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Avventura David Fincher Dramma familiare Drammatico Film Thriller

Gone girl – Un thriller atipico

Gone girl (2014) di David Fincher è un thriller atipico, che permise al regista di tornare su pattern per lui più consueti, dopo Millennium – Uomini che odiano le donne (2011) – un remake piuttosto discutibile.

La pellicola fu anche il più grande successo commerciale della sua carriera: a fronte di un budget comunque consistente – 61 milioni di dollari – ne incassò quasi 370 in tutto il mondo.

Di cosa parla Gone girl?

Dopo una giornata come tante, Nick torna a casa e trova una situazione inaspettata: un silenzio funebre e un tavolo distrutto a terra. E da lì parte una vicenda piena di colpi di scena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gone girl?

Assolutamente sì.

Gone girl è uno dei miei film preferiti di David Fincher, uno di quei registi che si migliora film dopo film – nonostante qualche capitombolo sulla strada. Una regia elegante, una fotografia enigmatica e quasi lugubre, con due attori protagonisti perfettamente in parte.

Una pellicola che al contempo porta uno spunto interessante per riflettere sulla società odierna e su quanto l’immagine pubblica sia spesso fondamentale per l’evoluzione per cambiare le sorti stesse di una persona, di come la verità possa essere manipolata più facilmente di quanto si pensi…

Un matrimonio come tanti

La storia di Amy e Nick è sorprendentemente breve.

Solo cinque anni, in cui la loro relazione passa dall’essere un sogno romantico, che sembra risolvere anche emotivamente la difficile situazione familiare di Amy, a prendere vie ben più tragiche, facendo anche emergere la vera natura dei suoi protagonisti.

In realtà, come tipico in ambito statunitense, la coppia si è sposata molto presto con l’idea di sistemarsi in fretta, ma scoprendo altrettanto in fretta come la luna di miele iniziale non era altro che un sogno.

In generale tutti i problemi della coppia ruotano intorno alla famiglia: i contrasti nascono per le intromissioni – volute o meno – dei rispettivi genitori. Prima Amy deve concedere una grossa somma di soldi ai suoi genitori senza chiederlo a Nick, azione che porta lo stesso ad una ripicca piuttosto infantile.

E poi tutto crolla definitivamente quando Amy deve del tutto allontanarsi dal suo habitat, e andarsi ad incastrare in un contesto che non le appartiene per nulla: la realtà suburbana, a cui Nick invece è molto legato.

Da quel momento diventa un’ombra nella vita del marito, che decide di andare a cercare la sua felicità altrove. E il suo tentativo di concludere definitivamente la relazione è il trigger definitivo per il piano che Amy aveva già da tempo in mente.

Scrivere una buona storia

Il piano di Amy è perfetto.

Si comincia con una riscrittura della loro storia: basta scrivere un diario particolarmente toccante, dove si mischia verità e fantasia, riempiendolo di elementi per la maggior parte impossibili da provare.

E allo stesso modo ricostruisce l’identità di Nick, basandosi su tratti in realtà già esistenti, e aggravandoli: le sue mani bucate, il suo tradimento, la sua violenza. Fino ad arrivare alla colpevolezza per omicidio.

Tutti i pezzi sono perfettamente posizionati sulla scacchiera.

E Nick non è un avversario degno.

Infatti, il marito è totalmente ignaro delle intenzioni della moglie, totalmente incapace di evitare gli ostacoli perfettamente costruiti che lei gli ha posto lungo la strada. Anzi vi inciampa più e più volte, in maniera ogni volta più sospettosa

Ed è ancora più fallibile tanto più le sue colpe erano effettivamente esistenti: era effettivamente un marito assente, adultero e del tutto ignaro di come la moglie passasse il suo tempo. E una volta le aveva davvero messo le mani addosso…

Ma Nick in parte riesce a salvarsi.

Un nuovo piano

Amy non è infallibile.

Anche se sembra assolutamente determinata a compiere fino alla fine la sua vendetta, non è preparata agli imprevisti. E così il suo assumere un’altra identità fallisce, e si trova spogliata, derubata. E deve passare ad un piano alternativo.

Inizialmente Amy sembra in un limbo, insicura sul da farsi: ancora per qualche scena sceglie di rimanere con l’aspetto della non-Amy, nonostante le insistenze di Desi.

E con la stessa butta le prime carte in tavola e lo circuisce con grande semplicità: basta ripetere la storia strappalacrime creata ad arte, già sperimentata e già funzionante.

Ma Nick le fa cambiare idea.

Per farla tornare da lui ed evitare la sedia elettrica, Nick prende le vesti di quel marito perfetto e premuroso che Amy ricercava in lui, anche solo nelle apparenze. E funziona.

Quindi Amy medita un nuovo piano, il cui primo atto è diventare la compagnia piacente e desiderabile per Desi: si taglia i capelli, sceglie un biondo freddo e tagliente, indossa solamente lingerie sensuale. E recita perfettamente la parte della vittima.

E poi, con una mossa fulminea, uccide l’uomo che si era davvero fidato di lei.

Troppo tardi

Amy ritorna a casa.

In un altro contesto, la sua storia sarebbe stata immediatamente verificata e messa in dubbio in più punti – e con convinzione.

Invece Amy si mette addosso le vesti della martire e gioca benissimo con quanto che aveva già costruito finora: la moglie tradita e maltrattata, che si è salvata da sola e vuole ricostruire il proprio matrimonio.

Nonostante evidentemente nulla torni.

Ma la pressione mediatica è così forte che Amy si sente totalmente al sicuro nel mettere in scena la facciata piuttosto convincente del matrimonio perfetto, che in realtà nasconde lo stesso incubo che lei aveva raccontato nel diario, ma a parti invertite.

E Nick non può scappare…

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Avventura Azione Drammatico Film Horror Scream - Il secondo rilancio Scream Saga

Scream 6 – La maledizione del sequel

Scream 6 (2023) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett è il sesto capitolo della saga horror cult Scream, nonché il secondo film del franchise diretto da questa coppia di registi.

A fronte di un budget superiore rispetto al precedente – 35 milioni – il film ha aperto con 67 milioni di dollari, prospettando un ottimo incasso.

Di cosa parla Scream 6?

Un anno dopo gli eventi di Scream 5, Sam e Tara si sono trasferite a New York insieme agli altri sopravvissuti. Ma la minaccia di Ghostface è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 6?

Dipende.

Nel contesto delle produzioni horror mainstream in genere, è sicuramente ad un livello superiore per messinscena e regia, soprattutto per le scene degli omicidi, piuttosto creative ed originali, e che non scadono mai nell’eccesso o nel cattivo gusto.

Se lo consideriamo invece nel complesso della saga, è uno dei più deboli insieme a Scream 2 (1997): l’elemento metanarrativo, che distingue questi film dal resto dei prodotti del genere di riferimento, è molto più debole e ripesca a piene mani dai precedenti, ma con molto meno mordente.

