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Pinocchio di Guillermo del Toro – La caducità della pigna

Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro, prodotto e distribuito da Netflix, è una piccola sorpresa dell’animazione.

Un prodotto che ha avuto una produzione molto travagliata: pensato fin dal lontano 2008, si è potuto realizzare solo recentemente per l’acquisto dei diritti da parte della piattaforma, a causa degli alti costi, dovuti all’uso della tecnica stop motion (la stessa di Fantastic Mr. Fox, per capirci).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Pinocchio (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Pinocchio?

A sorpresa, non di Pinocchio.

L’opera di del Toro riprende alcuni elementi della favola originale, ma li reinventa in direzioni differenti, con anche una morale e un’ambientazione del tutto diversa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pinocchio?

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Assolutamente sì.

Dopo essermi asciugata le copiose lacrime che mi ha fatto versare, mi sono resa conto dell’incredibile qualità che il Pinocchio di Guillermo del Toro può vantare, allontanandosi anche molto dall’omonimo Classico Disney.

Ma da questo regista non mi aspettavo niente di meno

Oltre alla bellezza dell’animazione, l’originalità dei disegni, ho semplicemente adorato la preziosa reinterpretazione da parte di del Toro, che è riuscito a riportare in scena un classico italiano con un’opera di rara bellezza.

Guardatelo, e non ve ne pentirete.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro doppiato o in originale?

Meglio guardare il film doppiato o in originale?

Alcuni di voi potrebbero sentirsi personalmente infastiditi dal modo in cui vengono pronunciati alcuni termini italiani, fra cui i nomi dei personaggi.

Io preferisco sempre guardare i film in lingua originale a prescindere, in particolare i prodotti animati che hanno solitamente alle spalle un voice casting di alto livello.

Nel caso di Pinocchio, meno che non siate particolarmente sensibili, non avrete più fastidio di quanto ve ne avrebbe potuto dare Luca (2021), con la differenza che in questo caso il cast vocale proviene da attori inglesi e non statunitensi.

E vi assicuro che solo questo ci salva da molte storpiature…

Non il solito Pinocchio

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Nell’opera di Collodi, Pinocchio era un bambino totalmente scapestrato e ribelle, che non voleva andare a scuola, ma solo divertirsi, anche frequentandosi con personaggi poco raccomandabili...

Il Pinocchio di Guillermo del Toro mantiene l’idea di base, ma la sviluppa in altre direzioni. In questo caso Pinocchio non è semplicemente un bambino da rieducare, ma un bambino che deve riscoprire il mondo dall’inizio, e non ha idea di come lo stesso funzioni.

E per questo si comporta in maniera incontrollabile, nella sua incontrollabile voglia di scoprire e osare.

Tuttavia tutto viene portato su un piano più storicamente realistico quando si accorge di essere un peso per il padre adottivo – secondo lo stesso Grillo – e per questo abbandona il tetto familiare con l’illusione di poter lavorare e sostenere Geppetto.

Il dramma di Geppetto

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro con Geppetto e Pinocchio

Probabilmente la parte più straziante del Pinocchio di Guillermo del Toro è il dramma di Geppetto.

La sua tragicità prende le mosse anzitutto dall’insensata morte del figlio Carlo, che non riesce a superare, e che lo porta a creare un burattino che ne riprenda le forme. Ma solo grazie ad uno spirito della foresta – una fata turchina molto reinventata – riesce a ritrovare, dopo tanti anni, una luce nella sua vita.

E per tutto il film perde più e più volte il figlio adottivo, per la morte o per la fuga, distruggendosi – anche economicamente – per ritrovare l’unica cosa che poteva dargli felicità, nonostante non fosse proprio il figlio che voleva…

E qui si trova una grande sorpresa della pellicola.

Un bambino vero?

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Per tutta la pellicola mi aspettavo un finale analogo a quello di Collodi, in cui l’umanità di Pinocchio era una sorta di premio per la sua buona condotta. Nell’opera originale infatti l’idea era di insegnare ai bambini della neonata Italia unita che, se avessero seguito la retta via, avrebbero trovato anche una sorta di riconoscimento sociale.

Al contrario, nel Pinocchio di del Toro il protagonista non diventa mai umano.

Ed è lo stesso film che spiega perché questa scelta andrebbe a snaturare la pellicola, quando Pinocchio, davanti alle parole di Geppetto che gli dice che non vuole che sia niente di diverso da sé stesso, risponde:

Then I’ll be Pinocchio.

Perché in realtà questo finale racconta Geppetto deve finalmente accettare la morte di Carlo, e essere felice del dono che nonostante tutto la vita gli ha concesso.

Da un punto di vista più storico-politico, il Fascismo accetta Pinocchio perché è immortale e, soprattutto, perché è fatto di vero pino italiano, quindi di una buona materia prima che può essere plasmata.

Invece, anche con le sue azioni, Pinocchio rifiuta di sottomettersi, non diventando veramente un bambino della Gioventù Fascista, e quindi non snaturando in alcun modo la sua vera natura.

E qui si apre un altro elemento interessante.

Raccontare il fascismo

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Mentre guardavo la pellicola mi sono resa conto di quanto questa rappresentazione del fascismo, semplice ma molto diretta, mi lasciava un po’ contraddetta.

E ripensandoci mi sono resa conto che – per diversi motivi che potete immaginare da soli – il Nazismo e l’Olocausto sono portati anche sul piccolo e grande schermo fino alla nausea, con prodotti di minore o maggiore qualità.

Assolutamente non si può dire lo stesso con il fascismo italiano.

Ovviamente non nego che ci siano anche delle produzioni dedicate a quel periodo storico ancora oggi, magari in un cinema europeo meno esplorato, ma a livello di produzioni mainstream è un tema del tutto assente.

E come scelta in questo caso è stata del tutto azzeccata e interessante.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro Il simbolismo della pigna

Il simbolismo della pigna è più sottile, ma diventa assolutamente chiaro alla fine della pellicola.

La pigna è un elemento di vita e di morte insieme.

