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12 anni schiavo – Un insopportabile pietismo

12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen è un dramma storico che fu confezionato appositamente per colpire il cuore dell’Academy, portandosi infatti a casa tre statuette – fra cui il Miglior film – e nove nomination.

Una discreta delusione per un regista che si era dimostrato molto capace…

Come la maggior parte dei film di questo regista, costò pochissimo – appena 22 milioni di dollari -ma, proprio per la sua rilevanza a livello internazionale, incassò benissimo: 187 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 12 anni schiavo?

New York, 1841. Salomon è un uomo nero libero, che lavora come violinista e vive felicemente con la sua famiglia. Una serie di coincidenze sfortunate lo porteranno ad essere rapito e ridotto in schiavitù per più di un decennio.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 12 anni schiavo?

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

È molto difficile rispondere oggettivamente per un prodotto che non ti è piaciuto.

Personalmente, non è un film che consiglierei.

Nonostante riesca tutto sommato a raccontare il complesso dell’esperienza dello schiavismo in maniera piuttosto completa, non è particolarmente interessante come dramma storico né presenta qualche riflessione sul tema di qualche rilevanza.

Insomma, se riuscite a farvi commuovere e coinvolgere da una storia molto lacrimevole e fatta apposta per far piangere lo spettatore, che tratta in maniera abbastanza superficiale il tema dello schiavismo, guardatelo.

Ma non fatevi grande aspettative.

12 anni?

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Uno dei più grandi problemi della pellicola è la sua incapacità di far sentire il passare del tempo.

Ci sono molti modi per riuscire a raccontare il tempo che passa, ma 12 anni schiavo ci prova una sola volta – e secondo me anche fallendo. Verso la fine del secondo atto, Salomon e gli altri schiavi di Epps vengono mandati a lavorare in un’altra piantagione.

A quel punto vi è un’evidente ellissi temporale: al loro ritorno non solo Patsey ha partorito la figlia del suo padrone, ma la stessa ha già qualche anno di età. Tuttavia, questo passaggio di qualche anno non si percepisce per nulla nella pellicola, che per quel tratto sembra coprire giusto qualche mese.

Allo stesso modo, anche accettando questa ellissi, nella pellicola in generale non sembrano passati più di quattro o cinque anni.

Non avere più nulla da dire

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Verso il terzo atto ho avuto la terrificante sensazione che il film non avesse più niente da raccontare.

Ormai aveva raccontato sia il rapimento, il primo periodo di schiavismo, il secondo periodo. Mancava solamente il climax narrativo – che in realtà appare molto anti-climatico – per far piangere lo spettatore e infine lo scioglimento della vicenda.

E infatti tutta la parte finale l’ho trovata incredibilmente insipida, inutilmente allungata, e del tutto mancante di qualcosa di interessante da raccontare.

Un pietismo smisurato

Chiwetel Ejiofor e Lupita Nyong'o in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Il climax drammatico di 12 anni schiavo è per me anche il punto più basso e meno interessante del film.

Servirebbe teoricamente a concludere la storia di Patsey e Epps, a portarla ad un apice drammatico, con una scena strappalacrime. Io invece per tutto il tempo non ho avuto alcun moto di simpatia o di coinvolgimento per quello che succedeva in scena.

E non sono una che ha problemi a farsi commuovere, anzi.

Vedevo solamente una costruzione fatta apposta per farmi piangere, senza che i personaggi mi fossero stati adeguatamente costruiti, ma sembrandomi solamente delle figure bidimensionali in scena.

L’unica stella

Michael Fassbender in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Una grave perdita della pellicola è l’utilizzo di Michael Fassbender.

Fra tutti gli attori mi è sembrato l’unico veramente valido – e non a caso è anche l’attore feticcio del regista. Nonostante la scrittura del suo personaggio, come detto, manca di qualsiasi tipo di profondità, questo fantastico attore si è indubbiamente impegnato nel suo ruolo.

Al contrario, non sono mai rimasta colpita né dall’interpretazione di Chiwetel Ejiofor nei panni del protagonista, né, sopratutto, da Lupita Nyong’o – che ho trovato di gran lunga più convincente in Us (2019). Entrambi gli attori mi sono semplicemente sembrati assorbiti nella recitazione al limite del lacrimevole della pellicola, costruita appositamente per entrare nel cuore dell’Academy.

E, purtroppo, riuscendoci.

12 anni schiavo meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2014 vengono ricordati principalmente per il cosiddetto Ellen selfie:

Una foto che venne postata su Twitter ed ebbe il record di retweet sulla piattaforma. Un semplice scatto che identificò il cambiamento ormai evidente delle star che cominciavano a postare autonomamente contenuti virali sui propri spazi social – con buona pace dei paparazzi.

Quell’anno il grande vincitore fu Gravity (2013) di Alfonso Cuarón: 10 candidature e ben 7 vittorie. Altrettante candidature ebbe American Hustle (2013) di David O. Russell, che sembrava ormai lanciato per Il lato positivo (2012) – ma che alla fine si rivelò un fuoco di paglia.

Ma alla fine la vittoria per Miglior film andò a 12 anni schiavo.

E per me in questo caso possiamo parlare di Oscar rubato.

Ancora una volta emerse il grande valore politico di questi premi, a discapito della qualità, sopratutto dal momento che nella stessa categoria erano candidati prodotti di altissima qualità come Her (2013) e The Wolf of Wall Street (2013).

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Metropolis – Riscrivere un classico

Metropolis (2001) di Rintarō è un lungometraggio animato nipponico, ispirato al classico della cinematografia omonimo del 1927.

Come la maggior parte dei prodotti di questo tipo, ebbe un costo sostanzioso (¥1.5 miliardi) e un incasso misero (¥ 100 in Giappone e 4 milioni di dollari in tutto il mondo).

Di cosa parla Metropolis?

Il giovane Kenichi e lo zio Shunsaku Ban sono sulle tracce in uno scienziato criminale, che sembra coinvolto in uno strano progetto che ha come mandante il misterioso Duke Red…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Metropolis?

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Assolutamente sì.

Oltre a racchiudere al suo interno concetti di grande interesse e profondità, Metropolis riesce anche ad essere una pellicola piacevolissima, con una costruzione intrigante e una regia piena di fascino.

Si viene infatti facilmente coinvolti in dinamiche anche piuttosto semplici, ma in una costruzione della storia e della mitologia davvero avvincenti.

Un recupero obbligato.

Vivere di contrasti

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Metropolis è una pellicola che vive di contrasti.

Lo stile di animazione è piuttosto peculiare, e sembra molto più tipico di prodotti rivolti ad un pubblico infantile – per certi versi mi hanno ricordato i disegni del classico per ragazzi Tintin.

Tuttavia, la regia e l’animazione sono in questo senso davvero sorprendenti, riuscendo a mettere in contrasto la delicatezza dei disegni dei protagonisti con la crudezza dei temi trattati.

Non mancano infatti diverse scene di morte e violenza, anche piuttosto esplicite – fra tutte la morte di Pero, con la testa spappolata per terra. E così, più in generale, la trattazione dei robot, uccisi continuamente senza pietà e trattati alla stregua di schiavi.

Un contrasto piuttosto peculiare, che non mi aspettavo.

