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Il mio vicino Totoro – La favola di Miyazaki

Il mio vicino Totoro (1988), traduzione abbastanza coerente del titolo originale – となりのトトロ, lett. Totoro il vicino è uno dei film dal taglio più delicato e favolistico della produzione di Miyazaki.

A fronte di un budget ad oggi sconosciuto, è il miglior riscontro di Miyazaki a livello internazionale, con 41 milioni di dollari di incasso. Il film venne proposto nei cinema italiani solamente nel 2015.

Di cosa parla Il mio vicino Totoro?

Le sorelle Satsuki e Mei si sono appena trasferite in una graziosa casa nella campagna di Tokyo degli Anni Cinquanta. Un paesaggio quasi favolistico, che nasconde molti splendidi segreti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il mio vicino Totoro?

Assolutamente sì.

Anche se l’ho scoperto più tardivamente rispetto agli altri prodotti di questo regista, è un film assolutamente imperdibile, per la sua delicatezza e piacevolezza. Una storia in realtà con un sottofondo piuttosto drammatico, perfettamente integrata in un contesto favolistico e quasi onirico, nel peculiare stile nipponico.

Fra l’altro una delle migliori prove di Miyazaki come autore, sia per la costruzione della trama, sia per la bellezza dei disegni, in particolare negli splendidi sfondi. Un’opera che ti cattura, ti commuove, ti intrattiene in una durata anche piuttosto contenuta.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il mio vicino Totoro il pericolo è abbastanza basso.

Nonostante il doppiaggio risalga al 2015, forse anche per i pochi dialoghi, non è niente di così tanto drammatico, ma generalmente abbastanza ascoltabile.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Il contesto fantastico…

Il world building de Il mio vicino Totoro è spettacolare.

Una realtà fantastica che si integra perfettamente nel tema di fondo molto presente nelle opere di Miyazaki: la bellezza della natura e della sua conservazione.

Forse proprio per questo la scelta di ambientare la vicenda in una realtà più lontana anche dall’uscita originaria del prodotto in un contesto meno urbanizzato, e dove la natura domina.

Una natura anche piuttosto misteriosa, piena di nascondigli e segreti, uno sfondo perfetto per raccontare una storia con due protagoniste così giovani e la loro riscoperta dell’ambiente che le circonda, per nulla osteggiato – come in altri contesti – dagli adulti.

E qui nasce il più importante contrasto.

…e il sottofondo drammatico

L’elemento drammatico è introdotto molto lentamente, facendo prima immergere lo spettatore nella spensieratezza del contesto fantastico.

La malattia della madre inizialmente non sembra neanche grave – nella sua prima apparizione viene mostrata serena e con nessun segno di cedimento. Il picco drammatico avviene con il rimando del ritorno a casa.

Per la mancanza di comunicazioni dirette, rinasce nelle protagoniste di nuovo la terribile paura di perdere la genitrice, una paura sotterranea, ma in realtà non nuova, che le angoscia terribilmente. E la tensione viene ancora più caricata con la scomparsa di Mei, che assume per certi versi dei tratti da cronaca nera.

Il fantastico rincuorante

Anche l’elemento fantastico è introdotto a piccoli passi.

E sempre ridimensionato in senso positivo.

Il primo contatto con il mondo nascosto degli spiriti e della magia è con i fantasmini della polvere, che i protagonisti riescono a cacciare dalla casa. E poi, ormai nella parte centrale della pellicola, si introduce finalmente Totoro, la cui scoperta avviene grazie al giocoso inseguimento di Mei e gli spiritelli impauriti.

Nei due incontri successivi, Totoro arriva proprio nei momenti di maggiore sconforto e paura delle due bambine: prima quando aspettano impazienti il padre che sembra non arrivare mai, nell’iconica scena della fermata dell’autobus, in cui questa meravigliosa creatura mostra tutta la sua piacevolezza e giocosità.

In ultimo, proprio nel picco drammatico della pellicola, Satsuki chiede aiuto proprio a Totoro, che non solo l’aiuta a ritrovare alla sorella, ma le dà un passaggio con il gattobus, altra creatura fantastica che sembra uscita fuori da un libro delle favole.

E riescono così anche a vedere in prima persona che la madre sta bene.

In questo film la tecnica di Miyazaki compie un passo avanti piuttosto decisivo.

L’elemento che salta subito all’occhio sono gli sfondi: curatissimi e pieni di dettagli, quasi dei dipinti in movimento, e rendono perfettamente quell’aspetto aulico e retrò dell’ambientazione:

Ovviamente il punto più alto sono i dettagli, l’animazione e la cura nel disegno di Totoro, e così anche del gattobus:

Continua inoltre l’ottimo studio sui volti anziani. Infatti, con Nanny sembra formarsi in via definitiva il modello per questo tipo di personaggi: occhi molto grandi, guance pronunciate, corporatura robusta e una fitta rete di rughe, che avrà poi il suo apice in La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004):

Diversi miglioramenti anche per la gestione dei personaggi giovani, che diventano molto più espressivi: piangono, si emozionano, urlano, paradossalmente in maniera quasi parallela al personaggio di Totoro:

Guardando al futuro più prossimo, nell’aspetto Satsuki assomiglia molto alla protagonista della prossima pellicola di Miyazaki, Kiki – consegne a domicilio (1989):

Mentre sia Mei che Kanta ricordano lo sviluppo dei bambini in Il castello errante di Howl, nel personaggio di Markl:

Il mio vicino totoro vs la città incantata

E ho notato anche un paio di interessanti – nonché strani – parallelismi con La città incantata. Anzitutto, Mei in certi momenti ha una faccia che assomiglia molto ad una rana, e infatti se si fa il confronto:

La scena in cui i semi cadono per la casa sul pavimento ricorda, anche se in maniera diversa, la scena delle pepite d’oro. Ma il collegamento più evidente è l’aspetto degli spiriti della polvere, che si vedranno identici nel film del 2001:

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Alfred Hitchcock Avventura Dramma romantico Drammatico Film Mistero

Io ti salverò – In una mente offuscata

Io ti salverò (1945), traduzione piuttosto impropria di Spellbound (Incantato) è uno dei film considerati minori della produzione di Alfred Hitchcock. Ma, nondimeno, una pellicola piuttosto interessante.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,5 milioni di dollari, circa 25 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 6,4 milioni di dollari, circa 106 milioni oggi.

Di cosa parla Io ti salverò?

Costance Petersen lavora in una clinica psichiatrica, proprio quando sembra esserci un cambio di dirigenza piuttosto misterioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Io ti salverò?

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

In generale, sì.

Anche se Io ti salverò è uno dei titoli minori di Hitchcock, riesce comunque a distinguersi grazie ad un mistero davvero ben costruito e a guizzi registici non indifferenti. Tuttavia, per quanto appassionante, presenta un difetto fondamentale: la storia d’amore.

Per quanto possa sembrare un elemento secondario, per certi versi il film e la sua efficacia sono proprio strozzati dall’ingombrante presenza di questo elemento, che poteva per molti versi essere eliminato e il film avrebbe funzionato comunque.

Vedere per credere.

Un mistero incredibile…

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

La costruzione del mistero è magistrale.

Viene introdotto a piccoli passi, prima lasciando spazio all’introduzione del primo ambiente, poi introducendo il personaggio-fulcro dell’intera narrazione, seminando fin dalla prima scena indizi sulla sua identità.