È un elemento di vita quando diventa un giocattolo per Carlo, per l’albero che nasce dalla stessa, con le pigne cresciute sullo stesso che rappresentano il ciclo della vita, quindi sempre la vita e la morte insieme.

Ma è definitivamente un simbolo di morte per la sua drammatica somiglianza con la granata, con un angosciante foreshadowing già nei momenti prima della morte di Carlo…

Ma la morale del Pinocchio di del Toro non vive di opposti.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro La morale amara

La morale finale del Pinocchio di del Toro è molto amara, ma al contempo confortante.

Il regista ci nega totalmente un finale da favola, senza quella tipica e indefinita felicità, ma preferendo un racconto su come la vita continui, felice anche se profondamente caduca.

E ci racconta come anche la morte, probabilmente arrivata alla fine per Pinocchio, sia l’amara ma giusta conclusione per una vita soddisfacente, proprio perché ha avuto una fine…

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Knives out – Not a classic whodunit

Knives out (2019) di Rian Johnson fu una piccola scoperta di qualche anno fa: un classico giallo whodunit, che però era molto meno scontato di quanto si potesse pensare.

Un genere che ormai si vede molto raramente al cinema, e che ebbe un successo inaspettato, tanto da portare Netflix ad acquistarne i diritti e ordinare due sequel, di cui uno in prossima uscita.

Infatti, a fronte di un budget tutto sommato contenuto di 40 milioni di dollari, incassò molto bene: 312 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Knives out?

Davanti all’apparente suicidio di Harlan Thrombey, il detective Benoit Blanc è chiamato a risolvere un mistero ben più complesso di quanto sembri…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Knives out?

Assolutamente sì.

Come genere è un po’ di nicchia, ma può facilmente essere apprezzato anche dai non appassionati. Aspettatevi un piccolo giallo pieno di colpi di scena, ma che gioca con lo spettatore in maniera molto corretta. Infatti solitamente questo tipo di prodotti ci sbattono in faccia una serie di false piste, per depistarci e sfruttare i colpi di scena.

Una tecnica che Scream parodizzava già negli Anni Novanta, per intenderci.

Ma per fortuna niente di tutto questo in Knives out, che invece offre allo spettatore tutti gli indizi per risolvere il mistero, diventando parte attiva della storia.

E non dirò di più.

Cosa significa Knives out?

Capire l’espressione knives out rende la pellicola ancora più godibile.

Letteralmente significa Fuori i coltelli, ma è corrispondente alla nostra espressione italiana Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli, ad indicare quindi una situazione familiare piuttosto spinosa e in cui tutti si vogliono pugnalare alle spalle.

Ma fate anche caso a quanti coltelli effettivi sono presenti in scena, proprio a raccontare una situazione sempre sul filo del rasoio…

La falsa pista del falso inetto

L’unica effettiva falsa pista della storia è quella di Blanc come un detective inetto che non si rende conto che Marta lo stia costantemente ingannando.

Tuttavia, se lo spettatore è abbastanza attento, si rende conto subito della discrepanza fra il suo comportamento all’inizio e per il resto della pellicola. Se infatti all’inizio il detective appare piuttosto sottile e capace nelle sue deduzioni, al contrario per il resto del tempo è così evidente, sopratutto ad una seconda visione, che stia fingendo di non vedere cosa sta succedendo.

Quindi è una falsa pista tanto per dire, che in realtà racconta un personaggio molto intrigante con un interprete d’eccezione, che non vedo l’ora di rivedere in azione.

Un cast esplosivo

Oltre al fantastico Daniel Craig, la pellicola gode di un cast stellare.

Fra tutti i personaggi secondari, per me spiccano due attrici che sono meravigliose praticamente in ogni ruolo – e non a caso sono fra le mie interpreti preferite: Jamie Lee Curtis e Toni Collette.

Da una parte Jamie Lee Curtis nel ruolo della ricca ereditiera che vive nella favola della self made woman, dall’altra Toni Collette come l’arrampicatrice sociale e approfittatrice. Entrambe incredibilmente in parte, oltre ad uno spettacolo visivo e interpretativo.

Menzione d’onore alla povera Katherine Langford, che a me era tanto piaciuta nella prima stagione di Thirteen reasons why (e non oltre), ma che dopo questo film è praticamente scomparsa dalle scene.

Ma, anche qui, fa il suo.

Una stella nascente

Ovviamente parlando di Knives out non si può non parlare di quella che al tempo era una stella nascente e che fu un po’ lanciata proprio da questo prodotto.

La splendida Ana De Armas.

Perfetta nella parte della ragazza tormentata dagli eventi, genuinamente impaurita e di assoluta bontà, che si trova messa in mezzo in una situazione che è emotivamente e fisicamente troppo da sopportare, ma che comunque si rivela capace di tirarsi fuori da sola.

Come attrice ha un volto che si presta benissimo a questo tipo di ruoli, come infatti anche nel recente Blonde (2022).

Da parte mia spero che non si affossi in questo tipo di ruoli, ma ne esplori anche di diversi.

Una nuova strada

Knives out fu veramente un vivaio di stelle nascenti: fu anche la prima volta che Chris Evans si smarcò veramente dal personaggio di Captain America.

So che molti non sono d’accordo, ma, anche con film beceri come The Gray Man (2022), io sto profondamente apprezzando la nuova strada che ha preso questo attore, preferendo i personaggi negativi e sarcastici, a volte anche molto sopra le righe.

In questo caso il suo personaggio è tenuto in caldo per quasi la metà della pellicola, per poi essere tirato fuori a sorpresa in una scena in cui, alla seconda visione, mi stavo veramente sbellicando.

E i cui indizi della sua colpevolezza sono quanto mai evidenti…

Il tema attuale

Un elemento che mi è molto piaciuto di questa pellicola è la sua vicinanza con la stretta attualità.

Anzitutto per il discorso riguardo all’immigrazione, tema sempre molto caldo negli Stati Uniti, e sopratutto quando uscì il film, ovvero nell’America trumpiana.

