprensibile dagli spettatori meno esperti.

Per me, Nolan ha finalmente raggiunto il suo capolavoro.

In questa recensione ho scelto di seguire la scansione temporale cronologica del film, così da fare chiarezza circa eventi raccontati.

Il profeta acerbo

Cillian Murphy in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Sulle prime, Oppenheimer è un profeta acerbo.

Immerso nelle visioni di un mondo spaventoso e incomprensibile – la realtà quantica – ma incapace per questo di applicare le sue conoscenze al mondo reale e pragmatico – da cui i suoi fallimenti in laboratorio.

Disprezzato da compagni e professori, Oppenheimer infine si decide a tornare in America per esportare il bagaglio di conoscenze acquisito, non arrendendosi neanche davanti alla presenza di un unico studente al suo primo giorno di corso.

Ma in poco tempo l’aula si riempie di nuovi volti, di seguaci che gli permettono di far conoscere le sue teorie, che beneficiano anche dell’impossibilità di essere dimostrate pragmaticamente, rimanendo ancora limitate ad un mondo astratto e puramente concettuale.

Ma la guerra è alle porte.

La corsa cieca

Cillian Murphy e Matt Damon in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Davanti alla sua crescente popolarità nel mondo accademico, il protagonista viene scelto come salvatore del mondo libero.

Los Alamos nel suo piccolo rappresenta il sentimento statunitense durante la Grande Guerra: una corsa sfrenata verso la vittoria, malamente smorzata da tentativi fin troppo deboli di tenere a freno l’ambizioso Progetto Manhattan.

Infatti, al tempo ancora incapaci di comprendere l’immensità della loro creazione, le menti dell’Atomica si ribellano coscientemente alle più basilari direttive governative volte al mantenimento della segretezza del progetto, limitate in realtà da un controllo fin troppo clemente.

Se nel dopoguerra le simpatie comuniste e i sospetti di tradimento riemergeranno in tutta la loro gravità, durante la corsa alla bomba molte macchie sul curriculum vengono celate, molti timori vengono nascosti sotto al tappeto.

Ma l’atomica è ancora una bomba di carta.

Finché si spazia nella pura teoria, in un mondo di fatto amorale, Oppenheimer può sentirsi al sicuro. Ma una più angosciosa previsione smorza momentaneamente l’entusiasmo: la possibilità di diventare il tanto temuto distruttore di mondi.

E non bastano i più semplici e saggi consigli di Einstein circa l’idea abbandonare il progetto, ma è sufficiente abbassare la possibilità di un’apocalisse a quasi uno zero per dimenticarsi quasi del tutto dell’assennato consiglio di Niels Bohr:

You can’t lift a stone without being ready for the snake that’s revealed.

Non puoi sollevare una pietra senza essere pronto al serpente che nasconde.

Ma l’angoscia permane.

L’epifania

Cillian Murphy in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

E infine anche la realtà materiale viene a bussare alla porta.

Se fino a quel momento il protagonista – e i suoi colleghi – erano quasi dei cani sciolti, quando gli Stati Uniti vedono un’occasione per raggiungere la pace e la fine della guerra tramite la loro invenzione, cominciano a metterli alle strette con dei frettolosi ultimatum.

Pur fuori posto per molti versi nella realtà politica del suo paese, Oppenheimer ritrova comunque conforto nell’astrattismo dei numeri che raccontano le vite salvate grazie all’uso dell’atomica, intestardendosi quasi fino all’ultimo sull’efficacia della stessa per la pace eterna.

 They won’t fear it until they understand it. And they won’t understand it until they’ve used it. Theory will take you only so far.

Non la temeranno finché non la capiranno. E non la capiranno finché non l’avranno usata. La teoria può portarti fino ad un certo punto.
Cillian Murphy in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Ma la vera epifania avviene durante il test.

Se fino a quel momento la bomba era una realtà astratta, al pari di una stella morente visibile solamente nei sogni più sfrenati, con l’approcciarsi della messa in atto l’angosciosa consapevolezza della pericolosità dell’operazione riaffiora nel suo creatore.

Non a caso, durante Trinity Oppenheimer organizza una sorta di via di fuga, ascoltando finalmente i saggi consigli di Einstein dell’abbandonare il progetto qualora la distruzione mondiale si rivelasse qualcosa di effettivamente reale.

Ma a poco serve scegliere il giovane Kenneth Bainbridge come guardiano dell’umanità: la bomba infine si mostra nella sua immensità, con un interminabile silenzio punteggiato dai respiri ansiosi degli astanti, per poi rivelare infine la sua forza distruttiva in un assordante boato.

Così quella tesa quiete rappresenta gli anni della riflessione e ideazione, lo scoppio la nuova realtà inarrestabile che prende piede.

Contro la bomba

Cillian Murphy in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Dopo un’euforia iniziale per il successo del progetto, Oppenheimer comincia ad essere divorato da una bruciante angoscia, scatenata in primo luogo dall’impossibilità di avere ulteriore voce in capitolo sull’uso della sua creatura.

E così il mondo materiale comincia a mutare: richiamato a confermare il suo successo, il protagonista si limita a vuoti slogan ad effetto, oppresso da quella verità sempre più concreta che non riesce a togliersi da davanti agli occhi, ma che sembra invisibile al resto del mondo.

Non riuscendo fra l’altro a concepire l’effettiva immensità della tragedia solo per la limitatezza della sua fantasia…

Cillian Murphy e Robert Downey Jr. in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

E quando comincia a combattere contro la bomba, entra in scena Strauss.

La visione di questo ambizioso politico è del tutto opposta a quella del protagonista: un mondo dominato dal bianco e nero, simbolicamente rappresentativo della sua ristrettezza di vedute, il mondo di un bambino che capricciosamente non vuole rinunciare al suo giocattolo – o bomba che sia.

Nel mondo di Strauss, Oppenheimer non è più l’eroe che ha salvato l’America, ma invece l’antagonista, il guastafeste, la voce sempre più fastidiosa che vuole mettere a tacere la folle prospettiva di creazione di un mondo atomico ormai pericolosamente vicino.

Lewis Strauss Oppenheimer

Robert Downey Jr. in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Così Oppenheimer capisce la ristrettezza delle sue vedute.

Durante la creazione dell’atomica, il protagonista pensava di poterne definire i limiti d’uso.

La realtà della Guerra Fredda è ben diversa: un mondo del tutto politico, materialistico, in cui gli Stati Uniti ambiscono a diventare la più grande potenza mondiale e sbaragliare ancora una volta il nemico, con lo sguardo fisso unicamente sulle tensioni dello scacchiere internazionale.

Un mondo in cui il vero colpevole di una delle più grandi tragedie dell’umanità – il presidente Truman – offre ad Oppenheimer un fazzoletto per pulirsi il sangue di centinaia di migliaia di vittime, rivendicando con orgoglio la sua scelta, e anzi disprezzando il protagonista per le sue infantili proteste.

Ormai Oppenheimer è un personaggio da mettere da parte.

Punizione…

Cillian Murphy in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Who’d want to justify their whole life?

Chi vorrebbe giustificare la sua intera esistenza?

La punizione di Oppenheimer è subdola.

Un personaggio già di per sé così problematico, ma che, soprattutto, si rifiuta di accettare il meraviglioso passo avanti del nuovo mondo atomico – la Bomba H – va distrutto dalle fondamenta.

Oppenheimer viene riportato sui banchi di scuola, in uno spazio angusto e claustrofobico, per la resa dei conti, per riuscire a giustificare l’ingiustificabile: la sua opposizione instancabile alla sua stessa creazione.

Cillian Murphy in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Gli uomini malediranno il nome di Los Alamos e Hiroshima

Un caso costruito ad arte, una vendetta personale non solo da parte di Strauss, ma di tutti gli Stati Uniti, per mettere finalmente a tacere le sciocche opposizioni di una parte del mondo accademico così geniale nelle creazioni, ma così poco pragmatico sul piano del reale.

Le motivazioni – anche per portare ad un’idea folle come la collaborazione con i Sovietici – non mancano: le simpatie comuniste, la pochezza della gestione della sicurezza a Los Alamos, un pensiero troppo contraddittorio e poco ambizioso per essere accettato.

E tanto basta per mettere Oppenheimer da parte.

…e riscatto

Cillian Murphy in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Ma bastano cinque anni per ottenere il riscatto.

Come Einstein gli aveva predetto, quando gli Stati Uniti lo hanno punito abbastanza da renderlo un martire, lo fanno ritornare ad essere l’eroe americano.

Uno scenario grottesco, dove finalmente l’America sceglie di mettersi un freno e accettare quella dolorosa macchia sul curriculum, intraprendendo la via più ragionevole – e pacifica – per evitare l’Apocalisse nucleare.