Una narrazione articolata in picchi, corrispondenti agli scoppi di violenza di John, ogni volta che viene assalito da un frammento di ricordo, che gli fa cambiare bruscamente comportamento.

E lo spettatore si può facilmente identificare nella frustrazione di Costance, la cui testardaggine è di fatto il motore della vicenda, oltre ad essere il personaggio risolutivo della storia.

…strozzato dall’amore

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Forse per rendere più digeribile una vicenda comunque piuttosto angosciante, è stata inserita a forza la storia amorosa.

E il contrasto è quasi opprimente.

Il rapporto romantico fra i due protagonisti, soprattutto più si prosegue con la narrazione, sembra sempre più superfluo, di troppo. Di fatto la storia avrebbe potuto serenamente proseguire anche senza che i due avessero una relazione romantica – e forse in un prodotto uscito oggi questo elemento sarebbe stato gestito del tutto diversamente.

O, ancora meglio, omesso.

Incredibilmente attuale

Ingrid Bergman in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Un aspetto che mi ha veramente sorpreso è la rappresentazione della figura femminile.

Per certi versi, incredibilmente attuale.

Non solo nell’ambiente di lavoro Costance viene continuamente spinta verso il matrimonio, anche a discapito del suo lavoro, ma soprattutto la sequenza delle avance nella hall dell’hotel è incredibilmente esplicita.

La protagonista si trova costantemente assillata da una schiera di uomini che sembrano non poter fare a meno di infastidirla, al punto che la stessa riesce anche a rigirare la situazione a suo favore.

Non saprei dire quali fossero le intenzioni dietro a questa scena – non vorrei cadere nell’errore di leggerla con gli occhi di oggi. Potrebbe essere il primo indizio di personaggi femminili piuttosto atipici per il tempo – come poi in Psycho (1960) – oppure un semplice siparietto comico.

La sequenza onirica

Il punto più alto della pellicola è indubbiamente la sequenza onirica.

Un sogno che dovrebbe essere del tutto rivelatorio sul mistero, ma in realtà è solo un altro enigma da sciogliere, anche più complesso e frustrante: è come se la soluzione fosse sempre davanti agli occhi dei personaggi, ma gli stessi non fossero in grado di coglierla.

Sulle prime pensavo che Hitchcock si fosse ispirato al capolavoro di Dalì, La persistenza della memoria (1932) – quella con gli orologi molli, per intenderci. Invece con mia grande sorpresa ho scoperto che quella scena fu proprio creata sotto la direzione del maestro del mistico.

Un elemento piuttosto interessante della pellicola è l’uso della soggettiva, che sarà poi fondamentale in Psycho.

Tre sequenze uniche nel loro genere, in cui lo spettatore si immerge letteralmente nell’occhio del personaggio.

Quando Constance e John si avvicinano per baciarsi:

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Quando John beve il latte offerto dal professore:

E infine quando Murchison si spara:

Ed è anche più incredibile che questa spettacolare sequenza non sia la chiusura della pellicola, che invece scade ancora nella insostenibile trama romantica….

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David Lowery Dramma romantico Drammatico Fantastico Film

A ghost story – Storia di chi resta

A ghost story (2017) di David Lowery è un piccolo film indie con protagonisti Rooney Mara e Casey Affleck.

A fronte di un budget davvero ridicolo – appena 100 mila dollari – ha incassato paradossalmente molto bene: quasi 2 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla A ghost story?

Una giovane coppia si è appena trasferita in una nuova casa, ma un terribile incidente sconvolge tutto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere A ghost story?

Assolutamente sì.

Ma con un forte avvertimento: non è per nulla un film semplice. È una pellicola con ritmi incredibilmente lenti, con diverse scene a camera fissa in cui semplicemente guardiamo normalissime scene di vita quotidiana attraverso gli occhi del protagonista.

Inoltre, anche sul finale molti elementi diventano più chiari, rimane comunque una storia piuttosto enigmatica e aperta alla completa interpretazione dello spettatore. Insomma, un’opera con un taglio autoriale piuttosto peculiare, ma che, se presa per il verso giusto, può dare grandi soddisfazioni…

Un vero fantasma

La rappresentazione del fantasma protagonista mi ha davvero sorpreso.

Solitamente nei film horror e fantastici i fantasmi vengono rappresentati come esseri trasparenti, con magari anche un aspetto mostruoso o i segni della loro morte. Insomma, delle creature che devono far paura in maniera semplice, ma immediatamente efficace.

Invece il fantasma protagonista è molto semplicemente una persona con addosso il suo sudario, tanto da sembrare sulle prime quasi il personaggio di un film per l’infanzia. In realtà è una presenza genuinamente spaventosa.

Uno spettatore silente e afflitto, ma che non emette un suono, ma che segue, che ascolta, e, che, solo in un’occasione, si comporta veramente come un fantasma che infesta una casa…

Chi va, chi resta

Il tempo scorre inevitabile.

Il protagonista è sempre al centro della scena, ancorato alla sua casa, al suo nido da cui non si voleva allontanare neanche quando era in vita. Ma, quasi senza poterlo controllare, si susseguono davanti ai suoi occhi storie, persone, morti. Tutti vanno avanti con la loro vita, lui resta immobile a guardarla.

Passano mesi, anni, secoli, e l’unico compagno è il fantasma dell’altra casa, che rappresenta il destino drammatico in cui potrebbe ricadere lo stesso protagonista: dimenticarsi perché non vuole lasciare la Terra.

E infatti lo spettro coperto di fiori scompare solo quando il suo punto di riferimento è distrutto, e si convince che chi aspettava non tornerà più – anche se non saprà mai chi…

Nichilismo totale

Una riflessione fondamentale si trova nella scena della festa.

Un personaggio ignoto esprime il suo totale nichilismo, nel considerare l’esistenza terrena solamente passeggera e di fatto inutile, che si trascina verso il destino inevitabile: la morte.

Ma rimarrà qualcosa di noi?

Qualche segno della nostra presenza potrebbe fortuitamente rimanere immortale, un frammento in un mondo inevitabilmente distrutto, una fragile memoria di una persona nel futuro che non saprà neanche chi siamo…

E si riallaccia al motivo della permanenza del protagonista.

Cosa succede nel finale di A ghost story?

Nel finale il protagonista riesce, trovandosi nel loop, riesce ad estrarre dalla parete il bigliettino che M aveva lasciato prima di andarsene.

E scompare.

La donna proprio all’inizio raccontava come in ogni casa che lasciava avesse lasciato un messaggio, un pezzo di sé.

Una chiusura che si apre a diverse interpretazioni.

Personalmente io credo che quel messaggio fosse la chiave della frustrazione di D, che non riusciva a darsi pace. Forse sul non capire cosa non andasse nel loro rapporto, che sembrava per molti versi conflittuale e non risolto, e che girava intorno anche alla volontà di abbandonare la casa stessa.

E se M avesse scritto sul foglio il motivo per cui non poteva rimanere nella casa?

Oppure semplicemente, Addio?

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2023 Avventura Azione Cinema per ragazzi Comico Commedia Dramma familiare Drammatico Fantasy Film

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri – Le giuste aspettative

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri (2023) di Jonathan Goldstein e John Francis Daley è un film d’avventura per ragazzi basato sull’omonimo gioco di ruolo.

A fronte di un budget piuttosto consistente – 150 milioni di dollari – ha aperto con 70 milioni in tutto il mondo: un inizio promettente, ma basterà?