E infatti la famiglia protagonista è la stessa che si scandalizza davanti alle pratiche disumane di gestione dei migranti da parte del governo in carica, ma rivela tutta la sua ipocrisia nel suo rapporto con Maria.

Infatti per tutta la pellicola continuano a trattarla con sufficienza, evidentemente considerandola a loro inferiore, e cercando di circuirla sulla questione dell’eredità che spetta loro di diritto, nonostante siano stati dei totali parassiti verso il padre.

E diventa al limite del grottesco quando si scopre che la cara casa di famiglia non ha neanche delle radici così antiche…

Il trucco del Tenente Colombo?

Un piccolo appunto in vista dell’arrivo del sequel, Glass onion (2022).

Come detto, una delle false piste di questa pellicola è come il detective Blanc si finga incapace e inetto, così da farsi sopravvalutare e manovrare i personaggi a suo piacimento.

E non vorrei che nel sequel, con un cast rinnovato, si rinnovi questa falsa pista, non a favore dello spettatore, ma dei personaggi.

Proprio come era tipico della serie de Il tenente Colombo, che veniva costantemente sottovalutato dai personaggi.

Nel caso, sarà interessante vedere come la gestiranno…

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La battaglia delle cinque armate – Il non finale

Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson è l’ultimo capitolo della trilogia prequel de Il Signore degli Anelli.

E anche, a sorpresa, il capitolo più debole.

Incassò bene, ma perdendo qualche centinaio di milioni lungo la strada: a fronte di un budget di circa 300 milioni di dollari, incassò 956 milioni di dollari in tutto il mondo.

E se consideriamo che il primo capitolo aveva incassato 1,1 miliardi…

Di cosa parla La battaglia delle cinque armate?

Ora che Smaug è stato risvegliato, Laketown teme per la sua salvezza. Ma non è l’unico nemico all’orizzonte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare La battaglia delle cinque armate?

Ian McAllen Luke Evans in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Come dire, a questo punto sì.

Nel senso che vale la pena, arrivati a questo punto, concludere la trilogia e vederne il finale. E questo nonostante sia un finale veramente debole, che gioca tanto sul fanservice, in maniera che sul momento mi ha anche colpito.

Tuttavia, ripensandoci, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca.

Tuttavia, è stato complessivamente un film abbastanza deludente, molto pasticciato per certi versi, e che mi ha abbastanza nauseato per l’uso poco attento della CGI

Maledetta CGI, ha rovinato la CGI

Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Quando ci troviamo davanti ad un prodotto ambientato in un contesto fantastico è assolutamente normale, sopratutto per le grosse produzioni, che gli ambienti siano totalmente in digitale.

Ma non tutte le CGI sono uguali.

Per esempio, per quanto per me non sia invecchiata perfettamente, il reparto tecnico di Avatar (2009) è ancora oggi molto credibile e, per la maggior parte, invecchiato molto bene alla prova del tempo. Invece la CGI di La battaglia delle cinque armate è talmente un disastro da essere quasi nauseante.

Già l’avevo notato per lo scorso film, ma in questo caso Laketown in fiamme è un vero incubo.

una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

E non è neanche tutto il problema.

Al di là degli orchi con una character design poco convincente, i troll che si vedono in alcune scene sono davvero tremendi, da ogni punto di vista.

E sembra veramente la pietra tombale della carriera di Jackson, dal momento che è andato contro la stessa innovazione che aveva portato, basata molto principalmente sugli effetti speciali materiali che quelli digitali.

Ma per questa trilogia, e soprattutto questo capitolo, si è totalmente ubriacato di questa tecnica.

Il dramma di Thorin

Richard Armitage in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Forse l’unica parte che mi ha veramente convinto di questa pellicola è stata la storyline di Thorin.

Nonostante una messinscena a volte leggermente delirante, ho trovato sia il suo dramma, sia l’interpretazione di Richard Armitage, davvero coinvolgente. La follia di Thorin è il culmine del suo rapporto con Bilbo, l’unico personaggio che riesce effettivamente a salvarlo.

Tuttavia, per quanto sia un elemento trattato in maniera molto interessante, è altrettanto dimenticato per la seconda parte del film, quando la storia del personaggio diventa molto più lineare e prevedibile.

E non è neanche l’unico elemento di chi ci si dimentica…

Liberarsi dei propri personaggi

Richard Armitage in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Mi ha lasciato alquanto contraddetta la gestione delle morti dei personaggi.

Solitamente in un film, quando si uccidono dei personaggi abbastanza importanti – e soprattutto quando si vuole fare una buona scrittura – si lascia lo spazio per elaborare il lutto e dare in generale importanza alla tragedia avvenuta.

In La battaglia delle cinque armate, per quanto Thorin goda complessivamente di un momento abbastanza toccante, lo stesso non si può dire del resto dei suoi compagni, che sembrano morire come mosche, senza che agli sceneggiatori interessasse così tanto…

…oppure sono stati incapaci di raccontarcelo.

E ho trovato particolarmente grave che ci sia una scena come quella di Gandalf e Bilbo sulle macerie, che non trasmette un briciolo della tragicità che dovrebbe (o vorrebbe).

Ma la parte veramente grave arriva prima.

L’epopea dei cinque minuti

Evangeline Lilly in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Per il precedente film ero rimasta, a sorpresa, abbastanza soddisfatta dal personaggio di Tauriel, meno disastroso di quanto mi ricordassi.

Poi è arrivata la fine de La battaglia delle cinque armate.

Non so se è stata più assurda la morte di Kíli, causata sopratutto dalla stupidità di Tauriel, o il confronto che la stessa ha con Thranduil alla fine della battaglia. È così evidente come volessero raccontare un’importante storia d’amore finita tragicamente.

Ma si sono dimenticati che la stessa si regge su basi debolissime, soprattutto proprio per una grave mancanza di spazio nel montaggio finale.

Si chiude un cerchio ne La battaglia delle cinque armate

La struttura narrativa di questo prodotto eredita un problema fondamentale dello scorso film: il cliffhanger finalizzato all’hype.

