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2025 Commedia Dramma familiare Drammatico Film Oscar 2025

A Real Pain – Crocevia

A Real Pain (2024) di Jessie Heisenberg è la sua seconda opera come regista.

A fronte di un budget minuscolo – 3 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 21 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per A Real Pain (2024)

(in nero le vittorie)

Migliore attore non protagonista per Kieran Culkin
Miglior attore protagonista per Jessie Heisenberg

Di cosa parla A Real Pain?

David e Benji sono due cugini statunitensi che viaggiano in Polonia per riscoprire le loro origini ebraiche, in particolare la casa della nonna defunta. Ma è un viaggio o qualcosa di più?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere A Real Pain?

Assolutamente sì.

A Real Pain è uno di quei film di cui ti innamori e non sai neanche perché, finché non ti accorgi che, partendo da una vicenda particolare, si racconta invece una tematica universale e vicinissima allo spettatore, ma senza imporgli nessuna morale.

Infatti la seconda opera da regista di Heisenberg è un semplice spaccato di due protagonisti che affrontano il dolore e cercano salvezza, nonostante la via per la stessa sia più sfumata e complessa di quanto si potevano aspettare.

Insomma, da scoprire assolutamente.

Contrasto

Kieran Culkin in una scena di A Real Pain (2024) di Jessie Heisenberg

L’incipit di A Real Pain è comprensibile solo alla fine.

Mentre Benji è serenamente seduto nella sala d’attesa dell’aeroporto, si rincorrono più sequenze in cui il suo compagno di viaggio, David, cerca di ripercorrere le sue tracce, visibilmente angosciato dalla prospettiva che il cugino sia anche più in ritardo di lui…

…in un inseguimento che sfocia in una definizione apparente.

Infatti, questo contrasto così apparentemente rivelatorio del carattere dei due personaggi – l’uno più disorganizzato e ritardato, l’altro più sereno e puntuale – racconta invece la profonda ansia di David nei confronti di Benji, di non saperlo ritrovare, di non poterlo salvare un’altra volta.

Benji è infatti incontrollabile.

Forza

Kieran Culkin e Jessie Heisemberg in una scena di A Real Pain (2024) di Jessie Heisenberg

Benji è una forza vitale inarrestabile.

Tutta la dinamica iniziale fra i due cugini racconta come David cerchi disperatamente di comprendere, controllare, in qualche misura persino domare il suo quasi fratello, che invece sembra l’unico che possa dettare le regole del gioco, sovrastandolo costantemente con la sua ingombrante presenza.

L’atteggiamento di Benji è infatti un continuo sparo nel buio, un vivere di istinti e senza quell’ossessione per la cautela e la razionalità ad ogni costo che invece infesta la mente di David, sempre pronto a scusarsi per il comportamento fuori luogo del cugino…

…che invece, a sorpresa, è in ogni momento vincente.

Per questo fa così paura.

Vincente

Qual è la salvezza vincente?

David segue una via più sicura, quanto più impegnativa: mettersi sulle spalle la sicurezza di una vita ordinaria, terribilmente borghese, che ai suoi occhi rende giustizia all’eredità dolorosa della sua famiglia, diventando anzi il riscatto della stessa.

Al contrario, Benji abbraccia il caos, vive alla giornata e senza meta, coglie ogni occasione per sbaragliare le carte in tavola e, al contempo, è capace di scoprire più da vicino i profondi sentimenti di ogni persona con cui si interfaccia, riuscendo a dirgli non quello che vorrebbe, ma quello di cui ha bisogno in quel momento.

 Jessie Heisemberg in una scena di A Real Pain (2024) di Jessie Heisenberg

Uno slancio che potrebbe tradursi un’altra rovinosa caduta, impressa indelebilmente nella memoria del cugino, che ha visto Benji distruggere se stesso proprio nel suo non trovare una destinazione sicura, nel suo vivere in qualche modo la vita degli altri, senza mai prendere una decisione per la propria.

E questo viaggio non lo salverà.

Crocevia

David – e lo spettatore stesso – si aspetta una redenzione di Benji.

Il viaggio dovrebbe infatti essere l’occasione per riscoprire la radice del dolore, e per saperlo così affrontare e, finalmente, domare, attraverso un percorso di simboli – come la pietra sulla tomba – che non hanno significato se non per i protagonisti stessi.

Invece l’ordinarietà della casa della nonna racconta come la salvezza alla fine del viaggio sia solo un’illusione, e che lo stesso non è altro che uno spaccato doloroso di una storia che non ha ancora trovato una propria conclusione, ma che anzi ritorna inevitabilmente al punto di partenza.

Kieran Culkin e Jessie Heisemberg in una scena di A Real Pain (2024) di Jessie Heisenberg

Proprio per questo è tanto più significativo che infine David cerchi ancora una volta di ricondurre Benji ad una destinazione sicura, prima con lo schiaffo che pensa possa essere il momento del risveglio, poi con l’invito a far parte della sua ordinarietà controllata.

Ma non è ancora il momento di Benji.

Come David infatti ritorna ad una realtà solida e sicura, e rende la pietra memoriale della nonna un altro piccolo tassello per la costruzione della stessa, al contrario il più scapestrato cugino si ferma proprio nel luogo che rappresenta di più la sua attuale condizione.

L’aeroporto è infatti un crocevia che apre a più vite possibili, il luogo per chi ancora una scelta non l’ha fatta…

…restando ad osservare la più sicura esistenza di chi li circonda.

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2024 2025 Drammatico Film Thriller

Conclave – Un intrigo di chiesa

Conclave (2024) di Edward Berger è un thriller politico ambientato nella Città del Vaticano.

A fronte di un budget medio – 20 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: quasi 100 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Conclave (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore attore protagonista per Ralph Phinnes
Miglior attrice non protagonista per Isabella Rossellini
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior colonna sonora originale
Migliore scenografia
Migliori costumi

Di cosa parla Conclave?

Con la morte del precedente Papa, si dà il via alla Conclave per scegliere il suo successore. Eppure è una questione più di politica che di fede…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Conclave?

Ralph Fiennes in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

Assolutamente sì.

Nonostante dall’esterno potrebbe apparire come un film acchiappa pubblico con un cast internazionale di star di richiamo per una vicenda scandalistica che ammicca al desiderio proibito di scoprire i dietro le quinte della Chiesa…

…al contrario, forse anche per la produzione europea, il film riesce ad essere un ottimo intrigo politico che abbraccia l’identità italiana senza stereotipizzarla, riuscendo a modulare l’utilizzo della lingua e delle dinamiche politiche senza fare un discorso fine a sé stesso, anzi.

Insomma, da riscoprire.