Di cosa parla Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Il bardo Edgin Darvis e la barbara Holga Kilgore sono in prigione da due anni, ma hanno finalmente la possibilità di imbarcarsi in una nuova avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Chris Pine, Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Assolutamente sì.

Almeno, se ci andate con le giuste aspettative.

Io mi aspettavo – e volevo – un prodotto d’intrattenimento, un’avventura per ragazzi leggera e divertente, con un umorismo piacevole e una storia coinvolgente.

Ed è esattamente quello che ho trovato.

Oltre ad avermi piacevolmente intrattenuto, anche andando a valutarlo più analiticamente, non mancano alcuni guizzi registici non indifferenti, e la sceneggiatura si dimostra complessivamente solida.

Per farvi un’idea del tono della pellicola, questa coppia di registi si è occupata della sceneggiatura di film come Spiderman – Homecoming (2018) e Come ammazzare il capo…e vivere felici (2011).

Io, comunque, ve lo consiglio.

Una trama a quest

Chris Pine e Regé-Jean Page una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Proprio per la vicinanza al gioco originale, la trama di Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri è suddivisa in quest.

Una prima parte dedicata all’introduzione dei personaggi, con un racconto piuttosto esplicativo del background del protagonista, in una cornice comica e molto funzionante.

E nel primo atto vengono anche definiti i ruoli in campo, si racconta il tradimento di Forge – interpretato da un Hugh Grant davvero convincente – e il conflitto fra il protagonista e la figlia.

La parte centrale è piuttosto ampia, più di quanto sinceramente mi sarei aspettata, ed è dedicata appunto all’articolata quest centrale, con i personaggi che si muovono in una serie di tappe, fra cui la gustosissima scena del cimitero.

In maniera altrettanto inaspettata, l’atto finale è diviso in due parti, del tutto funzionali a concludere le vicende di entrambi i villain in gioco: quello politico e il vero antagonista – Sofina.

Insomma, una campagna di D&D fatta a film.

Piccoli trucchi, nessuna forzatura

Chris Pine in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

La scrittura gioca sicuramente con alcuni piccoli trucchi per portare a certe svolte di trama.

Quello più evidente è il Bastone Qui-e-là, che arriva piuttosto convenientemente in aiuto ai personaggi proprio quando ne hanno bisogno. Ma la sceneggiatura non è così banale da renderlo del tutto inverosimile, ma si cerca un minimo di giustificarne la presenza. Ed è del tutto verosimile che Holga l’abbia rubato senza sapere di cosa si trattasse.

Al contempo, l’unico momento poco credibile è quando i protagonisti devono attraversare il ponte del dungeon ormai crollato: sarebbe stato del tutto sensato se Doric avesse proposto di trasformarsi e portarli dall’altra parte.

E ci sarebbero stati diversi motivi per cui la stessa non avrebbe potuto farlo – anche solo il fatto di non sapersi trasformare in un certo animale o in uno così grande da poterli sollevare. Ma tacere questo aspetto lascia la questione un po’ in sospeso e toglie leggermente credibilità alle dinamiche in scena.

Ma, tutto sommato, è una piccolezza.

Un’evoluzione equilibrata

Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Tutti i personaggi, chi più chi meno, godono di un’evoluzione e una caratterizzazione ben precisa.

Fra tutte, quella più rischiosa era quella di Simon, su cui la trama insiste continuamente riguardo ai suoi poteri non sfruttati. E se la sceneggiatura fosse stata messa in mani meno esperte, nel finale il mago avrebbe scoperto il suo vero potere e sconfitto Sofina.

Invece Simon riesce un minimo a tenerle testa, ma non è assolutamente altrettanto capace – e giustamente. La sua evoluzione si è fermata riuscire a credere in se stesso e ad usare l’elmo, e la sconfitta del villain prende altre strade.

E va benissimo così.

La morale

Chloe Coleman e Hugh Grant in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Ho decisamente apprezzato la morale conclusiva legata a Edgin.

Mi ha ricordato moltissimo una delle tematiche centrali di Il gatto con gli stivali 2 (2022): l’importanza della famiglia, anche se non quella di sangue. In conclusione, il bardo capisce che il riportare in vita la moglie morta non farebbe davvero la felicità della figlia – per quanto abbia cercato di convincersi del contrario.

Invece, è piuttosto evidente che la vera madre di Kira è Holga, che l’ha cresciuta proprio come sua figlia e che è ancora importante per la sua vita – e che lo potrà essere anche per il futuro.

Pochi nei in un ottimo equilibrio

Daisy Headin una scena di Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Pensando ai (pochi) punti deboli, il primo pensiero va ovviamente a Sofina.

Paragonata a Forge, che risulta un villain molto più intrigante e piacevole, la maga appare invece piuttosto banale, e così anche il suo padrone. Non che manchi un tentativo di costruire meglio la loro backstory, ma che mi è sembrata comunque abbastanza fumosa e poco interessante.

Allo stesso modo l’estetica e la CGI della pellicola falliscono in pochi punti, in particolare nel character design di Sofina e in alcuni dei suoi incantesimi.

Invece, più in generale si è riuscito a trovare un ottimo equilibrio fra un’estetica molto giocosa, quasi cartoon, coerente con l’opera di partenza, e un’ottima tecnica visiva che ha mantenuto alto il livello complessivo del prodotto.

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Alfred Hitchcock Avventura Comico Cult rivisti oggi Dramma familiare Drammatico Film Thriller

Rebecca – L’ombra perpetua

Rebecca (1940), noto in Italia col titolo ben più esplicativo di Rebecca – La prima moglie, è un film della prima fase di Alfred Hitchcock, nonché uno dei più noti della sua prolifica produzione.

Scelto come pellicola di apertura del primo Festival di Berlino nel 1952, fu anche un buon successo commerciale: a fronte di un budget di appena 1.9 milioni di dollari (circa 40 milioni oggi), incassò circa 6 milioni in tutto il mondo (che oggi corrisponderebbero a circa 130 milioni).

Di cosa parla Rebecca?

Una giovane dama da compagnia dal nome ignoto farà la conoscenza di un ricco e avvenente aristocratico, Mr. de Winter. Ma l’ombra della defunta moglie è sempre in agguato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rebecca?

Joan Fontaine e Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

In generale, sì.

Nonostante qualche ingenuità di scrittura, è un piccolo cult non a caso: un mistero intrigante ed avvincente, che riesce a far sognare ed intrattenere lo spettatore lavorando profondamente di sottrazione – e fino all’ultimo.

L’elemento che forse mi ha meno convinto è lo scioglimento della vicenda, per certi versi più banale e scontato di quanto mi sarei aspettata, anche se generalmente coerente nel complesso della narrazione.

Tuttavia, rimane una pellicola godibilissima ancora oggi.

Lo spazio all’immaginazione

Joan Fontaine e Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

L’elemento che forse mi ha più stupito della pellicola è lo spazio che lascia all’immaginazione dello spettatore.

Anzitutto, per Rebecca stessa: mi aspettavo in qualche momento di vederla apparire sullo schermo, magari in un filmato o in una fotografia. E invece non abbiamo nessuna idea dell’aspetto di questa donna, se non per le parole dei personaggi stessi: era una donna bellissima, mora e piuttosto alta.

Nient’altro.

Allo stesso modo le sue colpe non vengono esplicitamente raccontate, ma lasciate nell’assoluto mistero, e così la vicenda clou della storia – il suo suicidio – la conosciamo solamente tramite il racconto di Maxim, proprio nel momento invece in cui mi aspettavo partisse un flashback.