Inoltre, ci sono non pochi elementi fondamentali della trama che sono spiegati piuttosto sbrigativamente e in maniera anche complessivamente poco credibile, segno di una sceneggiatura probabilmente messa insieme in poco tempo…

Una messinscena da paura

Come per Scream 5, anche per questo capitolo la coppia di registi si conferma capace di tenere alta la tensione e di portare in scena sequenze di grande creatività ed interesse.

Particolarmente memorabile è tutta la sequenza dedicata alla metropolitana, un luogo precario e in cui tutto può crollare da un momento all’altro, con le luci traballanti e una folla di maschere – derivanti anche da altri franchise horror – dietro ognuna delle quali si può nascondere il killer.

Per tutta quella scena la tensione era alta e palpabile.

Non di minore interesse la scena del passaggio fra le finestre con la scala, in cui ogni personaggio rischia la vita per diversi e interminabili minuti. Due scene ottime, possibili proprio grazie all’intelligente scelta di cambiare location e dare al film un sapore molto più urbano e fresco.

Belle idee ma…

Scream 6 è un film pieno di buone idee.

Mi ha particolarmente colpito – almeno sulle prime – la scelta di utilizzare le maschere dei vecchi killer come sorta di countdown. Tuttavia, la stessa è obiettivamente poco credibile e purtroppo anche mal costruita: quanto è improbabile che i personaggi abbiano ottenuto così facilmente non solamente le maschere degli altri Ghostface, ma tutte le prove dei precedenti casi?

Considerando anche che gli omicidi non sono avvenuti a New York…

E la scusa i poliziotti sono facilmente corrompibili non regge…

E ancora di meno è credibile la scena della telefonata al parco, in quanto non viene minimamente spiegato perché il killer avrebbe dovuto chiamare proprio in quel momento. A posteriori era ovvio che l’avrebbe fatto, in quanto il detective Bailey era il mandante degli omicidi, ma ovviamente i personaggi in quel momento del film non potevano saperlo.

In quel caso è evidente che volessero fare una citazione alla scena analoga di Scream 2, ma, ripensandoci a posteriori, risulta veramente poco convincente. Per non parlare dell’idea per cui il detective abbia potuto scambiare il cadavere della figlia con un altro senza che nessuno se ne sia accorto…

Discorso anche peggiore è la scelta dei villain e delle loro motivazioni.

Is this Scream 2?

La scelta dei killer è stato l’elemento che mi ha meno convinto di tutta la pellicola.

Anche se ovviamente il movente è stato sempre ripreso da Scream 2 – in cui il killer principale era la madre di Billy Loomis – manca dell’elemento metanarrativo che lo rendeva effettivamente interessante. Infatti il reveal di Ghostface si basava sull’idea che solitamente i serial killer sono uomini bianchi, e, al contempo, su quanto la stessa Debbie Loomis chiosava:

My motives isn’t as 90s

Il mio movente è molto meno Anni Novanta

Al contrario, il fatto che non solo il padre, ma tutti e due fratelli di Richie si siano prestati a diventare degli spietati serial killer solamente su istigazione del genitore è molto più banale e, paradossalmente, davvero poco credibile e altrettanto poco spiegato.

La pellicola già da sola offriva un sacco di spunti per raccontare qualcosa di ben più interessante: si sarebbe veramente potuto puntare sull’idea di screditare una persona tramite lo shitposting su internet, magari portando il killer ad essere proprio drogato di questi complottismi.

E magari collegandolo in maniera interessante anche alla questione delle maschere rubate…

Sempre le stesse regole

L’inserimento delle regole metanarrative è uno degli elementi che più apprezzo di Scream, persino nel quinto.

In questo caso ho trovato una grande stanchezza al riguardo: le regole o si realizzano solo parzialmente oppure sono fondamentalmente una copia di quelle del secondo e terzo capitolo.

Everything is bigger

Tutto è fatto più in grande

Nonostante sia una regola abbastanza realistica nel contesto delle saghe, non aggiunge di fatto nulla a quanto già detto nei precedenti capitoli, né si vede in realtà un cambiamento così evidente rispetto al precedente film – nonostante la violenza sia indubbiamente molto spinta.

No one is safe, main characters are totally expendable

Nessuno è al sicuro, i protagonisti sono totalmente sacrificabili

Questa regola è fondamentalmente copiata da Scream 3 (2000) e, di nuovo, non aggiunge niente, se non annunciarti che Courteney Cox si è definitivamente stufata di far parte di questa saga. Ma la più paradossale è la seconda regola:

Whatever happen last time, expect the opposite

Qualunque cosa sia successo la scorsa volta, aspettatevi il contrario

Nonostante sia in un certo senso quello che accade – le motivazioni dei Ghostface di questo film sono totalmente l’opposto di quelle del precedente – risulta paradossale perché di fatto sono le stesse di Scream 2

La componente teen

Un aspetto che ho sempre apprezzato di Scream è che non si è mai perso in sottotrame romantiche che non avessero un’effettiva funzione nella trama stessa.

Mi rendo conto che la rivelazione per cui l’interesse romantico di turno sia Ghostface è ormai ridondante: era il punto centrale in Scream, ci si giocava moltissimo in Scream 2 ed era una rivelazione anche molto interessante in Scream 5.

Tuttavia, questo non significa che inserire sottotrame romantiche, che di fatto non servono alla trama, sia una buona idea, anzi.

Tanto più che ho la sensazione che volessero giocare con l’interesse romantico di Sam allo stesso modo che era stato fatto sia per Scream che per Scream 2, ma di fatto manca del tutto della stessa efficacia, oltre a portare in scena un personaggio veramente insipido e dimenticabilissimo.

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Accadde quella notte... Avventura Commedia Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar Racconto di formazione Road movie

Green book – Quando l’emozione è tutto…

Green book (2018) di Peter Farrelly è un film un road movie con protagonisti l’improbabile coppia composta da Viggo Mortensen e Mahershala Ali.

Un film che riscosse parecchio successo: venne candidato a cinque Oscar e ne vinse tre, fra cui Miglior film. Probabilmente proprio per questo – e per il budget davvero risicato di 23 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 321 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Green book?

Per uno strano caso, Don Shirley, importante concertista nero, sceglie Tony come suo autista nel profondo Sud degli Stati Uniti degli Anni Sessanta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Green book?

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

In generale, sì.

Nonostante mi abbia leggermente annoiato sul finale, Green book è un prodotto complessivamente piacevole, con un andamento lineare e facile da seguire.

Non il solito buddy movie, ma una sua versione molto più drammatica, con due attori stellari come Viggo Mortensen e Mahershala Ali, che alzano decisamente il livello medio della pellicola.

Insomma, non imperdibile, ma abbastanza consigliato.

Un tema importante

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Il tema centrale della pellicola è l’amicizia fra i due protagonisti.

Un’amicizia difficile, nata con i peggiori presupposti. Infatti Tony e Don sono due persone che si trovano veramente agli antipodi: l’uno molto raffinato e impettito, l’altro più guascone e quasi zotico.