E per liberarsi dei propri peccati, è necessario un eroe, una Cassandra per tanto tempo rimasta inascoltata, che viene riportata alla ribalta come simbolo del cambio di passo, con un Oppenheimer fin troppo felice di lasciarsi usare.

Robert Downey Jr. in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Ma come ci sono i vincitori, ci sono anche i vinti.

Per un crudele gioco del destino, pochi anni dopo Strauss viene punito nella stessa maniera con cui aveva punito Oppenheimer: rimesso davanti alla sua vita e alle sue scelte, svelato per la sua vera natura e per i suoi preziosi altarini.

E, nella furia amara per la sconfitta, questo politico ormai decaduto si mostra ancora una volta cieco davanti ad una realtà più profonda, e derubrica la sua disfatta ad una vendetta personale di Oppenheimer e del mondo scientifico, da sempre contro di lui.

Ma il Nuovo Mondo è molto più complesso.

La distruzione silenziosa

Tom Conti in una scena di Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Il vero significato di Oppenheimer viene rivelato nelle sue ultime battute.

Il protagonista dà finalmente sfogo alle sue crescenti paure, davanti all’unica persona che sembra capace di comprenderle – nonché l’autore della miccia iniziale (pur inconsapevole) che ha portato al Mondo Atomico.

I believe we did.

Penso che sia successo.

La distruzione è avvenuta, ma è invisibile: dalla creazione dell’atomica l’uomo ha perso la sua natura umana, ha smesso di combattere con delle mere armi mortali, ascendendo ad essere divino, e potenziale responsabile della sua stessa distruzione.

È diventato onnipotente, ma mai davvero consapevole della sua incapacità di esserlo.

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Diario di una tata – La spersonalizzazione voluta

Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini è una piacevole commedia coming of age con protagonista una giovanissima Scarlett Johansson.

Con un budget molto contenuto – appena 20 milioni di dollari – ebbe un discreto riscontro al botteghino, con 47 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Diario di una tata?

Annie è una giovane neolaureata che, anche per le pressioni della madre, vorrebbe intraprendere una carriera in ambito economico. Ma il destino ha qualcos’altro in serbo per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Diario di una tata?

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

In generale, sì.

Anche se non è un film imperdibile, Diario di una tata è una commedia veramente piacevole, che offre diversi spunti di riflessione che, pur nella loro semplicità, non sono per niente scontati, ma che anzi raccontano una realtà ancora molto attuale.

Il film è inoltre impreziosito da un cast di primo livello: oltre alla fantastica Scarlett Johansson, troviamo anche Chris Evans, Laura Linney e il fantastico caratterista Paul Giamatti, oltre ad un’improbabile apparizione di Alicia Keys.

Insomma, ve lo consiglio.

La strada obbligata

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

La situazione iniziale di Annie è piuttosto tipica per i giovani di oggi e di ieri.

A fronte di un genitore che ha dovuto fare grandi sacrifici per un lavoro tutt’altro che semplice, la protagonista viene spinta dalla madre verso una carriera più redditizia e, almeno nella sua visione, molto più felice.

La questione viene sottolineata in particolare dal personaggio di Lynette, che rappresenta la voce degli immigrati di seconda e terza generazione che poterono sperare in una vita più agiata proprio grazie agli sforzi dei genitori, che spesso erano stati i servi delle ricche famiglie bianche statunitense.

Spinta verso questa identità costruita a puntino, Annie tenta il colloquio che dovrebbe cambiarle la vita, ma che si rivela tanto più impossibile quando le viene chiesto di raccontarsi, di darsi un’individualità che la distingua da tutti gli altri candidati.

Proprio in questo mondo tutte le sicurezze della protagonista vanno ancora più in pezzi, andando a ricercare nella giungla newyorchese una nuova identità in cui ritrovarsi, e che la possa finalmente definire come persona.

La nuova non-identità

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

E la nuova identità arriva, ma non la definisce.

Trovandosi per caso a salvare un bambino distratto mentre già pensava di diventare una barbona, Annie si trova davanti un ventaglio di possibilità inaspettato: diverse donne che bramano per averla al loro servizio e un’incredibile – per quanto temporanea – via di fuga.

Per quanto confortata da questa opportunità, Annie è del tutto consapevole di star facendo un errore e di star rinnegando le possibilità che la madre ha costruito apposta per lei, motivo per cui le mente così spudoratamente.

Scarlett Johansso e Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

L’identità di tata è infatti confortante quanto spersonalizzante, come testimoniano le parole della stessa Annie:

I’m referred to as “Nanny” by all the people in the X’s social network.

Sarò chiamata “tata” da tutti gli appartenenti al ceto sociale dalla signora X.

La tata non è altro che una figura usa-e-getta, una donna che viene coinvolta da queste ricche e disperati madri per essere spremuta fino all’inverosimile non tanto per crescere i loro figli, ma piuttosto per essere tutto quello che loro non vogliono – e non possono – essere.

La catena di miseria

Laura Linney e Paul Giamatti in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Il circolo vizioso della miseria di mogli e dei figli parte dai padri.

I padri sono figure misteriose, sostanzialmente assenti nella vita familiare, micidiali imprenditori a cui interessa solo guadagnare il più possibile, riuscendo comunque a mantenere sotto scacco i due simboli sociali altrettanto preziosi per il loro status: la sposa e la prole.

Le mogli – come i figli – per i mariti non solo altro che accessori, trofei da esibire in pubblico per dimostrare di aver successo non solo nella sfera lavorativa, ma anche in quella familiare, mentre dietro le quinte la loro mancanza di interesse per la stessa è micidiale.

Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Così si creano delle madri tremendamente assenti e delle donne troppo impegnate a costruirsi un’identità sociale rispettabile tramite gli eventi sociali e l’acquisizione di simboli materiali – gioielli, vestiti… – per provare anche solo ad essere delle mamme.

Per questo scelgono di trasferire i loro obblighi genitoriali ad una terza persona, anzi ad una schiera di altre persone che si avvicendano continuamente nella vita dei loro figli, donne che possono tranquillamente strapazzare senza paura delle conseguenze.

E Annie si lascia strapazzare.

Going native

Scarlett Johansso in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Nonostante questa situazione ai confini della realtà, Annie viene inevitabilmente coinvolta emotivamente dai problemi di questa terribile famiglia.

Vivendo così vicino a questi animali sociali, la protagonista, una volta superati i capricci di Grayer, riesce ad entrare nelle sue grazie ed a ricevere il suo affetto e la sua approvazione, tanto da diventare in un certo senso la sua vera madre.

Allo stesso modo, Annie non può non provare pena per la terrificante situazione matrimoniale e famigliare della Signora X, arrivando a prendersi sulle spalle la responsabilità della riuscita del matrimonio della stessa.

Per questo, fino all’ultimo, la protagonista non riesce a distaccarsi da questa situazione, di cui lei stessa è consapevole di essere dipendente.

Una nuova strada

Scarlett Johansso e Laura Linney in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Tramite questa esperienza, Annie acquisisce un’importante consapevolezza.

Infatti, la protagonista si rende conto di quanto sia molto più importante costruirsi un’identità seguendo le proprie inclinazioni e passioni, piuttosto che inseguire un sogno di ricchezza, che però non garantirà alcun tipo di felicità personale.

Questa consapevolezza è confermata dalla relazione con Hayden, che inizialmente Annie respinge anche per la differenza delle loro condizioni sociali, di cui ha una concezione totalmente idealizzata.

Scarlett Johansso e Chris Evans n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Infatti, il ragazzo – nel ruolo quasi da pixie girl – le fa ancora di più comprendere come queste situazioni di agiatezza economica non si accompagnano sempre – anzi, davvero raramente – ad una vita perfetta e desiderabile, anzi.

Secondo una consapevolezza non tanto dissimile, la Signora X riesce a grazie ad Annie a rendersi conto di essersi incastrata all’interno di un modello apparentemente felice – la moglie ricca e devota – che la porta solo ad essere una donna infelice ed una pessima madre.

E non è un caso che sul finale si rivela per il suo vero nome, Alexandra – un’Alexandra nuova di zecca.

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Pitch Perfect Saga – Perdersi per strada

La saga di Pitch Perfect (2012 – 2017) è stato un piccolo fenomeno cinematografico della seconda metà degli Anni Dieci, che raccolse l’eredità di Glee, lanciò Anna Kendrick presso il grande pubblico, ma si perse anche drammaticamente lungo la strada.