Atmosfera

Ralph Fiennes in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

Un elemento fondamentale – e per me piuttosto sorprendente – è come Conclave sia riuscito consapevolmente ad abbracciare l’ambientazione.

Infatti la pellicola si concede non pochi momenti per offrire ampie vedute interne ed esterne dei luoghi della vicenda, proprio per non ridurla ad una piccola vicenda fra uomini, ma anzi ad enfatizzarne l’importanza nello scacchiere politico.

Ralph Fiennes e Stanley Tucci in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

Inoltre, il regista dimostra una particolare consapevolezza dell’ambientazione per due aspetti: i rumori bianchi – il chiacchiericcio molto italiano, lo stridore della macchinetta del caffè… – e, più in generale, elementi di italianità molto specifici, soprattutto nelle scene della mensa – come il grana sparso sui tortellini.

Al contempo, la pellicola non si impigrisce sul lato linguistico, facendo parlare i suoi interpreti solo in inglese, ma anzi spazia fra le varie lingue proprio a raccontare l’ampia realtà della Chiesa e la sua portata internazionale, fra inglese, italiano, spagnolo e persino molti momenti in latino.

E con queste premesse…

Politico?

Ralph Fiennes in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

La vicenda di Conclave è tutta politica.

Nonostante inizialmente siamo accompagnati all‘importante momento di passaggio per il Vaticano dalla figura del Cardinale Lawrence, lo stesso appare come una figura di contorno, che non ha alcun interesse a prendere posizione, anzi preferirebbe di gran lunga rimanere in disparte…

…nonostante venga costantemente messo in mezzo.

Ralph Fiennes in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

Non a caso la sua omelia di apertura, espressa principalmente in latino, vorrebbe ricondurre la Conclave ad un discorso di fede e di religione, quindi del tutto avulsa da questioni invece più terrene e umane, che al contrario diventeranno le protagoniste della scena…

…e di cui Lawrence diventerà il principale esecutore.

Altarini

La vicenda si Conclave è scandita da una sistematica rivelazione degli altarini.

Infatti, più Lawrence si immerge in questa vicenda del tutto umana, anzi piuttosto spinosa, più si ritrova a dover difendere la solidità della Chiesa dal punto di vista confessionale, volendo tenere lontano dalla Cattedra personaggi di dubbio gusto che farebbero solo del male all’Istituzione.

Ed è anche più interessante osservare come le vittime della sua indagine siano solo i candidati che si siano macchiati di crimini che andrebbero ad infangare la fama della Chiesa – simonia, violazione dei voti di castità… – ma non comprendano un personaggio estremo come il Cardinale Tedesco.

Lo stesso infatti non ha alcuna colpa se non il suo intestardirsi nell’idea di voler riportare la Chiesa alle sue radici più conservatrici e reazionarie, tanto da arrivare a voler annunciare una guerra santa nei confronti di un presunto nemico della Confessione: l’Islam.

E, inevitabilmente, la lotta è a due…

…oppure no?

Terreno

Lawrence non vuole essere Papa.

Più volte durante la pellicola i dubbi, financo le reazioni scomposte davanti a questa prospettiva, lo identificano come il candidato perfetto per questa posizione, proprio nel suo non volerla ricercare, nel suo non avere mire politiche ed autoritarie.

Eppure, neanche lui è la risposta che la Chiesa sta cercando.

Introdotto inizialmente come elemento di disturbo, il Cardinale O’Malley rimane saldo ai margini della scena per la maggior parte della pellicola, diventando centrale solo nella sua denuncia della gretta realtà del Conclave: un gruppo di uomini piccoli, arroccati nei loro palazzi d’oro, lontani dagli ideali della Chiesa povera e vicina agli ultimi.

E la sua scelta come nuovo Papa è significativa anche per l’ultimo segreto svelato da Lawrence: l’intersessualità del neo eletto Innocenzio, che ha scelto consapevolmente di non abbandonare, anzi di abbracciare come un dono di Dio che apra la Chiesa ad una visione più ampia e inclusiva, adattandosi alla sempre più stringente attualità.

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Avventura Bong Joon-ho Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film

The Host – La responsabilità mostruosa

The Host (2006) di Bong Joon-ho è un film di fantascienza che anticipò molti temi importanti della nostra contemporaneità.

A fronte di un budget molto piccolo – circa 11 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale, con quasi 90 milioni di incasso.

Di cosa parla The Host?

In un laboratorio di Seul, una coppia di scienziati sceglie di versare nel fiume una sostanza tossica, perché tanto che vuoi che succeda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Host?

Assolutamente sì.

Come altri titoli della filmografia di Bong Joon-ho, The Host vuole raccontare molto più di quello che sembra: pur seguendo – e, spesso, smentendo – i canoni classici del genere, il cineasta coreano amplia la narrazione in più direzioni, a suo modo anche molto avanguardistiche.

Infatti, davanti ad una trama tutto sommato molto lineare, si sviluppa una narrazione sotterranea che in realtà, se si coglie la giusta linea interpretativa, è altrettanto intuitiva, e che riflette lucidamente su un tema fondamentale del nostro secolo.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Colpa

La colpa è nostra.

L’antefatto della vicenda sembra la classica introduzione di un monster movie in cui un gruppo di personaggi diventa inconsapevolmente la causa della creazione della minaccia protagonista, in questo caso versando liquidi tossici nel fiume senza la minima consapevolezza delle conseguenze.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Ma c’è molto di più.

Abbracciando la lettura per cui The Host è in realtà uno spaccato dell’inconsapevolezza umana davanti al disastro ambientale a cui sta sottoponendo il proprio pianeta, l’incipit della vicenda racconta come l’umanità inquini il suo habitat nella plateale illusione di non doverne mai subire le conseguenze.

Ma, appunto, è solo l’inizio.

Dormiente

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

L’introduzione di Park Gang-du ha due funzioni.

Dal punto di vista puramente narrativo, la stessa è l’esempio principe di come tratteggiare un personaggio utilizzando unicamente il linguaggio visivo: il protagonista è inerte, un danno e un peso per la sua famiglia – dai cui la testa pesante che deve essere sollevata per prelevare il denaro per gestire il negozio…

…insomma, non è l’eroe di cui avremmo bisogno.

Ma c’è di più.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Park Gang-du prosegue puntualmente il racconto dell’inconsapevolezza umana, ora unendosi alla tragica quanto emblematica folla che alimenta stupidamente il mostro appena questo si palesa dall’acqua, inquinando deliberatamente un habitat già pesantemente aggredito dalla sua presenza…

…ora quando non riesce a salvare la figlia, e, per esteso, quando non riesce a preservare, a condurre la sua stessa specie verso il futuro, diventando costantemente vittima della sua incapacità di gestire la situazione, conducendo in salvo la persona sbagliata.