Il loro rapporto nascerà incontrandosi a metà strada: Tony supererà i pregiudizi nei confronti di Don e quest’ultimo troverà nel suo autista un amico su cui contare.

Trovo sempre piacevole seguire il racconto di due persone così avanti nella loro vita che riescono comunque a stringere relazioni durature ed importanti.

Un bel messaggio, tutto sommato, raccontato anche con una scrittura complessivamente buona, che mette in scena un rapporto credibile e realistico.

Attori perfetti

Mahershala Ali in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Gli attori protagonisti alzano di gran lunga il livello della pellicola.

Mahershala Ali riesce a raccontare in maniera piuttosto interessante un personaggio complesso e combattuto, financo anche piuttosto insostenibile. Purtroppo, nonostante gli intenti della pellicola fossero palesi, non sono riuscita a farmi coinvolgere col dramma umano di Don.

Infatti ho preferito di gran lunga il personaggio di Viggo Mortensen, che porta in scena un italo americano degli Anni Sessanta senza mai scadere negli stereotipi – nonostante la sceneggiatura lo spinga molto in quella direzione – anzi impegnandosi molto in una recitazione corporea eloquente e persino in alcune frasi in italiano non del tutto storpiate.

Il razzismo non è il tema ma…

Mahershala Ali in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Il razzismo non è il tema centrale della pellicola.

Anzi, è un argomento piuttosto di contorno, raccontato per la maggior parte del tempo attraverso il razzismo benevolo di Tony: l’uomo dimostra di aver interiorizzato una serie di pregiudizi nei confronti della comunità nera, e cerca di farli aderire insistentemente alla persona di Don, nonostante lo stesso non vi si ritrovi per nulla.

E la creazione del loro rapporto si basa proprio sul superamento di questi preconcetti.

Non mancano comunque alcuni picchi drammatici – come l’arresto di Don – ma nel complesso, anche nei momenti più tragici, ci si limita ad un razzismo molto più polite, in cui il personaggio in diversi momenti viene escluso da determinati spazi e contesti – ma quasi mai con l’uso della violenza.

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

E per questo è molto digeribile per il pubblico medio statunitense.

E questo è anche il motivo per cui ha vinto come Miglior film.

Nonostante, a differenza di altri film – come 12 anni schiavo (2014) – non sia un prodotto scritto appositamente per entrare nel cuore dell’Academy attraverso trigger emotivi piuttosto smaccati, nondimeno l’ha fatto.

E così agli Oscar 2019 è stato premiato un film di medio livello, che gareggiava contro opere di invece altissimo valore come Vice (2018) e La Favorita (2018)

Ed è successo proprio perché portare in scena un razzismo così light, e in qualche modo più vicino allo spettatore odierno, ha pagato.

Nonostante in quel contesto storico un uomo nero poteva rischiare in ogni momento la sua vita e venir trattato decisamente peggio in molte le situazioni del film, come si vede per esempio in The Help (2011) – prodotto persino edulcorato da questo punto di vista.

Ed è anche il motivo per cui un film più sincero e veritiero sulla tematica come BlacKkKlansman (2018) non avrebbe mai potuto vincere.

Green book meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar 2019 vengono sopratutto ricordati per la chiacchieratissima interpretazione di Bradley Cooper e Lady Gaga, protagonisti di A star is born (2017). Come dopo dichiararono gli attori stessi, in quel momento si erano molto immedesimati nei personaggi – con tutto quello che ne consegue:

Inoltre, quell’anno, per la prima volta nella storia dell’MCU, venne candidato un prodotto supereroistico: Black Panther (2018), che era ormai diventato un fenomeno mondiale:

Personalmente, gli Oscar 2019 furono la mia epifania.

Dopo aver visto Vice – che tutt’oggi considero uno dei migliori prodotti di Adam McKay insieme a Don’t look up (2021) – andai a vedere con non poco interesse Green book, convinta che indubbiamente sarebbe stato il miglior film dell’anno.

E potete immaginare quanto mi indispettì quando mi resi conto che evidentemente non lo era, ma era stato comunque premiato come tale.

In quel momento compresi cosa muove veramente le premiazioni degli Oscar, che è stato anche il motivo di questa rubrica: accade spesso che, con una lista di film di grande valore candidati, il meno interessante – ma più politicamente orientato – ne esce vincitore.

Quindi direi che la domanda Green book meritava di vincere l’Oscar? ha più possibili risposte: trovate la vostra.

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Biopic David Fincher Drammatico Film I miei comfort movie Legal drama

The Social Network – Unfriend?

The Social Network (2010) di David Fincher, nonostante non sia magari il suo film migliore, è in assoluto il mio preferito della sua produzione. Sarà per la regia impeccabile, l’eleganza della messinscena, la scrittura perfetta di Aaron Sorkin…comunque io lo rivedo sempre con estremo piacere.

A fronte di un budget non indifferente – 40 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: quasi 225 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Social Network?

Dietro ogni grande uomo, c’è un grande dramma: il racconto della creazione del più importante (?) social media, Facebook, e della turbolenta storia di Mark Zuckerberg. Ovviamente, piuttosto romanzata.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Social Network?

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Assolutamente sì.

Ovviamente sono molto di parte, ma è innegabile che The Social Network goda di una scrittura sublime e di una regia attenta e curata, con un approfondimento interessantissimo dei personaggi – pur nel suo voler romanzare moltissimo la vicenda.

Un casting praticamente perfetto, con attori che sembrano essere nati per il ruolo – in particolare Andrew Garfield in una delle sue migliori interpretazioni. Una vicenda appassionante, che non vive di divisioni nette, ma di un’interessantissima scala di grigi che, arrivati alla conclusione, lascia uno strano sapore amaro in bocca…

Una fredda cornice

Andrew Garfield in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Uno degli elementi che apprezzo di più della pellicola è la scelta della cornice.

Apparentemente è la parte più fredda del film, in cui i protagonisti devono ripercorrere le loro vicende davanti a dei rigidi burocrati. Ed invece è proprio qui che si dà un maggiore spazio alla loro emotività più profonda.

Infatti, nei flashback per la maggior parte del tempo i personaggi, nonostante abbiano davanti agli occhi tutti i segni della distruzione imminente, continuano ad essere speranzosi e propositivi.

Sembra infatti esserci sempre lo spazio per tornare sui propri passi, per tenere in piedi un rapporto che si sta lentamente sgretolando…

Nel presente è tutto il contrario.

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Nel presente del processo ormai tutti i giochi sono fatti, tutte le carte sono state svelate: non c’è possibilità di risolvere nulla, ma piuttosto di sfogarsi, e fare in modo che questi sfoghi e questi torti trovino un riconoscimento legale.

E questa stessa emotività porta anche ad una fantastica costruzione della suspense, in particolare nelle battute finali: per gli ultimi momenti della testimonianza di Wardo si parla di trappola e di condanna a morte. Termini forti, che colpiscono al cuore, e che raccontano tutta la drammaticità della vicenda.

Emblematica in questo senso una delle ultime battute della giovane avvocatessa:

When there’s emotional testimony, I assume 85% of it is exaggeration.

