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La compagnia dell’anello – L’inizio di una grande avventura

Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello (2001) di Peter Jackson è il primo capitolo della trilogia cult tratta dalle opere di Tolkien. Dopo la mia parziale delusione di Rings of Power, da buona casual fan di questa saga ho voluto riguardarla da capo, dopo tanti anni dalla prima visione.

E secondo me è quantomai evidente quanto la serie abbia provato ad imitare la grandezza di queste opere, che però si sono rivelate davvero inarrivabili.

Questo film fu anche un incredibile successo economico: a fronte di un budget di 93 milioni di dollari, ne incassò quasi 900.

Di cosa parla Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello?

Dopo un ampio prologo dedicato alla creazione e alla perdita dell’Anello, veniamo catapultati nella Contea degli Hobbit, minuscole creature fantastiche che si troveranno al centro della storia. In particolare il nostro eroe, Frodo, si trova fra le mani questo oggetto preziosissimo, ma anche molto pericoloso, che deve essere distrutto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello?

Elijah Wood e Ian McKellen in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Ovviamente sì.

Molti si potrebbero sentire un po’ minacciati da quest’opera, soprattutto davanti alla durata piuttosto corposa, oltre al culto che la circonda. Tuttavia, vale assolutamente la pena di approcciarsi quantomeno al primo capitolo della saga, un caso abbastanza raro di un blockbuster che venne riconosciuto anche per il suo valore artistico.

E in effetti già questa prima opera, nonostante abbia dei tratti estetici tipici di un altro periodo, dimostra tutta la passione di questo autore nel portare sullo schermo l’opera di Tolkien, riuscendo a reggere magnificamente tre (e più) ore di film.

E a questo proposito…

Meglio la versione cinematografica o la versione estesa?

Una dura scelta.

Ma la scelta in realtà è più semplice da quello che sembri: se vi state approcciando per la prima volta a questo film, non vi consiglio di guardare la versione estesa. Non perché non ne valga la pena, ma perché le tre ore e venti di durata sicuramente si sentono, e potrebbe non dico guastare la visione, ma renderla più impegnativa del necessario.

Tuttavia, se state rivedendo i film e soprattutto se siete appassionati della saga, vale assolutamente la pena di approcciarsi alla versione estesa, che aggiunge scene magari non fondamentali, ma che sicuramente ampliano la narrazione.

Un eroe minuscolo

Elijah Wood in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Una delle caratteristiche più peculiari del film, e più in generale dell’opera di Tolkien, è la scelta dell’eroe. Frodo è un ragazzino, quasi un bambino, che non ha esperienza del mondo, e che anzi ha una statura minuscola, un personaggio che può essere schiacciato potenzialmente da chiunque.

E infatti è proprio il topos dell’eroe per caso, che porta sulle spalle l’importante peso di salvare il suo mondo, ma che al contempo è continuamente fallibile e impaurito. Ed è solo l’inizio di un grande percorso di crescita e di scoperta, che lo spettatore può seguire con grande affiatamento.

E infatti Jackson si è trovato per le mani un protagonista perfetto, che può essere quanto più possibile vicino allo spettatore, che si comporterebbe forse in maniera non tanto dissimile nella medesima situazione.

L’anello, il vero nemico

Always remember Frodo, the Ring is trying to get back to its master. It wants to be found.

Ricorda Frodo, l’Anello sta cercando di tornare dal suo creatore. Vuole essere trovato.

Un elemento di grande interesse della pellicola è come Sauron, il grande nemico, sia fondamentalmente assente. I personaggi vengono soprattutto a contatto con i suoi sottoposti, in particolare i terribili nazgol, nemici con un’estetica semplice, ma molto efficace.

Ma il vero nemico è l’anello.

L’anello è un nemico infido, che non si può effettivamente sconfiggere se non distruggendolo, con cui non si può dialogare, che è al contempo il nemico e l’oggetto del desiderio. Quindi il protagonista è minacciato da ogni parte: da chi vuole impossessarsene e dall’anello stesso che vuole essere posseduto.

E particolarmente interessante che l’anello non è desiderato per motivi di per sé negativi. Infatti, come dice Gandalf:

I would use this ring for a desire to do good.

Userei l’anello per il desiderio di fare qualcosa di buono.

E infatti anche Boromir alla fine se ne vuole impossessare perché attratto dal tipo di potere che quell’oggetto può dare. Teoricamente, quindi, per fare il bene del suo popolo.

Una regia dinamica

Elijah Wood, Sean Astin, Dominic Monaghan e Billy Boyd in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Un grande pregio della pellicola, come per la saga di Scream e come Dune (2021), è la regia.

All’interno sempre di un prodotto dalla durata importante e con concetti non sempre facilmente digeribili, la messinscena e soprattutto i movimenti di macchina donano una tridimensionalità e una dinamicità incredibilmente coinvolgente alle scene.

Non di meno la fotografia e le ambientazioni sono molto più cupe di quando mi ricordassi, in parte anche figlie degli Anni Novanta e di certe tendenze nascenti nel millennio che era appena cominciato. Elementi che potenzialmente potevano far scadere il prodotto in un’estetica di seconda categoria.

Ma è tutto il contrario.

Una narrazione a tappe

Viggo Mortensen in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

La struttura narrativa di per sé non è problematica, ma indubbiamente può apparire non poco pesante e forse meno coinvolgente per il fatto che è evidentemente solo la prima parte di un viaggio.

E tanto più che è una narrazione a tappe, in cui ognuna è anche una tappa del viaggio stesso. Quindi non si vede di per sé un’evoluzione della vicenda, ma il tentativo di portare avanti un’avventura complessa e che, tutto sommato, risulta fallimentare nella sua prima fase.

Perché Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello mi è piaciuto Perché Rings of Power no

Questa è ovviamente la mia opinione personale, ma non riesco a considerare Rings of Power all’altezza della saga madre. Rivedendo infatti questo film mi sono resa conto di quanto al confronto la serie prequel mi sembra non più che una grande fanfiction ad alto budget.

Tanto per cominciare di Rings of Power, come avevo già raccontato nella recensione dedicata, non mi è piaciuta la regia e le ambientazioni. Mentre in La compagnia dell’anello ho visto delle ambientazioni credibili e molto più dark, nella serie ho trovato principalmente setting anche molto belli, ma eccessivamente patinati e luminosi, e di conseguenza per me molto finti.

Un’altra cosa molto fastidiosa della serie è stata la mia alienazione.

Molti elementi della trama vengono inseriti senza essere spiegati, quando bastava veramente una riga di sceneggiatura per rendere la storia più comprensibile. Invece ne La compagnia dell’Anello ci sono tutte le didascalie necessarie, e mai ingombranti.