Una regia sorprendente

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

La regia è stato l’elemento forse più sorprendente della pellicola.

Una messinscena piuttosto variegata, che gioca molto sui già detti contrasti, con un uso magistrale delle luci e della costruzione della tensione. Particolarmente avvincente sono le scene di duello, con piccoli tocchi registici che riescono a tenere per tutto il tempo col fiato sospeso.

Una regia inoltre che lascia profondamente respirare il mondo trattato, vivendo di tantissimi particolari e scene piene di vita.

Raccontare il mondo

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Quando si vuole raccontare un mondo nuovo, soprattutto se complesso e intricato, si possono percorrere diverse strade.

Metropolis sceglie una strategia simile a quella de La compagnia dell’Anello (2001): inserire piccole ma significative didascalie all’interno dei dialoghi stessi dei personaggi, che permettono allo spettatore di muoversi con facilità all’interno del mondo raccontato.

E, anche di più, costruendo molto bene la mitologia e i misteri del film, svelandoli a poco a poco allo spettatore quanto ai protagonisti stessi, che si vedono fin da subito interrogare sulle questioni principali della storia, rimanendo all’oscuro per la maggior parte della pellicola.

Il mito della Torre di Babele

Il mito della Torre di Babele è più volte citato all’interno della pellicola.

Una costruzione che si perde nella leggenda, ma che in generale – metaforicamente parlando – racconta la superbia umana nel voler sfidare i suoi limiti e gli dei in particolare.

In Metropolis questa metafora è riletta intrecciandosi col tema sempreverde della fantascienza moderna: la macchina che si rivolta – e supera – il suo creatore, in maniera anche simile a Ghost in the shell (1995).

Così il Duca Red vuole superare i limiti umani mettendo a capo della sua creazione un superumano, capace di controllare ogni arma e ogni elemento, così da poter distruggere ogni cosa, per – secondo la sua folle idea – ricreare e migliorare.

Il confronto con Metropolis (1927)

Nonostante Metropolis sia un film a sé stante, non mancano ovviamente i riferimenti all’opera originale di Fritz Lang.

Oltre alla costruzione della città simile – sempre distinta in tre livelli – in entrambe le pellicole si cita il mito di Babele, ed in entrambe un’enorme torre domina la città.

Altrettanto simile è la scena della rivolta e in generale la rappresentazione della classe più umile e dei robot trattati come schiavi: sicuramente l’ispirazione è la famosissima scena degli operai che vanno al lavoro, muovendosi quasi come automi.

In ultimo, una citazione visiva: la scena del risveglio di Tima avviene con le stesse dinamiche del risveglio della Maria-robot nel film del 1927:

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2022 Biopic Drammatico Film Musical Oscar 2023

Elvis – Il divo in vendita

Elvis (2022) di Baz Luhrmann è un biopic dedicato alla figura immortale di Elvis Presley, icona assoluta della musica rock. Un prodotto che avrebbe potuto seguire le vie più semplici e monotone tipiche del genere.

E invece, nonostante tutto, mi ha sorpreso.

Un buon incasso per una pellicola sicuramente ambiziosa: 85 milioni di dollari di budget e un incasso di 287 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Elvis (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior attore protagonista per Austin Butler
Migliori costumi
Miglior sonoro
Migliore trucco e acconciatura
Miglior scenografia
Migliore fotografia
Miglior montaggio

Di cosa parla Elvis?

La pellicola è dedicata alla parabola di crescita e rovina di una delle più importanti star della storia della musica, raccontata attraverso lo sguardo del suo manager, accusato di averlo sfiancato fisicamente ed emotivamente...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Elvis?

Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Assolutamente sì.

Elvis sicuramente non è un film perfetto, indubbiamente basa la sua trama su una costruzione emotiva molto – forse troppo – polarizzata, forse anche a discapito della realtà storica della vicenda.

Tuttavia, tutta la costruzione tecnica e artistica è spettacolare.

Dopo avermi ampiamente emozionato con Il Grande Gatsby (2013), a dieci anni di distanza Baz Luhrmann continua a sorprendermi con la sua creatività esplosiva, la sua cura nei dettagli, la sua perfetta conduzione degli attori.

Senza parlare poi dell’incredibile performance attoriale di Austin Butler.

Un nuovo divo?

Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Parlando di Elvis, non si può non elogiare l’incredibile performance di Austin Butler – per cui fra l’altro è stato candidato per Miglior attore protagonista agli Oscar 2023.

Non solamente questo promettente attore ricalca in maniera assolutamente credibile la fisionomia della star che interpreta, ma è riuscito a stupire il pubblico spingendo i limiti della sua recitazione al massimo delle sue possibilità.

E per un ruolo tutt’altro che semplice.

È davvero meraviglioso vedere attori che si sono fatti la gavetta per anni in prodotti di seconda (se non terza) categoria – nel caso di Butler in The Carrie Diaries e The Shannara Chronicles, fra gli altri – sbocciare fra le mani di un capacissimo regista.

Ma già in Once upon a time in Hollywood (2019) si era fatto conoscere…

Il potere del make-up

Tom Hanks e Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Per Tom Hanks è praticamente impossibile interpretare personaggi negativi.

Infatti, con quel suo volto rassicurante, non sarebbe mai credibile nel ruolo di villain. Ma Luhrmann non si è sicuramente fatto frenare, utilizzando sapientemente tutto il potere trasformativo del make-up e lasciando il resto in mano a questo fantastico interprete.

E, nella sua follia, Tom Hanks è stato perfetto nel ruolo dell’avido approfittatore, della serpe in seno, riuscendo, con le sue grandi capacità retoriche, ad ingabbiare il divo per tutta la sua vita.

Ma, al contempo, è anche un difetto della pellicola.

La polarizzazione

Tom Hanks e Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Un difetto della pellicola è l’eccessiva polarizzazione dei personaggi.

Personalmente non conosco nei dettagli la biografia di Elvis Presley. Tuttavia, mi viene anche facile pensare che la sua storia fosse meno netta di come il film la racconta. In Elvis il protagonista è la totale vittima della situazione, senza che venga messo in scena nessun suo possibile – e probabile – difetto.

Anzi, il problema più importante – la mancata presenza in famiglia – è ridimensionato proprio raccontandolo come vittima, anche di se stesso.

Un difetto, se così vogliamo chiamarlo, che non mi ha guastato la godibilità della pellicola, né che in realtà va eccessivamente a rovinare la bellezza del prodotto. Tanto più che non spinge troppo l’acceleratore su un altro problema tipico di questo tipo di pellicole.

La drammatizzazione.

Non drammatizzare

Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Le storie di questi personaggi, queste icone, è facilmente puntellata da grandi e piccole tragedie.

E fin troppo spesso si tende a creare dei prodotti molto standardizzati, il cui andamento è assolutamente prevedibile: la star viene scoperta, raggiunge l’apice, vive un momento di dramma, sipario. Anche andando ampiamente ad inventare, come era stato per esempio con il recente Bohemian Rapsody (2018).

Non è il caso di Elvis.

Nonostante la vita del protagonista sia stata indubbiamente molto tragica, non si è voluto eccessivamente raccontare una tragedia, né seguire un percorso già rodato. Al contrario il film racconta più che altro una vicenda di alti e bassi, che era drammatica fin dall’inizio.