L’apparenza è tutto

Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

Per catturare immediatamente lo spettatore nelle dinamiche dei personaggi, vi è una particolare cura nella scelta del casting e della recitazione.

Il maggiore contrasto è fra Mrs. Danvers e la nuova Mrs. de Winter.

La governante è piuttosto austera, nell’aspetto quanto nella recitazione: capelli corvini, con una pettinatura piuttosto datata, il naso con la gobba, il vestito nero strettamente abbottonato…

E i suoi movimenti sono molto lenti e controllati: per la maggior parte del tempo è ritta, con le mani congiunte sulla vita, mentre i suoi diabolici occhi neri si muovono anche con guizzi inaspettati…

Joan Fontaine in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

La nuova Mrs. de Winter è tutto il contrario.

Il viso giovane e angelico, la purezza dei lineamenti, e così anche il modo di vestire, spesso con abiti modesti e dai colori chiari: tutto racconta una ragazza giovane e innocente. E, soprattutto, Joan Fontaine recita più col corpo che con la voce.

Si vede chiaramente come il suo personaggio sia continuamente fuori posto, e i suoi movimenti lo raccontano molto bene: si muove a scatti, impaurita, si stropiccia continuamente le mani, le usa per proteggersi…

In parte per la sua insicurezza, in parte per l’ambiente che la circonda…

L’ombra perpetua

Joan Fontaine in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

Non c’è posto per una seconda Mrs. de Winter.

La protagonista si ritrova in un contesto che fin dal primo momento non solo non le è calzante, ma che le è anche incredibilmente ostile, nel suo continuo voler confrontare la nuova e impacciata mogliettina con la figura monumentale di Rebecca.

Perché Rebecca è morta, ma è come se fosse ancora presente.

Questa misteriosa donna viene raccontata costantemente, soprattutto da Mrs. Danvers, vengono elogiati i suoi comportamenti, le sue abitudini, la sua perfezione, con la quale la nuova moglie non ha alcuna possibilità di confrontarsi: Rebecca era una figura potente, di successo, che tutti amavano.

Al contrario la protagonista è costantemente sminuita e scacciata, persino dal suo stesso marito…

Un alleato improbabile

Appare fin da subito evidente perché Maxim abbia scelto la protagonista come nuova moglie.

Anche se poco appariscente nell’aspetto, la ragazza è una mansueta e, soprattutto, molto giovane e influenzabile. E il tipo di considerazione che Mr. de Winter ha nei suoi confronti, almeno all’inizio, è piuttosto chiaro: non la bacia mai sulle labbra, ma sempre sulla fronte, e le parla come se fosse più una figlia che una compagna.

Il suo comportamento cambia quando finalmente comincia a considerarla non come un errore, ma come una possibile alleata per liberarsi finalmente dal fantasma della ex-moglie.

E infatti dall’incidente della festa, la protagonista comincia a cambiare abbigliamento, preferendo i colori scuri, e il marito inizia finalmente a trattarla davvero amorevolmente come si meriterebbe.

In un certo senso, comincia ad apprezzarla veramente quando la ragazza arriva ad una sorta di maturazione.

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Laputa – Il primo, comico Ghibli

Laputa Il castello nel cielo (1986) è il secondo lungometraggio di Hayao Miyazaki come autore completo, nonché il primo film prodotto dal neofondato Studio Ghibli.

E, come il precedente Nausicaä della Valle del vento (1984), fu un ottimo successo commerciale: a fronte di un budget di appena 500 milioni di yen (circa 3 milioni di dollari), incassò 16 milioni in tutto il mondo.

Arrivò in Italia prima direttamente in DVD nel 2004, in una versione ritirata subito dal mercato, e solo nel 2012 venne proiettato al cinema con il nuovo doppiaggio.

Di cosa parla Laputa?

Una misteriosa ragazzina è stata rapita da degli uomini senza scrupoli. Mentre cerca di scappare, cade dall’aeronave, ma riesce a non precipitare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Laputa?

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

In generale, sì.

Laputa è uno dei primi prodotti di Miyazaki, ma in cui mostra già grande abilità nel raccontare una storia ben costruita e una splendida ambientazione fra il mistico e il magico.

Inoltre, dopo Nausicaä della Valle del vento, in questa pellicola il maestro nipponico introduce nuovi spunti di riflessione, che saranno ancora più approfonditi nei suoi prodotti futuri.

Inoltre, vi è un piacevolissimo incontro fra una trama veramente drammatica, quasi paurosa, e alcuni elementi comici, al limite del grottesco e dell’assurdo, alternando così momenti più tragici a sequenze più leggere.

Insomma, da vedere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Laputa Il castello nel cielo il pericolo è medio-alto.

Il doppiaggio risale al 2012, quando Cannarsi aveva già anche troppa importanza nel settore. E sembra incredibile che sia stato approvato un adattamento così sconclusionato, al limite dell’inverosimile, tanto da risultare quasi comico.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una protagonista troppo innocente?

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Come caratterizzazione, Sheeta non è tanto diversa da Nausicaä, ma come caratterizzazione si compie un piccolo passo indietro.

Forse anche per la sua giovane età, la protagonista di Laputa è davvero un personaggio innocente, in parte intraprendente, ma anche tendenzialmente passiva, che rimette la risoluzione finale dell’avventura nelle mani di Pazu, che più che un compagno è quasi un coprotagonista.

Tuttavia, la sua caratterizzazione è del tutto funzionale alla trama: i toni più drammatici e minacciosi di Laputa e, soprattutto, di Muska, sono in aperto contrasto con la totale ingenuità della ragazzina.

Un personaggio più intraprendente e maturo non avrebbe avuto lo stesso effetto, insomma.

Il doppio nemico

Sheeta e Pazu  e i pirati in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Per questa pellicola Miyazaki sceglie di inserire ben tre gruppi di nemici, che si definiscono in una scala di sempre maggiore di cattiveria e spietatezza.

I pirati sono una minaccia per i personaggi limitatamente al primo atto, mentre la loro pericolosità si smorza sempre di più nel corso della pellicola. Diventano infatti dei personaggi fondamentalmente comici, con una leader solo apparentemente arcigna a capo di un gruppo di criminali che sono in realtà dei bambinoni.

Allo stesso modo molto meno minacciosi di quanto sembrino sono l’esercito e, soprattutto, il generale, che in realtà è totalmente nelle mani di Muska, raccontato come nemico piuttosto banale, che desidera solo arricchirsi e ottenere una nuova arma da guerra.

Mazuka Laputa

Mazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Il vero villain, appunto, è Muska.

Muska è uno degli antagonisti più temibili di tutta la produzione di Miyazaki: volendosi solo apparentemente arricchire, in realtà è un uomo assetato di potere, che non si fa alcuno scrupolo a maltrattare e usare una ragazzina così indifesa.

Molto indovinata la scelta di legarlo così direttamente alla protagonista, dando un sapore più importante al loro conflitto. Al contempo, è un antagonista elegante e ben raccontato, che non si sbilancia mai, ma rimane solo drammaticamente malvagio, a tratti persino inquietante.

Il paradiso inviolabile

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Anche se Laputa è una destinazione desiderata per le sue ricchezze e la sua potenza, la bellezza del luogo è un’altra.