Insomma, non voglio distruggere la serie, ma finalmente mi è chiaro perché ho sentito questa grande differenza di apprezzamento fra i due prodotti.

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Avventura Azione Black Panther Cinecomic Drammatico Fantascienza Film MCU

Black Panther – Un capolavoro medio

Black Panther (2018) di Ryan Coogler è una origin story dedicata al personaggio omonimo, che era già stato brevemente introdotto in Captain America – The Winter Soldier (2014). Un film che è diventato un caso, per tanti motivi, nonché un prodotto di grande importanza per la comunità africana e afrodiscendente.

E ovviamente questa importanza è arrivata a raccontarlo come un capolavoro.

Prima di fiondarci in sala a guardare il sequel, Wakanda Forever (2022), vale la pena riflettere sul primo capitolo e su quello che, al di là del giudizio di pancia, è effettivamente. Sicuramente fu uno dei più grandi successi commerciali dell’MCU: a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, incassò 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Di cosa parla Black Panther?

Dopo la morte del padre, T’Challa diventa il nuovo re di Wakanda, lo stato africano isolazionista, mentre il suo trono viene minacciato da un personaggio misterioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Panther?

Chadwick Boseman in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

La giusta domanda in realtà sarebbe: ha senso guardare Black Panther al di fuori del resto dei film dell’MCU?

Sì e no.

Anche se fondamentalmente riesce ad essere un prodotto abbastanza autonomo, in cui non ci sono altri personaggi di altri film in scena (a parte nelle ignorabili scene post-credit), a mio parere ha poco senso vederlo se non si è un minimo appassionati dell’MCU, soprattutto a quattro anni di distanza.

Infatti, come approfondiremo meglio nella parte spoiler, Black Panther è un film MCU e supereroistico in generale molto medio, che non brilla più di tanto, se non proponendo un setting diverso dal solito.

Se invece volete vedere Black Panther in vista di Wakanda Forever o per un recuperone generale dell’MCU, ovviamente vale la pena di guardarlo: in una mia ipotetica classifica, Black Panther sarebbe in una posizione mediana.

Insomma, senza infamia e senza lode.

Immagini in movimento

Chadwick Boseman e Lupita Nyong'o  in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Il mio principale problema con questo film è che tutti i personaggi in scena potrebbero lasciarci per una morte improvvisa e non me ne potrebbe interessare di meno.

E secondo è anche un difetto della pellicola, che non intraprende un particolare approfondimento del personaggio, che invece appare piuttosto distante dallo spettatore e con conflitti che sembra già subito capace di risolvere. E non è una scusante il fatto che sia stato introdotto in un’altra pellicola.

Perché lo stesso è successo con Spiderman in Captain America – Civil War (2016).

Premetto per correttezza che sono molto di parte, perché Spiderman Homecoming (2017) è il mio film MCU preferito e così lo Spiderman di Tom Holland è il mio Spiderman preferito.

Tuttavia, è anche vero che in Homecoming, complice anche una minore drammaticità della storia, mi sono trovata davanti ad un protagonista con una storia molto coinvolgente e che, soprattutto, era davvero fallibile e vicino allo spettatore.

Benché lo scheletro narrativo di Black Panther sia abbastanza simile (come simile alla maggior parte delle origin story supereroistiche), non sono riuscita a trovare lo stesso tipo di coinvolgimento. Anche perché tutti i problemi di T’Challa sono muscolari e si risolvono con combattimenti vinti da chi è più abile a menar le mani, fondamentalmente.

Insomma, secondo me questo personaggio manca di un’adeguata profondità narrativa e psicologica.

E non parliamo poi del villain…

Un villain insulso

Michael B. Jordan' in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Il villain di Black Panther è per me uno dei meno indovinati dell’MCU.

Non tanto per la sua introduzione o per il modo in cui si comporta, ma per le sue motivazioni.

Purtroppo in questo film si è deciso proprio di colpire alla pancia dello spettatore, e scegliere di raccontare una discriminazione a livello globale nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Problema che indubbiamente esiste, ma che appare quanto mai evidente come il discorso al riguardo sia stato fatto principalmente con un’idea molto statunitense e provinciale.

Infatti il discorso di Killmonger sul razzismo e sulla discriminazione non è derivato da un’esperienza internazionale dove ha visto la sua comunità oppressa, ma, al contrario, semplicemente dalla sua infanzia difficile in un ghetto statunitense.

Ergo, anche se si sta parlando di razzismo a livello globale, in realtà si sta parlando unicamente della società statunitense, a cui il film è indirizzato. Ma, nonostante questo, Killmonger è convinto che sia giusto dichiarare guerra a tutti i paesi del mondo, dove apparentemente (ma senza che lui ne abbia una reale sicurezza), la sua comunità viene sempre e ugualmente discriminata.

Insomma, riflettendoci un attimo, le motivazioni del villain appaiono abbastanza ridicole e poco credibili.

Tuttavia, è anche giusto essere clementi.

I problemi di Black Panther sono i problemi di tutti

Daniel Kaluuy in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Sarebbe totalmente ingiusto accanirsi su alcuni problemi di questo film.

Infatti, diversi difetti che si possono imputare a questa pellicola, si possono allo stesso modo imputare a molti altri film Marvel.

Per esempio, il problema del protagonista freddo e distante è una questione ben più grave in Captain Marvel (2019). Così i villain insulsi si trovano in una buona parte di tutti i film Marvel, soprattutto all’inizio, partendo da Iron man (2008) fino a Doctor Strange (2016).

Allo stesso modo non ho neanche voglia di sprecare tante parole riguardo al villain minore, Ulysses Klaue, un antagonista da operetta interpretato da Andy Serkis in una delle peggiori prove attoriali della sua carriera.

E neanche mi voglio troppo accanire sulle motivazioni ridicole di Killmonger: è solo uno fra tanti.

Per questo motivo non considero Black Panther un pessimo film, ma un film medio dell’MCU.

Un setting diverso

Un merito indubbio del film è la novità delle ambientazioni e, in parte, dell’estetica.

L’estetica di Black Panther è basata in gran parte sulla corrente dell’afrofuturismo, un movimento nato negli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento. Una corrente caratterizzata da diverse espressioni artistiche, ma accomunate in generale dall’elemento fantastico e fantascientifico affiancato alla cultura tradizionale africana.

Una corrente finalizzata quindi a rivendicare la cultura africana e il suo posto nell’evoluzione tecnologica e umana.