Nonostante tutti i film abbiano portato dei buoni incassi, i risultati al botteghino sono stati alterni: un buon successo per il primo capitolo, raddoppiato per il secondo, per poi perdere una buona fetta di pubblico con il terzo capitolo.

Di cosa parla Pitch Perfect?

La trilogia di Pitch Perfect segue principalmente la protagonista, Beca, che si unisce al gruppo di canto a cappella delle Bellas, al contempo inseguendo il suo sogno di diventare una produttrice musicale…

Vi lascio il trailer del primo film per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pitch Perfect?

Anna Kendrick, Brittany Snow e Anna Camp in una scena di Pitch Perfect (2012)

Dipende.

Il primo capitolo della trilogia è un mio personale confort movie: una commedia musicale piacevole, con un semplice quanto funzionale arco evolutivo della protagonista e dei personaggi secondari, e con delle performance musicali di alto livello.

Soprattutto se vi piaceva (o vi piace ancora) Glee, probabilmente lo amerete.

Purtroppo, non posso dire lo stesso degli altri due film.

Con la trilogia di Pitch Perfect ho visto dei prodotti creati principalmente per cavalcare il successo del brand, ma senza che ci fosse un’idea forte alla base dei sequel, andando anzi spesso a ripetere lo stesso schema narrativo, con una certa pigrizia di scrittura, arrivando infine deviare totalmente dalla strada principale.

Insomma, se fossi in voi, mi fermerei al primo film.

Pitch Perfect (2012)

Il primo capitolo della trilogia di Pitch Perfect è quello più robusto dei tre, pur non mancando di alcuni inciampi lungo la strada.

Ma partiamo dalle cose positive.

Una protagonista anomala

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect (2012)

Il successo di questa pellicola, come in altri casi analoghi, è la scelta di una protagonista inusuale.

Beca non è anomala di per sé come protagonista, ma lo è nello specifico per il genere di riferimento: in un’epoca in cui Glee rappresentava praticamente la personalità di molti adolescenti, il modello di protagonista era la ragazza timida, un po’ nerd, ma con una voce magnifica.

Beca non è niente di tutto ciò.

Anna Kendrick e Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect (2012)

Non ha una voce particolarmente magnifica, è una persona molto chiusa in sé stessa e che tende ad allontanare gli altri – per sua stessa ammissione – testarda come un mulo, e che vorrebbe solamente seguire la strada che si è già prefissata.

La sua maturazione, per questo, avviene su due livelli.

Il primo è quello relazionale, nel senso più strettamente affettivo: tramite Jesse – che ha quasi il ruolo da pixie girl – si rende conto della sua tendenza incredibilmente tossica di farsi terra bruciata intorno, anche in maniera piuttosto cattiva e aggressiva.

Anna Kendrick e Skylar Astin in una scena di Pitch Perfect (2012)

Più banalmente, tramite le Bellas, Beca impara a lavorare in gruppo, ad introdurre le sue idee migliorative in maniera effettivamente collaborativa, quindi non testarda e aggressiva, come aveva fatto fino a quel momento.

Ma le Bellas rappresentano molto di più.

Una nuova femminilità

All’inizio del film, conosciamo fin da subito la superbia e l’acidità che contraddistingueva le vecchie Bellas.

Il gruppo rappresentava un modello femminile ormai datato, composto da donne bianche, con dei fisici perfetti e vestite con abiti formali, ma al contempo con un aspetto assai piacente, sessualizzato quanto bastava perché non risultasse eccessivo.

Aubrey eredita questa vena dittatoriale, forzando costantemente le altre ragazze a aderire a questo modello femminile, che si trasmette anche nelle canzoni poco al passo con i tempi e portatrici di concetti ormai superati.

La bellezza del finale sta non soltanto nell’ottimo numero musicale, ma anche nella libertà riconquistata delle Bellas nel raccontarsi in maniera autentica e personale all’interno del gruppo, pur mantenendone i simboli identitari.

Non la solita musica

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect (2012)

Dal punto di vista musicale, Pitch Perfect mostra il suo lato migliore.

Anzitutto per le performance durante le gare, prima con le esibizioni dei Treblemakers e poi lo spettacolo finale delle Bellas, con dei mix up particolarmente coinvolgenti ed ottimamente coreografati.

Ma i momenti più iconici e che mi sono rimasti veramente impressi sono la scena dell’audizione e la sequenza del Rip-off, soprattutto grazie all’ottimo montaggio e alla fantastica regia, che li rende dei momenti veramente indimenticabili.

In particolare, ho apprezzato la cura che è stata messa nell’esibizione finale delle Bellas, momento che doveva distinguersi per qualità sia dalle loro precedenti performance, sia anche dall’ottima prova dei Treblemakers.

Un’inclusione fallace

Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect (2012)

Come Pitch Perfect riesce a raccontare in maniera interessante e variegata la femminilità, fallisce dal punto di vista inclusivo.

Anzitutto per Fat Amy.

Il film si crede particolarmente spiritoso ed originale per questa trovata, che in realtà racconta una mal celata grassofobia, o, per meglio dire, una grande pigrizia narrativa che per l’ennesima volta rende il personaggio grasso la spalla comica della protagonista.

Questo elemento, insieme al vomito incontrollabile di Aubrey, rappresenta la pesante eredità che Pitch Perfect trae dalla più classica delle commedie del decennio precedente, in cui era tipico trovare i suddetti elementi.

Ma se Fat Amy è anche perdonabile, dal momento che comunque è un personaggio brillante e uno dei migliori del film, il punto più basso è la rappresentazione di Cyntia-Rose.

Se da una parte può essere anche positivo il fatto che il suo personaggio non nasconda la sua omosessualità, meno piacevole è quanto non solo si insista nel volerla ricondurre al classico e stanco stereotipo della lesbica mascolina, ma si spinge fortemente l’acceleratore nelle molestie comiche del personaggio contro Stacie.

Mentre guardavo Cynthia con gli occhi affondati nei seni della compagna mi sembrava di essere tornata ai tempi di Camera Cafè, ma quando insistentemente la ragazza cerca di fare la respirazione bocca a bocca a Amy…

…e soprattutto quando salta addosso a Stacie nel finale – e la stessa usa il fischietto antistupro – ho visto l’immensità dell’ignoranza che questo film rappresenta.

Purtroppo, un’ignoranza molto inconsapevole…

Pitch Perfect 2 (2015)

Con il Pitch Perfect 2 (2015) la sceneggiatura rimane in mano a Kay Cannon, ma la regia passa a Elizabeth Banks, che già dallo scorso capitolo interpretava Gail McKadden, la commentatrice delle gare di canto.

E non è proprio una buona notizia…

It’s 2015, baby!

Le Bellas in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Pitch Perfect 2 segna un cambio di passo travolgente.

Lasciatosi alle spalle l’era di Glee ormai in chiusura, le Bellas approdano alla scintillante conclusione degli Anni Dieci, sembrando alternativamente delle modelle di un post di Instagram e le backup dancers del videoclip Bang Bang, che da solo rappresenta perfettamente l’estetica di questi anni.

Così dalle luci più morbide e tridimensionali del primo capitolo, si passa ad un universo fatto di colori carichi e caramellosi, accompagnato da una regia molto più fredda e anche ben poco ispirata, alla lunga quasi nauseante…

E Beca racconta perfettamente questo cambiamento.

Una Beca nuova di zecca

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Vuoi per il cambio di regia, vuoi per il maggiore potere contrattuale della stella nascente Anna Kendrick, Beca è totalmente cambiata.

Ci dimentichiamo ben presto della ragazza molto chiusa, un po’ emo, che respingeva tutti, e troviamo invece una team leader con un look fortemente diverso, che la fa sembrare proprio lo stereotipo della ragazza popolare di quegli anni.

Per fortuna che la regia non si dimentica del passato del personaggio, che mantiene una certa insicurezza nei confronti delle nuove sfide, rientrando in un topos narrativo più alla Il diavolo veste Prada (2006), ma che si risolve senza troppi drammi e riscoprendo l’importanza del gioco di squadra.

L’usato sicuro?

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Pitch Perfect 2 ricade nel più classico errore di un sequel di un prodotto di successo: portare in scena sostanzialmente la medesima storia, ma rimescolando un po’ le carte.

Ma se Cameron era riuscito in questo compito con particolare maestria con Aliens (1986) – proprio per fare un paragone volutamente improprio – non si può dire lo stesso di Kay Cannon con il sequel della sua stessa creazione, che ricalca la stessa storia, ma con molto meno mordente.

Si comincia sempre con l’incidente scatenante che mette a dura prova le Bellas, portandole a doversi mettere in gioco più che mai con un nemico ben più potente e temibile di quanto non fossero i Treblemakers.

Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Già qui entrambi gli elementi mi hanno francamente piuttosto infastidita: sia per, ancora una volta, il malcelato fat shaming nei confronti di Amy – il pubblico avrebbe avuto la stessa reazione con un corpo più canonicamente bello? – sia per la rappresentazione dei DSM.

Come non mi ha entusiasmato la banale e stereotipata rappresentazione di Cynthia-Rose, ancora meno mi è piaciuta la banalità con cui sono stati caratterizzati i leader del gruppo rivale, ovvero basandosi sulla classica ironia dei tedeschi come minacciosi e con un fare quasi militaresco.

Insomma, si poteva fare molto di meglio.

E lo stesso discorso vale per la rappresentazione di Flo, personaggio a cui, insieme ai due commentatori, il film affida l’elemento del black humor, risultando personalmente più fastidioso e fuori luogo che effettivamente piacevole.

Non c’è spazio per tutti

Hailee Steinfeld in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Uno dei problemi maggiori di Pitch Perfect 2 è il sovraffollamento della scena.

La sceneggiatura sembra avere per le mani un numero esagerato di personaggi che appare incapace di gestire, portando molti dei secondari fondamentali del precedente capitolo a scomparire sostanzialmente di scena.

È il caso di Stacie – che col nuovo look sulle prime non avevo neanche riconosciuto – ma soprattutto di Jesse, personaggio così fondamentale nel precedente film, in questo nuovo capitolo ridotto ad un minutaggio insignificante, diventando poco più che un figurante.

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Si cerca di dare più spazio a Bumper e Amy, e così alla nuova leva delle Bellas, Emily, ma sinceramente né le loro storie d’amore né i loro personaggi in generale mi hanno detto molto più rispetto al precedente film, anzi in non pochi momenti mi sembravano degli elementi funzionali solo ad allungare il minutaggio.

Ma non è neanche la cosa che mi ha fatto più male.

A cappella?

Le Bellas in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Le esibizioni di Pitch Perfect per la maggior parte non mi sono piaciute.

Mi sono sembrate molto più attente agli effetti speciali e al valore di certi momenti nella storia, più che a portare in scena delle sequenze veramente creative e interessanti, che raccontassero il grande lavoro delle protagoniste per portare la migliore performance possibile.

Anche se lo spettacolo finale dovrebbe essere il punto di arrivo del loro percorso, l’ho trovato veramente poco coinvolgente e molto meno artisticamente interessante rispetto all’analogo momento del primo capitolo.

E sicuramente la regia piatta non ha aiutato…

Pitch Perfect 3 (2017)

Pitch Perfect 3 è riuscito in qualcosa che non mi sarei mai aspettata da questa saga: mi ha profondamente annoiato.

E il cambio di regia ha aiutato meno di quello che credessi…

Un dramma ridondante

Arrivati a questo punto della saga, continuare a mettere le protagoniste all’interno di un ulteriore dramma l’ho trovato piuttosto ridondante, tanto più quando il minutaggio non basta per approfondire neanche la metà dei problemi effettivamente proposti.   

Ma la situazione peggiore è indubbiamente quella di Beca: nonostante sia riuscita ad intraprendere un’interessante carriera nel mondo della produzione, si dimostra incredibilmente immatura – sempre per necessità di trama – nell’incapacità di accettare i compromessi e le difficoltà del suo stesso lavoro.

Sarebbe stato molto più credibile se fosse stato inserito un racconto più articolato di un ambiente di lavoro tossico da cui la protagonista voleva effettivamente fuggire per trovare qualcosa di meglio…

…ma chi ne ha il tempo in soli 90 minuti di film.

Uscire di scena

Uno dei pochi pregi di questo film è la sua capacità di rendersi conto del sovraffollamento dei personaggi in scena, e fare così una buona scrematura iniziale.

Ma non basta.

Anche se i personaggi maschili sono immediatamente congedati – Jesse è lontano tremila chilometri e Bumper è stato semplicemente scaricato da Amy – ancora una volta la pellicola vuole raccontare troppe storie e dare spazio a troppi personaggi.

Così non abbiamo nessun approfondimento del nuovo amore di Chloe, del contrasto col padre di Aubrey, per non parlare dell’assoluta inutilità della nuova relazione di Lilly: storyline totalmente comandate, che dovevano esserci per fare minutaggio, ma che non si ha avuto né il tempo né l’interesse a trattare adeguatamente.

Il conflitto a tutti i costi

Uno dei pilastri della narrazione di Pitch Perfect (e di qualunque film analogo) è il racconto della maturazione delle protagoniste per arrivare allo spettacolo finale.

In Pitch Perfect 3, nonostante ci si provi moltissimo, il conflitto non esiste.

Nell’improvvisato Rip-off all’inizio le protagoniste vengono di fatto umiliate e superate da delle interpretazioni molto più vincenti dei loro concorrenti, andando a suggerire una potenziale difficoltà del gruppo per riuscire ad emergere.

Il problema è che le loro performance sono fin da subito apprezzate, quindi manca di fatto una costruzione della tensione e del dubbio che le Bellas possano non essere scelte da DJ Khaled: sono già evidentemente le più meritevoli.

Il colpo di scena è rappresentato dalla scelta di Beca come solista per aprire il concerto, con un brevissimo conflitto che porta alla più scontatala risoluzione: le Bellas sostengono la protagonista per la sua scelta e finiscono per cantare con lei.

Un momento che dovrebbe essere incredibilmente emozionante, ma che non mi ha emozionato per nulla…

Parliamo (troppo) di Amy

Forse anche per una certa consapevolezza della mancanza della tensione in scena, la pellicola concede tantissimo spazio alla storia di Amy.

Lasciando da parte l’imbarazzo che ho provato per la maggior parte delle sue battute, ho trovato in generale la sua storia, che dovrebbe essere la parte fondamentale del film, incredibilmente noiosa e prevedibile.

Ma in particolare l’ho trovata una storyline dal sapore spy totalmente fuori luogo nel contesto di Pitch Perfect, la cui risoluzione, fra l’altro, era già stata raccontata con un flash forward all’inizio del film.

Insomma, una conclusione di saga che ho trovato molto insapore.

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Il diavolo veste Prada – Una donna troppo intraprendente

Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel è uno dei più grandi cult degli Anni Duemila, ricordato soprattutto per la fantastica performance di Meryl Streep e per aver lanciato la carriera cinematografica di Anne Hathaway.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 326 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Il diavolo veste Prada?

Andy è una giovane ragazza con un sogno: diventare una giornalista per le più importanti testate di New York. Ma la strada per arrivarci è strana quanto perigliosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il diavolo veste Prada?

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Assolutamente sì.

Il diavolo veste Prada è un cult imprescindibile, che riesce a raccontare molto di più sul dramma della femminilità dell’inizio del Millennio (e non solo) di quanto appaia ad una prima visione, con delle performance attoriali indimenticabili e una maturazione della protagonista tipica e atipica insieme…

Al contempo, questa pellicola è un racconto molto lucido delle difficoltà del mondo della moda e, più in generale, della realtà lavorativa statunitense – e non solo – soprattutto per una donna in un mondo dominato dalla visione maschile.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Una ragazza con un sogno

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

L’opening de Il diavolo veste Prada è già di per sé iconico.

Si alternano sullo schermo scene di diverse donne senza nome che si preparano per uscire indossando abiti favolosi e molto chic. Tutto il contrario invece della nostra protagonista, che ha un abbigliamento molto più semplice e – se così vogliamo dire – trasandato.

Quindi fin da subito capiamo un concetto fondamentale: Andy è fuori posto.

Ma non per questo si arrende.

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Nonostante fin da subito sia osteggiata da ogni parte, nonostante sia redarguita e sbeffeggiata per non essere vestita alla moda e per non venerare Miranda, Andy non si perde d’animo ed affronta a testa alta un colloquio che già capisce essere destinato al fallimento.

E ancora, nonostante Miranda la tratti con sufficienza e superiorità, la protagonista si lancia comunque in un racconto sincero e appassionato riguardo le sue capacità di lavorare sodo e di potersi quindi adattare anche ad un contesto così alieno per lei.

E per questo Miranda la sceglie.

Ostilità e epifania

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Fin da subito lavorare per Miranda si rivela un inferno.

Senza alcuna formazione, senza alcuna pietà, Andy viene travolta dal turbine di richieste impossibili e tiranniche che presuppongono che lei conosca già a menadito la rivista, i contatti e le abitudini della sua nuova capa.

Nonostante appaia impacciata, piena di dubbi e fuori posto, la protagonista non si arrende mai, dimostrandosi anzi ben cosciente che tutto quello sforzo è un passaggio necessario per percorrere la via più breve – ma anche più ardua – per conquistare il suo sogno.