Probabilmente, visti i risultati al botteghino, è stata una mossa indovinata per mantenere gli incassi del precedente, che già erano calati rispetto al primo. Tuttavia, ho inevitabilmente sentito come l’inizio di questa pellicola non fosse altro che un epilogo del precedente.

E, fondamentalmente, il film avrebbe potuto cominciare mezz’ora più tardi.

una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Oltre a questo, personalmente mi ha deluso molto la poca varietà della trama, che è fondamentalmente focalizzata intorno ad un unico punto, a differenza dei precedenti.

L’unica scelta che mi ha relativamente convinto è il finale che non è altro che un inizio, perché riprende una delle scene iniziali proprio La compagnia dell’Anello. Tuttavia, vista la fretta e la poca cura, questa conclusione mi è sembrata molto improvvisata e mi ha lasciato un senso di vuoto.

Come se non ci fosse stato un effettivo finale…

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Misery – Un thriller claustrofobico

Misery (1990) è un piccolo cult dell’horror – thriller, diretto da Rob Reiner e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, fra l’altro uscendo pochi anni dopo la sua pubblicazione.

Il titolo italiano è molto spoileroso, quindi, anche se lo conoscete già, eviterò di riportarlo qui.

Un film prodotto con un budget molto limitato, appena 20 milioni, ma che incassò molto bene: 61 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Misery?

Paul Sheldon è uno scrittore di successo, che si ritira in una piccola città di montagna per scrivere il suo nuovo romanzo. Ma questa volta rimarrà coinvolto in una bufera, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Misery?

Assolutamente sì.

Misery è un piccolo thriller ottimamente confezionato – cosa per nulla scontata per un prodotto derivato da King. Ma, d’altronde, da questo regista, già autore di Harry ti presento Sally (1989), non mi aspettavo niente di meno.

Per certi versi è più un thriller che un horror, anche se non mancano le componenti orrorifiche. Più che altro si punta sulla psicologia dei personaggi, già abbastanza spaventosa di suo, ma senza mai eccedere.

Anzi, le scene più violente sono di impatto, ma mai esagerate.

Un’attrice poliedrica

Per una simpatica coincidenza, proprio il giorno prima della mia visione avevo visto Titanic (1997), dove Kathy Bates, qui interprete della terribile Annie, portava in scena un personaggio totalmente diverso.

E mi ha piacevolmente sorpreso come sia un’attrice assolutamente poliedrica.

Nonostante la sua recitazione poteva probabilmente essere smussata, è indubbio che ci abbia regalato una prova attoriale di grande impatto e che riesce a reggere la terrificante dualità del personaggio.

Non a caso, fu premiata come Miglior attrice non protagonista agli Oscar 1991.

L’abito fa il monaco

Quando Annie nostra la sua vera natura maligna e incontrollabile, non è in realtà una grande sorpresa per lo spettatore.

Già il suo character design, se così vogliamo chiamarlo, è di per sé rivelatorio: le camicie e i maglioni stretti fino al collo, i capelli perfettamente pettinati, la croce d’oro al collo. Tutti indizi di una donna che vive per il piacere del controllo e delle sue ossessioni.

E viene anche più arricchito da elementi puramente grotteschi, come il maiale da compagnia e l’arredamento della sua stanza che sembra quello di un’adolescente troppo cresciuta…

Un senso di claustrofobia

Per tutta la pellicola siamo pervasi da un senso di profonda claustrofobia, sopratutto perché per la maggior parte le scene si svolgono in un unico ambiente.

E anche l’esplorazione degli spazi della casa trasmette comunque un importante senso di impotenza e di trappola: come il personaggio, neanche che noi possiamo esplorare al di fuori di quelle quattro pareti.

E, con un paio di plot twist ben posizionati, ecco la ricetta perfetta per un thriller psicologico davvero appassionante.

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Avatar – Un capolavoro?

Avatar (2009) di James Cameron è l’ultima pellicola di questo regista (finora) e anche il maggiore incasso della storia del cinema. Infatti più che di film possiamo parlare di un effettivo fenomeno di costume, dovuto anche (ma non solo) all’incredibile lancio della tecnica del 3D.

La pellicola incassò infatti quasi 3 miliardi di dollari in tutto il mondo, a fronte comunque di un budget piuttosto consistente di 237 milioni di dollari, rischiando di essere scalzato solo da un altro incredibile evento cinematografico, Avengers Endgame (2019).

Da molti è considerabile un capolavoro.

Ma è così?

Di cosa parla Avatar?

In un futuro imprecisato, Jake Sully sostituisce il fratello defunto in un’ambiziosa operazione di colonialismo sul pianeta di Pandora, dove si trova un ambito giacimento di un metallo preziosissimo. E per questo deve farsi accettare dalla tribù locale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Avatar?

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

In generale, sì.

Col tempo ammetto che la mia opinione su questa pellicola si è molto ammorbidita, passando da un sincero odio fino ad un pacifico apprezzamento.

Non troverete in me una fanatica di questo film: lo considero un gran film di intrattenimento, con indubbiamente una tecnica innovativa e ambiziosa come quella del 3D, ma che io personalmente (anche al di là di questa pellicola) non apprezzo.

Se siete fra quelle pochissime persone che non hanno mai visto questa pellicola, vi consiglio di dargli una possibilità, senza aspettarvi niente di così clamoroso. Per me è un prodotto che per certi versi andrebbe ridimensionato, soprattutto davanti ad una tecnica che sicuramente era all’avanguardia, ma che non è invecchiata così bene come ci si potrebbe aspettare.

E forse ad un neofita oggi non farebbe lo stesso effetto…

Tuttavia, nonostante una lunghezza leggermente eccessiva, si parla di un film che intrattiene facilmente e che vale sicuramente la pena di recuperare.

Jake Sully: un protagonista perfetto

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Jake Sully è il protagonista più azzeccato fra quelli di Cameron.