Questa pellicola ha fatto tornare questa corrente artistica molto in voga ed ha indubbiamente portato un elemento abbastanza unico nel panorama dell’MCU. Personalmente ho apprezzato questi elementi di incontro fra due realtà estetiche così diverse, tanto che le scene fuori dal Wakanda mi sono sembrate esteticamente poco interessanti.

Tuttavia, questa stessa corrente porta con sé dei problemi.

Black Panther è un film razzista?

Sembra una domanda stupida e provocatoria, ma per molti non lo è.

Alla luce di quanto detto sul tipo di corrente artistica seguita da questo film, è evidente che ad un pubblico occidentale possono apparire quantomeno strani certi accostamenti, come i palazzi ultramoderni con i tetti di paglia.

La mia idea è che questo film sia stato fatto con tutte le migliori intenzioni, che in parte si sono realizzate, e che in parte invece potrebbero aver avuto non il migliore degli esiti.

Con questo mi riferiscono principalmente al sistema elettivo basato su una lotta potenzialmente all’ultimo sangue.

Non parlo tanto di come questo elemento possa apparire proprio di una società più primitiva, ma più che altro come lo stesso possa non essere stato la migliore rappresentazione per la comunità afrodiscendente. Infatti, nella società statunitense, a cui la pellicola è principalmente indirizzata, gli afroamericani sono spesso raccontati come criminali, violenti e chiassosi.

E non si è pensato al rischio di rafforzare questo stereotipo raccontando una società di persone nere basata sulla violenza?

Black Panther è un capolavoro?

Per quanto mi rendo conto che il concetto di capolavoro è molto fumoso e personale, direi che possiamo metterci una mano sul cuore e dire che no, Black Panther non è un capolavoro.

Come detto, al di là dell’importanza che può aver avuto e delle emozioni che ha dato a tanti, è obiettivamente un film medio, con uno scarso valore artistico e che non aggiunge niente neanche al suo genere di riferimento.

E la sua candidatura agli Oscar è stata puramente per motivi politici.

Dove si colloca Black Panther (2018)?

Black Panther è un origin story abbastanza a sé stante.

Il personaggio era già stato introdotto in Captain America: Civil War (2016), ma ha la sua storia completa in questo film. La pellicola fa parte di quei prodotti che possiamo definire pre-Endgame: come per Captain Marvel (2019), viene introdotto un nuovo personaggio che poi combatte nella battaglia finale della Fase 3.

La pellicola dovrebbe essere ambientata fra il 2016 e il 2018, e fa parte della Fase 3.

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La mosca – Il cult dei cult

La mosca (1983) è il film assolutamente più iconico della produzione di David Cronenberg, ed è anche un magnifico esempio di come una storia semplicissima nelle giuste mani possa diventare qualcosa di indimenticabile.

E non a caso fu uno dei pochi grandi successi della carriera del regista: davanti ad un budget di appena 7 milioni di dollari, incassò quasi dieci volte tanto: 60 milioni in tutto il mondo.

E divenne immediatamente un cult di genere.

Di cosa parla La mosca?

Seth Brundle è uno scienziato che sta lavorando ad un progetto rivoluzionario: il teletrasporto. Tuttavia, proprio quando sembra andare tutto bene, l’ubriacatura del successo ha la meglio, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La mosca?

Jeff Goldblum in una scena di La mosca (1983) di David Cronenberg

Assolutamente sì.

Fra tutti i film di Cronenberg che finora ho visto, è in assoluto il mio preferito. La trama è di una semplicità devastante, ma molto meno prevedibile di quanto mi aspettassi, ma la parte migliore sono indubbiamente gli effetti visivi, che sono da far girar la testa.

La resa visiva per me è poco sotto a La cosa (1982), un capolavoro in questo senso.

Come considerazione finale sulla produzione fantascientifica-horror di questo regista, ho preferito in generale i momenti in cui Cronenberg si sia impegnato in produzioni con trame più lineari e che puntavano molto sugli effetti visivi e su un ottimo interprete protagonista, come era stato anche in Scanners (1981).

La meraviglia visiva

Jeff Goldblum in una scena di La mosca (1983) di David Cronenberg

I punti forti della pellicola sono indubbiamente il trucco e gli effetti visivi.

Ottimamente gestito il crescendo della trasformazione di Seth: comincia avendo solamente il volto un po’ butterato, poi inizia a trasformarsi mantenendo il suo volto umano, perdendone via via le fattezze, arrivando infine ad uscire dal suo guscio per trasformarsi del tutto in un ibrido uomo-mosca.

La scena della trasformazione entra veramente di diritto nelle più incredibili trasformazioni che io abbia mai visto sullo schermo.

La meraviglia visiva si trova anche in altri elementi della storia, fra cui il liquido corrosivo che Seth vomita e che scioglie letteralmente la carne e permette di staccare facilmente pezzi del corpo.

E ogni cosa che ho visto sullo schermo non mi è mai sembrata finta, nonostante fosse una produzione molto piccola, ma di grande valore.

Un’interpretazione mostruosa

Jeff Goldblum in una scena di La mosca (1983) di David Cronenberg

Come era stato anche per Scanners, era assolutamente necessario anche in questo film avere un ottimo interprete capace di reggere la scena senza sembrare ridicolo o poco credibile.

E per fortuna c’era Jeff Goldblum.

Questo straordinario attore, che raggiunse un’effettiva popolarità solamente dieci anni dopo con la saga di Jurassic Park, all’interno di un’unica pellicola dovette portare in scena personaggi molto diversi, che rappresentano le varie fasi della trasformazione e del cambiamento di comportamento del protagonista.

E ci è riuscito perfettamente.

Passando dall’ossessione di Seth, che subito dopo la trasformazione si comporta come se fosse sotto steroidi, fino al momento in cui diventa in tutto e per tutto un insetto, con gli occhi che saettano drammaticamente da una parte all’altra…

Distruggere i simboli

Geena Davis in una scena di La mosca (1983) di David Cronenberg

Cronenberg ha la fantastica tendenza a distruggere i simboli e renderli mostruosi.

Come in praticamente ogni sua pellicola insista tantissimo sull’elemento della sessualità e i suoi simboli, particolarmente la vagina (nel senso più letterale del termine, ovvero guaina), in Videodrome (1983) come nel recente Crimes of the future (2022).

In questo caso, ricalca il topos della maternità mostruosa.

Per una buona parte del film seguiamo l’angoscia di Veronica per l’idea di avere in grembo una creatura mostruosa, che piano piano si trasformerà in qualcosa di agghiacciante come Seth. Da cui l’iconica sequenza in cui partorisce una larva di mosca, potentissima quando agghiacciante.