L’epifania è l’iconica scena del ceruleo.

Nonostante sembri solo raccontare la cattiveria e la supponenza del personaggio di Miranda, in realtà rivela molto di più.

Miranda non se la prende con Andy perché non ne capisce nulla di moda: piuttosto la critica aspramente per la superficialità con cui sta approcciando il suo nuovo lavoro e l’ambiente di cui fa parte, considerando la moda come una roba che non la riguarda.

Ma proprio la direttrice di Runway le fa comprendere come invece il suo lavoro sia molto più trasversale e penetrante, molto più importante profondo di quanto creda: non solamente uno spreco di soldi per oggetti inutili, ma un’effettiva forma d’arte.

Ma sulle prime Andy questo non lo capisce.

Il diavolo veste Prada Nigel

Anne Hathaway e Stanley Tucci in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

La vera svolta arriva con il dialogo con Nigel.

Dopo l’amaro confronto con Miranda per non essere riuscita a riportarla a casa in tempo per la recita delle sue figlie, Andy si rivolge al braccio destro del suo capo per un conforto, sperando di trovare in lui una spalla su cui piangere.

Invece Nigel la sorprende.

Con il suo sentito monologo, l’uomo le fa comprendere una volta per tutte la faciloneria con cui ha approcciato il suo nuovo lavoro, scegliendo testardamente di non adattarsi e di continuare a sminuire Runway e tutto quello che – come spiega Nigel – effettivamente rappresenta.

La svolta superficiale?

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Con l’atto centrale il film comincia a combattere contro sé stesso.

Se da una parte infatti la sceneggiatura vorrebbe che il cambiamento di abbigliamento di Andy andasse di pari passo con il peggioramento del suo carattere, in realtà questa svolta rappresenta il momento di consapevolezza della protagonista.

Infatti, parallelamente al suo cambio di look, Andy si dimostra anche più spigliata, più sicura, più determinata nello sfruttare effettivamente questa opportunità che le è stata concessa, non scegliendo più di combattere l’ambiente, ma di trarre il meglio dallo stesso.

Ed è anche il momento in cui Miranda la mette maggiormente alla prova.

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Se il primo test di fiducia di Miranda fallisce miseramente – Andy è incapace di portare a termine una commissione così semplice come portare a casa il Book – la donna sceglie di metterla nuovamente alla prova con una missione impossibile quanto punitiva.

In questo modo, infatti, Miranda pensa di dimostrare definitivamente come Andy, pur essendosi adattata al suo mondo, sia comunque un’incapace.

E invece la protagonista incassa una vittoria dopo l’altra: prima superando brillantemente la prova impossibile del manoscritto di Harry Potter, poi dimostrandosi anche migliore di Emily alla Festa di Beneficenza.

Amici…serpenti

Sulla carta Il diavolo veste Prada vorrebbe raccontare come Andy abbandoni i suoi ideali e i suoi affetti, diventando una donna superficiale e spietata.

Nella realtà, vediamo tutt’altro.

Come detto, la protagonista si impegna sempre di più nel suo lavoro, ma non abbandona mai veramente i suoi amici o smette di preoccuparsi per loro, anzi cerca costantemente di conciliare la sua difficoltosa vita lavorativa con la sua sfera privata.

E dimostra anche di essere una buona amica quando ricopre i suoi amici di regali e li incoraggia continuamente nei loro sogni, al contrario degli stessi che si dimostrano costantemente ostili e di fatto poco rispettosi dello sforzo che sta compiendo.

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Ma Nate è il peggiore di tutti.

Il fidanzato di Andy non si impegna mai ad essere veramente supportivo nei suoi confronti, anzi la ostacola costantemente, la fa sentire in colpa per prendere sul serio il suo lavoro, e infine la accusa perfino di non avere una dignità.

Ma il suo punto più basso è indubbiamente sul finale, quando Andy gli dice che ha voltato le spalle alla sua famiglia e ai suoi amici e si chiede per cosa l’ha fatto, e al che Nate risponde

For shoes and shirts and jackets and belts.

Per le scarpe. E le camicette. E le giacche e le cinte.

dimostrando di non aver capito assolutamente nulla.

La vera morale

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Invece la vera morale della storia è racchiusa nel viaggio a Parigi.

Quando Miranda sceglie Andy al posto di Emily per la Settimana della Moda, non lo fa per metterla alla prova per un proprio tornaconto, ma per farle veramente comprendere cosa significa la strada che ha intrapreso, e se sia davvero disposta a percorrerla fino in fondo.

E Andy sceglie ancora una volta di mettere sé stessa al primo posto, dimostrando anche una grande maturità – a differenza dei suoi amici – nel capire finalmente l’importanza del lavoro che sta svolgendo e di quali opportunità le si stiano aprendo davanti.

Al contempo, tuttavia, Andy sceglie anche di distaccarsi da quel covo di vipere che è il mondo che ruota intorno a Miranda, fatto di sotterfugi, pugnalate alle spalle e odio intestino mal celato, scegliendo di aiutare la sua capa, con un’umanità anomala per l’ambiente.

Tuttavia, quando alla fine Miranda le spiana definitivamente la strada per continuare a lavorare per Runway, Andy sceglie di non proseguire fino in fondo: la protagonista non vuole smettere di essere una donna determinata, ma non vuole neanche perdere la sua integrità.

Di fatto Andy continua a seguire il suo sogno, ma alle sue regole.

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Rango – Storia di un eroe a caso

Rango (2011) di Gore Verbinski è un lungometraggio animato che rappresenta un incontro fra il western classico e thriller politico, con un pizzico di surrealismo e un buon impianto metanarrativo.

Anche se sulla carta fu un flop – appena 245 milioni di incasso contro 135 milioni di budget – la Paramount lo considerò un ottimo punto di partenza per fondare il proprio reparto di animazione.

Di cosa parla Rango?

Rango è un camaleonte pieno di sogni, che vive nella ristrettezza del suo terrario, ma che verrà catapultato in una fantastica avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rango?

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Assolutamente sì.

È veramente difficile spiegare Rango a chi non l’ha mai visto: ad una visione più superficiale, potrebbe apparire come una semplicissima avventura per ragazzi dal sapore western, ma ci sono diversi aspetti della pellicola che portano in un’altra direzione…

Senza andare troppo nello specifico, se vorrete intraprendere questa visione, vi consiglio di fare attenzione agli elementi visivi che vengono ripetuti in più momenti durante la pelliclla, specificatamente all’inizio e alla fine.

Potreste rimanere sorpresi…

Senza nome

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Rango è un eroe senza nome.

Un camaleonte che non sa di esserlo – e infatti nessuno degli altri personaggi lo definirà mai tale – incapace di integrarsi, incapace di utilizzare i suoi poteri naturali per cambiare aspetto, ma comunque deciso a vivere l’avventura che lo definisca come eroe.

Gli elementi del suo terrario sono dei placeholder piuttosto deboli, che rappresentano gli elementi fondamentali dell’avventura, particolarmente dell’avventura western: la bella da salvare, il nemico da sconfiggere, il personaggio maschile impossibilitato a proteggere la comunità.

E poi lui, l’eroe della storia.

Disillusione

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Per la maggior parte del film, Rango combatte contro sé stesso.

Per quanto agli inizi si senta totalmente coinvolto dalla storia che lui stesso ha creato, allo stesso modo è completamente consapevole, anzi esplicitamente disilluso dalla totale artificiosità della situazione, definita da pochi, fragilissimi simboli.

Ma è sempre Rango che, appena è gettato nella feroce realtà del deserto, sulle prime sembra totalmente incapace ad integrarsi e a sopravvivere, ma riesce infine, con qualche piccola arguzia, a salvarsi dal falco, e così ad arrivare a Polvere.

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

In questa aspra cittadina di frontiera, Rango si rende conto di poter essere chi vuole, e prende il suo nome da eroe totalmente per caso, da una scritta su un bottiglia. Ed è la sua capacità di interpretare un personaggio profondamente teatrale che convince tutti gli altri della sua sceneggiata.

Ma nel momento in cui è messo alla prova, in cui deve dimostrare effettivamente di essere un eroe, perde in realtà tutto il suo coraggio e riesce assai debolmente a nascondersi dietro alla facciata che lui stesso si è creato.

Ma è la storia stessa che sembra venirgli incontro, regalandogli una serie di colpi di fortuna che riescono effettivamente a rendere credibile la sua maschera.

Un’arida realtà

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

La vicenda politica è la parte più adulta della pellicola.