L’isola è mostrata come un luogo dalla natura incontaminata, con un’atmosfera magica che racconta ancora una volta la bellezza degli ambienti quando sono sottratti al controllo umano.

Così un castello che era un’arma di distruzione, è diventato un paradiso terrestre, con dei robot killer che hanno riscoperto la loro natura gentile.

Robot Laputa

Il robot in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

La tematica dell’ambientalismo in questo caso è più sottile, mentre i temi centrali sono l’avidità umana e l’orrore della guerra. Il primo è meno incisivo, ma costante: nella loro completa onestà e ingenuità, i due protagonisti raggiungono Laputa per il piacere della scoperta, e non per arricchirsi.

Molto diverso dal comportamento dei soldati mentre spogliano il castello delle sue ricchezze senza pietà.

Più drammatico è il tema della guerra, racconto dall’azione distruttiva – letteralmente – dei villain, ma racchiuso soprattutto nella scena in cui Mazuka utilizza per la prima volta l’isola come arma, che ricorda molto una certa bomba atomica…

Temi che saranno anche meglio raccontati l’uno in La città incantata (2001), e l’altro in Il castello errante di Howl (2004).

La tecnica artistica di Miyazaki in questo film mostra già un’importante evoluzione.

La tecnica generale è ancora molto abbozzata per diversi personaggi, soprattutto nelle scene affollate, e forse è la pellicola in cui si vede di più l’importanza dell’esperienza del regista con Lupin e Heidi.

Sheeta – ma anche Pazu – è molto simile per i tratti del viso ad Heidi, e anche un po’ per la caratterizzazione:

In generale, per il momento Miyazaki rimane sul semplice per la maggior parte dei volti, e alcuni personaggi maschili ricordano Lupin, appunto.

Inoltre, in Laputa si guarda al futuro, ma anche al passato: le volpi che corrono sulle spalle dei robot sono identiche all’animale da compagnia di Nausicaä:

E ci sono due personaggi che sembrano dei bozzetti per prodotti futuri: la sorella di Pazu assomiglia moltissimo alla protagonista di Ponyo sulla scogliera (2008), mentre il macchinista dei pirati sembra la prima versione di quello che sarà poi Kamaji ne La città incantata:

Ponyo Laputa

I passi avanti più promettenti sono i primi studi fatti sui volti anziani, in particolare quello delle matrone, come appunto Dola, che avrà la sua migliore realizzazione in La città incantata con Yubaba e soprattutto in Il castello errante di Howl con la protagonista:

Altrettanto buono è il lavoro fatto sulle espressività del viso dei personaggi, che offrono molti spunti soprattutto per Mazuka, ma anche sempre per Dola:

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John Wick 4 – Una scommessa vinta

John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski è il quarto e (forse) ultimo capitolo della saga omonima con protagonista Keanu Reeves.

Un film molto ambizioso con un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – e che ha aperto benissimo nel primo weekend: 137 milioni in tutto il mondo!

Di cosa parla John Wick 4?

John Wick è pronto per la sua vendetta contro la Gran Tavola, ma un nuovo nemico si staglia all’orizzonte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere John Wick 4?

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

In generale, sì.

Nonostante abbia molto apprezzato questo quarto capitolo, ci sono indubbiamente alcune barriere all’ingresso: anzitutto, è quanto mai importante aver visto gli altri film della saga, così da avere un’infarinatura generale della storia – e abbiamo visto recentemente come non sia così scontato.

Inoltre, alcuni potrebbero non apprezzare le coreografie dei combattimenti, quantomai rocambolesche e creative, quasi fino all’accesso, nonostante io ne abbia assolutamente apprezzato la grande originalità.

Insomma, non il solito film action.

La pochezza del marchese

Bill Skarsgård in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

A primo impatto il Marchese sembra un villain piuttosto tipico e di scarso interesse, nonostante la buona prova attoriale di Bill Skarsgård.

Invece il film riesce a far spiccare i personaggi positivi per la loro moralità ferrea, e a condannare invece totalmente – pur in maniera molto sottile – l’antagonista.

Il marchese infatti non è solamente cattivo e spietato, ma è proprio un inetto ed un codardo, incapace di affrontare direttamente le sfide, preferendo prendere scorciatoie, sentendosi così invincibile nella sua posizione di potere.

Ma la sua arroganza alla fine gli si rivolta contro…

L’unione fa la forza

Shamier Anderson in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

Non era facile riuscire a gestire in maniera efficace i personaggi secondari e apparenti antagonisti del protagonista.

Ma John Wick 4 ci è riuscito ottimamente.

Anzitutto Mr. Nobody sceglie di non andare più contro Wick, ma anzi di aiutarlo nella sua impresa, perché lo stesso dimostra di avere una morale che va molto oltre la pura vendetta.

E l’aver salvato il cane non solo è un bellissimo collegamento al primo capitolo, ma riesce soprattutto a legare indissolubilmente lo spietato cacciatore di taglie con il protagonista, in maniera molto convincente e credibile.

Donnie Yen in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

Ancora migliore è la gestione di Caine.

Il killer cieco e John Wick sono legati sia da un rapporto di amicizia, sia da un simile passato tormentato. E, soprattutto, sono uniti dal senso dell’onore e del rispetto dei patti. Infatti, Caine avrebbe potuto uccidere facilmente il protagonista quando era in evidente difficoltà anche solo ad arrivare al luogo del duello.

E invece ha deciso di non scendere al livello del marchese – nonostante avrebbe così ottenuto la sua ricompensa in maniera più veloce e meno rischiosa – ma di essere invece un concorrente corretto.

I rocamboleschi combattimenti

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

La gestione dei combattimenti potrebbe essere un elemento estremamente divisivo.

Io personalmente ho adorato tutte le coreografie incredibilmente rocambolesche e la loro pazzesca creatività, che è stato sempre uno degli elementi che ho apprezzato della saga e che qui ho ritrovato nella sua forma migliore.

E ancora una volta si combatte con tutto, e ovunque: martelli, spade, pistole, fucili e persino carte da gioco. E con un livello ancora più interessante nel creare uno stile di combattimento assolutamente credibile per un killer cieco.

Nota di merito anche alla scelta del duello finale: lento e imponente, del tutto diverso dal taglio caotico e meno strettamente cadenzato di tutti i combattimenti precedenti, impreziosendo la sequenza finale di un importante pathos e di una intrigante tensione.

La giusta ironia

Un elemento che personalmente mal sopporto dei film action è che spesso si sceglie un tono incredibilmente serioso, con prodotti che si prendono fin troppo sul serio, risultando di spesso ridicoli e persino noiosi – sì, sto parlando proprio di The Gray Man (2022).

Invece in John Wick 4, nonostante la monumentalità della pellicola e della storia raccontata, non manca lo spazio per battute piuttosto gustose.

Ho particolarmente apprezzato la scelta di alzare il livello di assurdità delle scene di combattimento fino a renderle quasi comiche, e, soprattutto, la splendida autoironia di Caine.

Una battuta su tutte:

Vediamo le carte.

Piccole e buone didascalie

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

La costruzione della trama è pulita e abbastanza lineare: il protagonista deve arrivare a sconfiggere il boss finale – la Gran Tavola – e deve trovare anche un modo per conquistare la sua libertà.

E si sceglie un modo credibile e perfettamente coerente con la saga stessa. Al contempo, inserendo un’ottima parte centrale scaturita da una quest secondaria praticamente fondamentale per mantenere solidità della trama.