In una testimonianza emotiva, do per scontato che l’85% delle dichiarazioni siano esagerate.

La spietatezza

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Nonostante, per le parole dello stesso film, Mark non sia una cattiva persona, è quasi inconsciamente spietato nel suo agire. Il futuro multimiliardario vuole portare avanti le proprie idee fondamentalmente mettendo al primo posto il successo, e solo dopo le persone.

E questo comportamento si trova fin dalle battute iniziali: dopo essere stato scaricato da Erica, Mark crea un sistema umiliante per catalogare le ragazze, andando fra l’altro ad usare le immagini senza il loro consenso.

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Quella che potrebbe essere un’azione da condannare diventa invece un successo, che lo mette in contatto con i fratelli Winklevoss, che gli forniscono l’idea primaria per la sua futura e proficua azienda.

Ma, quasi per pura antipatia, il protagonista li inganna e sviluppa il progetto alle loro spalle.

L’ultima e più importante vittima della sua spietatezza è Wardo: nonostante senza il suo sostegno non avrebbe potuto in alcun modo creare Facebook, Mark non ci mette poi tanto a scaricarlo a favore di Sean, quando questo si dimostra ben più intraprendente e calzante con il suo progetto.

E lo stesso Sean, quando si dimostra inaffidabile, viene escluso dal progetto.

Una persona difficile?

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Insomma, Mark è un personaggio problematico.

Una persona creativa e estremamente intelligente, ma fin troppo consapevole delle sue capacità e della sua superiorità rispetto agli altri, con un comportamento anche alimentato dalla stessa istituzione di cui fa parte: Harvard, considerata una delle università migliori degli Stati Uniti.

Tuttavia, Mark vorrebbe avere tutto: l’intelligenza e il successo anche in un contesto sociale che gli sembra precluso. E, soprattutto, vorrebbe essere attraente e desiderabile: vorrebbe, insomma, essere un po’ più simile a Wardo e ai Winklevoss.

Nel suo non riuscirci, si incattivisce e diventa sempre più chiuso in sé stesso e nella sua creazione, andando ad escludere appunto tutte quelle persone con un fascino desiderabile, ma è cui è indubitabilmente superiore dal punto di vista intellettivo.

Ma fanno tutti parte del problema.

Un mondo maschile

Il mondo di The Social Network è un mondo a predominanza maschile.

Se ci fate caso, tutte le persone coinvolte nel progetto di Facebook sono uomini, e i personaggi femminili sono sempre di contorno, oltre a ritrovarsi, molto spesso, esplicitamente esclusi dall’attività al centro della scena.

La scena più emblematica in questo senso è quando Sean scopre che Mark si è trasferito in California, e lo va a trovare con la ragazza di turno. Il protagonista quindi lancia a Parker e alla ragazza delle birre: Sean le afferra senza problemi, mentre la ragazza per due volte non riesce a prenderle e si dimostra piuttosto imbarazzata.

Poi, rimane in silenzio per il resto della scena.

Rooney Mara in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Discorso diverso per Erica.

La scena di apertura del film è già di per sé rivelatoria: ci racconta immediatamente il protagonista nel suo egocentrismo e la sua presunta superiorità. Ma la stessa gli si rivolta contro, andando a negargli appunto quell’unica conferma sociale che una ragazza avrebbe potuto dargli.

La stessa ragazza che, anche se probabilmente involontariamente, umilia.

E, nonostante Mark ci provi in diverse occasioni, in nessuna di queste Erica gli permette di risolvere il danno che ha fatto – o, più che altro, non gli permette di ricucire il loro rapporto, la cui conclusione è stata per lui un vero smacco.

L’altro rapporto che racconta la sottile misoginia del protagonista è Marylin Delpy, la giovane avvocata con cui dialoga sul finale.

Più volte Mark si confronta con lei in brevi momenti durante il processo, e per la maggior parte del tempo la tratta con distacco e sufficienza, come se non meritasse la sua attenzione. Ma è alla fine la stessa che lo rimette al suo posto, facendogli capire qual è la cosa migliore.

Mettere da parte la sua arroganza e accettare la sconfitta.

E sempre Marylin gli nega la possibilità di intraprendere una nuova relazione, portando Mark a cercare di riconciliarsi ancora una volta – evidentemente inutilmente – con Erica, in maniera sconsolata e insistente…

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2022 Drammatico Film Oscar 2023 Satira Sociale Thriller

Tàr – Andante impetuoso

Tàr (2022) di Todd Field è un film thriller che ha acquisito un’inaspettata popolarità nella stagione dei premi 2023. E questo anche per merito di un’attrice protagonista d’eccezione: Cate Blanchett.

A fronte di un budget (stimato) di 35 milioni di dollari, ne ha incassati finora appena 19 in tutto il mondo – ma c’era da aspettarselo per una pellicola di questo genere, quasi introvabile nei cinema italiani a due settimane dall’uscita.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Tàr (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attrice protagonista
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio
Migliori fotografia

Di cosa parla Tàr?

Lydia Tàr è una famosa e incredibile direttrice d’orchestra, che non si è mai fatto scrupoli nell’utilizzare la sua posizione a suo vantaggio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tàr?

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

Assolutamente sì.

Per quanto – per vari motivi – Tàr non sia esattamente un film per tutti i palati, per me è stata un’esperienza incredibile.

E lo è stata nonostante la durata piuttosto robusta (due ore e quaranta), che però non mi è pesata per nulla. Ed è stato possibile grazie al profondo coinvolgimento che mi ha regalato la pellicola, merito anche del montaggio frenetico e dell’incredibile interpretazione di Cate Blanchett.

Se vi appassionano i prodotti enigmatici e complessi, che lasciano spazio allo spettatore per portare le proprie conclusioni e giudizi, non ve lo dovete davvero perdere.

Una stronza?

Cate Blanchett e Nina Hoss in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

La protagonista è una stronza.

Ce lo racconta lo stesso film, mettendo in bocca questo giudizio ad un personaggio apparentemente positivo, ma che Lydia scredita totalmente, etichettandolo come il classico millennial che si nutre e si conforma alla narrazione dei social media.

Nonostante sia evidente – e lo diventa sempre di più nel corso della pellicola – che Tàr non sia una persona di specchiata moralità, non ho potuto che sentirmi vicina alla sua visione del mondo.

Infatti Tàr respinge totalmente un pensiero che cerchi di etichettare ed escludere determinati artisti per via delle loro posizioni politiche – senza considerare, fra l’altro, il contesto storico di riferimento. E lo fa indubbiamente in maniera assai tagliente ed aggressiva, ma esprimendo concetti che in gran parte mi sento di condividere.

Nonostante la stessa sia del tutto condannabile per le sue azioni.

Presagi oscuri

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

In qualche misura, la protagonista è consapevole di essere colpevole.

Lo si vede bene dal profondo contrasto fra gli ambienti puliti e meticolosi, che si scontrano con realtà invece disordinate, selvagge, pericolose. Un mondo di suoni e pericoli: le urla lontane di una donna al parco, il suono ritmico della macchina che tiene in vita una vecchia morente, oggetti che si spostano…

…e una costante sensazione di essere osservata.