Piuttosto indovinata l’idea di legare l’elemento di forza del potere politico a qualcosa di così fondamentale per la sopravvivenza – anche se, in realtà, basterebbe sostituire l’acqua con i soldi o il petrolio per dare alla vicenda tutto un altro sapore.

Di fatto il vero nemico della storia non è Jake Sonagli, ma il sindaco, che all’esterno appare come un benefattore della comunità – offrendo ad ogni cittadino un obolo di acqua – ma che nell’ombra agisce con una vera e propria speculazione edilizia.

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Come il più feroce degli imprenditori e strozzini moderni, prende il controllo dell’economia della città e la prosciuga del suo valore, così da poterne prendere possesso e usare quegli spazi per costruire una realtà edilizia ben più vantaggiosa.

Questo elemento è in aperto contrasto con le atmosfere western, ma, storicamente parlando, Rango si pone nel momento che segnò la fine del sogno del Far West, delle città di frontiera e dei cowboy, per lasciare spazio alla più avanguardistica realtà urbana.

Ma il western ha ancora qualcosa da dire.

Una pesante eredità

Jake Sonagli in Rango (2011) di Gore Verbinski

Nella parte centrale e, soprattutto, nel finale, l’avventura western cerca di farsi disperatamente largo in una situazione dove sembra ormai fuori posto.

In primo luogo, tramite la tumultuosa cavalcata per acciuffare i ladri della banca e ritornare come eroi, una lunga sequenza che è forse la parte più specificatamente western della pellicola, e anche la più digeribile per un pubblico infantile.

Ma la stessa si conclude con un brusco ritorno alla realtà, quando si scopre che l’acqua in realtà non era stata veramente rubata: il deposito era già stato prosciugato dal sindaco.

Per quanto Rango cerchi di fare luce su una storia ben più complessa e meno facilmente riconducibile alla classica avventura western che tanto sognava, quest’ultima lo respinge e cerca di buttarlo fuori di scena.

Ed il motore dell’azione è proprio Jake Sonagli.

Questo nemico monumentale, oltre ad essere uno dei villain più terrificanti dell’animazione dello scorso decennio, rappresenta sia il nemico ultimo da combattere per l’eroe, sia la monumentalità del sogno del Far West, che il sindaco vorrebbe spazzare via.

E proprio Jake Sonagli che spoglia Rango della sua neonata identità, gli impedisce di essere l’eroe che aveva sempre sognato – e a cui tutti avevano creduto.

Il meta-sogno

Clint Eastwood in Rango (2011) di Gore Verbinski

L’incontro con Lo spirito del West è la sequenza rivelatoria.

Rango, dopo essere finalmente riuscito a superare la prova finale dell’eroe, quella che aveva sempre temuto, incontra finalmente l’entità che rappresenta il West, nello specifico il genere western.

Ma è molto diversa da quella che si sarebbe aspettato.

Lo spirito del West è di fatto l’altra faccia di Jake Sonagli, un simbolo spogliato del suo sogno: non troviamo infatti un Clint Eastwood nei panni del suo iconico Uomo senza nome, ma piuttosto l’autore che indossa le vesti del suo personaggio, ma che è diventato qualcos’altro.

Lo Spirito del West è infatti l’Eastwood uomo, il regista e l’autore che ha collezionato diversi premi e che può godersi la ricchezza conquistata a bordo di un moderno golf card, ma che comunque non ha mai abbandonato il sogno del Far West.

No man can walk out of his own story.

Nessuno può tirarsi fuori dalla propria storia.

Questa frase emblematica insegna a Rango come possa vivere anche come eroe dei due mondi: il mondo del sogno, del Far West ormai morente, e l’eroe invece più urbano, contemporaneo, che svela le macchinazioni politiche del sindaco e che, infine, salva la comunità.

E al contempo racconta come il protagonista non debba inseguire l’icona di un eroe di parole e simboli, ma piuttosto dimostrare il suo valore tramite azioni veramente risolutive, che lo definiranno effettivamente come il salvatore della città.

Riprendersi il finale

Il finale di Rango è prevedibile quanto inaspettato.

L’elemento inaspettato è rappresentato dall’improbabile alleanza fra Rango e Jake Sonagli, da cui infine il protagonista riceve l’approvazione – e quindi la validazione – come eroe, e che porta il bandito a rivoltarsi verso il vero nemico, il personaggio che vuole distruggere il sogno: il sindaco.

La conclusione prevedibile è il salvataggio della città, in maniera piuttosto rocambolesca, quasi eccessiva, che porta sostanzialmente ad un cambio del paesaggio: il deserto diventa una piacevole spiaggia.

E così, con un discorso esplicitamente metanarrativo, Rango si congeda dalla scena come eroe che deve lasciarsi alle spalle la comunità che ha salvato per cavalcare verso l’orizzonte, verso nuove avventure che consolidino la sua posizione.

Anche se…

Rango finale significato

Il finale di Rango si presta ad una lettura molto più onirica.

Ma non solo il finale: una primissima definizione del personaggio si vede quando, fra i vari salti fra le macchine, il protagonista finisce sul parabrezza di un personaggio molto peculiare, che non è altro che Johnny Depp in Paura e delirio a Las Vegas (1998)

E, proprio a livello metanarrativo, Rango nelle sue prime vesti indossa una camicia molto simile a quella del protagonista della suddetta pellicola, oltre ad essere doppiato proprio da Johnny Depp.

Questo confronto così diretto apre la possibilità ad una ulteriore lettura: e se tutta la storia di Rango non fosse altro che un sogno dello stesso protagonista?

Johnny Depp in Rango (2011) di Gore Verbinski

Secondo questa idea, la trama politica potrebbe derivare da una visione più semplicistica dei discorsi sentiti da Rango dalla bocca dei suoi padroni, la cavalcata sarebbe nient’altro che la messinscena delle visioni dal finestrino mentre in macchina si dirigono verso Las Vegas, che è fra l’altro il luogo rivelatorio dell’intrigo del sindaco.

Una visione confermata dal finale, dove i personaggi si muovono in ambiente che è evidentemente il terrario, sia per lo sfondo con le nuvolette, sia per la presenza degli elementi che definivano lo spazio all’inizio del film.

La palma di plastica, il manichino, il pesce…

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Il velo dipinto – La strada più dura

Il velo dipinto (2006) di John Curran è un dramma storico-romantico con protagonisti Edward Norton e Naomi Watts, remake dell’omonima pellicola del 1934.

Pur con un budget piuttosto contenuto – circa 19 milioni di dollari – fu un pesante flop al botteghino, incassando appena 26 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Il velo dipinto?

Londra, 1925. Kitty è una giovane donna non ancora sposata, che si impegna in un matrimonio di cui non è per nulla convinta, e che la porterà a conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il velo dipinto?

Assolutamente sì.

Il velo dipinto è un film porto nel cuore, per tanti motivi, a partire dall’ottima costruzione del rapporto fra i protagonisti, impreziosita dalla performance di due fantastici attori, e al contempo resa incredibilmente tridimensionale grazie al taglio fortemente crudo e realistico.

Così l’ambiente in cui si muovono i protagonisti è portato in scena con particolare cura e precisione, grazie anche ad una fotografia molto indovinata, nonché una produzione molto consapevole, che ricade il meno possibile negli errori tipici dei drammi storici di produzione statunitense.

Insomma, ve lo consiglio molto.

Arrivare alla rottura

La costruzione del primo atto è magistrale.

La situazione presente si rivela via via nella sua drammaticità e crudezza, con una Kitty sfiancata dal viaggio a cui il marito l’ha costretta, mentre lo stesso si dimostra del tutto indifferente nei suoi confronti, anzi piuttosto vendicativo.

Si alternano quindi le visioni del passato, con un taglio crudelmente realistico: come Walter è convintissimo della sua scelta, Kitty, nonostante cerchi di trovare degli spazi di indipendenza, accetta il matrimonio per non essere schiacciata dalle pressioni sociali che la porterebbero ad essere una sfortunata zitella.

E così rivelazione dei contorni della situazione di arrivo è accompagnata dal puntuale racconto del degrado della situazione nel passato, in cui entrambi i protagonisti sono le vittime: Kitty è la moglie insoddisfatta che cerca l’amore in un uomo che in realtà ha molto poco rispetto di lei.

Al contempo Walter è il marito tradito, ma tradito soprattutto nei sentimenti e nella fiducia, che mette in moto una vendetta che appare più come una autodistruzione, buttandosi a capofitto in un’impresa mortale e distruttiva, con la speranza di annientare sé stesso e la tanto odiata moglie.

La prigione

Lo svolgimento della parte centrale è drammatico per entrambe le parti.