Molto banalmente perché questo regista era ormai specializzato nel creare personaggi funzionali, e in questo caso ha fatto assolutamente centro con un protagonista che è incredibilmente accessibile, fallibile al limite del comico, ma che al contempo ha il coraggio di mettersi in gioco, anche nelle maniere più stupide e irresponsabili.

Insomma, un personaggio in cui lo spettatore può facilmente rivedersi e per cui viene facile fare il tifo.

Oltre a questo, presenta un’evoluzione, soprattutto emotiva, molto lineare e digeribile, quasi prevedibile, che non manca del classico racconto su come il nostro eroe sia speciale. E così, anche se impreparato, riesce a gestire le sfide meglio degli altri.

Oltre a questo, è un ottimo accompagnamento per lo spettatore nella scoperta di Pandora.

Raccontare la disabilità

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come ho avuto il piacere di scoprire recuperando la filmografia di questo regista, Cameron è molto attento a diverse tematiche sociali, soprattutto in Avatar.

In particolare ho particolarmente apprezzato la scelta di mettere al centro della vicenda un personaggio disabile, che soprattutto non ricadesse in quella sorta di patetismo molto tipico nel cinema occidentale – e anche di cattivo gusto.

In questo caso invece la disabilità del protagonista è un elemento importante della trama: anzitutto per una scena molto emozionante in cui il protagonista, dopo tanto tempo, può di nuovo godere dell’uso delle gambe e corre felicemente fuori dal laboratorio.

Al contempo, si accompagna ad un lato più drammatico, sia per le promesse del Colonnello per delle nuove gambe in cambio della sua collaborazione, sia quando Sully entra per la prima volta nella capsula e Grace cerca di aiutarlo, ma Sully sbotta faccio da solo.

Una rappresentazione molto genuina, che racconta le eccessive e inutili attenzioni che un disabile, magari del tutto autosufficiente come Sully, deve vivere ogni giorno.

Neytiri: una controparte non scontata

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Neytiri è allo stesso modo uno dei migliori personaggi femminili creati da Cameron.

Solitamente in questo tipo di prodotti, soprattutto se guardiamo a dieci anni fa, i personaggi femminili hanno un ruolo molto marginale e definito da pochi stereotipi molto ripetitivi. Invece Neytiri è un’ottima controparte del protagonista, che racconta in maniera davvero vincente le tradizioni e il sentimento del popolo a cui appartiene.

Oltre a questo, è un personaggio attivo, intraprendente, che ha un ottimo ruolo in tutta la vicenda e particolarmente negli scontri, dove mostra tutte le sue capacità, senza che questo appaia forzato.

Oltre a questo, ho particolarmente apprezzato che la relazione romantica con Jake non sia centrale alla vicenda: l’ho piacevolmente riscoperta, trovandola molto meno pesante e invadente rispetto ad altri prodotti.

Villain da barzelletta ma…

Stephen Lang in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non penso che molti avranno da ridire sul fatto che i villain di Avatar sono davvero una barzelletta.

Abbiamo da una parte il durissimo e temibile colonnello, con le sue ferite di guerra e i pettorali guizzanti, paragonabile per certi versi a Tiberius di Atlantis (2001), cattivo e piatto all’inverosimile. Dall’altra abbiamo il villain più politico, Parker: lo stereotipo nauseante del colonizzatore statunitense che non ha altro interesse che il guadagno.

Detto questo, sento di spezzare una lancia verso questi personaggi.

Perché è altrettanto evidente che sono assolutamente funzionali al dramma della trama: ci troviamo davanti a nemici terribili, con cui è impossibile discutere e che hanno un potere totalmente distruttivo, che si può solo sconfiggere.

E, soprattutto, come al solito Cameron ha privilegiato il lato estetico più che la profondità psicologica o la capacità attoriale degli interpreti.

Colonialismo e ecologismo in Avatar

Avatar può vantare due tematiche molto importanti: il colonialismo e l’ecologismo.

La parte riguardante il colonialismo è molto evidente: gli invasori, strettamente statunitensi, cercano di mettere le mani su un nuovo territorio con l’unica volontà di trarne il maggior profitto possibile. Ed è anche così evidente l’etnocrazia imperante del personaggio di Parker, quando dice:

Gli abbiamo costruito una scuola, gli abbiamo insegnato la nostra lingua

Sempre con l’idea che la società di provenienza, quella incredibilmente avanzata, sia l’unica giusta che deve cercare di portare un po’ di civiltà anche presso i selvaggi (come vengono ripetutamente chiamati).

Oltre a questo, a chiudere il cerchio la chiosa di Jake verso il finale:

Quando qualcuno è seduto su quello che vuoi, diventa il nemico

Ecologismo in avatar

Una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Altrettanto interessante il racconto dell’ecologismo.

Jake dice chiaramente che dal pianeta da cui veniva non c’era più verde, rappresentando quindi un approccio totalmente attuale (e coerente con la trama) in cui l’uomo ha spremuto la Terra quanto più poteva, così da trarne il maggior ricavo possibile.

E andando di conseguenza distruggerla.

Davvero una grande distanza rispetto alla popolazione dei Na’vi, che vivono in totale armonia con il loro pianeta, rispettandolo fino anche quasi all’ossessione.

Una concezione forse un po’ semplicistica, ma che funziona.

Avatar è un film invecchiato bene?

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Parto col dire che a me, del reparto tecnico di Avatar – né di altri prodotti – importa più di tanto.

Banalmente perché non è un aspetto che rappresenti un grande valore di un’opera, per vari motivi, anzitutto perché è un elemento che si può facilmente ridimensionare nel tempo, a differenza di altri aspetti.

Infatti secondo me complessivamente il reparto tecnico di Avatar è invecchiato bene – già solitamente i Na’vi sono incredibili – ma non manca di qualche elemento che non ha retto alla prova del tempo – e che magari ho notato solo io perché sono troppo pignola.