La piccolezza dell’uomo

Un tema interessante raccontato dalla pellicola è la piccolezza dell’uomo e la sua autodistruzione nel tentativo di essere un dio.

Così Seth sente di avere fra le mani qualcosa di incredibile e che rivoluzionerà per sempre l’umanità. Ma questo lo porta anche a credere troppo nelle sue capacità. E così anche un elemento piccolo e insignificante, un essere che l’uomo può permettersi di distruggere con colpo di mano, riesce a invece a privarlo della sua umanità e a mettere fine a tutti i suoi sogni.

E paradossalmente i suoi tentativi di ritornare umano, lo portano solo ad esserlo sempre di meno…

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Ritorno al bosco dei 100 acri – Una favola di concetto

Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster è un prodotto ispirato ai racconti per l’infanzia di Winnie the Pooh e Christopher Robin.

Un film che cercava fare breccia nella nostalgia degli adulti, sia di agganciare un nuovo pubblico di bambini. Riuscendoci in parte: davanti ad un budget intorno al 70 milioni, ebbe un buon riscontro di 197 milioni di incasso.

Tuttavia, forse non era quello che si aspettavano. Infatti, in quel periodo uscirono due film analoghi, Paddington (2014) e il seguito, Paddington 2 (2017), costati pure meno e che per questo furono decisamente più redditizi: rispettivamente 282 milioni e 227 milioni.

Di cosa parla Ritorno al bosco dei 100 acri?

Christopher Robin deve abbandonare i suoi amici del bosco dei 100 acri per andare in collegio, esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ritorno al bosco dei 100 acri?

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

In generale, sì.

La pellicola ha molti punti forti, che lo rendono un film molto piacevole da guardare, con diversi momenti strappalacrime, oltre ai dolcissimi personaggi del bosco. Un film con una trama semplice e lineare, quasi prevedibile, ma che in molti punti scalda davvero il cuore.

Tuttavia, è un film che consiglio di guardare senza pensarci troppo: ad un’analisi più approfondita il film risulta difettoso in più punti, in particolare con una struttura narrativa un po’ traballante e tematiche più adatte ad un pubblico molto adulto che di bambini…

Inghiottiti dal lavoro

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

Il racconto del padre di famiglia che non si occupa adeguatamente dei figli e che li stressa per raggiungere il loro meglio è un topos narrativo molto tipico di questo tipo di film, fin da Mary Poppins (1964).

Tuttavia, in questo caso è raccontato in maniera forse più pesante del necessario: solitamente si associa questo tipo di racconto alla perdita dei sogni infantili e della spensieratezza una volta giunti alla vita adulta, ad uso e consumo del target infantile.

Invece in Ritorno al bosco dei 100 acri il protagonista è schiavo della retorica capitalista del col duro lavoro raggiungerai tutto quello che vorrai. Un tema drammaticamente attuale, che può essere facilmente comprensibile per un pubblico molto adulto, mentre potrebbe aver solo confuso un pubblico infantile.

Il bambino non protagonista

Forse un altro malus per la ricezione di questo film è stata proprio la mancanza di un protagonista infantile. Per due terzi della pellicola il personaggio principale è l’adulto che vuole tornare bambino, non il bambino stesso.

E, come detto, un adulto con dinamiche adulte, poco interiorizzabili da un pubblico infantile.

Infatti, il film e le sue tematiche dialogano non tanto con il sogno infantile della spensieratezza, ma al contrario con l’idea di dover tenere insieme un’azienda, fare il proprio lavoro e non rovinare la vita agli altri. E infatti, la risoluzione del problema, che cerca di scardinare un classismo di fondo della società, è un elemento poco chiaro per un bambino,

E poco importa se in parte la figlia del protagonista porta l’idea risolutiva.

Perché lei stessa è l’elemento più difettoso.

Il personaggio infantile

Quella che dovrebbe essere la protagonista del film, è in realtà catapultata al centro della scena sul finale per risolvere la situazione, senza che però il suo personaggio sia stato adeguatamente costruito, dando allo spettatore la possibilità di essere coinvolta con la sua storia.

Infatti, Madeline dovrebbe avere un’evoluzione durante il film per ritrovare la sua spensieratezza infantile, ma succede tutto troppo improvvisamente e senza dare il tempo al personaggio di respirare.

E questo è dovuto ad una struttura narrativa traballante, che sembra voler rispettare una serie di step obbligati di questo tipo di film, ma mancando di una robusta struttura che li tenga insieme.

Una scelta ottima…ma poco credibile

Personalmente ho davvero apprezzato la scelta di rendere i personaggi del bosco come bambole di pezza, realizzati in maniera molto credibile e che riescono a riprendere i caratteri dei personaggi originali, ma riuscendo anche ad adattarli al tono del film.

E la maggior parte dei loro discorsi toccano veramente nei punti giusti, e mi hanno sinceramente commosso.

Tuttavia, questa scelta è purtroppo poco credibile quando i personaggi del bosco dei 100 acri escono dal bosco stesso. La dinamica dovrebbe essere alla Toy Story, ovvero che si fingono delle bambole di pezza rimanendo immobili.

Ma questo succede troppo poco spesso e così troppo poco spesso gli altri personaggi umani si rendono conto della loro vera natura. I momenti in cui succede sono funzionali alla narrazione, ma per molto tempo del film io non riuscivo a credere a quello che vedevo in scena.

Perché Ritorno al bosco dei 100 acri non fu un grande successo?

Fra il 2014 e il 2018 sembra che fosse il grande momento dei buddy movie con un adulto e un orsetto.

Eppure, nessuno di questi fu un grandissimo successo: come detto quello che ne uscì meglio fu proprio la duologia di Paddington, che fu anche quella che costò di meno.

Anche peggio fu la produzione di Vi presento Christopher Robin (2017), che fu un flop al botteghino.

Nel caso de Ritorno al bosco dei 100 acri si trattò di un film ben più ambizioso, con un attore capace e quasi il doppio di Paddington. Un prodotto che però non riuscì particolarmente a distinguersi, azzeccando poco il target di riferimento e forse definendo la conclusione di un trend che era ormai saturo.

Lode a Ewan McGregor

Ewan McGregor è un attore che apprezzo moltissimo.

Soprattutto perché è uno di quegli interpreti magnifici che in ogni produzione ci mettono veramente impegno. Anche quando si trova in produzioni che non richiedono particolari doti interpretative e che, negli ultimi tempi, hanno portato a risultati spesso deludenti.

Partendo dal tentativo di rilancio di Trainspotting, che ha avuto un riscontro economico non particolarmente entusiasmante, il flop di Doctor Sleep (2019) e poi quello di Birds of prey (2020).