Per quanto incattivito e intestardito, Walter viene più volte preso contropiede dalla tragica situazione con cui si trova a dover combattere, fra il dramma umano di povertà e malattia, e la barriera culturale e linguistica apparentemente insormontabile.

L’asprezza della situazione si rivela proprio nel momento in cui il protagonista comanda di chiudere il pozzo, molto tiepidamente spalleggiato da Colonnello Yu, che dovrebbe essere il suo middleman, ma che lo tratta con grande freddezza e distacco.

Ma il vero dramma è quello di Kitty.

Imprigionata in un paese straniero, impossibilitata a comunicare, osteggiata da tutte le parti, anche in maniera sottilmente maligna dall’apparentemente ospitale Waddington, proprio quando cerca di ristabilire quel flebile contatto con l’unico ricordo ancora integro della sua vecchia vita: Charlie.

In questo senso la protagonista affronta in maniera diversa il conflitto con il marito: prima con atteggiamento passivo-aggressivo, poi, esasperata dalla noia e dalla disperazione, scontrandosi apertamente con Walter, e cercando di ultimo di superare il suo muro di freddezza.

Ma punto di svolta arriva da dove meno se lo poteva aspettare.

Riscoprirsi

Lo snodo narrativo – e spaziale – fondamentale è rappresentato dall’orfanotrofio.

In primo luogo per Kitty, che riscopre una faccia del marito che finora aveva ingenuamente ignorato: il suo lato più umano, morbido, che lo porta a sacrificarsi – letteralmente – per il bene di una comunità, e non solamente per una propria vendetta personale.

Allo stesso modo Walter riscopre la moglie in una luce inaspettata: credendola solo una ragazzina viziata ed egoista, è totalmente sconvolto nel vedere come Kitty come si presti, pur con tutte le difficoltà, a mettersi in gioco per qualcun altro.

In questo senso il lavoro di Kitty all’orfanotrofio è tutto tranne che idilliaco, anzi segue le stesse strade di Walter: incapacità di comunicare, un impegno molto più duro ed impegnativo di quanto si aspettasse, diversi ostacoli lungo la strada.

Ma il momento di effettiva svolta è il salvataggio di Kitty, in una splendida sequenza in cui la donna fugge da una morte sicura per mano dei ribelli, salvata da due uomini che aveva sempre sottovalutato: non solo il marito, ma anche il povero soldato che la fa da guardia del corpo.

La punizione costruttiva

Il terzo atto è costruttivo e punitivo insieme.

Dopo il ricongiungimento fisico, la coppia riesce a ritrovare una riunificazione sul piano emotivo, e anche a raggiungere un’importante consapevolezza: con una certa amarezza, entrambi si rendono conto di aver cercato nell’altro qualcosa che non era semplicemente possibile.

Così Walter riesce effettivamente a portare del bene nella comunità e a farsi accettare grazie alla costruzione dell’acquedotto, che diventa anche argomento di conversazione con Kitty, con la quale si apre anche per un lato della sua vita a cui pensava che la moglie fosse assolutamente indifferente.

Il picco del rincontro emotivo è la scoperta della gravidanza: come Kitty aveva evidentemente paura di un ulteriore allontanamento del marito appena riconquistato, in realtà Walter sceglie consapevolmente di lasciarsi alle spalle gli sbagli di entrambi, e di accettare le scuse della moglie.

Ma è troppo tardi per salvarsi.

Particolarmente straziante tutta la sequenza dedicata alla sua malattia e morte, in cui Kitty si impegna fino all’ultimo nella sua riconfermata fedeltà, portando anche il marito a prendersi le sue colpe per la drammatica situazione in cui ha trascinato entrambi.

L’accettazione del martirio di Walter ha una gestazione molto lenta per Kitty, scandita sulle note agrodolci di À la claire fontaine, che suggellano l’amarezza dell’addio al compagno.

La maturazione di Kitty si vede anche nelle ultime battute del film: nonostante non sia più impegnata sentimentalmente, sceglie consapevolmente di non ricadere nuovamente nella rete di Charlie, e di non diventare ancora una volta una miserabile amante usa e getta…

Il velo dipinto white savior

Con questa recente visione, mi sono resa conto di quanto fosse facile per questa pellicola scadere nel white saviourism, ovvero quella tendenza tutta occidentale di diventare i salvatori di paesi più svantaggiati unicamente per una glorificazione personale.

Tuttavia, penso che Il velo dipinto se la cavi piuttosto bene da questo punto di vista.

Nonostante sia evidentemente un film occidentale pensato per un pubblico occidentale, nonostante i personaggi britannici non vengano mai dipinti come colonizzatori, non godono di una rappresentazione del tutto idealizzata.

In primo luogo, Walter non salva di fatto nulla: non risolve la situazione, aiuta dove può e porta a compimento un piccolo progetto che riesce a venire a capo solo di una parte del problema – per un ostacolo che, fra l’altro, aveva creato lui stesso.

Allo stesso modo il lavoro delle missionarie e la presenza britannica in Cina sono messi in discussione esplicitamente almeno in due punti, pur non sbilanciandosi eccessivamente in senso negativo.

Ma la scelta che più ho apprezzato a livello produttivo è stato il casting, che ha coinvolto figuranti e comparse effettivamente cinesi, un attore internazionale come Anthony Wong e, soprattutto, che ha scelto consapevolmente di non semplificare il problema della barriera linguistica, come invece tipico di altre produzioni analoghe.

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The Darjeeling Limited – Una famiglia a pezzi

The Darjeeling Limited (2007) è uno dei titoli un po’ meno noti della filmografia di Wes Anderson: forse non la sua opera più memorabile, ma comunque impreziosita dalla sua peculiare tecnica e cura registica, oltre ad un’ottima scelta di casting.

Con un budget abbastanza contenuto – 17,5 milioni di dollari – non ottenne grande successo al botteghino: appena 35 milioni in tutto il mondo.

DI cosa parla The Darjeeling Limited?

Francis, Peter e Jack sono tre rampolli figli di una ricca famiglia, che intraprendono un viaggio per ricostruire i rapporti familiari ormai spezzati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Darjeeling Limited?

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

In generale, sì.

Anche se, come detto, non è il titolo più di pregio della filmografia di Wes Anderson, è comunque una pellicola molto piacevole, che ricorda molto da vicino una delle sue prime opere, The Royal Tenenbaums (2001), di cui condivide la tematica principale.

Un film con una durata contenuta e con una storia molto semplice, ma portata in scena con la nota maestria di Anderson nel riuscire a viaggiare fra la commedia e il dramma, con un particolare focus sull’immancabile elemento della morte.

Insomma, non un titolo imperdibile, ma sicuramente essenziale per conoscere a fondo questo fantastico autore.

Uniti per forza

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Nel suo primo atto, The Darjeeling Limited riesce a raccontare in maniera precisa e sottile il rapporto fra i tre fratelli.

Francis è l’entusiasta, che vuole a tutti i costi rimettere insieme questi rapporti familiari ormai spezzati, proprio a causa – ma non solo – della morte del padre e dell’ennesimo abbandono della madre.

Ma prende la via totalmente sbagliata.

Anche in aperta ironia verso la visione occidentale dell’utilizzare l’India come meta per recuperare la propria spiritualità perduta, il piano di Francis si rivela estremamente fragile, quasi infantile nella sua esecuzione, con il picco rappresentato dal furto dei passaporti dei fratelli…

Ritornare ai simboli

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La visione infantile si perpetua anche per altri elementi.

Anzitutto con il comportamento di Peter, che cerca di appropriarsi, come dei feticci, degli oggetti del padre perduto, insistendo nella puerile idea di essere il suo preferito, come cercando di ottenere, anche da morto, l’affetto forse mai ricevuto.

Non solamente gli occhiali, ma anche la tanto desiderata cintura, che continua a passare di mano in mano, e, soprattutto, le valigie, il simbolo più forte di tutta la storia, rappresentante l’ingombrante bagaglio emotivo che i protagonisti devono portarsi dietro.

Anche se sono evidentemente dei bagagli troppo pesanti…

Il risveglio della morte

Quando il terzetto viene cacciato dal treno, simbolicamente perde del tutto una guida, un percorso prestabilito, e decide di abbandonare il viaggio.

La mancanza di una via sicura è simboleggiata già dalla scena in cui il treno, che dovrebbe essere il mezzo di trasporto più sicuro del suo percorso, sbaglia strada e per molto tempo non sa dove andare.

Ma, proprio quando sembra tutto perduto, la famiglia si riunisce nella morte.

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La morte del ragazzino è infatti fondamentale per la risoluzione del trauma: trovandosi nel mezzo di una drammatica situazione familiare, pur essendone inevitabilmente una parte fondamentale, i tre decidono inizialmente di allontanarsene.