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Le due visioni recenti mi hanno confermato come nel primo atto percepisca un drammatico senso di horror vacui, nel senso più letterale del termine: la foresta mi sembra troppo spoglia e per certi versi sembra più preveniente da un videogioco che da un film.

Una sensazione che non ho più sentito per il resto della pellicola, ma che mi è rimasta molto impressa anche per il design dei Thanator, che in certe scene hanno quel fastidioso effetto lucido, tipico di un certo tipo di CGI non invecchiata benissimo.

E sono fortemente convinta che il lato tecnico di questo film sarà – anche involontariamente – ridimensionato con Avatar La via dell’acqua (2022).

E per ovvi motivi.

Perché il paragone fra Avatar e Pocahontas non ha senso

Questa è una delle polemiche più note e abusate riguardo a questa pellicola.

Per chi fosse vissuto sotto ad un sasso, molti accusano questa pellicola di avere una trama troppo esile e banale, troppo simile ad altri prodotti come appunto Pocahontas (1995) e Balla coi lupi (1990).

Ma per me è una polemica molto sterile.

Una trama semplice non rende un film di minore valore, perché il tutto dipende come la stessa si incasella all’interno del progetto complessivo e che tipo di profondità narrativa possiede.

Secondo me, come anche per la maggior parte dei film di Cameron, in Avatar la trama non gode di una particolare profondità narrativa – che non significa che sia un film piatto – ma è assolutamente funzionale al contesto.

E va bene così.

Per questo vi consiglio di provare a decontestualizzare le trame da film anche considerati universalmente capolavori, come per esempio Manhattan (1979).

Vi accorgerete che è un gioco ben più pericoloso di quanto sembri…

Avatar è un capolavoro?

Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con una persona che ha un’opinione opposta alla mia, così da presentare due punti di vista diversi sulla questione.

L’opinione de Il cinema semplice

Ho già ampiamente spiegato il mio punto di vista su cosa sia un capolavoro – concetto che, ribadisco, è molto fumoso e che non può essere definito in maniera netta e oggettiva. Stringendo molto il discorso, per me un capolavoro è un’opera che si distingue nettamente dal punto di vista artistico dal resto delle produzioni.

Per me Avatar, per quanto sia un ottimo film di intrattenimento e molto meno banale di quanto si racconti, non è un capolavoro.

E questo perché, pur essendo all’interno di una costruzione molto ambiziosa, presenta una trama che è ottimamente funzionale, ma che manca di profondità narrativa, personaggi – soprattutto i villain – che sono abbastanza piatti e prevedibili, e come pellicola non ha particolari meriti artistici.

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non posso neanche parlare di capolavoro di genere, perché non appartiene così nettamente ad un genere e, soprattutto, non sarebbe neanche così innovativo, lato tecnico permettendo, se volessimo confrontarlo col resto della produzione di film action, di avventura o di fantascienza.

Secondo questo stesso concetto, potrei parlare di un capolavoro tecnico – ma per me è un discorso che non ha senso, perché è un concetto totalmente aleatorio e ridimensionabile nel tempo.

Insomma, ne riconosco l’innovazione e l’assoluta importanza storica che ha avuto, ne riconosco il valore, ma non vado oltre.


L’opinione di Intothenerdverse

Perché Avatar è un capolavoro?

Questa la domanda a cui mi è stato chiesto di rispondere da Il.cinema.semplice, che ringrazio per avermi concesso questo piccolo spazio sul suo sito. 

So che molti hanno una loro idea di cos’è un capolavoro, quindi prima di andare avanti penso sia necessario dirvi la mia. 

Reputo un capolavoro un’opera che ha settato un nuovo standard, un prodotto che riesce ad imporsi nel suo ambiente di riferimento come spartiacque. Per forza di cose, davanti ad un capolavoro ci troviamo davanti ad un prima del capolavoro e un dopo il capolavoro, essendo un’opera che si pone a capo di tutto ciò che c’è stato prima e che diventa modello e fonte d’ispirazione per ciò che ci sarà dopo. 

Il capolavoro è qualcosa a cui ambire, qualcosa da prendere come modello e che insegna. Un’opera che sconfigge la prova del tempo, riuscendo a suscitare sempre lo stesso effetto anche visto dopo anni e anni dalla sua prima uscita e a stupire per l’incredibile forza prorompente che ha avuto nel suo ambito.

Il capolavoro porta nel cinema novità e cambiamenti che ne scuotono le fondamenta e lo cambiano per sempre. 

Perché Avatar è un capolavoro

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come con Jurassic Park a suo tempo, con l’uscita di Avatar cambia per sempre il modo di concepire l’effetto visivo: Cameron ha introdotto tecniche che hanno modificato il modo di pensarli e realizzarli, realizzando un film avanguardista che guardava al futuro con almeno dieci anni d’anticipo.

Guardato oggi, Avatar sembra un film girato domani. 

E sono veramente pochi al giorno d’oggi (e ci devo davvero pensare per trovarne) i film che riescono a raggiungere un livello di cura e resa tale sul grande schermo. Il mondo dell’effetto visivo è cambiato grazie ad Avatar, e, probabilmente, muterà ulteriormente con il successivo capitolo di questa saga.  

Avatar è un capolavoro per il modo in cui ha impattato l’industria cinematografica, aggiungendosi a quel gruppo di film che sono riusciti ad innovare e cambiare il modo di fare film e riuscendo ancora oggi ad insegnare che l’effetto visivo di oggi è solo un’evoluzione del cinema artigianale degli inizi.

Il cinema è stupore, meraviglia, intrattenimento e magia.

E Avatar, dopo anni dalla sua uscita, riesce ancora a farci rimanere di stucco, rimanendo increduli di fronte a ciò che il cinema è in grado di offrire.

E non importa tra quanti anni rivedrete questo film. 

Non smetterà mai di farlo.

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Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Il cinema di James Cameron Racconto di formazione Recult Titanic

Titanic – Un dramma monumentale

Titanic (1997) di James Cameron è uno dei film ad aver incassato di più nella storia del cinema, ad oggi al terzo posto dopo Avengers Endgame (2019) e Avatar (2009) dello stesso Cameron.