Eppure, non è solo.

Mostrare

La più grande sfida al genere di The Host è la gestione del mostro.

Tipicamente lo stesso viene progressivamente rivelato lungo la pellicola, proprio per alimentare la curiosità dello spettatore che lo scopre pezzo per pezzo, dettaglio per dettaglio – come film fondativi del genere, fra cui The Thing (1982), insegnano.

Al contrario, Bong Joon-ho sceglie di mostrare la creatura fin da subito, proprio a raccontare come si tratti di un problema estremamente evidente davanti agli occhi di un’umanità inconsapevole che cerca di contrastarla disordinatamente e in maniera sempre più inefficace.

Ma la nostra attenzione è altrove.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Il litigio della famiglia riunita davanti alla morte della piccola Hyun-seo racconta, da una parte, come egoisticamente ci azzuffiamo fra di noi per pure egoismo e ripicca, senza riuscire ad avere uno sguardo d’insieme che ci permetta di affrontare la minaccia.

Dall’altra, la reazione sciacallica dei giornalisti racconta come la collettività dia importanza all’aspetto più sbagliato, più frivolo della vicenda, o, meglio, alle sue lacrimose conseguenze, incapace però di riflettere sulla radice del problema.

Ma, di fatto, qual è il problema?

Problema

La via per la risoluzione è totalmente ingannevole.

La scelta infatti di ridurre la minaccia ad un unico elemento – il virus – racconta proprio come l’umanità cerchi di concentrare la sua attenzione su un unico problema che, una volta eliminato, risolverebbe la totalità della situazione con il minimo sforzo. 

E invece, la consapevolezza che questo virus non esiste è significativa per raccontare come si tratti di un problema fantasma, uno specchietto per le allodole che banalizza terribilmente la complessità della crisi climatica e ambientale che stiamo vivendo.

Per questo l’unico modo per affrontarlo è facendo fronte comune.

Scelta

La famiglia Park è distrutta internamente.

Il nucleo familiare è raccontato fin da subito come fragilmente tenuto insieme dalla figura del patriarca, rappresentativo della vecchia generazione che racconta la consapevolezza delle sue colpe nei confronti dei figli – aver fatto crescere debolmente Gang-du…

…e, al contempo, del rispetto delle autorità che costantemente le si mettono contro.

E infatti la sua morte è causa della definitiva dispersione dei personaggi, i cui sforzi singoli e maldestri raccontano un’umanità che agisce individualmente con timidi e poco pensati passi nella giusta direzione, che diventano effettivamente risolutivi quando si uniscono le forze.

Ma la conclusione non è del tutto felice.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Nonostante gli ampi sforzi di tutti i personaggi, gli stessi non riescono a salvare la nuova generazione – Hyun-seo – ma un altro, apparentemente secondario personaggio, risultato di un’eredità mutilata: il giovanissimo amico della figlia defunta.

Infatti la chiusura della pellicola è rappresentativa della via felice della collettività, che smette di concentrarsi sulle conseguenze delle sue colpe – il chiassoso notiziario – ma di coltivare invece una generazione orfana e profondamente scossa internamente…

…ma che, tutto sommato, può essere ancora salvata.

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2024 2025 Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Musical Oscar 2025 Surreale

Emilia Pérez – La bizzarra seconda occasione

Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard è un musical con protagoniste Zoe Saldana e Karla Sofía Gascón.

A fronte di un budget discreto – 21 milioni di euro – è stato un pesante insuccesso commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.

Candidature Oscar 2025 per Emilia Pérez (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Miglior film internazionale
Migliore regista
Miglior attrice protagonista per Karla Sofía Gascón
Migliore attrice non protagonista per Zoe Saldana
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior fotografia
Migliore colonna sonora originale
Migliore canzone originale
Miglior trucco e acconciatura
Migliore sonoro

Di cosa parla Emilia Pérez?

Rita è un’avvocata praticante sistematicamente sfruttata dal suo studio legale. Ma un’occasione di riscatto è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Emilia Pérez?

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

In generale, sì.

Emilia Pérez è stato, fra le altre cose, ampiamente discusso per il taglio narrativo, che presenta non pochi inserti musicali piuttosto bizzarri, che rendono la narrazione al limite del fantastico, del teatrale, pur raccontando tutto sommato una storia molto semplice.

Infatti, se riuscirete a digerire la particolarità del lato musical, potreste arrivare ad apprezzare una pellicola che infine non è altro che un dramma piuttosto toccante sulla seconda occasione di personaggio insospettabile: un boss di un cartello della droga messicano.

Insomma, dategli una chance.

Spaesamento

Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Personalmente, ho mal digerito l’elemento musicale di Emilia Pérez.

Ma forse è proprio questo il punto.

Fin dalle sue primissime battute la pellicola gioca su questo peculiare contrasto fra un racconto piuttosto amaro e angosciante, che esplode improvvisamente in numeri musicali più propri forse del teatro che del cinema, soprattutto per le sue coreografie decisamente bizzarre.

Selena Gomez in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

L’elemento musicale è inoltre uno strumento fondamentale per definire la protagonista, che ci appare in prima battuta come una spietata boss del crimine, ma che nel cantato esprime i suoi più intimi sentimenti di cambiamento, di cui la transizione è solo il primo passo.

E proprio qui si sviluppa il discorso cardine della pellicola.

Rinascita

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Emilia vuole rinascere.

La nuova vita che la protagonista regala a Rita è solamente il primo passo della sua sistematica ridefinizione del sé, che la porta a ripercorrere le strade già battute della scena criminale messicana, ma in una veste del tutto nuova: non più aguzzina, ma salvatrice di un popolo di oppressi.

E la protagonista vuole raccontarsi in questa nuova identità anche nei confronti della famiglia che ha di fatto abbandonato, ma con cui cerca di ricongiungersi proprio nella sua immagine di salvatrice di un nucleo affettivo profondamente colpito dall’abbandono del padre.

Un tentativo di riappacificazione piuttosto disordinato e disattento, in cui Emilia sembra incapace di mantenere intatta questa nuova identità, dimostrandosi cambiata di aspetto ma non di atteggiamento, continuando a comportarsi con i suoi figli e, soprattutto, con la moglie, come se nulla fosse successo.

Infatti, il suo linguaggio è rivelatorio.

Passato

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Emilia può davvero rinascere?