In particolare quest’ultimo è stato per me un film mediocrissimo, oltre che con la campagna di marketing e la distribuzione meno azzeccata nella storia del cinema. E comunque anche in quello McGregor ha fatto del suo meglio.

E così anche ne Ritorno al bosco dei 100 acri ha recitato per la maggior parte delle scene da solo in scena, riuscendo a dare un’interpretazione sempre convincente.

Non proprio una cosa da tutti.

Ed è veramente un peccato che il maggior successo che questo attore abbia avuto recentemente è stato con quella mediocrata di Obi-Wan...

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Avventura Azione David Cronenberg Drammatico Fantascienza Film Futuristico

eXistenZ – Are we still in the game?

eXistenZ (1999) è uno dei film minori di Cronenberg, che alla fine degli Anni Novanta e con decisamente meno budget raccontava un mondo non tanto dissimile da quello di Ready Player One (2018).

Il tutto, sempre con lo stile inconfondibile del regista.

Davanti ad un budget comunque non risicato (30 milioni di dollari), incassò, come tipicamente nella sua produzione, appena 2,8 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla eXistenZ?

In un mondo futuristico, le console di videogiochi sono diventate biologiche e si attaccano direttamente al corpo dei giocatori. In occasione dell’anteprima del nuovo gioco, la vita di Allegra Geller, la designer del videogioco, viene attentata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere eXistenZ?

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In generale, sì.

Personalmente è il film della produzione di Cronenberg che mi hanno meno convinto. In generale l’ho trovata una pellicola che, togliendo il suo principale elemento di fascino, è abbastanza sottotono.

Al contempo, è anche uno di quei prodotti che, se siete veramente innamorati dell’estetica di Cronenberg e della sua fantascienza corporea, è probabile che vi piaccia molto. Tuttavia, manca del mordente dal punto di vista tecnico (pochi elementi di effetti speciali materiali) e di profondità narrativa.

Raccontare un videogioco…a metà

Jennifer Jason Leigh in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

Un elemento non propriamente a mio parere ben sfruttato è quello della realtà del videogioco.

Per quanto complessivamente la storia sia credibile, pecca nella verosimiglianza del racconto dei cosiddetti NPC (Non Player Characters), ovvero quei personaggi dei videogiochi con cui il giocatore interagisce ma che sono di fatto dei bot.

Non so quanto fosse profonda la conoscenza del regista al riguardo e quanto di fatto gli interessasse, ma avendo in mente altri prodotti con storie analoghe mi è personalmente dispiaciuta questa mancanza. Più che altro sembra che i protagonisti siano immersi in una sorta di storia di spy story piuttosto intricata, più che all’interno di un effettivo videogioco.

Così il fatto che tutti i personaggi fossero a modo loro dei giocatori è indubbiamente funzionale alla narrazione, ma poco credibile sempre nel contesto videoludico: il videogiocatore vive per essere il protagonista, non il personaggio secondario.

Insomma, da questo punto di vista si poteva fare decisamente di meglio.

La costruzione a scatole cinesi

Willem Dafoe in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

La costruzione a scatole cinesi, per cui non si sa mai quando i personaggi sono nella realtà e quando nel videogioco, l’ho trovato al contrario molto interessante. Ed è un elemento che funziona così bene anche perché il contrasto fra illusione e realtà è il pane quotidiano di Cronenberg fin da Videodrome (1983).

Di fatto i personaggi (e di conseguenza anche lo spettatore) non hanno mai la sicurezza di essere nella realtà vera, ma al contrario si perdono in diversi livelli di realtà virtuale, in un labirinto da cui sembra impossibile uscire.

E per lo stesso motivo il cliffhanger finale l’ho trovato anche molto indovinato.

Ancora il corpo

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In questa pellicola ho poco apprezzato gli effetti speciali e la gestione della corporeità in generale.

Per come è messo in scena, per certi versi questo film mi è sembrato il sogno di un feticista, sia per i game pod, che sono accarezzati e trattati quasi sessualmente (e infatti sembrano quasi dei seni), ma soprattutto la bioporta.

Fra tutti i modi in cui avrebbero potuto mostrarle, chissà come mai le bioporte hanno una forma così caratteristica e sono proprio vicino al fondo schiena, oltre ad essere penetrati da un elemento dalla forma così fallica.

E soprattutto il modo in cui il gamepod è preparato per essere inserito nella bioporta.

Signor Cronenberg, anche meno.

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Triangle of sadness – Siamo tutti uguali

Triangle of sadness (2022) è l’ultima opera di Ruben Östlund, regista svedese che ha conquistato per la seconda volta la Palma d’Oro a Cannes, dopo averla già vinta col precedente The Square (2017).

Un film che è passato fondamentalmente sotto silenzio, e che in Italia si è cercato di vendere come un film molto divertente. In realtà è una pellicola devastante, e per diversi motivi. E non a caso, davanti ad un budget risicatissimo (13 milioni di euro), ha incassato comunque pochissimo: per ora, appena 7 milioni.

E non potrei essere meno sorpresa.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Triangle of sadness (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Di cosa parla Triangle of sadness?

Carl e Yaya sono due modelli, che si trovano a gestire la loro insidiosa relazione, sullo sfondo di una crociera di lusso che prende una piega inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Triangle of sadness?

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

È complicato.

Io di mio l’ho trovato un film davvero incredibile, fra i migliori usciti quest’anno. Ma, al di là del mio apprezzamento personale e del grande valore artistico e politico della pellicola, è potenzialmente una pellicola che molti potrebbero profondamente odiare.

Diciamo che se non riuscite a ritrovarvi in una humor nerissimo, che gioca moltissimo sulle battute paradossali e al limite dell’angosciante, potrebbe darvi solo fastidio. È un film da cui bisogna lasciarsi davvero rapire, con tutto il suo devastante significato.

Se vi sentite pronti, guardatelo.

Prologo

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta conclusa la pellicola, la prima parte dedicata ai due apparenti protagonisti potrebbe apparire fondamentalmente inutile alla storia.

In realtà, tutta la prima parte, se la si guarda con attenzione, è un gigantesco foreshadowing del terzo atto del film. Infatti all’inizio Yaya racconta come la relazione con Carl non sia frutto dell’amore, ma di un rapporto di mutuo vantaggio.

Anche se non viene spiegato esplicitamente, è probabile che si intenda che, come Yaya ottenga maggiore attenzione potendo pubblicizzare la sua relazione con un bel ragazzo come Carl, così Carl possa vivere della luce di lei.

E così la ragazza racconta come l’unico modo in cui può uscire dal lavoro sfiancante del mondo della moda è quello di diventare una moglie trofeo per qualcun altro, idealmente Carl.