Un sottosuolo di immagini – che spesso è davvero sottoterra – che rivela una realtà ben più marcia, che racconta la verità sulla protagonista. Una donna geniale e talentuosa, che però utilizzava – e utilizza – la sua posizione per ottenere dei favori sessuali, come un Harvey Weinstein qualunque.

E allora la pellicola ci mette davanti a due domande fondamentali

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

È giusto che Tàr non possa più dirigere un’orchestra?

È il solito discorso di distinguere l’artista dalla sua vita personale: un discorso per cui non esiste una risposta giusta. Con l’esclusione di Lydia, il mondo della musica ha perso una direttrice d’orchestra con un’abilità difficilmente ritrovabile altrove.

Ma d’altronde la colpa non è del colpevole?

Oltre a questo, possiamo ancora essere vicini alle sue idee, nonostante lei stessa sia parte del problema? Tàr può facilmente essere tacciata di ipocrisia e le sue opinioni potrebbero essere cancellate, svalutate. Ma in questo caso non sarebbe più giusto considerare le idee solamente come idee, non dando peso a chi le abbia formulate?

Un intreccio verboso

A latere, vale la pena di analizzare la messinscena.

Il film di Todd Field è scandito soprattutto da dialoghi frequenti e complessi: discorsi che confondono facilmente lo spettatore, ma che al contempo danno valore alla pellicola. Infatti quest’opera non vuole piegarsi ad una semplificazione a favore del pubblico, ma vuole anzi mettere in scena un mondo con le sue regole e i suoi discorsi, pure se complessi da seguire.

E il risultato è una rappresentazione realistica e credibile di una realtà lontana dalla maggior parte di chi guarda, con una rete di relazioni complesse, discorsi pieni di tecnicismi e riferimenti a prima vista incomprensibili.

E sta allo spettatore mettere insieme i pezzi.

Tàr spiegazione

In chiusura, un tentativo di spiegare per filo e per segno la storia di Tàr.

Lydia ha la brutta abitudine di cercare favori sessuali nelle persone a lei sottomesse, in cambio di supporto di altro tipo. Un comportamento ben noto nell’ambiente e ben chiaro nell’assegnazione delle borse di studio create da Tàr stessa per favorire le donne nel settore.

Krista era l’eccezione.

Con ogni probabilità la ragazza si era rifiutata di sottostare alle richieste di Lydia, e per questo aveva perso ogni possibilità di far carriera e di inserirsi in questo mondo – come le email ben testimoniano. Le stesse email sono la prova fondamentale per incastrare Tàr, motivo per cui la donna controlla il PC di Francesca per essere sicura che le abbia cancellate.

Cosa succede nel finale di Tàr

E la cosa le si rivolta contro.

Anche se non è del tutto esplicito, evidentemente Lydia aveva sedotto Francesca, arrivando infine – per motivi non chiari – a non darle il ruolo da lei tanto sperato. Così la stessa si è licenziata e ha consegnato alla polizia la corrispondenza fra Tàr e Krista.

Contemporaneamente, Tàr cerca di far entrare nelle sue grazie Olga, la talentuosa violoncellista cui assicura l’assolo. Anche con lei prova ad avere favori sessuali, ma la ragazza si sottrae esplicitamente, in particolare quando rifiuta l’invito a cena, ma poi comunque esce la stessa sera senza dirle nulla.

Le motivazioni potrebbero essere duplici: Olga potrebbe aver scoperto, tramite il video incriminante sui social, le accuse nei confronti della donna e per questo l’avrebbe evitata.

Al contempo, data la sua posizione già di per sé privilegiata, potrebbe non aver considerato conveniente sottomettersi alle sue richieste.

Infine Lydia viene condannata, viene esclusa dalla Filarmonica di Berlino – nonostante cerchi di riprendersi violentemente il posto – e la moglie le toglie la possibilità di vedere la figlia. Infine è costretta a ricostruire la sua immagine, cominciando dalla direzione di un’orchestra in evento di fan di Monster Hunter.

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David Fincher Drammatico Film Thriller True Crime

Zodiac – Il caso infinito

Zodiac (2007) di David Fincher fu il film con cui il regista tornò al genere del thriller puro, prendendo in parte le mosse da Seven (1997), pellicola per cui si era ispirato proprio al caso del Killer dello Zodiaco.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso (65 milioni di dollari), incassò piuttosto poco: appena 84 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Zodiac?

Davanti al caso di uno dei più enigmatici e spietati serial killer della storia statunitense, il timido disegnatore Robert Graysmith cerca di far luce dove la polizia brancola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zodiac?

Jake Gyllenhaal e Robert Downey Jr. in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

In generale, sì.

Non vedevo questo film da anni, nonostante ne avessi un buonissimo ricordo. E non mi sono di certo annoiata, però devo ammettere che, se non ci si sente coinvolti con la storia e, più in generale, se non si ha un minimo di interesse per il true crime, ci si potrebbe perdere facilmente nei dialoghi verbosi ed incredibilmente dettagliati dei personaggi.

Infatti, Zodiac non vuole essere un film semplice, che adatti la complessità del caso del Killer dello Zodiaco in modo che sia digeribile anche per il pubblico non esperto. Anzi, tutto il contrario: il film va estremamente nei particolari e sceglie un taglio verosimile e realistico, con pochi momenti di vera tensione.

Insomma, se con questa descrizione vi siete già annoiati, non ve lo consiglio.

Un killer banale

La particolarità del Killer dello Zodiaco fu il mito che si creò intorno ai suoi omicidi.

E fu tanto più peculiare tanto che il suo modus operandi non aveva niente di particolare o interessante, ma molto spesso si trattava semplicemente di uccisioni a sangue freddo. Insomma, se lo paragoniamo ad altri protagonisti della golden era dei serial killer statunitensi – Jeffrey Dahmer, per dirne uno – Zodiac appare decisamente il più banale.

Infatti, l’interesse intorno al suo caso nacque per due motivi: l’apparente impossibilità di catturarlo e il mito che lui stesso si costruì.

Zodiac mostra molto chiaramente la difficoltà, financo l’impossibilità, di identificare il vero colpevole nel marasma di prove e piste puramente indiziarie, che porta tutt’oggi questo caso ad essere ancora aperto.

Al contempo, fu il killer stesso – o chi per lui – ad alimentare il suo stesso mito, attraverso lettere deliranti ed enigmatiche – che in realtà non lo erano poi così tanto…

La complessità intrinseca

Jake Gyllenhaal in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

Zodiac sceglie consapevolmente di essere complesso.

Come pubblico siamo abituati a thriller con un andamento tutto sommato lineare e complessivamente comprensibile – persino Seven, da un certo punto di vista – in cui noi stessi possiamo unire tutti gli indizi del caso ed arrivare soddisfacentemente alla rivelazione del killer.