E con una chiusura senza sbavature.

L’erotizzazione del maschile in Elvis

Un focus interessante della pellicola è sull’erotismo di Elvis come chiave del suo successo (e insuccesso).

All’interno di un contesto come quello degli Anni Cinquanta – Sessanta in cui la sessualità – sopratutto quella femminile – era molto limitata, financo castrata, vedere un certo tipo di movenze e di atteggiamenti non poteva che far perdere la testa.

E si mostra bene la naturalezza del personaggio in questi atteggiamenti, lasciando anche il giusto spazio ad una sorta di queerness, che divenne poi col tempo tipica delle star della musica rock, ma che al tempo era considerata scandalosa.

Un elemento non solo ottimamente trattato, ma che mi permesso di scoprire qualcosa di nuovo sul suo personaggio.

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Argo – Un egocentrico vittimismo

Argo (2012) di Ben Affleck è un film che racconta un’importante operazione top secret della CIA, diventata nota a quasi vent’anni di distanza.

Un film che avevo già visto al tempo, ma forse con una visione troppo ingenua…

Una pellicola che incassò molto bene (232 milioni di dollari a fronte di un budget 44 milioni), anche grazie alle sue tre vittorie agli Oscar.

Di cosa parla Argo?

Durante la Rivoluzione Islamica del ’79, in Iran un gruppo di rivoluzionari assalta l’Ambasciata Statunitense e prende come ostaggi più di 60 persone. Solo 6 riescono a fuggire, ma uscire dal paese non è così semplice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Argo?

Ben Affleck e Alan Arkin in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

In generale, sì.

Da un punto di vista strettamente qualitativo, è un prodotto veramente valido, che riesce con poche mosse indovinate a tenerti sulle spine, soprattutto sul finale. Tuttavia, vedendolo dopo tanti anni, mi rendo conto di quanto possa risultare un film quasi ridicolo al di fuori del panorama statunitense, perché è davvero ubriaco di un certo tipo di mentalità.

E, sopratutto in tempi recenti, è decisamente meno digeribile.

La tensione equilibrata

Uno dei punti di forza della pellicola è indubbiamente la costruzione della tensione.

La tensione nella pellicola è costante, sopratutto nelle battute finali. I protagonisti sono costantemente in pericolo, la situazione potrebbe deragliare da un momento all’altro, e si gioca tutto sul filo dei secondi.

La pellicola riesce a mantenere un giusto equilibrio in questo senso, senza mai scadere nel cattivo gusto del ciclo Alta tensione di Italia 1, riuscendo al contempo a catturare costantemente l’attenzione dello spettatore.

Il protagonista indovinato

Ben Affleck in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

Un altro meccanismo della trama piuttosto indovinato è la caratterizzazione del protagonista.

Il film gioca con lo spettatore, che in prima battuta si fida dei personaggi in scena, facenti parte di uno degli organi di governo più importanti al mondo. Ma, in un attimo, il protagonista li smentisce, facendo capire di essere diametralmente più abile e intelligente.

E da quel momento lo spettatore ha piena fiducia in lui.

Stemperare

John Goodman e Alan Arkin in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

La piccola parte centrale dedicata alla costruzione del falso film mi ha sorpresa.

Permette allo spettatore prendersi una breve pausa dalla grande tensione rappresentata dalla vicenda in toto, con risvolti piuttosto divertenti, grazie sopratutto all’irresistibile coppia Alan Armani e John Goodman.

E infatti questi due personaggi escono fondamentalmente di scena nel terzo atto, riapparendo solamente nelle battute finali per chiudere la vicenda.

L’egocentrismo

Il problema principale della pellicola – di cui sinceramente mi ero dimenticata – è quanto sia fortemente filo-statunitense e, di fatto, rappresentante il grottesco egocentrismo del paese di provenienza.

Anzitutto, anche se si dedica ampio spazio al racconto della situazione storica dell’Iran, mai all’interno della pellicola i personaggi si interrogano sulle colpe degli Stati Uniti per la situazione politica iraniana – e, per estensione, per quella che stanno vivendo.

Il focus è tutto sul costante senso di pericolo dei personaggi, che sono le vittime assolute della situazione stessa.

E qui si trova il difetto più importante.

Auspicabile

Vedendo la pellicola e ad una visione più ingenua, potrebbe risultare quasi realistica la caratterizzazione dei personaggi iraniani.

In realtà la stessa, per quanto indubbiamente funzionale alla trama, è del tutto negativa e polarizzata, e nel senso peggiore possibile. I nemici sono per la quasi totalità minacciosi, rumorosi, violenti.

Sembrano odiare i personaggi – e gli statunitensi in genere – quasi senza un motivo. Senza che mai si racconti effettivamente le radici di questa avversione e i dolori che questo popolo dovette soffrire anche per colpa degli Stati Uniti, senza mai problematizzare la situazione raccontata.

E, guardando The Hurt Locker (2008), è abbastanza evidente come la rappresentazione potesse essere più auspicabilmente onesta…

Argo meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2013 furono piuttosto interessanti per diversi motivi.

Fu la prima volta che gli Oscar vennero chiamati effettivamente The Oscars, e non The Academy Awards, per venire incontro alla denominazione divenuta ormai comune.

Il film che vinse Miglior film, per la prima volta dopo 30 anni, non venne candidato anche per la regia.

Ma gli Oscar 2013 vennero ricordati sopratutto per il capitombolo di Jennifer Lawrence, che quell’anno vinse l’Oscar per Miglior Attrice non protagonista per Il lato positivo (2012):

I film che ottennero le maggiori candidature furono Lincoln (2012) di Spielberg (12 candidature) e Vita di Pi (2012) di Ang Lee (11 candidature). Ma nessuno dei due vinse come Miglior film: la vittoria andò appunto a Argo.

Si meritava di vincere?

La risposta è un po’ diversa dal solito: Argo non si meritava forse di vincere, ma era l’unica pellicola che avrebbe potuto farlo, per i motivi di cui sopra. Forse uno dei momenti nella storia dell’Academy in cui emerse maggiormente lo stampo politico e profondamente statunitense della cerimonia…

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Paprika – Il potere dell’incubo

Paprika (2006) di Satoshi Kon è l’ultimo lungometraggio animato diretto da questo visionario regista, autore di splendidi prodotti dal sapore onirico come l’indimenticabile Perfect blue (1997).

A fronte di un budget molto esiguo (300 milioni di yen, circa 2,6 milioni di dollari), incassò meno di un milione in tutto il mondo.

Niente di sorprendente, visto il tipo di prodotto.

Di cosa parla Paprika?

In un futuro non troppo lontano, il DC Mini, dispositivo che permette di vedere i propri sogni, viene rubato. E il mistero è piuttosto fitto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Paprika?

Assolutamente sì.

Se avete visto l’opera prima di Satoshi Kon – Perfect blue – avete un’idea del tipo di film che vi troverete davanti. In questo caso il regista gioca a carte scoperte, introducendoci in una storia che fin dalle prime battute gioca profondamente con l’elemento onirico.

Un prodotto che lavora per sottrazione, in cui è facile perdersi.

Ma che vale assolutamente la pena di scoprire.

Il doppio

Una delle maggiori tematiche di Paprika è il doppio.