Così nel terzo atto Carl stesso diventa il marito trofeo di Abigail, sempre in una relazione non amorosa, ma di vantaggio: la donna può intrattenersi con un ragazzo piacente, mentre quello stesso ragazzo può avere un vantaggio sociale nella loro piccola comunità.

Incomprensione

Sunnyi Melles in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Uno degli elementi principali della pellicola è la totale incomprensione della classe sociale più agiata verso la realtà del mondo.

Il momento più agghiacciante in questo senso è quando Vera costringe tutto l’equipaggio della nave a scendere dallo scivolo della nave e a farsi un bagno.

Dal suo (apparente) punto di vista, in questo modo avviene una giocosa inversione dei ruoli. In realtà è solo una donna potente che ha fatto uso del suo potere per utilizzare i suoi sottoposti come preferisce.

Altrettanto graffiante la scena in cui la coppia anziana che vende bombe raccoglie candidamente la mina antiuomo, e la donna chiede

È una delle nostre?

A seguito di un dialogo anche più agghiacciante avvenuto prima fra la coppia e i due protagonisti, in cui i due raccontano candidamente e in maniera così paradossale da essere esilarante, di come i loro affari siano stati guastati dagli stupidi tentativi dell’ONU di evitare spargimenti di sangue.

Ma è un mondo fragile e illusorio.

Fragilità

Vicki Berlin Tarp, Dolly Earnshaw de Leon e Charlbi Dean Kriek in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta sbarcati sull’isola, i sistemi della società si azzerano, principalmente per mano di Abigail. Infatti la donna, una volta pescato il polpo, si rende subito conto del valore del suo operato, e ne sfrutta tutto il vantaggio.

E, anche se Paula cerca immediatamente di ridimensionarla, i bisogni primari sono così pressanti che il nuovo ordine viene subito stabilito.

Ed è tanto più evidente da dove nasceva la scintilla di questa nuova idea quando Abigail si trova improvvisamente seduta su un piccolo tesoro di acqua e cibo tanto desiderato, e a malincuore (e pure ingiustamente) deve cederlo a chi non ha nessun motivo di averlo.

E questo porta anche ad un’interessante riflessione sulla fragilità della società capitalista: basta davvero così poco per stravolgerla e mettere di nuovo al primo posto chi di fatto porta un vero valore alla società?

A quanto pare, sì.

Angoscia

Come detto, se si riesce ad essere coinvolti con l’umorismo del film, può risultare incredibilmente divertente.

Io personalmente raramente mi sono divertita così tanto.

Tuttavia, è una risata angosciante, che ti fa ridere solo superficialmente, ma che, se si ragiona veramente sul significato dei dialoghi e delle scene, è incredibilmente angosciante – fra l’altro, con molto spesso una regia che gioca molto sul contrasto fra l’incredibilmente divertente e il drammaticamente devastante.

Due fra tutte: i discorsi surreali di Dimitry e del capitano Thomas, assolutamente spassosi che fanno però da sottofondo ad inquadrature particolarmente tragiche degli ospiti della nave impauriti.

Anche di più quando Dimitry discute concitato con Paola e Nelson accusando quest’ultimo di essere un pirata, mentre vediamo Theresa, una donna disabile che non ha più nessuno ad aiutarla, impotente nella scialuppa.

E la regia stessa spesso sacrifica la più basilare grammatica della messa in scena per farci immergere nei personaggi e nelle loro espressioni.

A volte inserendo degli effettivamente elementi di disturbo nella scena, che servono a sottolineare la drammaticità di fondo, come l’insopportabile mosca quando Carla e Yaya discutono sulla nave.

Una società di simboli

Molto interessante è stato rappresenta la società della ricca borghesia come basata su un sistema di simboli in cui viene dato un valore più di rappresentanza che economico.

Così i due ricconi, Dimitry e Jarmo, cercano di pagare il loro ingresso nella scialuppa offrendo orologi di lusso. Così Carl è particolarmente contento quando trova un profumo fra i detriti. E tanto più grottesco quando Dimitry ritrova il corpo della moglie e la cosa più importante è recuperare i gioielli dal suo cadavere.

Cosa succede nel finale di Triangle of Sadness?

Il finale di Triangle of sadness è molto ambiguo, ma la dinamica è del tutto chiara: mentre Yaya offre ad Abigail di diventare la sua assistente, la donna si rende conto di come uscire dalla piccola società che si è creata la depotenzierà, ma, soprattutto, la riporterà in un mondo ingiusto e castrante.

Per me quindi quel colpo è stato calato.

E per lo stesso motivo Carl, il personaggio più vicino a comprendere il dramma di Abigail, alla fine sta forse cercando di correre in aiuto alla fidanzata. Oppure alla donna prima che abbia un risvolto violento.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia nera Drammatico Film Giallo Horror Humor Nero Scream - Il secondo rilancio Scream Saga Thriller

Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto
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Avventura David Cronenberg Drammatico Fantascienza Film Noir Spy story Surreale

Il pasto nudo – Oltre al sogno

Il pasto nudo (1991) è uno dei film di Cronenberg più complesso e particolare, dove in parte si allontana dalla sua estetica più tipica, riuscendo al contempo ad inserire i suoi elementi iconici.

Una pellicola tratta dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, ispirato anche alle circostanze della stesura dell’opera stessa. Una pellicola molto complessa, con al centro uno dei temi cari a Cronenberg, ovvero il controllo mentale, già raccontato in Videodrome (1986).

Questo film fu un altro flop terrificante: davanti ad un budget di 17 milioni, ne incassò appena 2,6 in tutto il mondo.

Ma in questo caso basta veramente vedere il film per capire perché.

Di cosa parla Il pasto nudo?

Bill è un disinfestatore, che rimane progressivamente sempre più intossicato dal suo stesso veleno. Comincia così un viaggio fra il sogno e l’orrore, coinvolto in un intrigo spionistico internazionale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Il pasto nudo?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Dipende.

Vale indubbiamente la pena di guardarlo, ma non è detto che vi piaccia: dovete avere già di vostro la volontà di lasciarvi rapire da un contesto del tutto surreale e volutamente enigmatico, dove solo ogni tanto troverete degli sprazzi di realtà…

Preparatevi insomma ad una pellicola davvero complessa, che, come esperienza, potrei paragonare a The Lighthouse (2021).

Tuttavia, un trigger alert è dovuto: è un film legato molto agli insetti, di cui la maggior parte sono evidentemente finti. Tuttavia, ci sono un paio di scene in cui ci sono veri o sembrano tali. In generale, non è mai un bello spettacolo se siete sensibili sull’argomento…

Vi ho avvertiti.