Nel caso Zodiac non vi è nulla di semplice: dal momento che le prove sono pochissime ed indiziare, il caposaldo del caso sono le lettere stesse del colpevole, attraverso le quali si è cercato di identificarlo. Tuttavia, lo stesso metodo ha portato all’esclusione di sospettati piuttosto promettenti…

Tanto più complesso quanto la valutazione della grafia delle lettere non sembrava al tempo seguire una linea così precisa e netta, e si ipotizzava anche la possibilità che il killer avesse mutato appositamente la sua grafia…

L’ossessione dello spettatore

Jake Gyllenhaal in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

Nel terzo atto, quando il caso sembra arrivato ormai ad un vicolo cieco, il film incalza la tensione e mette quasi del tutto al centro della scena Robert. E così lo spettatore segue la sua folle, impossibile impresa di smascherare Zodiac.

Ed è tanto più impossibile tanto più avvincente.

Infatti, anche se lo spettatore è consapevole che il caso non ha una conclusione, nondimeno può essere facilmente travolto dalla ricerca del protagonista, che si barcamena fra brandelli di prove, possibili collegamenti, ma mai niente di veramente concreto e definitivo…

Effettivamente le prove erano così indiziarie, i riscontri così dubbi – senza contare quel pizzico di sfortuna che ha definitivamente troncato il caso quando sembrava alla svolta – che il film assume un sapore quasi estenuante, ma non di meno coinvolgente, nella sua chiusura.

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La forma dell’acqua – Una favola moderna

La forma dell’acqua (2017) di Guillermo del Toro è il film che rilanciò il regista presso il grande pubblico, dopo che era già profondamente apprezzato per prodotti come Il labirinto del fauno (2006).

Anche per questo, incassò piuttosto bene, a fronte di un budget piuttosto contenuto: 195 milioni di dollari in tutto il mondo per un costo di produzione di 19 milioni.

Di cosa parla La forma dell’acqua?

Baltimora, 1962, piena Guerra fredda. Elisa è una giovane donna delle pulizie, muta, che lavora in una base di ricerca scientifica. Proprio lì avverrà un incontro molto particolare…

Vale la pena di vedere La forma dell’acqua?

Sally Hawkins in una scena di La forma dell'acqua (2017) di Guillermo del Toro

Assolutamente sì.

La forma dell’acqua è un film particolarissimo, che riesce a raccontarti una favola con toni molto adulti e maturi, immersa in atmosfere incredibilmente fascinose e suggestive.

Del Toro ancora una volta dimostrò di essere capace di portare in scena storie interessanti in ambienti magici dai toni profondamente gotici e costruiti alla perfezione.

Insomma, da recuperare assolutamente.

La nuova principessa

Sally Hawkins in una scena di La forma dell'acqua (2017) di Guillermo del Toro

La forma dell’acqua è impostata secondo i canoni della favola, con una grande differenza: la protagonista.

Del Toro infatti ha messo in scena un personaggio femminile del tutto atipico. Elisa è un personaggio che avrebbe tutte le carte in regola per essere un simpatico secondario: disabile e non corrispondente ai più classici canoni di bellezza.

E invece Elisa è una protagonista determinata e coraggiosa, che non ha paura di mettersi in prima linea per difendere quello che considera giusto. E, sopratutto, è una donna con un desiderio sessuale forte ed esplicito.

La componente sessuale

Sally Hawkins e Doug Jones in una scena di La forma dell'acqua (2017) di Guillermo del Toro

Quando andai a vedere il film non mi aspettavo per nulla che avrebbe toccato certi tasti – e infatti sulle prime rimasi leggermente contraddetta.

Ad una seconda visione, mi sono resa conto di quanto Del Toro sia stato capace di mettere in scena una donna realistica, che non cerca solamente una storia romantica, ma che vuole anche – e sopratutto – una relazione sessuale.

E, in più, è lei stessa che cerca questo contatto sessuale, mostrandosi nuda in più occasioni senza alcuna vergogna. E, sopratutto, mostrando un corpo femminile vero, né iper sessualizzato né castrato come spesso accade.

Il nostro cinema avrebbe bisogno di più protagoniste di questo tipo…

La costruzione del contesto

Sally Hawkins in una scena di La forma dell'acqua (2017) di Guillermo del Toro

Molto spesso quando si raccontano contesti sociali molto lontani da noi, dove l’emarginazione di molte minoranze sociali era all’ordine del giorno, è facile inciampare in un taglio narrativo pietistico e forzato.

E invece Del Toro è riuscito a mantenere una rara eleganza anche su questo aspetto.

I personaggi positivi della narrazione sono tutti degli emarginati: una persona disabile, una donna nera, un uomo omosessuale, un mostro. E come tali vengono trattati. E questo contesto è ben raccontato da pochi momenti ben posizionati e piuttosto credibili.

Fra tutti, quando Strickland dice che Dio ha l’aspetto dell’uomo, ma poi specifica più probabilmente un uomo bianco – a sottolineare la superiorità della razza bianca. Così anche lo scambio infelice fra Giles e il ragazzo della tavola calda: il giovane non solo lo rifiuta con disprezzo, ma scaccia anche in malo modo una coppia di neri.

Come è stato fatto il mostro in La forma dell’acqua

Uno degli elementi di fascino de La forma dell’acqua – e del cinema di Del Toro in generale – è la sua capacità di creare degli effetti speciali incredibili utilizzando metodi più materiali e poca CGI.

Infatti la creatura della storia non è un attore coperto da un green screen e poi rielaborato in post produzione, ma l’incredibile Doug Jones, attore feticcio del regista che già aveva lavorato con lui ne Il labirinto del fauno nei panni del Fauno e dell’Uomo pallido.

E quello che si vede in scena è stato pochissimo rifinito in seguito, ma è lo stesso attore coperto dal trucco e dal costume:

La forma dell’acqua meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar 2018 io personalmente me li ricordo soprattutto per la vittoria di Del Toro.

La bellissima reazione del regista una volta ricevuto l’Oscar mi fece definitivamente innamorare di questo autore:

Contro La forma dell’acqua c’erano tanti e diversi concorrenti di valore: fra gli altri Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) e Il filo nascosto (2017), ma alla fine il film del regista messicano ebbe la meglio, con ben tredici nomination e quattro vittorie – il più grande vincitore della serata.

Ma meritava di vincere?

La mia opinione su questa pellicola è molto positiva e quindi per me la vittoria è meritatissima. Tuttavia, fra tutti i concorrenti, forse io avrei preferito Tre Manifesti, uno dei miei film preferiti.

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Top Gun Maverick – Giochiamo alla guerra?

Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski è il sequel del (quasi) omonimo cult del 1986, uno fra i prodotti che lanciarono la carriera di Tom Cruise, insieme alla saga di Mission impossible.

Un prodotto che è più che altro un miracolo: programmato inizialmente per il 2020, è stato rimandato più e più volte, anche su insistenza dello stesso attore protagonista, che voleva assolutamente farlo uscire al cinema. Infine è giunto nelle sale a Maggio 2022, tenendo banco al box office internazionale per tutta l’estate seguente.