La maggior parte dei personaggi in scena vivono di doppi: Paprika e Chiba, Tokita e Himuro, Konakawa e il misterioso amico del suo passato. E in qualche modo ogni personaggio si definisce tramite la sua controparte.

Anzitutto Tokita, un bambinone geniale che si sente fondamentalmente incompreso, ma che ricerca la sua controparte in Himuro, a cui assomiglia anche fisicamente. Con il suo perduto amico vorrebbe ritrovare una connessione che sembra ormai recisa, ma che lui sente ancora molto vicina.

In questo senso interessante il parallelismo fra il caos della casa di Himuro e lo stesso nella casa di Tokita: anche se con giocattoli diversi, il comportamento infantile è sempre lo stesso.

Discorso più complesso quello riguardo al Detective Konakawa.

L’uomo sembra costantemente vittima di sé stesso – come ben testimonia il sogno ricorrente in cui viene aggredito da personaggi con la sua faccia – e in qualche modo sente di aver ucciso un suo alter ego, una parte di sé, ovvero il suo vecchio amico venuto a mancare.

In realtà, prendendo consapevolezza della sua mancanza, Konakawa riesce a riabbracciare quella parte di sé e del suo passato che aveva insistentemente seppellito.

Paprika e Chiba

Ma lo sdoppiamento più profondo è quello fra Paprika e Chiba.

Paprika è una ragazza frizzante e piacevole, che si veste di colori brillanti; al contrario Chiba è una donna molto più austera e riflessiva, caratterizzata da colori più scuri e spenti. Le due sono in qualche modo una la parte dell’altra, anche se si presentano come sostanzialmente indipendenti.

E infatti molto spesso Chiba si scontra con il suo alter ego, cercando di sottometterlo, ma riuscendo a raggiungere la sua forma completa solamente quando davvero lo assorbe, lo accetta dentro di sé, diventando un essere capace di sconfiggere Tokita.

E proprio quella scena offre un ulteriore spunto.

La pluralità dell’uomo

Oltre al doppio, in Paprika si racconta la pluralità dell’individuo.

Abbastanza rivelatorio in questo senso il momento in cui Paprika entra nel famoso quadro rappresentante la sfida di Edipo, e prende le vesti della Sfinge. La Sfinge è già di per sé un essere che racchiude una pluralità – donna, leone e uccello – che ben si riassume nel famoso indovinello:

Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?

Ovvero l’uomo, all’interno delle diverse fasi della sua vita.

E infatti troviamo diversi riferimenti a questa pluralità all’interno del film, a cominciare proprio da Tokita, più volte definito un genio nel corpo di un bambino, ma in particolare nella scena sopracitata in cui Chiba accetta Paprika dentro di sé e diventa un neonato, poi una ragazza, fino a diventare una donna.

L’inviolabilità del sogno

Le motivazioni di Tokita sono meno banali di quanto potrebbero apparire.

Se apparentemente potrebbe sembrare che abbia un sogno di potenza tipico del più classico villain, in realtà a guidarlo effettivamente sono i suoi più profondi principi, che riguardano l’inviolabilità del mondo del sogno.

Come ben spiega fin dalla sua prima apparizione, il Presidente è profondamente contrario a questa volontà di onnipotenza dell’uomo, che cerca di controllare qualcosa che dovrebbe essere assolutamente incontrollabile, perché in qualche modo irrazionale.

E solo in seguito sogna di impossessarsi del potere dell’onirico.

La potenza dell’onirico

L’elemento onirico è esplosivo, strabordante, inarrestabile.

Ed è ben rappresentato dalla parata in continua espansione, in cui ogni personaggio prima o poi viene coinvolto. Una parata che non ha delle regole, che sembra avere una vita propria e che raccoglie ogni tipo di elemento fantastico, anche il più surreale e inimmaginabile.

E questo potere fa davvero gola a Tokita, che riesce progressivamente a superare la sua disabilità in vari modi – trasformando le sue gambe in radici, prendendo il possesso del corpo di Osanai e infine esplodendo nel suo massimo potenziale all’interno del sogno finale.

Chi è Paprika?

Se volessimo semplificare molto, potremmo dire che Paprika è semplicemente l’alter ego onirico di Chiba.

Ma Paprika è molto più di questo.

Come vediamo fin dall’inizio, è una figura che non vive assolutamente in funzione di Chiba – anche se forse è Chiba stessa che l’ha creata. Anzi, è un personaggio del tutto autonomo, che riesce a muoversi all’interno delle varie realtà – non solamente quelle oniriche – e in qualche modo essere sempre presente.

Possiamo semplicemente dire che è un elemento virtuale?

Non proprio.

Paprika è quasi come se fosse un’entità, che vive all’interno del sogno e si muove liberamente all’interno dello stesso, potendo trasformarsi a suo piacimento. Un elemento oltre la realtà più materiale, un fantasma inafferrabile e indefinibile.

Cosa rappresenta la bambola?

L’elemento più enigmatico del film è l’inquietante bambolina che si vede per la prima volta a casa di Himuro, che ha sul comodino anche una foto che la rappresenta.

Un personaggio che non parla mai, se non scoppiando nella risata zuccherina sul finale, quando diventa gigantesca. A livello materiale, probabilmente non è né più né meno che una bambola, che Himuro e Tokita avevano visto all’interno del parco di divertimenti abbandonato.

A livello simbolico, può essere facilmente letta come la rappresentazione del sogno stesso, il sogno delirante che trasforma degli elementi della realtà, magari anche appartenenti alla sfera infantile, in qualcosa di assurdo e mostruoso.

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She said – Un film necessario

She said (2022) di Maria Schrader, basato sul romanzo omonimo di Jodi Kantor e Megan Twohey, racconta l’inchiesta del New York Times in riferimento alle numerose accuse di violenza sessuale ai danni di Harvey Weinstein.

Un film non solo necessario, ma anche ottimamente messo in scena.

A fronte di un budget abbastanza contenuto di 32 milioni di dollari, si sta rivelando – come purtroppo prevedibile – un flop commerciale, con appena 12 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla She said?

Le due giornaliste d’inchiesta Jodi Kantor e Megan Twohey intraprendono un’importante investigazione sui presunti abusi ad opera di Harvey Weinstein. Un’inchiesta che portò una rivoluzione inimmaginabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere She said?

Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

Assolutamente sì.

She said è un film importante e necessario, che riesce anche meglio di prodotti analoghi – come per esempio il recente Bombshell (2019) – a raccontare una storia che ha sconvolto – si spera – per sempre il mondo dello show business.

Due attrici ottime sotto la direzione di un’ottima regista, Maria Schrader, che già si era occupata di quel piccolo successo che era stato al tempo Unorthodox (2020). Pochi tocchi e scelte indovinate che riesco a non ridurre il prodotto ad una pellicola puramente scandalistica.

Insomma, da non perdere.

Cosa significa il titolo di She said?

Il titolo originale, She said, è stato purtroppo tradotto in italiano in maniera piuttosto infelice: Anche io, in riferimento al movimento MeToo, che però non è mai citato nel film e che nacque solo in conseguenza a questo e altri casi analoghi.