Una pellicola che fu la conferma di come questo autore fosse abile nel portare al cinema prodotti più diradati nel tempo, ma capaci di ottenere grandissimi successi, sia di pubblico che di critica.

Ma il grande incasso si accompagna alla qualità?

Di cosa parla Titanic?

Rose e Jack si imbarcano nel viaggio inaugurale del Titanic, la nave mastodontica e inaffondabile. Due personaggi con storie molto diverse: l’una intrappolata in un matrimonio infelice, l’altro un artista giramondo senza un soldo…

Eppure le loro storie si incontreranno in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Titanic?

Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

In linea generale, sì.

Vi consiglio di non farvi frenare dal fatto che sia principalmente un film romantico, anche se non è il vostro genere: nonostante qualche (anche vistosa) sbavatura, da questo punto di vista gode di una buona costruzione e non è eccessivamente zuccheroso.

Oltre a questo, nonostante la regia non mi abbia così tanto colpito, è tutto al limite dello spettacolare, nel suo incredibile dramma.

E la durata non l’ho sentita più di tanto.

La trappola dell’istant love

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Quando si costruisce una storia romantica, la fase più delicata è il racconto del momento dell’innamoramento. I più pigri saltano a piè pari questa fase e fanno innamorare i protagonisti immediatamente, cadendo nella trappola del cosiddetto instant love.

E, come conseguenza, lo spettatore più attento non riesce ad essere in alcun modo coinvolto con la relazione dei personaggi.

Per fortuna Titanic non cade in questo errore.

Lo sbocciare della relazione viene seguito abbastanza passo passo, in maniera complessivamente credibile e abbastanza coinvolgente. Non un meccanismo perfettamente oliato – non manca qualche piccola forzatura – ma complessivamente una relazione funzionante.

Ma la vittoria è molto sbilanciata.

Vincere e perdere

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Come ho trovato questo Di Caprio alle prime armi brillante e smaliziato, non posso dire lo stesso per Kate Winslet. Non arriverei a definirla una cagna maledetta (cit.), ma l’ho trovata del tutto fallimentare in alcune scene.

E le stesse scene le ho trovate anche molto forzate, e fatte apposta per essere citabili: fra queste, quando Rose chiede a Jack di guidarla fino alle stelle, oppure quando va a liberarlo e ammette che dentro di sé sapeva sempre che Jack non aveva rubato il diamante.

E per questo mi sembra di vedere un pattern.

L’estetica vince su tutto

Kate Winslet in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Ho la leggera sensazione che, in certi casi, Cameron privilegi la scelta degli attori per il lato estetico piuttosto che per la loro bravura.

Era il caso di Arnold Schwarzenegger in Terminator, ad esempio.

Kate Winslet è un’attrice con un’estetica semplicemente perfetta per il ruolo, un’icona romantica in tutto e per tutto: pelle molto chiara, che contrasta con il rosso dei capelli, messo continuamente in evidenza con il trucco – dal rossetto alle occhiaie profonde.

Tuttavia, forse non era l’attrice giusta per questo ruolo, dovendo tenere sulle spalle un personaggio per nulla semplice.

Cal: un villain al limite del comico

Billy Zane in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Cal dovrebbe essere il grande villain della pellicola, ma, per quanto sia effettivamente irresistibile nel suo ruolo, in certe scene appare quasi comico.

In particolare nel terzo atto più e più volte, invece che scegliere di salvare la propria vita, insegue la sua vendetta per salvare la sua virilità tradita dal comportamento della futura moglie.

Ed è davvero incredibile.

Ma è tanto più vincente come villain in diverse sequenze, come le varie volte in cui aggredisce Rose, o quando, nella maniera più meschina possibile, acchiappa una bambina per avere un posto sulla scialuppa.

Semplicemente iconico.

Mostrare i muscoli

Per quanto, come detto, la regia in questo caso non mi abbia particolarmente colpito, è indubbio che ci sia stato un particolare impegno dal punto di vista tecnico.

Tutto il terzo atto, in cui siamo catapultati nel dramma della tragedia del Titanic, è incredibile da vedere e trasmette perfettamente il senso di costante angoscia dei personaggi, ed è anche piuttosto credibile nelle sue dinamiche.

Altrettanto nelle inquadrature aeree della nave, dove non si vede quasi per nulla che questo film è uscito più di vent’anni fa.

Tuttavia, riguardo a questo ho percepito un problema…

Un senso di scollamento

Un elemento che alla lunga ho sentito nella pellicola è una sorta di scollamento fra il dramma del Titanic e il dramma romantico di Jack e Rose.

Insomma, ho avuto la sensazione che i due elementi non fossero ottimamente amalgamati.

I momenti dove ho avuto di più questa sensazione sono stati quando, nel presente, i personaggi discutono animatamente dell’assurdità del naufragio del Titanic, e Rose, come se la cosa non la toccasse minimamente, attacca a raccontare di come Jack le avesse fatto il ritratto.

E così quando Jack e Rose si trovano sul ponte con la nave che è quasi in verticale, Rose gli dice Questo è il luogo dove ci siamo incontrati, come se la cosa fosse di alcuna rilevanza.

Insomma, ad un certo punto mi viene anche da chiedermi: con qualche aggiustamento, la stessa storia romantica poteva funzionare anche al di fuori della tragedia del Titanic?

Per me sì.

Lode alla porta per due in Titanic

La questione di come la porta potesse in realtà contenere sia Rose che Jack è incredibilmente dibattuta, anche nei modi più stupidi possibili.

Tuttavia, andando ad analizzare la scena, tutto acquista totalmente senso: Jack in prima battuta cerca di salire lui stesso sulla porta, ma si accorge che, facendolo, la stessa si ribalta e rischia di far finire entrambi in acqua.

Per questo, sempre tenendo fede alla volontà incredibilmente drammatica del film, decide di rischiare la propria vita restando nell’acqua ghiacciata e di salvare invece Rose, facendola stare sulla porta.