Il contrasto della messinscena

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Il taglio registico è del tutto particolare, in primo luogo per Cronenberg, che però ha sapientemente deciso di utilizzare in scena un’estetica tipica del periodo in cui è ambientata la pellicola.

Fra l’altro calcando la mano sui colori pastello e il jazz leggero di sottofondo, rendendola una pellicola dal sapore hitchcockiano, solo più ammorbidito e surreale.

Ed è un contrasto devastante sia con quello che succede in scena, sia nelle esplosioni proprie di Cronenberg, in particolare nella sequenza agghiacciante in cui Clark Nova sbrana ferocemente la macchina da scrivere nemica.

Un taglio estetico che è riuscito paradossalmente a rendermi ancora più inquieta.

Dov’è la realtà?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Sarebbe molto semplicistico dire che il protagonista sia semplicemente preda del delirio indotto dalla droga e dal veleno, anche se questa interpretazione sarebbe suggerita dai momenti in cui sembra squarciare il velo del sogno e piombare nella realtà.

In particolare, quando la macchina da scrivere è una effettiva macchina da scrivere e quando gli amici del protagonista lo vengono a trovare e vedono che quella che tiene nel sacco non è una macchina da scrivere, ma un sacco di droghe.

Tuttavia è tanto più meraviglioso, per immergersi davvero nella pellicola, non tentare di andare a spiegare realisticamente tutti gli elementi del film, finendo per uscirne pazzi – peggio dei protagonisti. Insomma, in qualche modo questo delirio della droga ha portato Bill a vedere quello che è veramente il mondo che lo circonda.

Costruzioni perfette

In questa pellicola non vi è un uso massiccio degli effetti visivi, ma, quando questo accade, sono costruzioni drammaticamente perfette. La macchina da scrivere nella sua forma insettoide è perfettamente integrata nella scena e sembra vera, tanto più quando cade a pezzi. Altrettanto indovinato sono l’enorme insetto e l’alieno con cui Bill dialoga, anche nella sua forma di macchina da scrivere.

Un’estetica molto tipica della fantascienza Anni Settanta-Ottanta, in particolare Star Wars, ma molto meno pupazzoso.

Mentre ancora una volta trovo che anche questo film, come per Videodrome, sia difettoso per gli effetti speciali umani.

Personalmente ho trovato così poco credibile e posticcio Yves Cloquet nella forma insettoide che possiede Kiki, che la scena non mi ha trasmesso per nulla l’effetto orrorifico e di sorpresa che avrebbe dovuto provocarmi.

Cosa succede nel finale?

Il finale è ovviamente aperto alle interpretazioni, ma la mia preferita è quella secondo la quale Bill è totalmente caduto nella sua allucinazione, ma nella stessa rivive la morte della moglie. E alla fine piange perché si rende conto di quello che è effettivamente successo e della pazzia in cui è caduto.

Un momento di drammatica consapevolezza.

La vera storia di Il pasto nudo

La storia è quanto più vicina alla vera vita di William Burroughs, l’autore di Il pasto nudo, di quanto si possa pensare.

Infatti William Burroughs uccise davvero accidentalmente la moglie con lo stesso metodo, era un disinfestatore e davvero cadde nel circolo della droga, che lo portò a scrivere la sua opera, vivendo per un periodo a Tangeri, in Marocco, la cosiddetta International zone.

E la storia venne scritta dall’autore che neanche si rendeva conto di star scrivendo, vivendo per un certo periodo proprio in una sorta di città come quella del film, abitata da mostri e creature.

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Scream 3 – Una rara conclusione

Scream 3 (2000) di Wes Craven è il terzo capitolo della saga omonima, che chiude quella che potremmo chiamare la trilogia originale, che venne poi ripresa nel 2011 con Scream 4 e poi ancora nel 2022 con Scream 5.

Il capitolo che, insieme al successivo, ebbe il maggiore budget della saga: ben 40 milioni, ben ricompensato da un incasso complessivo di 161 milioni di dollari.

Di cosa parla Scream 3?

Dopo gli avvenimenti del precedente film, Sidney vive in una vita appartata, nascosta da tutti, per paura di essere di nuovo presa di mira da Ghostface. Tuttavia l’incubo non è finito, con anche la scoperta del passato misterioso della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=tyABaaJCRRs&ab_channel=GhostfaceItalia

Vale la pena di vedere Scream 3?

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, il terzo capitolo di Scream è anche più interessante del precedente, con una costruzione più mirata e pensata, che è riuscita ad evitare un importante scivolone nel trash, pur esplorando il topos piuttosto tipico di scoperta del passato oscuro dei personaggi, che invece ha una risoluzione semplice ma efficace.

Un film che gioca veramente tanto con lo spettatore e con le sue aspettative, creando un fantastico dialogo metanarrativo fra i personaggi in scena e il film stesso, con un buon esempio di chiusura di una trilogia con poche sbavature.

Insomma, se vi è piaciuto Scream finora, non ve lo potete perdere.

Dialogare con il film

Liev Schreiber in scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Il tratto metanarrativo di Scream 3 si arricchisce con un elemento nuovo: i personaggi che sembrano dialogare con i creatori stessi del film, tanto più quando sono i personaggi di Stab 3, con un cortocircuito mentale di grande eleganza e genialità.

Si comincia subito con la battuta di Cotton

Why can’t these guys write me a fucking decent part?

Perché non sono capaci di scrivermi una parte decente?

facendo riferimento narrativamente a Stab 3, ma in realtà metanarrativamente proprio al suo ruolo in Scream 2 quanto nel terzo capitolo: nel film precedente era alla stregua del comico-grottesco, mentre in questo capitolo è una delle prime vittime.

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Così Sarah, che nel film interpreta Candy, la classica vittima dei film horror di serie b, e che infatti dice:

I’m Candy, the chick the gets killed second

Sono Candy, la sgallettata che viene uccisa per seconda

e infatti è la seconda vittima. Così anche il Detective Kincaid, che fa riferimento a come i killer di solito diano la caccia ai poliziotti che indagano sui loro casi.

Usually one cop makes it

Di solito uno dei poliziotti sopravvive

dice quasi un po’ con speranza. E nel finale rischia non poco di non essere così fortunato.

Il pericolo del trash

Jamie Kennedy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

The past will come back to bite you in the ass

Il passato si ritorcerà contro di te

Un grande pericolo che ho percepito, soprattutto nella sequenza della cassetta di Randy, era il rischio che volessero strafare, e quindi di ricadere nel trash più putrido. Secondo le sue stesse parole, il terzo film di una saga horror è raro che venga prodotto.