Il titolo originale fa riferimento ad un’espressione giuridica: he said, she said, che indica un caso in cui sono coinvolte due persone – solitamente uomo e donna – e ognuno presenta la sua versione dei fatti.

E non ci sono testimoni.

Un ritmo incalzante, una gestione ottima

Patricia Clarkson, Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

Un aspetto che ho molto apprezzato della pellicola è il suo ritmo estremamente incalzante, che ben racconta la frenesia delle giornaliste nel seguire il caso, dovendo scontrarsi con moltissime porte chiuse e accordi mancati.

Tuttavia non mancano anche i momenti più rallentati, in cui si lascia lo spazio alla narrazione delle vittime, in cui ben si racconta l’ottimo lavoro che fecero queste due donne nel gestire una situazione molto delicata.

Infatti, mai le due si pongono in maniera impositiva nei confronti delle vittime, anzi si interrogano continuamente su come comportarsi. Un elemento molto importante, che distinse questa inchiesta da un semplice scandalo da tabloid – come raccontato nella pellicola stessa.

E non è neanche l’unico elemento di interesse in questo senso.

Il dramma senza drama

Patricia Clarkson, Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

A differenza appunto di Bombshell, ho molto apprezzato la gestione del racconto degli abusi delle vittime. Per la maggior parte le stesse non sono per nulla messe in scena, ma solo raccontate. Solo per un paio si sceglie di utilizzare la voce fuori campo delle vittime, e lasciare che gli ambienti parlino da sé.

Secondo me una scelta che riesce bene a trasmettere le giuste emozioni e farti immergere nel racconto.

E al contempo si è serenamente evitato di mettere in scena gli abusi stessi, come era stato fatto appunto in Bombshell, evitando di drammatizzare eccessivamente delle storie già piuttosto angoscianti e cadere così nel cattivo gusto.

Secondo la stessa linea, si è scelto di non sbattere il mostro in prima pagina, non inquadrando mai l’interprete di Weinstain.

Una storia per tutti

Patricia Clarkson, Andre Braugher, Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

Un’altra ottima scelta della pellicola è quella di raccontare come fossero tutti coinvolti nella storia, per un caso che è stato estremamente intergenerazionale e, sopratutto, non solamente una storia di donne.

Una rappresentazione incredibilmente importante, per mostrare come queste situazioni siano un affare di tutti.

In questo senso è stato dato un ottimo spazio e un’ottima rappresentazione di Dean Baquet, il caporedattore, che non solo sostiene le sue giornaliste nel caso, ma che neanche per un momento si lascia corrompere da Weinstein – nonostante le chiamate minatorie – e usa tutta la sua autorità per proteggerle da eventuali abusi, che evidentemente erano dietro l’angolo.

Facili trigger emotivi

Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

Una critica che potrebbe essere mossa al film è il fatto che si punti tanto sui dolori personali e familiari delle due protagoniste, senza che – forse – ce ne fosse il bisogno.

Personalmente la rappresentazione di questa parte della loro vita non l’ho trovata mai smaccata, anzi ben bilanciata nei ruoli di genere all’interno della famiglia. Probabilmente è presente anche un piccolo accenno alla depressione post-partum: per tutta la pellicola, fino ad una delle scene finali, Megan non tiene mai in braccio sua figlia.

Era necessario?

A livello narrativo, non strettamente. Tuttavia, trovo che siano stati dei trigger emotivi semplici e in qualche modo necessari per coinvolgere lo spettatore medio in una storia che possa sentire come vicina.

Altrimenti, secondo me, togliendo queste parti il film sarebbe apparso molto più freddo e quasi un documentario – complice anche il tipo di regia utilizzata.

Nota a margine: ho potuto visionare il libro da cui è tratto il film, scritto dalle due giornaliste (Anche io. Il caso che ha dato inizio al movimento #MeToo, Vallardi, 2023). Non ho avuto il tempo per leggerlo per intero, quindi ho solo fatto una ricerca delle parole chiave per questo argomento e da quello che ho trovato si parla abbastanza genericamente del rapporto che le due avevano con la famiglia. Significa che è tutto inventato? Ad oggi non posso saperlo e mi rimetto a chi ha letto effettivamente l’opera.

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2022 Comico Damien Chazelle Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2023

Babylon – Il cinema che resta

Babylon (2022) è l’ultima pellicola di Damien Chazelle, regista che ha avuto il suo picco di popolarità con La la land (2016), ma che ha già dimostrato di poter spaziare in diversi generi.

Anche in questo caso.

Il film si sta purtroppo rivelando un flop commerciale: a fronte di un budget di 75 milioni di dollari, finora ne ha incassati solo 15…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Babylon (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliori costumi
Miglior scenografia
Migliore colonna sonora

Di cosa parla Babylon?

All’interno del cinema della fine degli Anni Venti, sulla soglia della sua più grande rivoluzione, si intrecciano le storie di diversi personaggi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Babylon?

Margot Robbie e Diego Luna in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Assolutamente sì.

Nonostante la pellicola sia stata seppellita dalla critica statunitense – anzi, forse proprio per questo motivo – Babylon è arte pura, un racconto del profondo amore di Chazelle per la Settima Arte.

Pur con una durata veramente importante, è un film che racchiude l’apice della capacità artistica di questo regista, con degli interpreti straordinari, in particolare una Margot Robbie al massimo della forma.

Consiglio a latere: se non avete mai visto Singing in the rain (1952), vi consiglio caldamente di recuperarvelo prima della visione.

Un cinema vero

Brad Pitt in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Un grande pregio di Babylon è il riuscire a raccontare, fra il drammatico e il grottesco, cosa significava – e cosa significa – girare un film.

Un cinema disordinato, caotico, genuinamente pericoloso, dove soprattutto le più umili maestranze e comparse venivano facilmente sacrificate – anche letteralmente. Un cinema più complesso, in cui si girava tutto con la luce naturale, con mezzi quasi casalinghi.

E il passaggio al cinema degli studios non rese le cose più semplici…

Con risultati fra il comico e il grottesco.

Jack Conrad

La morte del divo

Brad Pitt in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Jack Conrad è la figura più drammatica fra i protagonisti.

Inizialmente lo vediamo come il divo intoccabile, che si muove in una consolidata rete di conoscenze e favori, la quale, insieme alla sua furbizia, gli permette di avere successo. Tuttavia da metà film la sua stella comincia lentamente a calare, in maniera inizialmente quasi impercettibile.

Ma inevitabile.

Segue fondamentalmente lo stesso arco del protagonista di The Artist (2011), ma con un esito molto più drammatico.

Ma proprio intorno a lui si sviluppa il principale concetto della pellicola: essere parte di un cinema che rimarrà, anche se ora sembra spacciato. Ma, alla fine, la pesantezza di questa conclusione, la sensazione di non avere più posto nel mondo che dava tutto il senso alla sua esistenza, costringe Jack ad uscire di scena.

Nellie LaRoy

Un minuto di fama

Morgot Robbie in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Nellie racconta in maniera molto disincantata la difficoltà di sfondare ad Hollywood, su come sia tutto basato su raccomandazioni e colpi di fortuna.

Del tutto casualmente infatti Nellie riesce a mostrare il suo talento nella recitazione – la classica situazione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E Margot Robbie regge perfettamente la parte, riuscendo con grande abilità ad entrare e uscire dal personaggio in scena.