A fronte di una struttura narrativa ben congegnata, la pellicola riesce con grande abilità a fornire allo spettatore tutte le informazioni di lore di cui ha bisogno, senza risultare per questo pedante.

In particolare, la scelta più ingegnosa è stato il quaderno di appunti di Mr. Nobody, con cui identifica alcuni simboli propri della mitologia del film, e così li spiega anche allo spettatore.

John Wick 5 si farà?

Con grande dispiacere, il regista ha dichiarato che per ora la storia di John Wick è finita.

Effettivamente l’avventura di Keanu Reeves sembra conclusa e il protagonista sembra arrivato ad una sua naturale conclusione – per una saga, ricordiamolo, che non era pensata per essere tale.

Nonostante ciò, è in programma uno spin-off con protagonista Ana de Armas, in uscita nel prossimo futuro col titolo di Ballerina.

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Animazione Animazione giapponese Avventura Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico La magia di Miyazaki

Nausicaä della Valle del vento – L’ambientalismo di primo pelo

Nausicaä della Valle del vento (1984) è il primo film in cui Miyazaki è sia regista che sceneggiatore, possiamo dire la sua prima avventura in autonomia, dopo essersi già affacciato al cinema con Lupin III – Il castello di Cagliostro (1979).

A fronte di un budget davvero ridotto – appena 180 di yen, circa 750 mila dollari – incassò 8 milioni in tutto il mondo (o almeno nei paesi in cui uscì). Arrivò nei cinema italiani solamente nel 2015.

Di cosa parla Nausicaä della Valle del vento?

Circa mille anni dopo una terribile guerra termonucleare che ha distrutto gran parte della Terra, il mondo è diviso in due grandi imperi e frammentato in piccole comunità autonome. Ma c’è chi ancora vuole riportare l’Umanità al suo splendore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nausicaä della Valle del vento?

Nausicaä della Valle del vento

Assolutamente sì.

Soprattutto se siete appassionati di Miyazaki, non potete assolutamente perdervi questo titolo – e lo dico io che non l’ho visto se non prima di questa recensione. Un’opera prima che però racchiude già molti temi cari al regista, che si ritroveranno anche e soprattutto in La principessa Mononoke (1997).

La tecnica artistica, nonostante sia più semplice e meno dettagliata rispetto alla sua produzione successiva, riesce comunque a raccontare mondi sorprendenti, personaggi peculiari e atmosfere fascinose. Al contempo la storia è intrigante, avvincente, e racchiude un’importante riflessione che ha davvero anticipato i tempi…

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Nausicaä della Valle del vento il pericolo è medio.

Essendo uscito nel 2015 in Italia, al tempo Cannarsi aveva già acquisito uno status piuttosto importante. Tuttavia, non era ancora all’apice della sua follia: i dialoghi appaiono abbastanza artificiosi, ma non ad un livello tale da compromettere complessivamente la godibilità del film.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La prima protagonista

Nausicaä della Valle del vento

Una peculiarità di Miyazaki è di scegliere come protagoniste, nella maggior parte delle sue opere, personaggi femminili con capacità fuori dal comune.

In questo caso il potere di Nausicaä poteva prendere delle strade molto semplici e ridondanti, trasformandola nella più classica delle Mary Sue. Ma non è nello stile del regista: al contrario le abilità della protagonista sono strettamente connesse con la tematica centrale della pellicola stessa.

Infatti Nausicaä è l’unica capace di riconnettersi con quella natura, che invece l’umanità considera solamente ostile e distruttiva, combattendo la violenza solamente con la violenza. E lo si vede fin da subito, quando riesce a placare sia l’Ohm sia il cucciolo che Yupa gli porta.

E la sua connessione è fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità stessa.

La potenza della natura

Nausicaä della Valle del vento

Come spiega la saggia anziana della Valle del Vento, ogni volta che si è cercato di distruggere il Mar Marcio, gli Ohm si sono diretti in massa verso i centri abitati, distruggendo a loro volta tutto quello che incontravano.

Agli occhi degli umani colonizzatori, quindi il Mar Marcio e i suoi abitanti sono il nemico da sconfiggere per riportare l’umanità alla gloria. Ma neanche il popolo della Valle del vento è privo di colpe: molto ingenuamente, continua a distruggere le spore che starebbero avvelenando le coltivazioni.

Ma Nausicaä capisce che la realtà è ben diversa.

Nausicaä della Valle del vento

Dopo la terrificante distruzione operata dall’uomo, la Terra, e quindi la Natura, sta solo cercando di depurarsi dall’avvelenamento e dall’inquinamento che gli è stato rovesciato addosso, e quindi, più in generale, sta tentando di purificarsi dalla presenza umana e dei suoi danni.

E allora l’unico modo per l’umanità di continuare a vivere sulla Terra è di imparare rispettarla, ma per davvero: vivere in armonia con l’ambiente, e lasciare che sia lo stesso a curarsi dei danni che gli sono stati inflitti.

E il Mar Marcio che depura la terra non è tanto diverso dalle nostre foreste che depurano l’aria che respiriamo…

Atmosfere magiche

Nausicaä della Valle del vento

Già in questa prima pellicola Miyazaki riesce a rappresentare un mondo davvero splendido.

La peculiarità di questo maestro dell’animazione è proprio il far immergere i personaggi in ambienti fascinosi e pieni zeppi di particolari, curati alla stregua di un’opera d’arte – tratto che avrà il suo picco con Il castello errante di Howl (2004).

In Nausicaä della Valle del vento si vede già in nuce questa tendenza: paesaggi e ambienti più semplici e ordinari si alternano ad ambientazioni davvero suggestive, in particolare nel caso del Mar Marcio, un luogo magico e pieno di sorprese.

Fra l’altro lo stesso mi ha ricordato le meravigliose ambientazioni del videogioco Hollow Knight (2017):

Un eccessivo didascalismo

Nausicaä della Valle del vento

L’unico elemento che non mi ha entusiasmato della pellicola è il didascalismo delle primissime scene.

Dovendo sottostare alla necessità di raccontare alcuni elementi della trama fin dall’inizio, Miyazaki si è andato ad incastrare in diversi momenti in cui la protagonista dice a voce alta delle cose che probabilmente erano solo nei suoi pensieri.

E se la pesantezza e la poca naturalezza di queste scene si sente abbastanza nella versione originale, in realtà il vero dramma è il doppiaggio di Cannarsi, che riesce come sempre a portare all’ennesima potenza ogni elemento anche solo potenzialmente negativo…

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Dramma storico Drammatico Film L'ultima fatica di David Fincher

Mank – Il picco di complessità

Mank (2020) è l’ultimo film (finora) diretto da David Fincher, il primo ad arrivare quasi esclusivamente in streaming.

Tuttavia, ha incassato sorprendentemente bene: ben 100 milioni di dollari, a fronte di un budget di 25 milioni.

Di cosa parla Mank?

Herman Mankiewicz è un ottimo sceneggiatore, ma è anche fortemente detestato nell’ambiente. Si imbarca nella sua ultima, grande avventura: scrivere la sceneggiatura del primo film di un certo Orson Welles…

Vale la pena di vedere Mank?

Gary Oldman in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Dipende.

David Fincher rimane indubbiamente un ottimo regista, e a livello artistico è sempre superlativo. Tuttavia, è uno dei suoi pochi film che non mi ha quasi per nulla entusiasmato. Per vari motivi, ma principalmente perché – per sua stessa ammissione – è una pellicola incredibilmente verbosa e forse la più complessa della sua produzione.