Nonostante i buoni sentimenti del suo progetto, la protagonista ricade ripetutamente in comportamenti che l’avevano definita nel passato, con il linguaggio della violenza domina costantemente la scena, persino in opere di bene come il salvataggio della vedova…

Karla Sofía Gascón e Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Un comportamento che si riflette in grande nella scelta dei benefattori per la sua causa umanitaria, in piccolo nel rapporto con la sua famiglia, da cui si rifiuta di separarsi, vivendo il nuovo matrimonio della moglie – e la sua personale rinascita – come un profondo ed imperdonabile tradimento.

Ma violenza è da entrambe le parti.

La stessa Jessi è cresciuta in un contesto in cui la violenza è la moneta di scambio, rispondendo colpo su colpo ai beceri tentativi di Emilia di limitare la sua libertà, la sua autodeterminazione, in un disordinato ultimo atto che porta tutti i protagonisti all’inevitabile autodistruzione.

E la chiusura della pellicola è assolutamente emblematica nel suo essere volutamente grottesca mentre mostra Emilia Pérez definitivamente consacrata nel suo ruolo di salvatrice, con tratti volutamente cristologici, raccontando come un cambiamento, tutto sommato, sia effettivamente avvenuto.

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Biopic Dramma storico Drammatico Film Oscar 2025

The Apprentice – Tagliare il filo

The Apprentice (2024) di Ali Abbasi è un biopic dedicato ai primi anni dell’ascesa di Donald Trump.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 16 milioni di dollari – è stato un pesante flop commerciale, riuscendo a malapena a superare i costi di produzione.

Candidature Oscar 2025 per The Apprentice (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior attore protagonista per Sebastian Stan
Miglior attore non protagonista per Jeremy Strong

Di cosa parla The Apprentice?

New York, 1973. Donald Trump è un giovane immobiliarista che gestisce gli appartamenti del padre. Ma un incontro fortuito gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea: 

Vale la pena di vedere The Apprentice?

Sebastian Stan nei panni di Trump in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Assolutamente sì.

The Apprentice aveva l’arduo compito di tratteggiare le origini di un personaggio molto controverso e già di per sé estremamente parodiabile, senza però scadere in un taglio ridicolo che non avrebbe aggiunto niente ad una storia che il pubblico conosce già.

E ci è riuscito: Sebastian Stan, già da tempo allontanatosi dalla scena più mainstream, riesce a portare in scena il giovane magnate mantenendone i tratti distintivi, ma senza mai esasperarli – anche perché non v’è né alcun bisogno.

Insomma, da recuperare.

Improvvisato

Sebastian Stan nei panni di Trump in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

La situazione iniziale di Trump appare davvero sconclusionata.

Per quanto il protagonista voglia raccontarsi come un brillante imprenditore, la sua vita è in realtà scandita dalla sua totale impreparazione nella gestione ora degli appartamenti del padre – in cui si scontra con una schiera di personaggi di dubbio gusto – ora della causa che la sua famiglia è costretta a subire.

Sebastian Stan nei panni di Trump in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Insomma, in questo frangente The Apprentice segna un punto di partenza fondamentale per la narrazione, smentendo la naturale predisposizione per gli affari che il personaggio millanta di sé stesso, raccontandolo invece nella sua totale incapacità nel gestire anche solo una realtà immobiliare così piccola.

Per questo Roy Cohn è la chiave del suo successo.

Vincere

Jeremy Strong in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Roy è un vincente.

La costruzione del suo personaggio è minuziosa, basata sulla profonda consapevolezza che l’apparenza è la chiave della vittoria: Roy non è realmente un vincitore, ma sembra un vincitore, e per questo tutti vogliono essergli amici, tutti vogliono essere inclusi nella sua aura benefica.

E infatti i rapporti sono molto più importanti dei soldi.

Jeremy Strong e Sebastian Stan in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Il suo personaggio sceglie di prendere sotto la sua ala un giovane promettente a cui insegna tutti i trucchi per sfoggiare un’apparenza sgargiante e desiderabile, scegliendo consapevolmente di non accettare i suoi soldi – che Donald fra l’altro non ha…

…investendo così nel futuro.

Ma Donald forse non è il cavallo giusto su cui puntare.

Ombra

Jeremy Strong e Sebastian Stan in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Donald non è capace di agire nell’ombra.

Il panorama sociale che ruota intorno a Roy è basato unicamente su un’apparenza così fragile che basta un qualunque, maligno pettegolezzo per essere minata, motivo per cui l’abile avvocato si premura di munirsi di tutti gli strumenti necessari per forzare tutte le situazioni a suo favore..

E Donald ne è totalmente disorientato, come ben racconta il caos della festa da cui viene assorbito, e in cui scopre quando la figura di Roy sia artefatta, proprio svelandola nella sua intrinseca contraddizione: come l’omosessualità segreta è un’arma facilmente utilizzabile contro i suoi nemici…

…la stessa è un segreto neanche troppo nascosto dello stesso Roy.

E questo precario equilibrio di apparenze e mosse calcolate è una strada che Trump non è capace di percorrere.

Eccesso

Sebastian Stan nei panni di Trump in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Trump vive di eccessi.

Come gli viene data la spinta iniziale per promuovere la sua prima, grande impresa immobiliare – la Trump Tower – il protagonista, nonostante gli avvertimenti Roy, si lancia in maniera sconsiderata in infiniti nuovi progetti che servono solo ad alimentare il suo ego.

In questo senso il film ben racconta come Trump non avesse l’intelligenza di scegliere le imprese che lo potessero meglio rappresentare, finendo per costruirsi l’immagine di miliardario sguaiato e senza freni, che si associa semplicemente a ogni proposta che possa diventare un’ulteriore macchina dei soldi…

…nella totale inconsapevolezza e ignoranza.

Infatti, per quanto il protagonista abbia compreso l’importanza delle apparenze, le costruisce nel modo più sbagliato: come Roy si allena ogni giorno per avere un fisico scattante, Trump si sottopone ad orribili e deleterie operazioni chirurgiche per perdere peso, come Roy mantiene un aspetto asciutto e controllato…

…i primi anni dell’ascesa di Trump raccontano già l’immagine – fra il cerone e il trapianto di capelli – quasi parodistica che fece di sé stesso.

E, infine, si riscrive pure in maniera ben poco credibile.

L’intervista finale racconta molto bene come, arrivati a questo punto, Trump si senta invincibile, e di come conseguentemente, nel suo sconfinato egocentrismo, diventi del tutto dimentico degli aiuti esterni che l’hanno portato nella sua attuale posizione…

…dando il merito del suo successo al proprio istinto rapace che l’ha definito come vincente.

E il resto è storia.

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2024 Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Oscar 2025

The Brutalist – L’impossibilità della costruzione

The Brutalist (2024) di Brady Corbet è un dramma storico con protagonista Adrien Brody.