Ma, quando succede, è un film con i fuochi d’artificio.

In particolare l’elemento più pericoloso era l’idea di indagare il passato della madre di Sidney, che poteva scadere nelle più terrificanti dinamiche da soap opera. Invece si è scelto di raccontare una backstory abbastanza semplice e credibile, in cui semplicemente la madre era un’aspirante attrice divenuta vittima delle ben note dinamiche di sfruttamento sessuale di Hollywood.

Il topos del killer imbattibile

Ghostface in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

You’ve got a killer who’s gonna be superhuman

Il killer è come un super umano

È tremendamente attuale il racconto che Scream 3 fa del topos del killer imbattibile: basti solo pensare che la questione è diventata quasi un meme per il personaggio di Michael Myers nella nuova trilogia di Halloween, dove torna sempre in vita, nella maniera più ridicola e incredibile che potete immaginare.

E senza voler essere divertenti.

In questo caso effettivamente il killer sembra effettivamente imbattibile, ma c’è una giusta ragione: si è attrezzato con una tuta antiproiettile. Tuttavia, una volta scoperto, basta semplicemente sparargli alla testa per riuscire effettivamente a batterlo.

Anche se comunque, in maniera ovviamente comica, Ghostface torna in vita.

Il buon finale per Sidney

Anyone, including the main character, can die

Chiunque, compreso il personaggio principale, può morire

Per mettere un po’ di pepe alla narrazione, all’interno del film si nomina la possibilità che la protagonista, la scream queen, possa effettivamente rischiare la vita e perdere del tutto la plot-armor che la definisce.

Ed infatti sembra che Sidney rischi più volte la vita, e, ad un certo punto, sembra davvero morta, ma utilizza lo stesso trucco del killer: si è protetta con la tuta antiproiettile ed effettivamente scompare dopo che è sembrato essere morta, cogliendo contropiede il killer stesso.

Una scelta che ho trovato veramente geniale.

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Lamb – Una favola gotica

Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson è un film islandese presentato anche a Cannes nel 2021 e agli Oscar 2022 nella categoria Miglior film straniero, con un certo riscontro anche nel cinema internazionale.

Il budget del film è ignoto, ma sicuramente è stato abbastanza risicato, effetti speciali permettendo. In tutto il mondo ha incassato 3,1 milioni.

Di cosa parla Lamb?

María e Ingvar sono due fattori in un luogo sperduto dall’Islanda, che vivono la loro vita per giorno. La situazione cambia improvvisamente con la nascita di uno strano cucciolo da una delle loro pecore…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: il primo atto del film è molto più godibile senza sapere nulla.

Vale la pena di vedere Lamb?

Noomi Rapace in una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

In generale, sì.

Lamb è un prodotto di alto valore artistico, ma con ritmi e un linguaggio non del tutto comprensibile nell’immediato, soprattutto per quanto riguarda il primo atto, quello più dominato dai silenzi e dalle inquadrature enigmatiche.

Gli ultimi due terzi di film sono quelli più digeribili: le dinamiche in scena, tolto l’elemento fantastico, il film si segue con abbastanza facilità. Come prodotto mi ha in parte ricordato The Witch (2015), senza però l’elemento orrorifico, molto meno presente di quanto è stato pubblicizzato.

Insomma, se cercate un prodotto di cinema fantastico che gioca molto con l’elemento favolistico e folkloristico, potrebbe davvero sorprendervi.

La costruzione del colpo di scena

Una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

Il primo atto è complessivamente quello più riuscito dell’intera pellicola: ti racconta lo sbocciare dell’amore per Ada e la rinascita della relazione matrimoniale, al contempo capace di nasconderti sapientemente la vera natura della figlia adottiva.

Infatti io, che conoscevo principale colpo di scena del film, ho avuto un cortocircuito mentale in cui pensavo di essermi sbagliata nel capire il punto centrale della storia, in quanto mi aspettavo che il vero aspetto di Ada fosse rivelato immediatamente.

In un certo senso all’inizio forse i due protagonisti nascondono la natura della figlia anche a loro stessi: mentre il suo essere una creatura ibrida può apparire grottesco, vedere solo la testa di agnello ispira una naturale simpatia e dolcezza.

Oltre a questo, questa scelta della rivelazione più tardiva non distrae dal punto centrale della scena: la crescita del rapporto d’amore per la bambina.

La maternità rubata

Noomi Rapace in una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

Marìa si appropria quasi egoisticamente di una maternità che non le appartiene, ribadendo la sua superiorità umana contro quella bestiale della vera madre di Ada. E se ne riappropria definitivamente utilizzando un’arma umana contro di lei.

La scelta è dovuta ai suoi incubi ricorrenti riguardo a questa maternità rubata: la donna è di fatto cosciente di essersene appropriata ingiustamente, ma non può permettere che di nuovo un’altra figlia le sia tolta. Si vede infatti che Marìa visita la tomba della figlia umana morta, con lo stesso nome della figlia adottiva.

E, come una sorta di contrappasso dantesco, questa violenza le si ritorce contro: alla fine sarà il vero padre di Ada, che ha tutte le capacità umane di rivalersi contro i rapitori della figlia, proprio nella stessa maniera umana che loro stessi hanno utilizzato.

Il simbolismo di Lamb

Lamb sembra trarre da diverse simbologie: quella più immediata è indubbiamente il mito del Minotauro, un racconto di hybris sempre legato ad una maternità mostruosa.

Con anche una sorta di ribaltamento: al contrario del Minotauro, che è un essere repellente, Ada è associata ad un animale spesso simbolo di delicatezza e dell’infanzia.

Un altro mito meno immediato è quello di Ganesha, l’aspetto più ricorrente del Dio della religione induista, nella forma di uomo con la testa di elefante. Secondo uno dei miti più diffusi riguardo alla sua nascita, il Dio sarebbe stato originariamente un fanciullo ingiustamente decapitato, la cui testa sarebbe stata sostituita da quella di un animale, l’elefante appunto.

In Lamb si ricollegherebbe al tentativo di Marìa di ricostruire la figlia che le è stata ingiustamente tolta.

Come è stata fatta Ada?

Ada ha dalla sua parte il fatto di essere un personaggio sostanzialmente muto, che non richiedeva quindi di essere interpretata da un attore professionista. E infatti è stata portata in scena da diversi bambini locali coinvolti nella produzione.

I bambini coinvolti indossavano una sorta di casco con il green screen, su cui poi è stata creata la testa, ideata usando come modello delle vere pecore di allevamenti locali al luogo della produzione.

La risoluzione e la credibilità del risultato è senza eguali per un film che è di fatto una produzione indipendente.