Questo non vuol dire che non possa piacervi: come detto, la tecnica è sempre superba e la storia, soprattutto se siete appassionati del periodo storico e politico rappresentato – gli Stati Uniti degli Anni Trenta – potrebbe piacervi moltissimo. Altrimenti, è anche facile che vi perdiate nella sua pedante complessità…

Quando c’è la tecnica…

Tom Burke in una scena di Mank (2020) di David Fincher

David Fincher è sempre un autore impeccabile.

Persino nelle opere della sua produzione per me poco entusiasmanti, non mi ha mai deluso dal punto di vista registico. La sua presenza dietro la macchina da presa assicura sempre una tecnica sublime, curata ed elegante. E anche nel caso Mank non è assolutamente da meno.

In questo caso Fincher cerca di mimare proprio la regia di Orson Welles e in particolare quella – ovviamente – di Quarto potere (1941). E, almeno a livello tecnico, riesce a non essere da meno rispetto ad uno dei più grandi capolavori della storia del cinema.

E quando c’è la tecnica…

…non sempre basta

Amanda Seyfried in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Mank non mima solamente la regia di Quarto potere.

L’opera prima di Welles, nonostante sia stata assolutamente rivoluzionaria dal punto di vista tecnico – il primo uso consapevole della profondità di campo – è un’opera che personalmente trovo davvero pesante.

E così anche Mank è incredibilmente e, per certi versi, inutilmente, complesso: l’alternanza fra presente e passato è in realtà ben calibrata, ma riuscire a seguire la rete intricata di eventi e la totale verbosità delle scene è stato un vero incubo.

Tanto più che il film si basa sulla consapevolezza del futuro, cercando di farci immergere nelle conversazioni ingenue di persone del tutto ignare degli eventi di portata epocale che da lì a poco avrebbero sconvolto l’umanità.

Io, personalmente, non sono riuscita ad immergermi.

La morale

Gary Oldman e Tuppence Middleton in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Un aspetto che mi è sempre piaciuto dei progetti di Fincher è la morale.

In questo caso, la morale del film è legata alla parabola della organ grinder’s monkey, letteralmente la scimmia dell’arrotino, simbolo di una persona che vive a fianco dei potenti, ma non ha effettivamente un ruolo di potere.

E così è infatti il ruolo di Mank.

Nonostante fosse un ottimo sceneggiatore, nonostante avesse cercato di forzare la mano sulla sua posizione, alla fine si era ritrovato con un nulla di fatto, senza mai riuscire ad avere un ruolo veramente importante, anzi finendo del tutto escluso dal mondo del cinema.

Una morale indubbiamente interessante, ma forse quella meno graffiante fra quelle proposte nella cinematografia di Fincher, tanto più per il suo essere basata su una tesi la cui veridicità storica è molto dubbia, ovvero quella secondo la quale Mank sarebbe stato l’unico autore della sceneggiatura di Quarto potere...

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2022 Animazione Avventura Azione Comico Commedia Drammatico Dreamworks Fantasy Film Il gatto con gli stivali

Il gatto con gli stivali 2 – La rinascita?

Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford è stata una grande sorpresa fra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: un sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo – mediocre e dimenticabile – capitolo.

Infatti, aprendo con un incasso non molto promettente – appena 20 milioni negli Stati Uniti – il film ha cominciato la sua scalata verso il successo proprio grazie all’ottimo passaparola, che l’ha fatto arrivare ad incassare 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90.

Ed è un caso più interessante di quanto si potrebbe pensare…

Di cosa parla Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali è un eroe amato da tutti, con una vita spericolata e senza freni. Ma un incontro inaspettato gli farà cambiare drasticamente idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vi vedere Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Assolutamente sì.

Non avevo inizialmente alcun interesse per questa pellicola – né d’altronde per il primo capitolo, che non avevo mai visto. Mi sembrava il solito strascico senza senso di una saga – quella di Shrek – che boccheggiava già con il terzo film della storyline principale.

E per fortuna il passaparola mi ha salvato.

Il passaparola positivo è stato infatti la salvezza di questo prodotto, che inizialmente sembrava destinato al collasso economico – come la maggior parte dei film d’animazione di questo periodo. E ha portato anche me alla visione.

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il gatto con gli stivali 2 è un’ottima pellicola d’animazione, che dopo tanti anni riporta la Dreamworks verso quel taglio narrativo che l’aveva resa così diversa dai prodotti della concorrenza.

A questo si aggiunge una tecnica d’animazione che mischia la grafica 3D con quella 2D, ottimamente realizzata, che ricorda molto la bellezza di altri ottimi prodotti come la serie Arcane (2021 – …) e Spiderman into the spiderverse (2018).

Insomma, se non l’avete ancora fatto, recuperatelo assolutamente.

Ma passiamo alla domanda fondamentale…

Per vedere Il gatto con gli stivali 2 devo vedere Il gatto con gli stivali del 2011?

Questa sezione è dovuta perché non voglio che voi facciate il mio stesso errore.

Visto il mio totale disinteresse per il primo capitolo – e il mio totale disprezzo per le ultime morenti fasi della saga di Shreksono passata direttamente al sequel. Poi, per completezza, ho deciso di vedere anche il primo capitolo.

E ho sbagliato.

Non solo il dislivello fra i due film è immenso, ma la visione del primo capitolo è fondamentalmente inutile per fruire del seguito. E potrebbe anzi avere l’effetto contrario: allontanarvi dalla visione de Il gatto con gli stivali 2.

Purtroppo, Il gatto con gli stivali (2011) è veramente mediocre: una trama banalissima e di nessun interesse, personaggi quasi grotteschi e villain assai deboli e mal costruiti. Per questo, nelle prossime righe vi dirò le poche cose che vi servono per godervi appieno Il gatto con gli stivali 2.

Non proseguire se non vuoi spoiler su Il gatto con gli stivali (2011)!

Quando era solo un cucciolo, il gatto con gli stivali fu adottato da una donna che curava un orfanotrofio, e la stessa gli regalò il suo iconico paio di stivali, simbolo della sua futura vita da eroe.

Nel primo film il gatto conosce anche Kitty Softpaws, che ritorna nel seguito, con cui intraprende una relazione romantica, nonostante la gatta sia una doppiogiochista e nel film si scopre essere parte dell’inganno del villain.

Ora potete vedere Il gatto con gli stivali 2!

La caduta dell’eroe

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

L’incipit è davvero ottimo.

La pellicola si apre con un rocambolesco numero musicale con protagonista il gatto, a cui segue un combattimento incredibilmente ben realizzato contro il gigante che ha involontariamente risvegliato e che attacca la città.

Questa sequenza ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro protagonista.

Il gatto con gli stivali vive una vita a metà fra l’eroismo e la criminalità: salva la città ed è ammirato dal popolo, ma in parte osteggiato dai personaggi più in vista, di cui si approfitta, conducendo una vita piuttosto spericolata e dissoluta.

Ma non è una scelta sostenibile nel tempo.

Il viaggio della maturità

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il film racconta la maturazione del protagonista, una sorta di passaggio da un’esistenza più giovane e, volendo, adolescenziale, verso una vita più adulta e consapevole.

Infatti, all’inizio della pellicola il gatto viene messo davanti alle sue responsabilità: ha sparato tutte le cartucce che gli hanno permesso di ridere in faccia alla morte, vivere senza pensare alle conseguenze…

…e gli è rimasta una sola vita.