A fronte di un budget di circa 10 milioni di dollari, è già un buon successo commerciale: 25 milioni di dollari in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per The Brutalist (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Miglior regista
Migliore attore protagonista per Adrien Brody
Migliore attore non protagonista per Guy Pearce
Miglior attrice non protagonista per Felicity Jones
Migliore sceneggiatura originale
Miglior fotografia
Migliore colonna sonora originale
Migliore montaggio
Miglior scenografia

Di cosa parla The Brutalist?

László Tóth è un architetto ebreo che, salvatosi dallo sterminio nazista, emigra negli Stati Uniti. Ma l’accoglienza è solo apparentemente calorosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Brutalist?

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

In generale, sì.

Purtroppo non riesco ad unirmi al coro di entusiasmo riguardo a questa pellicola, che ho sentito, per via delle tematiche raccontate, profondamente lontana da me, oltre che per certi versi inutilmente prolissa nella narrazione di un tema che mi sembrava già ampiamente esplorato già a metà della visione.

Tuttavia, non ne posso che riconoscere l’importanza artistica e soprattutto storica, che si collega drammaticamente alla contemporaneità con un taglio narrativo a tratti straziante, genuinamente disturbante, anche grazie agli ottimi attori protagonisti. 

Salvo

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

László è salvo…?

L’arrivo negli Stati Uniti è accompagnato da un sincero entusiasmo, che sembra confermato anche dalla calorosa accoglienza da parte di Attila, che si accompagna alla felice notizia della sopravvivenza della moglie, che ormai il protagonista pensava perduta.

Tuttavia, già qui troviamo degli elementi discordanti.

Nonostante la coppia sembri accogliere László con grande altruismo, lo stesso Attila racconta l’inevitabile cambio di passo della comunità ebraica, costretta a mutare faccia e natura per farsi accettare dagli Stati Uniti, solo apparentemente accoglienti nei confronti dei rifugiati.

Un’insofferenza sotterranea che esplode in concomitanza con l’incidente della famiglia Harrison, e che si aggrava con le accuse infondate da parte della moglie del cugino, che porta il protagonista ad essere definitivamente messo ai margini.

Ma una redenzione è forse dietro l’angolo…

Discrepanza

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

Il crescendo del rapporto con Harrison è solo un’ulteriore conferma della discordanza che domina la vita di László.

La stessa rappresenta in piccolo l’atteggiamento occidentale nei confronti della comunità ebraica, verso la quale riconosceva un’importante responsabilità, e che era effettivamente desiderosa di riscoprire per il capitale intellettuale racchiuso nella stessa, ma senza mai renderla sua pari.

Non a caso, il progetto può essere riletto come una rappresentazione della fondazione della stessa Israele, ma che si accompagna ad una sostanziale marginalizzazione degli ebrei: come László è a parole elogiato e premiato, nelle retrovie già solo la sua rozza sistemazione è indice del vero sentimento della famiglia che lo ospita.

E l’arrivo della moglie è l’inizio dell’ecatombe.

Rimorso

Adrien Brody e Felicity Jones in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

Più mi avvicinavo alla seconda parte del film, meno riuscivo a raccapezzarmi della sua storia.

E vorrei dire che l’elemento che più mi ha confuso sia a moglie, ma la stessa alla fine è del tutto comprensibile nel contesto del film: per me è abbastanza immediata l’associazione metaforica fra la Erzsébet e il peso delle radici che il protagonista deve portarsi sulle spalle in maniera piuttosto opprimente.

La lettura può proseguire anche in altre direzioni: un’eredità mutilata e che, nonostante le speranze, non potrà mai veramente rimarginarsi, e al contempo il sentimento di imposizione rappresentato, in maniera più o meno condivisibile, tramite lo stupro da parte di una donna – e di un simbolo – che è diventato insopportabile.

È tutto il resto che mi confonde terribilmente.

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

L’andamento della seconda parte l’ho trovato per molti versi superfluo, inutilmente prolisso nel raccontare, anzi nel sottolineare una narrazione simbolica che mi sembrava già conclusa un’ora prima, un’esasperazione di quanto già visto con un’ulteriore scena di violenza sessuale.

Quello che mi è risultato chiaro è quanto personale ed identitaria fosse diventata la costruzione per László, tanto da investirci finanze proprie per concludere un progetto rappresentativo della sua riaffermazione sociale, tramite la ricostruzione di uno spazio che gli era stato sottratto negli anni della guerra…

…che mi allontana ancora di più dalla pellicola.

Universale?

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

La mancanza di interesse nei confronti di una tematica non è un difetto dell’opera…

…ma non posso che sottolinearla.

Nonostante il regista abbia tentato di ricondurre la narrazione ad un tema più universale e contemporaneo – il dramma dell’immigrazione – purtroppo proprio per specificità sopra descritte, l’ho trovata al contrario una narrazione su una tematica estremamente specifica e definita dal periodo storico.

Guy Pierce in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

A questo si aggiunge un racconto che, nel suo ultimo atto, non è mai riuscito a coinvolgermi, anche perché la narrazione mi appariva un continuo avanti e indietro, che porta ad un finale enigmatico per più motivi: Harrison viene assorbito dalla costruzione di László, e per estensione, da lui stesso? E se sì, perché?

E, ancora di più, cosa intende raccontarci il finale? Che nonostante il turbolento percorso, alla fine László è l’unico che ne è uscito vittorioso?

Concludo la visione con più domande che risposte, e poco interesse a scoprire quest’ultime.

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2024 Commedia Dramma romantico Drammatico Film Oscar 2025

Anora – Sotto una superficie triviale

Anora (2024) di Sean Beaker è un film drammatico con protagonista Mikey Madison.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 6 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 36 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Anora (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore regista
Miglior attrice protagonista per Mickey Madison

Migliore attore non protagonista per Jurij Borisov
Migliore sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Anora?

Anora è una spogliarellista che sembra aver trovato la sua gallina dalle uova d’oro: un giovanissimo ereditiere russo che sembra innamorato perso di lei…?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Anora?

Mikey Madison e Mark Eydelshteyn in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Assolutamente sì.

Anora è uno di quei film che sembrano percorrere strade già ampiamente battute, ma che invece riesce ad ogni passo a sorprenderti con un rapporto molto più crudo e reale di quello che potrebbe sembrare ad una prima occhiata.

Infatti la pellicola è definita da una trama più superficiale, in cui la protagonista è una ragazza senza alcun tipo di vergogna e di remora nello sfruttare le situazioni a suo vantaggio, e una trama più sotterranea e toccante tutta da scoprire.

Sorriso

Mikey Madison in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Anora affronta la sua vita con il sorriso.