Ha incassato la bellezza di quasi un miliardo e mezzo di dollari.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Top Gun Maverick (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior sceneggiatura non originale
Migliore canzone
Miglior sonoro
Miglior montaggio
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Top Gun Maverick?

A più di trent’anni di distanza, il Capitano Mitchell, aka Maverick, non è riuscito a fare carriera nella Marina, a causa della sua insubordinazione e la sua nota testa calda. Gli viene data un’ultima occasione per guidare una missione molto importante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Top Gun Maverick?

Tom Cruise in una scena di Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski

In generale, sì.

Top Gun Maverick è complessivamente un buon film di intrattenimento e sopratutto un ottimo film action, che segna degli importanti passi avanti rispetto al primo capitolo, di cui comunque è una buona continuazione.

La trama è ben costruita e tiene facilmente sulle spine per tutto il tempo, mettendo diversi ostacoli davanti ai protagonisti, ma permettendo loro di avere anche tutto lo spazio di cui hanno bisogno per migliorarsi ed evolversi.

E lo dice una spettatrice poco appassionata al genere, che aveva paura di annoiarsi.

Ma passiamo alla domanda fondamentale.

Sì e no.

Sopratutto per un particolare elemento, secondo me Top Gun Maverick è più godibile avendo fruito anche della prima pellicola.

Tuttavia, se lo guarderete senza avere idea di cosa sia successo prima, diciamo che non vi troverete troppo spaesati: il film si impegna molto a recuperare tutti i fili narrativi del primo film, anche con effettivi inserimenti di scene in forma di flashback.

Inoltre, la maggior parte dei personaggi in scena sono del tutto nuovi, e il film cerca continuamente di convincerti che il protagonista li conosceva già da molto tempo (anche se magari erano solo citati nella prima pellicola). Quindi, almeno per questo aspetto, si parte tutti quasi dallo stesso punto.

Lo stesso protagonista

Tom Cruise in una scena di Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski

La prima scelta veramente azzeccata è stata di mantenere il protagonista quasi nella stessa situazione in cui si trovava nella prima pellicola.

Sì, è un capitano pluridecorato, ma è sempre alla base della gerarchia sociale della Marina, tanto da essere comandato da persone ben più giovani di lui. E questo per motivi che, ancora una volta, lo rendono vicino allo spettatore: il protagonista è emarginato perché, nonostante sia il migliore di tutti, ha una condotta fin troppo irruenta e fuori dagli schemi.

Ma per questo è anche una figura eroica, da ammirare, in primo luogo dallo spettatore stesso: un uomo capace di andare contro tutti i limiti, e, proprio per questo, vincere dove altri falliscono.

Un obbiettivo chiaro…

Un altro elemento positivo, anzi migliorativo, della pellicola rispetto alla precedente, è la struttura della trama.

Ben definita nei suoi tre atti canonici, con un obbiettivo preciso e una tensione sempre presente, che serve ben ad accompagnare la crescita e l’evoluzione dei personaggi. Fra l’altro con un ritmo incalzante e con un montaggio semplice ma piuttosto indovinato, che coinvolgono fortemente lo spettatore in questo viaggio apparentemente impossibile.

Anche se in alcuni punti sembra che devi leggermente dal suo percorso e utilizzi davvero tanto tempo per raccontarti i personaggi principali, non è di fatto un elemento che va a rovinare complessivamente la godibilità della pellicola, anzi.

E per il finale…

…ma uno svolgimento strano

Tom Cruise e Jennifer Connelly in una scena di Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski

A fronte di una buona costruzione, mi ha abbastanza stranito la gestione del finale.

Mi aspettavo che il focus sarebbe stato sulla missione stessa, a fronte dei due minuti di durata – anche se la stessa poteva essere gestita diversamente per mantenere alta la tensione. Invece il punto di arrivo della trama passa in un attimo

Si sceglie piuttosto di lasciare il finale per la costruzione del rapporto fra Rooster e Maverick, anche con una costruzione intrigante e piena colpi di scena, dove si vede finalmente il protagonista affrontare quei tanto pericolosi nemici – continuamente citati, e mai mostrati.

Una scelta strana, ma non meno funzionante.

Giochiamo alla guerra?

Un aspetto che avevo previsto, ma che non di meno mi ha infastidito, è l’idealizzazione della guerra.

Un concetto presente, e che non vanifica comunque nulla di quanto detto finora.

Così, nella più classica ingenuità di un prodotto statunitense medio, i protagonisti sono i buoni della situazione, gli eroi da sostenere e che riescono a vincere la battaglia e così la guerra. E, proprio per questo, i pochi nemici che si vedono hanno il volto totalmente coperto, non parlano, in modo da renderli il più anonimi possibile e lontani dallo spettatore.

E così lo stesso spettatore applaude entusiasta quando questi vengono uccisi…

Come hanno fatto Top Gun Maverick?

La produzione di Top Gun Maverick è parte anche del suo fascino.

Il motivo per cui sembra davvero che gli attori stiano pilotando gli aerei è grazie al campo di pre-addestramento organizzato dallo stesso Tom Cruise per far davvero immergere gli attori nella parte.

Il resto del merito va alle telecamere IMAX installate dentro i veicoli, che fra l’altro gli attori dovevano gestire automaticamente quando erano a bordo, mentre erano pilotati da veri piloti professionisti, che conducevano tutte le acrobazie.

Perché Top Gun Maverick è un successo?

Top Gun Maverick è stato uno dei più grandi successi cinematografici del 2022, insieme a Avatar – La via dell’acqua.

E la motivazione è abbastanza evidente: la pellicola è riuscita ad intercettare diverse fasce di età, sia i genitori cresciuti con il mito della pellicola del 1986, sia gli spettatori più giovani che potevano facilmente rivedersi nei nuovi protagonisti.

La qualità complessiva della scrittura e l’intrattenimento che riesce a colpire veramente chiunque – persino me – ha fatto il resto.

E, ancora una volta, Tom Cruise ha vinto la sua scommessa e ha salvato il cinema.

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Watchmen – Trasporre un capolavoro

Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.

Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante: Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.

E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.

Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.

Perché Watchmen è un’opera fondamentale

Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.

I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.

Una paura vera, reale.

Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroi nella società statunitense.

Insomma, prodotti come The Boys e Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.

Il resto, lo lascio alla vostra lettura.

Watchmen di Snyder

Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.

Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:

L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.

Iniziare col botto

Una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.

È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.

Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.

Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.

Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…

Un casting bello a metà

Jackie Earle Haley nei panni di Rorschach in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.

Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.

Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.

A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.

Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.

Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.

Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.

E si collega anche il primo grande problema della pellicola.

Attualizzare i costumi?

Jeffrey Dean Morgan nei panni del Comico e Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.

Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.

E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.

Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.

L’eccesso

Patrick Wilson nei panni del Gufo Notturno Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).

Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.

Billy Crudup nei panni di Dr. Manhattan in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.

E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.

Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.

Il finale (e oltre)

 Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il finale mi ha non poco innervosito.

Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.

La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.

Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.

Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.

Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.

La miniserie Watchmen

Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.