Ma, con l’improvvisa e inaspettata inclusione in questa sconosciuta famiglia, distrutta ma unita nel lutto, i tre rivivono l’analogo momento funereo che avrebbe dovuto rimettere insieme il gruppo familiare, ma che non ha fatto altro che confermarne la totale divisione.

Una divisione che si riflette anche nel comportamento degli stessi fratelli nelle loro rispettive relazioni: nessuno di loro riesce a tenere insieme queste neonate famiglie, neanche nei momenti che dovrebbero renderle più unite – come la nascita di un figlio.

Affrontare i traumi

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Il terzo atto si definisce in tre momenti fondamentali.

Il primo è la scelta di Louis di mettersi definitivamente a nudo davanti ai propri fratelli, mostrando le ferite e le cicatrici che rappresentano in maniera simbolica, nonché assai cruda, il deterioramento del loro rapporto.

Infatti, il momento in cui l’uomo si lascia mettere nuove bende dai suoi fratelli, arrivando anche ad ammettere di essersi fatto del male solamente per attirare l’attenzione – e riunire la famiglia – è il motore che porta i protagonisti al confronto fondamentale.

Ovvero, l’incontro con la madre.

Come ci aspettavamo una madre fredda e distante, scopriamo invece una donna estremamente affettuosa con i propri figli, che li tratta anzi come se fossero ancora dei bambini – in particolare nella scena della buonanotte.

Tuttavia, riuscendo a superare il proprio stato infantile e trovando la forza per affrontare la genitrice, i tre fratelli si trovano davanti alla dura quanto schietta verità, raccontata dalla madre stessa: un affetto intenso, ma momentaneo, che può scomparire da un momento all’altro.

E, infatti, il giorno dopo Patrica esce nuovamente dalle loro vite.

Ma in questo modo i tre riescono a non essere più dipendenti dal suo affetto.

The Darjeeling Limited finale

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Ma il momento fondamentale è la liberazione dall’ossessione paterna.

Proprio mentre stanno per risalire sul treno – quindi metaforicamente pronti a continuare la loro vita – i protagonisti decidono di abbandonare per sempre questo bagaglio emotivo così pesante che si sono portati dietro per tutta la vita – e per tutto il viaggio.

E così, dire finalmente addio al padre.

E, proprio per piccoli elementi, ritroviamo i fratelli finalmente riuniti: si interessano finalmente alla storia di Jack – e indirettamente lo comprendono – e lasciano i propri passaporti in mano a Francis, così che sia libero di riorganizzare il viaggio, e, di conseguenza, di consolidare i nuovi legami.

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Indovina chi viene a cena? – Un momento di passaggio

Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer è uno di quei cult senza tempo che riescono a fotografare l’epoca storica in cui sono usciti, ma al contempo rimanere attualissimi negli anni a venire.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 4 milioni di dollari, circa 36 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 56.7 milioni in tutto il mondo – circa 517 oggi.

Di cosa parla Indovina chi viene a cena?

Joey è una ragazza solare e apparentemente molto ingenua: nonostante venga da una famiglia bianca, sceglie di fidanzarsi con John, un uomo nero di grande successo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Indovina chi viene a cena?

Assolutamente sì.

All’interno di un impianto da commedia anche piuttosto leggera, Indovina chi viene a cena? racconta un passaggio fondamentale tra la generazione che pose le basi per superare uno scontro sociale secolare, e i figli della stessa che misero effettivamente in pratica le idee imparate dai genitori.

Infatti, nelle sue ultime battute, la pellicola abbraccia toni più drammatici e seriosi, offrendo diversi punti di riflessione.

Insomma, un manifesto antirazzista ancora attualissimo.

Guardami negli occhi

Il primo atto della pellicola è definito dagli sguardi.

Mentre Joey vive la situazione con la massima serenità, del tutto ignara delle espressioni delle persone che inevitabilmente giudicano le sue scelte relazionali, la regia si sofferma costantemente sulle reazioni dei personaggi con cui i protagonisti vengono a contatto.

Reazioni per la maggior parte dei casi mute, ma definite da espressioni assai eloquenti.

La peculiarità di queste situazioni risiede proprio nel fatto che di per sé la maggior parte delle persone non si sconvolge nel trovarsi davanti un uomo nero, anzi si mostra rispettosa nei suoi confronti chiamandolo dottore

…ma tutto cambia quando Joey annuncia la loro relazione, scatenando perplessità e disapprovazione.

Non vedere i colori

Katharine Houghton in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Joey rappresenta appieno la nuova generazione, cresciuta con ideali più inclusivi e pronta a metterli in pratica.

Una gioventù che manca totalmente di quel peso sociale della discriminazione fra bianchi e neri – in una visione ovviamente molto idealizzata e funzionale – al punto che la protagonista, prima ancora di informare i genitori dell’etnia del suo fidanzato, ne racconta il meraviglioso carattere.

Perché è davvero la prima cosa che vede.

Katharine Hepburn e Spencer Tracy in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

E allo stesso modo i suoi genitori sono del tutto disarmati, non riuscendo a trovare un solo motivo per opporsi al loro matrimonio, che non sia proprio un motivo razziale: John è semplicemente la migliore persona che potrebbero voler vedere al fianco della figlia.

E l’assoluta novità del film è il fatto di non mostrare né visivamente né nei comportamenti un’effettiva differenza fra le due famiglie – anche banalmente non utilizzando stereotipi poco felici – ma rappresentandole proprio come l’una lo specchio dell’altra.

Il primo risveglio

La prima persona che arriva effettivamente ad una consapevolezza positiva è Christina, la madre di Joey.

Ed è una consapevolezza che sopraggiunge nella maniera più brutale.

La donna, pur piena di dubbi, si trova a confrontarsi con Hilary, la sua collega di lavoro, che dimostra tutta il suo malcelato razzismo per la situazione di Joey, portando Christina a rendersi conto di starsi guardando in un orrendo specchio: quella potrebbe essere lei, se continua sulla strada del dubbio.

Per questo infine sceglie di diventare la principale promotrice della scelta della figlia, in primo luogo allontanando un personaggio scomodo come Hilary, ripromettendosi silenziosamente di non aver più certe persone intorno.

Lo scontro generazionale

Roy Glenn in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Il terzo atto è dominato da una regia quasi teatrale, con molte inquadrature fisse e semplici campi-controcampi, in cui i personaggi vengono inquadrati con mezzi primi piani, che li rendono gli assoluti protagonisti della scena, liberi di muoversi nella stessa.

Gli ostacoli al coronamento del sogno dei protagonisti sono due, ovvero i padri.

John Pertince Sr. sembra il personaggio più accanito, ma in realtà è quello che il figlio riesce più facilmente a sconfiggere.

Roy Glenn e Sidney Poitier in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Tramite il loro scontro, il film mostra esplicitamente e per la prima volta la sua vera faccia, delineando un discorso intergenerazionale in cui i padri richiedono rispetto per il mondo che hanno creato e per i sacrifici che hanno fatto per i loro figli.

Ma sono i figli i primi a ribellarsi, e anche violentemente: con una retorica incredibilmente avanguardistica, John rigetta l’idea della colpa di essere nato, facendo ricadere le responsabilità dei sacrifici del padre sul genitore stesso.

Ma la svolta più significativa è quella di Matt.

Mettersi in gioco

Spencer Tracy in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

John mette il futuro suocero davanti ad un aut aut: o accetta in tutto per tutto la relazione della figlia, oppure questo matrimonio non s’ha da fare. Il giovane uomo si dimostra infatti ben più consapevole della fidanzata circa le difficoltà che dovranno affrontare come coppia mista.

E per questo vuole evitare di averne in primo luogo nella sua stessa famiglia.

Portando così Matt ad intraprende una riflessione per nulla scontata – ma non ci saremmo potuti aspettare di meno dal padre di Joey.

Spencer Tracy e Sidney Poitier in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Infatti, le sue riflessioni e le sue paure non sono pregiudizi razziali, ma piuttosto concrete preoccupazioni sul destino incerto e potenzialmente molto difficoltoso della coppia, non riuscendo, fino all’ultimo, ad essere veramente sicuro di volerlo approvare.

Invece alla fine, con un monologo quanto più semplice, quando più attuale possibile, mette finalmente in pratica quegli ideali che ha trasmesso così efficacemente alla figlia.

E così rigetta l’insensato razzismo che vorrebbe dividere una coppia meravigliosa solamente per la diversa pigmentazione della pelle. E proprio grazie a lui finalmente i componenti di questa neonata famiglia possono sedersi ad un tavolo come pari.