La prima inquadratura ci trasporta in un panorama umano piuttosto desolante, in cui ragazze giovanissime diventano prede di un gruppo di uomini allupati, che per un semplice balletto erotico le riempiono di centoni come se nulla fosse.

Ma già da questo frangente emergono le prime crepe.

Mikey Madison in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Nonostante la protagonista sfoggi sempre un sorriso smagliante, già dalla sua intensa ricerca del prossimo cliente emerge come il suo non sia un lavoro di piacere, ma di sopravvivenza, dove le sue entrate dipendono da quanto riesce a raccogliere ogni sera.

E, per comprendere la relazione con Vanja, è importante considerare anche un altro elemento.

Potere

Mikey Madison e Mark Eydelshteyn in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Non sono i clienti ad avere potere su Ani, ma il contrario…

…o almeno è quello che lei vorrebbe far credere a se stessa.

Appare evidente fin dal primo incontro con il suo futuro marito che Ani giochi molto con le aspettative dei clienti e con il loro gusto per il proibito, proprio per come racconta furbescamente il suo strusciarsi sul loro pacco come una cosa speciale e vietata che fa solo per Vanja.

Mikey Madison e Mark Eydelshteyn in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

E tutte le interazioni successive fra i due mostrano come la protagonista illuda se stessa di avere il totale controllo della situazione, in cui lascia che sia il ragazzo a far di lei quello che vuole, mentre lei ridacchia sommessamente per quanto lo trova ridicolo.

E la situazione si complica solo apparentemente nella settimana di esclusiva, in cui Ani diventa la fidanzata trofeo del giovane miliardario, che però non si limita alle prestazioni sessuali, ma ad un intenso periodo di frequentazione in compagnia dei suoi amici.

Ma è il matrimonio che rovina tutto.

Sogno

Mikey Madison e Mark Eydelshteyn in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Dall’esterno, Ani vuol far credere a tutti di essere semplicemente felice di aver trovato un riccone da spennare a suo piacimento…

…ma i suoi comportamenti raccontano altro.

La protagonista cerca di rimodellare la loro relazione così che non sia più un rapporto di clientela, ma di sincero affetto che Ani è convinta che il ragazzo provi nei suoi confronti, partendo proprio dalla sfera erotica.

Infatti fino a questo momento Vanja, anche senza malizia, si era avventato su di lei quasi come se volesse esibirsi, probabilmente ubriaco di un immaginario pornografico del tutto fuorviante…

Mikey Madison in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

…e infine Ani cerca di educarlo perché entrambi si godano veramente l’atto sessuale.

In linea generale, per lungo tempo la protagonista continua a trattare il suo compagno come un bambino che deve essere guidato, forte anche del fatto che Vanja non abbia mai comportamenti predominanti nei suoi confronti, e che il suo innamoramento sembra sincero.

Sembra…

Prova

Mikey Madison in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Anora ha una visione univoca del mondo.

Abituata a farsi sfruttare da ogni uomo della sua vita – con l’apparente eccezione di Vanja – è drammaticamente comprensibile la sua reazione all’arrivo dei sicari della famiglia Zacharov, nonostante gli stessi siano tutto sommato innocui.

In questo frangente il film mostra nuovamente le sue carte nel riportare il racconto sul piano del reale, spogliando i personaggi di ogni tipo di minaccia e di crudeltà a cui il cinema statunitense ci ha ampiamente abituato, dando alla scena tutto un altro sapore.

Oltre alla sua genuina paura, Anora reagisce in maniera così isterica perché il terzetto – e, soprattutto, Toros – diventa portatore di una verità inaccettabile: per Vanja la protagonista non è altro che l’ennesima avventura che può permettersi di intraprendere senza alcuna conseguenza.

Ma Ani lotta fino all’ultimo per smentire questa realtà sempre più pressante.

Cancellare

Ani non si vuole arrendere.

Durante il rocambolesco inseguimento di Vanja, la protagonista si spegne progressivamente, perdendo sempre di più la sua apparenza brillante e desiderabile, con un aspetto che riflette la sua graduale angoscia.

Infatti praticamente fino all’ultimo Ani si batte per dimostrare che Vanja non l’abbia abbandonata, che il suo amore, le sue promesse erano sincere, e che lei non è solamente una parentesi vergognosa nella storia della famiglia del marito.

Un tentativo così disperato che si scontra costantemente anche con le prove più evidenti dei veri sentimenti di Vanja, totalmente passivo alla situazione e, soprattutto, alla sua famiglia, che entra prepotentemente in scena con lo specifico obbiettivo di cancellare Anora.

E allora è il momento di riscrivere la storia.

Riscrivere

Ani deve di riscrivere la storia a suo favore.

Davanti alla ormai innegabile realtà della vera natura di Vanja, la protagonista ribalta la situazione e la risputa in faccia alla madre, chiosando come suo figlio sia solamente una fighettina incapace di affrontare la situazione senza farsi proteggere dalla sua famiglia.

Una riscrittura che passa anche per le ultime battute del film, quando Ani ha uno scambio piuttosto emblematico con Igor, che la protagonista vorrebbe riscrivere come uno stupratore che si sarebbe approfittato di lei alla prima occasione.

Al contrario, il silenzioso mercenario è l’unico che sembra veramente aver compreso Ani, l’unico che è stato capace di guardare oltre alla facciata che la ragazza ha messo in piedi, e l’unico che vorrebbe avere un rapporto genuino con lei, senza secondi fini.

Per questo, quando le regala l’anello, Ani sente di dover ricambiare il gesto con l’unica arma nel suo arsenale – il sesso – ma rimane raggelata quando l’uomo cerca di baciarla, e quindi di rendere più personale e affettuoso il loro incontro…

…finendo per scoppiare in lacrime davanti alla consapevolezza di essere stata per tutta la sua vita – e ancora una volta – unicamente usata per il proprio corpo.

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Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2025

A Complete Unknown – E il resto scompare

A Complete Unknown (2024) di James Mangold è un biopic dedicato a Bob Dylan con protagonista Timothée Chalamet.

A fronte di un budget di circa 60 milioni di dollari, ha avuto una partenza non entusiasmante, che lo porterà probabilmente ad essere un discreto flop commerciale.

Candidature Oscar 2025 per A Complete Unknown (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore regista
Miglior attore protagonista per Timothée Chalamet
Migliore attore non protagonista per Edward Norton
Miglior attrice non protagonista per Monica Barbaro
Migliore sceneggiatura non originale
Migliori costumi
Miglior sonoro

Di cosa parla A Complete Unknown?

La pellicola ripercorre i primi, turbolenti anni della figura di Bob Dylan, personalità che non ha mai voluto farsi inquadrare.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere A Complete Unknown?

In generale, sì.