Ma la fama improvvisa, come prevedibile, svanisce nel giro di pochi anni.

Perché, come tante dive prima di lei, Nellie è schiava dei vizi e dell’eccesso, e, quando arriva il momento, non riesce in alcun modo a riabilitare la sua immagine davanti alla buona società.

Così in qualche modo non riesce mai ad uscire dal suo personaggio, lo stesso che l’aveva portata alla gloria.

E infine viene inghiottita dal buio della scena.

James Mckay

La discesa nell’inferno

Tobey Mcguaire in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Prima di parlare del vero protagonista del film, voglio fare una menzione d’onore a Tobey Maguire.

Lontano dalle scene per tanto tempo e tornato solo recentemente per Spiderman – No way home (2021), in Babylon dimostra che qualcosa è cambiato. Sarà perché nelle abili mani di Chazelle, l’attore è riuscito a portare un personaggio che funziona perfettamente fra l’orrore e il grottesco.

La sua sequenza è un’effettiva discesa negli inferi, definita da lugubri tinte rossastre, in cui Mckay ci accompagna, ci trascina attraverso questa tenebra paurosa. Un paesaggio pieno di mostri, violenza e erotismo.

La versione orrorifica della sequenza iniziale della festa.

Manny Torres

Il cinema che rimane

Diego Luna in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Manny Torres rappresenta perfettamente il modello del self-made man.

Partendo dal nulla, ricoperto da sterco di elefante, riesce, sempre grazie all’ultimo capriccio del divo, a farsi prepotentemente strada nel mondo dello show business. Ma il suo vero obbiettivo è quello di salvare Nellie, il suo oggetto del desiderio.

Da questo punto di vista è davvero interessante il racconto di come si costruisce – e ricostruisce – l’immagine pubblica di un attore.

Ma Nellie è insalvabile.

E alla fine Manny sceglie di scappare e salvare sé stesso, tornando ad Hollywood solamente molti anni dopo, quando il cinema è profondamente cambiato.

Regalandoci una scena di incredibile potenza visiva.

Raccontare il cinema

Se non si ha una conoscenza almeno basilare della storia del cinema – anche legittimamente – si potrebbe non comprendere fino in fondo la potenza della sequenza finale.

In generale, Babylon è un enorme omaggio a Singing in the rain (1952), che è proprio il film che Manny va a vedere in sala. In quel momento si rende conto di quanto, nonostante la fine drammatica degli altri personaggi, le loro storie abbiano contribuito a scrivere e costruire la storia del Cinema.

E da lì parte una lunga sequenza in cui sì va avanti e indietro nel mostrare tutto quello che il Cinema ci ha regalato – da L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) a Un chien andalou (1929), fino ad arrivare ad Avatar (2009).

Fino a distruggere l’immagine in semplici colori primari che si susseguono.

Con il finale che racconta la sua commossa consapevolezza.

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Accadde quella notte... Commedia Drammatico Film Notte degli Oscar

The Artist – Il potere del muto

The Artist (2011) di Michel Hazanavicius più che un film è un sorprendente esperimento cinematografico: provare a riproporre una storia simile a Singing in the rain (1952), ma con la struttura tecnica di una pellicola muta degli Anni Venti.

E il risultato lascia senza parole.

Il film ricevette diversi riconoscimenti, fra cui l’Oscar per Miglior Film, garantendogli anche un buon ritorno economico: a fronte di un budget davvero risicato (15 milioni di dollari), incassò 133 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Artist?

George è una star del cinema muto, che si ritrova improvvisamente a scontrarsi con il nuovissimo cinema sonoro, che sembra spadroneggiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Artist?

Assolutamente sì.

Era davvero difficile riuscire a riproporre un film muto nel 2011, con anche le dinamiche tipiche dei prodotti del cinema primigenio, e renderle apprezzabili al pubblico contemporaneo ormai abituato a prodotti totalmente diversi.

Eppure The Artist ci riesce perfettamente.

Per questo vi consiglio di non farvi frenare dal fatto che si tratti di un film muto: con pochi tocchi e grazie ad una messinscena davvero ben pensata, il regista è riuscito a rendere il prodotto assolutamente godibile.

E vale la pena di spendere due parole in più al riguardo.

Come guardare The Artist

Davanti ad un film come The Artist – in 4:3, in bianco e nero, con dinamiche di un cinema lontanissimo da quello attuale e pure muto – ci si potrebbe facilmente scoraggiare.

Come me è stato in parte per me.

Ma la genialità di questa pellicola sta proprio nella sua capacità di alleggerire notevolmente la maggiore pesantezza del cinema muto, ovvero la continua interruzione della scena per mostrare, tramite scritte sullo schermo, cosa si stanno dicendo i personaggi.

Al contrario, The Artist punta molto sulla recitazione corporea e espressiva, mettendo a schermo neanche un quarto dei dialoghi in forma scritta, ma rendendo chiarissime le dinamiche in scena.

Vedere per credere.

Uno spunto prevedibile…

L’incipit è molto simile – e anche volutamente – al classico del Cinema Singing in the rain (1952): una giovane promessa che riesce ad affermarsi nel nuovo cinema sonoro.

E la pellicola racconta anche un finto spunto narrativo che la rende simile al suddetto film: George deve scontrarsi con la sua vanesia co-star, Costance, che fin da subito si irrita per come il divo gli rubi tutta la scena.

In realtà il suo personaggio viene brevemente rimesso in scena quando Al Zimmer, il produttore, mostra al protagonista la prima prova audio dell’attrice. Poi, semplicemente, esce di scena. E lo stesso vale per la presunta storia romantica fra George e Peppy.

…ma uno sviluppo diverso

Dopo appunto questi spunti narrativi che rimangono orfani – totalmente a favore di pubblico – il film prende una strada totalmente diversa, quasi inaspettata.

Si mostra parallelamente il successo di Peppy Miller, la nuova star del cinema sonoro, e gli inutili tentativi di George di riuscire nuovamente a sfondare nel cinema muto ormai morente, finendo per distruggere anche se stesso.

The Artist quindi si propone di raccontare l’altro lato della medaglia di Singing in the rain: la sorte sfortunata dei divi del cinema muto che non riuscirono a stare al passo con la nuova tendenza.

Infatti nel film del 1952 il contrasto era fra i personaggi positivi – che rappresentano il nuovo cinema – e l’insopportabile diva del muto, che ormai non poteva più essere al passo con la nuova tendenza.

Al contrario, qui è George ad essere vittima della situazione.

Un tipico divo?

George è un protagonista perfetto.

In prima battuta, viene presentato come il classico divo molto – troppo – sicuro di se stesso, anche a costo di mettere in ombra gli altri. Ma non si calca troppo sulla negatività del personaggio, non andando quindi a scadere nella classica narrazione del divo vanesio che si redime nel corso della pellicola.

Il nostro protagonista è semplicemente molto sicuro delle sue doti, e non ha il minimo dubbio sul suo futuro attoriale. Ma si deve scontrare con il cambio dei tempi, spendendo moltissimi soldi per produrre il proprio film, e andando in rovina per questo. E solo per la sua ingenuità, molto spesso rappresentata in maniera quasi giocosa.