E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.

Is this a requel?

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.

Come Scream 5 (2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.

E per me è un ottimo requel.

Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.

Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.

Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.

Il Dr. Manhattan.

Un dio in pigiama

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.

Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.

E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.

Il problema è il resto del tempo.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.

Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.

Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.

Un mistero stratificato

Watchmen è una serie che vive di tensioni.

Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.

Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan e Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.

A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione di non fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.

Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.

L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.

E privandolo della sua fantastica unicità.

La ridicolizzazione dei villain

Hong Chau nei panni di Lady Trieu in una scena della miniserie Watchmen

Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.

Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.

E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.

Jeremy Irons nei panni di Ozymantis in una scena della miniserie Watchmen

Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.

E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.

E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.

Come è giusto che sia.

Costumi terreni

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.

In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.

Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôle credibile.

Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.

E già solo il costume è un discorso a parte.

Una rete di riferimenti

La serie è piena di riferimenti al fumetto.

Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…

Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.

Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.

La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.

In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.

Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.

Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.

E spiegare soprattutto il perché.

Serie tv Watchmen

Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.

Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.

Anzi, li si stravolge.

Ma partiamo dai pro.

La sequenza iniziale

La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.

Il razzismo.

Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.

Quindi la serie punta su temi molto attuali.

Seventh Kavalry

Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.

E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…

In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.

Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.

I poliziotti come vigilanti

Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.

Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.

Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.

La scrittura della serie

La scrittura della serie è molto buona.

Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.

Ma non basta.

Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.

Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.

Passiamo quindi ai contro.

L’incoerenza di Laurie

Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.

Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.

Ma non è neanche quello il problema peggiore.

La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.

Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?

Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.

Questo non è Manhattan

La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.

Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.

Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.

Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.

Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.

Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.

Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.

Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.

Dr. Manahttan Watchmen serie

Questo non è il Dr. Manhattan.

Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.

E, soprattutto, non brilla.

Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.

La distruzione di Adrian

Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.

Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.

Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.

Adrian Veidt Watchmen

In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.

E ancora peggio il finale.

Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.

Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.

La scelta più abietta di tutta la serie.

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Moonlight – La drammaticità mancata

Moonlight (2016) di Barry Jenkins è una pellicola drammatica e un film coming of age nel senso più stretto del termine: la narrazione si divide in tre parti, che coprono le diverse fasi della vita del protagonista.

Nonostante abbia incassato molto bene per i costi di produzione – 65 milioni contro un budget di 1,5 – è, insieme a The Hurt Locker (2008), uno dei peggiori incassi per un film vincitore nella categoria Miglior film.

Di cosa parla Moonlight?

Chiron è un ragazzino nero cresciuto in un contesto piuttosto difficile, circondato dalla droga, il degrado e una madre tossica. La pellicola segue la sua storia dall’infanzia fino all’età adulta.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moonlight?

Ashton Sanders in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

Dipende.

Personalmente la pellicola non mi ha convinto per niente: l’ho trovata incredibilmente superficiale, senza sapore, con una fotografia per la maggior parte del tempo totalmente fuori contesto. Il protagonista che non mi ha trasmesso nulla, e così neanche la sua storia.

Tuttavia, se riuscirete a farvi trasportare dalla vicenda fortemente drammatica che la pellicola vuole proporre, potrebbe persino piacervi.

E ve lo auguro.

L’evidente finzione

Janelle Monáe in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

L’elemento che mi ha subito colpito è la fotografia.

Potrebbe sembrare strano, ma fin dai primi minuti ero assillata dalla sensazione che le scene fossero così finte. E poi ho capito che era tutta colpa della fotografia: la maggior parte delle sequenze sono dominate da una luce fredda, di un giallo tenue, che tende ad appiattire i personaggi in scena.

Insomma, una fotografia non tanto dissimile da quella di Hairspray (2007) e The Help (2011) – che però in quei casi era giustificata dal contesto e, soprattutto, bilanciata dalle tematiche del film. In questo caso è molto più gelida, avendo il solo effetto di farmi allontanare ancora di più dalla storia.

E mi rendo conto che il fine ultimo era di utilizzare una luce leggera che mimasse quella della luna – da cui il titolo – spaziando poi per i toni più forti e neon in altre scene. E quest’ultime sono anche le poche che hanno guizzi registici un minimo interessanti.

Per il resto, tutto quello che vedevo in scena mi appariva assolutamente poco credibile.

Un racconto vuoto

Naomie Harris in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

Ma quindi?

Questa è la domanda che mi sono fatta in ogni momento della visione.

E il problema non è che la storia sia banale – il nostro cinema è dominato da film splendidi con trame banalissime. Il problema è lo svolgimento della vicenda, l’approfondimento dei personaggi assente, il protagonista che non parla e lascia fin troppo spazio allo spettatore per interpretare quanto portato in scena.

Il risultato per me è un film che non mi stava raccontando nulla, in cui non sapevo fondamentalmente nulla – o nulla di interessante – del protagonista, che non mi dava alcuno spunto di riflessione.

E che, sopratutto, non mi lasciava lo spazio per appassionarmi.

Il finale

Trevante Rhodes in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

Forse l’elemento che mi ha più infastidito della pellicola è il suo trattare un argomento piuttosto importante – la difficoltà di un ragazzo omosessuale in un ambiente machista – senza in realtà aggiungere nulla di nuovo, o provare a portare qualche novità sullo schermo.

I personaggi omosessuali sono già così rari nel cinema contemporaneo che per me Moonlight è veramente un’occasione sprecata.

Alex Hibbert in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

Per quanto non apprezzi Chiamami col tuo nome (2017), ne riconosco assolutamente il valore anche sociale nel rappresentare una relazione omosessuale i cui protagonisti non siano stereotipati e in cui, sopratutto, si mostri abbastanza esplicitamente un rapporto sessuale fra i due.

In questo caso invece ho trovato l’ennesima storia di un ragazzo omosessuale che deve reprimere la sua sessualità, ma che in realtà non arriva a nessun punto, ma subisce solo la situazione in cui si trova.

E se quel finale dovrebbe essere il punto di arrivo del suo arco narrativo, è di una debolezza devastante…

Moonlight meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2017 vengono ricordati sopratutto per la figuraccia dell’Academy e dei presentatori nel confondere le buste per il vincitore della categoria Miglior film.

Venne infatti annunciato come vincitore La la land (2016), ma poco dopo venne ammesso l’errore, in una scena a dir poco grottesca:

Ed in generale, tutta la premiazione fu qualcosa di incredibile: quella meraviglia di La la land ottenne il record di candidature – ben 14! – arrivando al pari di Titanic (1997) e Eva contro Eva (1950).

E si portò a casa 6 premi.

Purtroppo fra questi non vi fu appunto quella di Miglior film, che andò invece a Moonlight – una delle tre vittorie, con otto nomination.

La mia opinione su questa vittoria si può facilmente immaginare: al di là anche del gusto personale, è evidente che Moonlight scompare davanti alla grandezza della seconda opera di Chazelle.

E, non a caso, il film veramente ricordato nel tempo come capolavoro è La la land, non certo Moonlight