Non mi sbilancio nel consigliarvi questa pellicola perché, per quanto mi abbia nel complesso anche molto soddisfatto, mi rendo conto che un discrimine fondamentale è la conoscenza pregressa del personaggio e le aspettative nei confronti di un biopic a lui dedicato.

Infatti, non dovete aspettarvi una dissertazione sulla vita di Dylan, ma bensì un bozzetto sulla sua personalità e sugli inizi della sua carriera, in cui i contorni della sua storia e dei vari personaggi di contorno rimangono, appunto, di contorno, venendo poco approfonditi. 

Ma, se questo elemento non vi disturba, è una visione assolutamente consigliata.

Germoglio

Bobby è un germoglio che va coltivato.

I primi momenti della pellicola raccontano programmaticamente un ragazzo molto riservato e chiuso in se stesso, che parla esclusivamente attraverso la sua musica, e che lascia per questo fin da subito incantati i suoi ascoltatori, soprattutto considerando il genere.

Infatti la musica folk appare già in questo frangente in una posizione piuttosto fragile, in cui ogni tassello, anche il più recente, va documentato e archiviato perché sia mantenuto nella memoria collettiva, proprio perché rischia di cadere nel dimenticatoio.

Per questo Dylan – quanto la sua controparte femminile, Joan – è la figura ideale per far appassionare del genere anche le nuove generazioni, che invece si stavano orientando verso un altro tipo di musica nascente – la nuova musica popolare.

Ma Dylan non può essere ingabbiato.

Miccia

Due sono i momenti fondamentali dell’evoluzione del personaggio.

La pellicola riesce molto bene a raccontare la popolarità improvvisa del protagonista, che lo porta ad essere assolutamente irresistibile per il pubblico, preso continuamente d’assalto dai propri fan, e così impossibilitato a vivere una vita normale, con una visione claustrofobica, quasi soffocante.

Una popolarità che si traduce anche in un senso di oppressione, di essere totalmente nelle mani del pubblico, dei suoi manager che vogliono incasellarlo in un ruolo molto preciso, a cui Dylan è fin da subito insofferente, come ben racconta la scena della festa in cui gli viene chiesto di esibirsi…

…e lui sbotta che non vuole essere assoldato per una gig (volgarmente, spettacolino).

Una dinamica che lo accompagna verso il secondo momento fondamentale.

Consapevolezza

Bob Dylan è estremamente consapevole della sua posizione.

Per questo in un primo momento non si ribella, ma anzi cerca di rimarcarla in occasione del Folk Festival, in cui ritorna nelle vesti della star del momento, osservando da dietro le quinte l’esibizione di Johnny Cash, un tempo suo punto di riferimento, ora un semplice relitto del passato. 

Una dinamica che non ha bisogno di parole, ma solamente di un’inquadratura fissa sul sorriso sornione di Dylan che osserva attento l’esibizione di tutto quello che ormai si è lasciato alle spalle, e che ora è pronto a scalzare con la sua inarrestabile popolarità.

Ma non gli basta.

Focus

A Complete Unknown vuole parlare di Bob Dylan.

E basta.

Il protagonista si muove all’interno di un panorama di fantasmi, in cui i contorni della sua vita e i personaggi che la popolarono vivono unicamente in sua funzione, e per questo sono solamente abbozzati – tanto che di alcuni sappiamo praticamente solo il nome.

In questo senso entrano in gioco le aspettative verso la pellicola: come non esiste un modo giusto o sbagliato per produrre un biopic, se siete fan di Bob Dylan forse sarete rimasti contrariati da questa scelta, che vuole totalmente focalizzarsi sul carattere problematico del suo protagonista, ignorando tutto il resto.

Personalmente, pur comprendendo le critiche nei confronti della pellicola, ho apprezzato questo taglio narrativo, anzi sono rimasta estremamente coinvolta da una narrazione così puntuale nei confronti di un artista così problematico di cui non conoscevo che pochi pezzi.

Ma è tutta questione di aspettative, appunto.

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Bong Joon-ho Comico Drammatico Film Giallo Grottesco Mistero

Memorie di un assassino – Le parallele intersecate

Memorie di un assassino (2003) è il secondo film della ricca filmografia di Bong Joon-ho.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 2,8 milioni di dollari – anche grazie alla distribuzione in Occidente a quasi vent’anni dall’uscita, è stato un ottimo successo commerciale: 12 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Memorie di un assassino?

Corea del Sud, 1986. In una piccola cittadina di campagna si susseguono una serie di omicidi piuttosto efferati nei confronti di giovani donne. E i metodi di indagine della polizia sono quantomeno dubbi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Memorie di un assassino?

Song Kang-ho e Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

Assolutamente sì.

Memorie di un assassino rappresenta un punto di partenza fondamentale per ricoprire la filmografia di Bong Joon-ho, che già qui presenza la sua cifra distintiva fra comico, grottesco e drammatico, in un incontro piuttosto peculiare, ma estremamente efficace.

Di fatto il film inganna lo spettatore facendogli credere che la via verso il finale è già segnata e che lo sviluppo della storia sarà piuttosto lineare, riuscendo invece a sorprenderlo in un’evoluzione dei personaggi veramente sottile e perfettamente calibrata.

Insomma, da riscoprire.

Metodi

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

I metodi della polizia sono quantomeno discutibili.

Park Du-man si fa largo all’interno di un caso spinosissimo a colpi di intuizioni senza alcuna base logica e con un atteggiamento fin subito aggressivo e perentorio, volto a individuare immediatamente il colpevole perfetto per chiudere il caso nel minor tempo possibile.

E, in maniera davvero sorprendente, la regia rende questo aspetto della vicenda apertamente grottesco, ma senza banalizzare la questione, anzi usandola come strumento per definire caratterialmente le due figure dei detective protagonisti e del panorama in cui si muovono.

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

I due poliziotti infatti sono incastrati in un contesto sociale particolarmente gretto, in cui le investigazioni vengono condotte, nella quasi totale mancanza di mezzi, quasi totalmente alla cieca, per i sentito dire, per i pettegolezzi che si rincorrono e chiusi grazie al tribunale popolare che sembra avere sempre la meglio.

E in questo senso l’arrivo del nuovo detective è emblematico.

Parallela

Song Kang-ho e Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

Seo Tae-yun subisce immediatamente la giustizia sommaria.

In un contesto in cui il minimo indizio può portare alla condanna, il semplice chiedere indicazioni diventa stalking e la situazione precipita anche simbolicamente in un fosso, e ogni tentativo di recuperare la situazione – aiutare la donna a risalire – diventa invece la prova definitiva che lo porta ad essere ammanettato alla macchina.