Ma anche diversi picchi drammatici, quasi inaspettati per un film con un tono quasi da commedia…

Giocare con il suono

Ho trovato assolutamente geniale il gioco metanarrativo sul suono all’interno della pellicola.

Prima di tutto per l’incubo di George, in cui improvvisamente sente tutti i suoni, ma lui rimane muto, incapace di parlare – proprio come per i suoi film. E il suo urlo rimane totalmente inascoltato.

Ma anche con diversi momenti comici, piccole battute che giocano con il tema del film, ad esempio quando George parla con la signora che è piuttosto interessata al suo cane, e dice:

If only he could talk.

Se solo potesse parlare

E con un finale piacevolissimo, che non scade nella banalissima trama romantica, ma anzi mostra il racconto di una dolcissima Peppy Miller che trova un posto a George nel nuovo cinema. Con un finale in cui esplode finalmente il suono, e sentiamo per la prima volta il protagonista parlare.

Con il suo vistoso difetto di provincia.

The Artist meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2012 furono interessanti per diversi motivi.

Per cercare di rianimare l’interesse intorno alla premiazione, come per gli Oscar del 2010, si decise di portare un numero di nomination fra le cinque e le dieci per la categoria Miglior film, a seconda del risultato delle votazioni interne.

E infatti si ebbero solo nove nomination per quella categoria.

La spartizione dei premi fu molto larga: l’unico film veramente a trionfare nelle categorie principali fu The Artist, affiancato da Hugo Cabret (2011), che però vinse solamente nelle categorie tecniche. Il resto dei premi fu distribuito fra i vari candidati, che acquisirono una statuetta ciascuno.

Purtroppo conosco solamente la metà dei candidati per la categoria Miglior film. Tuttavia, fra quelli che ho visto – Hugo Cabret, Moneyball, The Help, Midnight in Parisa nessuno avrei assegnato la statuetta.

Per questo secondo me la vittoria di The Artist fu non solo la migliore, ma l’unica che veramente avrei accettato.

Fra l’altro la sua vittoria fu molto interessante nella storia dell’Academy: il secondo film muto a vincere in questa categoria – il primo fu Ali (1927), durante la primissima Notte degli Oscar del 1929. Inoltre fu il primo film in bianco e nero a vincere in questa categoria dopo quasi vent’anni – l’ultimo era stato Schindler’s List (1993).

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Perfect blue – Il sogno proibito

Perfect blue (1997) di Satoshi Kon è un lungometraggio animato di produzione nipponica, dalle forti tinte thriller, quasi horror. Un film che mi ha profondamente sorpreso, vedendolo totalmente a scatola chiusa.

A fronte di un budget contenuto (90 milioni di YEN, circa 700 mila dollari), incassò circa lo stesso, con una distribuzione mista fra cinema e TV anche negli anni successivi.

Di cosa parla Perfect blue?

Mima è una idol, parte del gruppo di J-pop CHAM!, che decide di cambiare carriera e diventare un’attrice. Una scelta più dolorosa del previsto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Perfect blue?

Assolutamente sì.

Perfect blue è una sorpresa continua, con una costruzione magistrale che coinvolge passo passo lo spettatore in un vortice di follia, in cui ci si ritrova totalmente spaesati davanti ad un intrecciarsi fra realtà e finzione semplicemente sconvolgente…

Il racconto di una realtà lontana dall’immaginario occidentale, in maniera dolorosamente realistica, oltre ad essere incredibilmente avanguardistica nella rappresentazione della figura femminile, soprattutto in una società restrittiva come quella nipponica…

Il fenomeno delle idol è stato (ed è tuttora) piuttosto controverso in Giappone quanto in Corea del Sud.

Si tratta solitamente di adolescenti che hanno un boom di popolarità – solitamente passeggero – come attrici, modelle, ma, soprattutto, cantanti. Il loro successo non è tanto per il loro talento, ma per il loro aspetto fisico, che curano spasmodicamente.

Il pubblico di riferimento delle idol è principalmente maschile e sente di avere un rapporto molto personale con i loro idoli, anche proprio al di là della loro bravura.

L’aggancio ingannevole

Guardare Perfect blue a scatola chiusa è davvero un’esperienza.

A primo impatto sembra un film molto innocuo, con una storia raccontata dal punto di vista ingenuo e dolcissimo della protagonista, che si fa trascinare inevitabilmente in una nuova vita e una nuova carriera, fiduciosa e totalmente ignara delle conseguenze.

Il primo tassello dell’orrore è la scoperta del sito La stanza di Mima, che svela come la protagonista sia fondamentalmente vittima di stalking continuo e ossessivo, il cui colpevole è in realtà stato già rivelato dalle primissime sequenze.

E il film poteva già essere angosciante così.

Ma è solo il primo passo.  

Una storia a tre

La storia di Perfect blue solo apparentemente ha due attori principali – la vittima e l’antagonista. In realtà è articolata in un terzetto di personaggi, le cui identità vengono rivelate a mano a mano.

E che soprattutto si scambiano le vesti e i ruoli in maniera imprevista.

L’ossessione

Mamoru Uchida – o Me-Mania – è apparentemente l’unico vero antagonista del film.

Il suo aspetto grottesco è già di per sé indicativo della sua personalità, e il suo ruolo da stalker lo rende l’antagonista perfetto: un uomo profondamente innamorato non tanto di Mima, ma dell’immagine idealizzata che coltiva nella sua mente.

Infatti, come all’inizio il diario che scrive della sua idol è basato su eventi reali, più la pellicola procede e più le frasi sul sito raccontano i pensieri che Mamouru vorrebbe che la ragazza provasse, nel totale disprezzo della Mima falsa.

Perché la vera Mima, con cui dialoga continuamente, non farebbe mai certe cose…

Il pentimento

Rumi è apparentemente la prima e più importante alleata di Mima.

In realtà si trasforma in poco tempo nel suo peggior incubo, nutrito dall’ossessione della donna nel voler proteggere la figura della protagonista. Ma Mima non è obbediente, non sceglie le vie più sicure per mantenere intatta la sua bellezza e purezza agli occhi del pubblico.

Nonostante tutti i tentativi di Rumi.

E allora la donna si perde in un delirante tentativo di ristabilire l’ordine, sentendosi per estensione colpita dalle scelte di Mima, in cui rivede profondamente sé stessa. E così sceglie infine di prenderne il posto, come la vera Mima, il vero idolo del pubblico.

La vergogna

Mima è il primo nemico di sé stessa.

È molto più ossessionata dalla sua immagine di quanto è disposta ad ammettere, perennemente perseguitata dal suo stesso fantasma, che alla fine si concretizza nella figura di Rumi e nella sua ossessione.

Ed è tanto più interessante quanto la protagonista non è davvero vergognosa di per sé, non è a disagio né il suo personaggio è umiliato per le sue scelte. Anzi, si sente molto più libera, uscita dall’opprimente seminato di idol.

Infatti, il problema è esterno.

L’icona intoccabile

Con trame di questo tipo, sarebbe stato veramente facile prendere la via sicura dell’umiliare il personaggio femminile per le sue scelte, raccontarlo come vittima di una società in cui l’ipersessualizzazione è la chiave del successo.

Invece è esattamente il contrario.