Inizialmente il protagonista si rifiuta di accettare questa possibilità, e sceglie di continuare a vivere come ha sempre fatto. Il momento del drastico cambio di idea, e della decisione di spogliarsi della sua identità, è l’incontro con la Morte.

La Morte è infatti l’unica cosa che fa davvero paura al protagonista.

Un’inquietante ombra che lo insegue per tutta la sua avventura, senza che il gatto sia – per la maggior parte del tempo – capace neanche di raccontarlo ai suoi compagni. E la sua maturazione sta proprio nel come affrontare la Morte o, meglio, la responsabilità di avere una sola vita da vivere, e per questo di trattarla con cura.

E infatti il primo istinto del protagonista è di aggirare il problema, concedendosi ancora molte vite e molte occasioni da utilizzare, ma, soprattutto, da sprecare.

Ma nel finale la sua scelta di non sfuggire dalla morte, ma di guardarla in faccia e sfidarla, è quello che fa capire alla stessa che il gatto non è più quello di una volta, non è più l’eroe sfacciato che non aveva alcun interesse o cura della sua esistenza. E per questo lo lascia andare.

Le favole adulte

Riccioli D'oro e i Tre Orsi in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Con Il gatto con gli stivali 2 finalmente la Dreamworks torna a delle scelte narrative più interessanti e mature, in questo caso portando in scena le versioni adulte delle favole stesse, che in certo senso rispecchiano anche il pubblico di riferimento.

La favola di più immediata comprensione per il pubblico europeo è quella di Riccioli d’oro, che ormai è una giovane adulta che vive insieme a tre orsi: un simpatico quanto temibile quartetto di criminali.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Anche più interessante è la riscrittura della storia di Little Jack Horner – nel film Big Jack Horner, per ovvi motivi. La sua favola proviene da una canzoncina del folklore inglese, che recita quanto segue (la traduzione è mia):

Little Jack Horner
Sat in the corner,
Eating his Christmas pie;
He put in his thumb,
And pulled out a plum,
And said, “What a good boy am I!”

Little Jack Horner
Stava seduto in un angolo
Mangiando la sua mince pie
Vi mise dentro il pollice
E tirò fuori una prugna
E disse: “Che bravo bambino che sono!”

Quindi la storia di un bambino incredibilmente viziato e dispettoso, per cui i genitori stravedevano e a cui permettevano di fare tutto quello che voleva, fra cui mettere il pollice dentro le torte, appunto.

E, da bambino capriccioso è diventato un adulto capriccioso, che vuole tutto per sé: colleziona ogni oggetto magico esistente, ma ancora non gli basta.

E per questo è un villain perfetto.

Un terzetto di villain

Mentre in un altro contesto la presenza di così tanti villain poteva impattare negativamente sul risultato finale, nel caso de Il gatto con gli stivali 2 questa scelta favorisce invece una narrazione articolata e senza tempi morti.

Il primo gruppo di villain – o quasi – è quello di Riccioli D’oro e i Tre Orsi.

Alle spalle dei Tre Orsi, la ragazza vuole portare indietro i suoi genitori perduti, in un atto di totale egoismo e di mancanza anche di rispetto nei confronti di personaggi che si dimostrano veramente accoglienti e amorevoli nei suoi confronti.

Un bellissimo racconto di come una famiglia si possa formare anche al di fuori dei perimetri più tradizionali, portando Riccioli D’oro ad una consapevolezza non tanto dissimile da quella del protagonista: essere felici della propria vita, che può essere già piena e soddisfacente senza dover inseguire sogni di felicità solo apparentemente risolutivi.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Due sono gli elementi di forza di Big Jack Horner: il suo ruolo nella trama e il non abbandonare mai la sua natura malvagia.

Per fortuna per il sequel si è scelto di non perpetuare il tremendo e ridondante errore del primo film: far diventare buono il villain. Una scelta solo apparentemente diversa, in realtà diventata col tempo piuttosto prevedibile, con risultati veramente mediocri se gestita così male come in Il gatto con gli stivali (2011).

Invece Jack dice esplicitamente di essere morto dentro, e, nonostante i tentativi del Grillo Parlante di farlo rinsavire, rimane cattivo fino alla fine. E la sua disfatta determina anche la definitiva maturazione dei personaggi positivi, che si alleano ai suoi danni e rinunciano al desiderio tanto ambito.

La sua gestione è altrettanto ottima nel finale: Jack viene messo temporaneamente da parte – apparentemente sconfitto – per far spazio alla Morte.

Morte Il gatto con gli stivali 2

Morte in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

La Morte è uno dei migliori villain mai creati dalla Dreamworks.

Finalmente si ritorna a nemici nello stile di Kung Fu Panda, profondamente malvagi e temibili. In questo caso la Morte è veramente un avversario spaventoso, nell’aspetto e nei comportamenti, e che, soprattutto, viene sconfitto dalla maturità del protagonista.

E fa tanto più paura in quanto si contrappone un animale così possente e pauroso – almeno nel folklore – del lupo, armato di due mannaie, con quello che in fin dei conti è un piccolo gattino, che quasi scompare davanti alla possanza del suo nemico…

Un film per tutte le età

Il grande pregio de Il gatto con gli stivali 2 è stata la scelta di tornare ad un target variegato come era stato per i suoi brand di successo, soprattutto quello da cui deriva: Shrek. Ed è possibile grazie alla scelta di un gruppo di personaggi piuttosto variegato che riesce ad agganciare diversi tipi di pubblico.

Il protagonista racconta una fascia di pubblico intermedia, di giovani adulti che si trovano ad abbandonare l’adolescenza per abbracciare la complessità della vita adulta, con grandi dubbi e paure, ma anche importanti soddisfazioni.

Per un pubblico più giovane e adolescenziale, il punto di riferimento è Riccioli D’oro, che rappresenta proprio la classica adolescente insicura e dal brutto carattere, che però riesce a rendersi conto del valore della famiglia e, in generale, degli affetti che la circondano.

Ma anche il pubblico infantile rimane soddisfatto grazie a Perrito, l’adorabile cagnolino che diventa l’improbabile compagno di avventure del gatto e di Kitty. Il cucciolo – da cui il nome, perrito – racconta proprio lo sguardo infantile e sognante, offrendo quel tocco di dolcezza e tenerezza che non poteva mancare.

Un cambio di passo?

Proprio in questa scelta di un pubblico così variegato come ai vecchi bei tempi io spero di vedere l’inizio di un ripensamento di questa casa di produzione: dopo il cambio di direzione del 2016 – ma per certi versi anche da prima – la Dreamworks ha perso del tutto la sua identità.

Infatti ha cercato di mimare i successi della Illumination Entertainment – madre dei grandi successi della saga di Cattivissimo me e Sing – ma finendo solo per snaturarsi: a differenza dei grandi incassi dei concorrenti – quasi un miliardo solo per il recente Minions 2 (2022) – alla Dreamworks sono rimaste solo le briciole.

Infatti, quando ormai i grandi successi della saga di Shrek erano lontani, dal 2016 i tentativi di rilanciarsi con prodotti solo destinati al pubblico infantile come Trolls o Baby Boss, ma solo il secondo è riuscito a fare un incasso dignitoso.

Per il resto, solo poche centinaia di milioni di incasso per ogni film, se non veri e propri flop.

Che sia il momento della svolta?