E questo breve ma significativo incontro già basta per intraprendere un’indagine parallela, del tutto estranea ai disordinati tentativi di creare un caso sul primo malcapitato che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, seguendo invece la pista seminata dalla ben più attenta Kwon Kwi-ok, l’unica che trova una prova concreta.

Così finalmente il detective riesce a costruire una rete di indizi effettivamente significativa, basata su effettivi indizi, testimoni e collegamenti un minimo credibili fra i vari elementi in gioco, che lo portano in direzione di una figura apparentemente insospettabile.

Ed è a questo punto che Memorie di un assassino mi ha sorpreso.

Costretto

Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

La direzione del film appare chiara, quasi scontata.

Lo spettatore e lo stesso detective si aspettano di riuscire a seguire una linea chiara che li porterà ad inchiodare il vero colpevole, soprattutto grazie alle insperate tracce di sperma, che potrebbero essere la prova schiacciante per condannare quello che ormai sembrava il killer designato.

Questa ritrovata sicurezza conduce gradualmente Seo Tae-yoon ad avere una visione sempre meno oggettiva del caso e un’ossessione crescente verso il colpevole, che sembra scivolargli dalle mani ad ogni nuovo assassinio che non è riuscito a sventare.

Per questo l’arrivo dei test del DNA, l’unica via che ormai gli sembrava percorribile per arrestarlo, nella sua totale inutilità definisce l’ultimo atto del suo fallimento, che lo porta, di fatto, ad essere tutto quello che odiava:

esecutore di una giustizia sommaria.

Memories of a Murder finale

Il finale di Memories of a Murder è il suo punto più alto.

Nonostante Park Du-man sembra essersi lasciato il caso alle spalle, il destino lo riporta inevitabilmente nel primo luogo del delitto, dove ammette che effettivamente non c’è più niente da vedere, nonostante la regia indugi su un eloquente primo piano stretto che racconta l’aspettativa del personaggio di trovare qualcosa.

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

E infine quel solitario scalo fognario diventa il punto di incontro mai prima riuscito fra il killer misterioso e il detective, che pende dalle labbra dell’unica, nuova testimone, ancora una volta incapace di dargli la prova schiacciante per chiudere il caso.

E ora?

Ci chiede Park Doo-man guardandoci direttamente negli occhi.

Sipario.

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Avventura Dramma storico Drammatico Film L'altro lato del fronte

L’arpa birmana – Il peso della collettività

L’arpa birmana (1956) di Kon Ichikawa è un dramma storico ambientato alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 33 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’arpa birmana?

Mizushima è un soldato parte di un battaglione nipponico fermo in Birmania con una particolarità: essere un superbo suonatore d’arpa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’arpa birmana?

Assolutamente sì.

L’arpa birmana si inserisce nelle produzioni nipponiche che riflettono sul tema della guerra in maniera molto differente da come siamo abituati in ambito occidentale, collegando la tragica sconfitta bellico al sempiterno tema della rinascita del paese.

La particolarità di questo film è che, a differenza di titoli ben più pesanti come City of Life and Death (2009) e La tomba delle lucciole (1886), riesce a riportare la narrazione sul piano più dell’individuo e della pesantezza della responsabilità, verso anche quelle persone che un tempo chiamava amici.

Destino

Mizushima è destinato al suo ruolo.

Il primo contatto con la popolazione locale è ostile quando catartico: viene spogliato sia fisicamente che metaforicamente dei suoi vestiti e quindi della sua identità da soldato e, per estensione, del suo ruolo come portatore di morte che vuole solo fare ritorno in patria.

Elemento ancora più sottolineato dalla inaspettatamente dolcissima scena dell’incontro con l’esercito inglese, che i soldati prima affrontano fingendo di essere in stato di pace e tranquillità, immersi in un momento conviviale senza un pensiero al mondo…

…per poi ritrovarsi immersi in un canto di pace e fratellanza, in cui due popoli così lontani culturalmente e linguisticamente riescono a ritrovarsi nel comune confronto di un conflitto ormai concluso, in un commovente scambio canoro che sembra già da solo chiudere la questione.

Ma non tutti sono d’accordo.

Pace

L’arpa è simbolo di unione…

…o di codardia?

Il protagonista è costantemente scelto nel ruolo di mediatore, proprio forte delle sue melodie che, con un linguaggio non verbale, erano capace di confortare o avvertire i propri compagni, anche nell’incontro con l’altro esercito sicuro della possibilità di una conclusione pacifica.

Eppure proprio in questo frangente emerge un tema ben più doloroso – che sarà poi ampiamente affrontato, fra gli altri, da Lettere da Iwo Jima (2006): il senso di onore di un popolo legato ad una tradizione per cui la vittoria, sia da vivi che da morti, è l’unica via possibile per uscire di scena.

E così, davanti ad una conclusione che sembrava già scritta, Mizushima si scontra violentemente con l’ottusità di questo pensiero, in cui neanche una pace forzata può essere accettata, arrivando inevitabilmente fino al tanto agognato annientamento onorevole.

Eppure, è solo l’inizio.

Rinascita

La rinascita di Mizushima è rappresentativa del Giappone del secondo dopoguerra.

Come all’inizio il protagonista vive ingenuamente nella parentesi bellica con il solo fine di tornare a casa e i suoi compagni si gettano testardamente nel proseguo dello scontro, allo stesso modo il Giappone è intrappolato in sogno di vittoria e onore che è infine costretto a lasciarsi alle spalle.

Infatti, con l’esplosione che segna il fallimento della missione quanto del dramma di Hiroshima, si staglia davanti agli occhi del protagonista la tragedia umana in tutta la sua brutalità, di un popolo inutilmente disperso in un paese straniero.

Per questo, Mizushima non può più tornare indietro.

Prigione

Il protagonista è devastato da una ferita difficilmente sanabile.

Mizushima sceglie consapevolmente di alienarsi dal suo battaglione, dai suoi amici, di cambiare forma e aspetto fino a rendersi irriconoscibile persino a sé stesso, se non fosse per l’elemento che ne ha definito l’identità fino a quel momento, ma ora con un significato totalmente diverso.

L’arpa.

Il fragile strumento sembra l’unico filo che ancora collega il protagonista alla sua vecchia vita, diventando l’eco di una vita a cui non può più tornare, non prima di aver risolto la drammatica responsabilità che senta di portare sulle spalle: rendere giustizia a chi è morto per lui.

E allora per i suoi compagni – e per il suo paese – rimane un’unica, debole testimonianza persa nel tempo: la voce del pappagallo, anzi dei due pappagalli che rappresentano il prima e il dopo, e che restano in mano ai suoi compagni come promessa, forse, un giorno di ricongiungersi…

…o, per un paese, di rinascere.