In Perfect blue Mima si sente libera e sicura delle sue scelte, prendendo anche strade inaspettate e socialmente poco accettabili, in cui racconta in maniera sconvolgente e spregiudicata la sua sessualità.

Ed è davvero potente in questo senso la scena dello stupro, che dovrebbe essere drammatica e straziante, ma che in realtà è ben contestualizzata dallo scambio fra Mima e l’attore che la starebbe violentando sul set.

E si rivela infine una scena davvero potente perché mostra le vere capacità di Mima al di fuori dell’opprimente ruolo della idol.

Cosa significa il titolo di Perfect blue?

A primo impatto il titolo potrebbe far riferimento ad un concetto in realtà proprio della lingua inglese, in cui solitamente il termine blue viene associato alla tristezza, come quella della protagonista della pellicola.

In realtà in giapponese il colore blu fa riferimento alla purezza e all’energia femminile, il punto di arrivo proprio delle figure delle idol.

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Accadde quella notte... Biopic Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar Racconto di formazione

Il discorso del re – Un film da Oscar

Il discorso del re (2010) di Tom Hooper è un dramma storico, vincitore di diversi premi, fra cui Miglior Film e Miglior Attore protagonista agli Oscar.

Un film che incassò ottimamente, sopratutto davanti ad un budget veramente risicato: appena 15 milioni di dollari, con un incasso di 423 milioni.

Di cosa parla Il discorso del re?

Il principe Alberto, futuro Giorgio VI e padre della compianta Elisabetta II, è balbuziente. Problema non da poco per un reale che deve sostenere dei discorsi in pubblico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il discorso del re?

Colin Firth in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Assolutamente sì.

Il discorso del re è un film veramente ottimo, sia per la regia, ma sopratutto per le superbe interpretazioni di Colin Firth e Geoffrey Rush – fra i migliori ruoli della loro carriera.

Un prodotto con ritmi lenti e compassati, ma al contempo una costruzione praticamente perfetta della storia, e sopratutto dei personaggi, nei loro turbolenti rapporti.

Un principe debole

Colin Firth e Geoffrey Rush in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

All’interno di una crisi serpeggiante della Corona Inglese, non era accettabile avere al proprio interno un membro debole e impresentabile.

E Bertie era davvero impresentabile, praticamente una vergogna per la sua famiglia.

Ma era altrettanto difficile abbassarsi ad accettare questa debolezza, così da riuscire a risolverla effettivamente. E infatti, per tutto il tempo, la strategia Lionel è quella di spogliare il futuro re della sua identità regale e di metterlo al suo livello, quasi infantilizzandolo.

Privandolo della sua identità, per dargliene una nuova.

E infatti alla fine lo chiama secondo la sua carica, riconoscendola in maniera definitiva.

Mostruosamente capace

Colin Firth in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Portare sullo schermo le balbuzie, lo sforzo, le difficoltà e le paure annesse, non è cosa da tutti.

Ma Colin Firth è stato mostruosamente capace.

Neanche per un momento all’interno della pellicola ho mai pensato stesse recitando, tanto era intensa e convincente la sua interpretazione. E funziona perfettamente anche nel modulare la sua evoluzione nel corso del film, sopratutto nel suo lento ma costante miglioramento.

Ed era fondamentale che ne fosse capace.

La costruzione drammatica

Colin Firth e Helena Bonam Carter in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Uno dei motivi del successo di pubblico di questa pellicola è la sua costruzione drammatica – semplice ma vincente.

Il protagonista del film – e così anche Lionel – è la vittima della situazione e ci coinvolge profondamente a livello emotivo perché gli antagonisti – il padre quanto il fratello – sono indifendibili.

Quindi si percorre una strada sicura nel raccontare la famiglia reale come un luogo rigido e opprimente, quasi militarista. La stessa strada che percorre anche The Crown, alternando le vittime a seconda della stagione – prima Margaret, poi Carlo, infine Diana.

Facendo fra l’altro leva su un trigger emotivo che facilmente coinvolge il pubblico: i rapporti familiari difficili.

La vera famiglia reale?

Colin Firth e Helena Bonam Carter in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Vedere Il discorso del re oggi, dopo cinque stagioni di The Crown, fa tutto un altro effetto.

La mano dietro ai due prodotti è radicalmente differente, sopratutto nella scelta del casting: come Peter Morgan – per The Crown e The Queen (2006) – punta sulla somiglianza perfetta, Tom Hooper invece predilige i grandi nomi.

Anche se questi assomigliano veramente poco alle loro controparti reali.

Ed in generale forse è l’elemento che mi ha meno convinto dell’intero progetto, con una costante sensazione di messa in scena e dei personaggi molto caricati e un po’ finti, per certi versi. Ma le interpretazioni sono talmente buone che comunque non è niente di eccessivamente condannabile.

Il discorso del re meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2011 furono piuttosto interessanti per diversi motivi.

Oltre a Toy Story 3 (2010), terzo film d’animazione nominato nella categoria Miglior Film in tutta la storia degli Oscar, Il grinta (2010) fu nominato in dieci categorie. E le perse tutte – la seconda volta in tutta la storia dell’Academy.

Il discorso del re fu la pellicola a ricevere più nomination, ma si divise una buona fetta di premi con Inception (2010): entrambi si portarono a casa quattro statuette.

Le pellicola di Tom Hooper aveva dei contendenti molto forti nella categoria Miglior film, in particolare Inception e The Social Network (2010). Ma, per la qualità del prodotto, mi sento di confermare la scelta dell’Academy.

Tuttavia, devo dire che non è il film che personalmente avrei premiato: il mio voto sarebbe indubbiamente andato alla pellicola di David Fincher.

Ma è anche vero al contempo che Il discorso del re è uno di quei film che, pur essendo artisticamente validi, sono perfettamente confezionati per trionfare a queste premiazioni – per il cast stellare e il tipo di storia raccontata.

Farewell, my dear Hooper…

Il regista, Tom Hooper, ha avuto una sorte veramente infelice.

O meritata, a seconda di come la si guarda.

Ha vissuto degli anni felici come golden boy dell’Academy, a capo di film ampiamente discussi e premiati come Les Misérables (2012) e The Danish Girl (2015). Insomma, si era fatto un nome ad Hollywood e per quasi un decennio sembrava invincibile.

Poi è arrivato Cats (2019).

Cats è ancora oggi un mistero cinematografico: sulla carta sembrava un prodotto incredibile, destinato a far parlare molto di sé, essendo il primo adattamento cinematografico dell’omonimo spettacolo teatrale.

Ed effettivamente fece molto parlare di sé.

Ma non nel modo che Hooper probabilmente si aspettava.

Cats fu infatti un disastro sotto ogni punto di vista: fu un flop disastroso al box office, non riuscendo minimamente a coprire le spese di produzione, venne sbeffeggiato in ogni dove e, sopratutto, fece perdere ogni tipo di credibilità al regista.

Anche a livello umano Hooper fu sotterrato dalle critiche: vennero alla luce una serie di indiscrezioni per cui avrebbe sottoposto gli addetti agli effetti visivi – fra l’altro terribili – a dei ritmi massacranti, comportandosi anche in maniera incredibilmente scorretta nei loro confronti.

E vincendo un Razzie awards come peggior regista dell’anno.