Quindi la questione è molto meno forzata di come appaia.

Una produzione incredibile

Non penso sia un mistero che la produzione di questa pellicola sia stata assolutamente incredibile.

Le riprese cominciarono da quando lo stesso James Cameron si impegnò nel filmare il vero relitto del Titanic. Da lì cominciò un ampio lavoro di scrittura della storia, impegnandosi nello studio della storia dell’affondamento e costruendoci intorno una storia d’amore per muovere profondamente lo spettatore.

La nave fu effettivamente costruita quasi per intero, compresi gli interni, e immersa in un’enorme piscina con la capienza di più di 260mila litri, dove gli attori erano effettivamente immersi per le scene in acqua.

Una produzione che costò non meno di 200 milioni di dollari, ma che sorprendentemente è solo al 48esimo posto nella classifica dei film più costosi nella storia del cinema.

Tuttavia, bisogna anche considerare che, con l’inflazione, 200 milioni nel 1996 sarebbero quasi 380 milioni di dollari ad oggi…

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Avventura Commedia Drammatico Fantasy Film Il viaggio di Bilbo Racconto di formazione Viaggio nella Terra di Mezzo

La desolazione di Smaug – Solo alla fine

Lo Hobbit – La desolazione di Smaug (2013) è il secondo capitolo della trilogia prequel de Il Signore degli Anelli, sempre diretta da Peter Jackson. Un sequel che aveva la grande attrattiva di un personaggio così monumentale come Smaug, solo marginalmente rivelato alla fine del primo film.

Ma d’altronde questa saga vive di hype.

La pellicola incassò piuttosto bene, anche se con un riscontro leggermente inferiore rispetto alla saga originale: 958 milioni di dollari a fronte di un budget di 180.

Di cosa parla La desolazione di Smaug?

Bilbo e la compagnia dei nani di Thorin continuano la loro avventura alla volta della Montagna Solitaria, dove si annida un nemico molto minaccioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La desolazione di Smaug?

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Assolutamente sì.

Se avete visto lo scorso capitolo, non avete motivo per non continuare l’avvincente avventura di Bilbo, che viene ripresa proprio in medias res, ovvero dove era stata lasciata alla fine della scorsa pellicola.

Anzi, secondo me ci troviamo davanti ad un secondo capitolo anche migliore del precedente, con un terzo atto in particolare piuttosto avvincente, che mi ha colpito più di quanto mi aspettassi…

Una simpatica quest (ancora)

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Questo film mi ha trasmesso le stesse sensazioni del precedente, ovvero di una simpatica quest in tono decisamente più scanzonato rispetto alla saga originale. E senza che questo debba per forza essere un aspetto negativo: semplicemente, una simpatica avventura con deviazioni e imprevisti che mi ha piacevolmente intrattenuto.

La maggior parte delle vicende hanno un sottofondo comico e quasi cartoonesco, ben raccontato con la regia sempre fresca e dinamica di Peter Jackson, in particolare durante l’avvincente scena a fuga dagli elfi.

Una costruzione che mi ha lasciato un buon sapore in bocca, nonostante la maggior parte della pellicola sia concentrata su vicende che c’entrano in maniera veramente marginale Smaug, che era stato invece pubblicizzato (comprensibilmente) come il centro della vicenda.

Non dico che fosse un bait, ma poco ci mancava.

La grande attrattiva di Smaug

Martin Freeman e Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Ma tutto viene perdonato per quanto è intrigante ed avvincente la parte dedicata a Smaug. E questo è dovuto sia al perfetto character design del personaggio, sia alla fantastica interpretazione di Benedict Cumberbatch.

Infatti, in un momento di follia, Jackson ha deciso di portare in scena questo personaggio coinvolgendo Cumberbatch in una pazzesca motion capture, in modo che non gli desse solo la voce, ma anche movenze:

E anche la caratterizzazione è impressionante: Smaug non solo è avido e profondamente malvagio, ma è anche troppo sicuro di sé stesso, raccontandosi come un’arma mortale e invincibile. E invece…

…manca la vittoria dei personaggi.

Tutto per l’hype

Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Molta della narrazione de Il Signore degli Anelli è basata sull’idea che una piccola e apparentemente innocua creatura come un hobbit sia capace di battere nemici potenti come Sauron. E solitamente infatti la narrazione si concentra su come il minuscolo protagonista, grazie al suo coraggio e alla sua astuzia, riesca a vincere.

In questa pellicola invece, sembra che ci sia una costruzione per cui Thorin riesce a mettere insieme un complesso piano per sconfiggere Smaug, battendolo con l’intelligenza, non essendo capace di sconfiggerlo con la forza.

E invece il suo piano fallisce.

Anche se non ho dubbi che nel prossimo film – che non ricordo minimamente – i nostri eroi riusciranno a fare la pelle anche ai nemici più imbattibili, ricordandoci come non serve essere forti per essere vincenti…per ora è tutto stato sacrificato per l’hype e un cliffhanger inaspettato.

CGI, che passione!

Mentre ammiravo il fantastico character design di Smaug – uno dei meglio riusciti della trilogia – mi sono resa conto di quanto fosse scricchiolante in certi punti la CGI.

E Smaug è il meno.

Per me la bellezza de Il Signore degli Anelli era anche l’evidente utilizzo, per la maggior parte delle scene, di spazi reali e di trucco prostetico, che rendevano molte scene e personaggi magari più caserecci, ma decisamente più d’impatto e credibili.

E se posso tutto sommato accettare gli orchi, che per la maggior parte hanno un design interessante, ho davvero mal sopportato la nauseante costruzione tutta in digitale di alcune location, particolarmente Laketown.

E davvero certe scene di questo film sono invecchiate di gran lunga peggio rispetto a quelle de Il Signore degli Anelli

Tauriel: che bello essere dei token!

Martin Freeman e Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Un grande problema, se così possiamo dire, è che la materia originale de Il Signore degli Anelli non si presta particolarmente ad un cast inclusivo, in praticamente nessuna direzione.

Assolutamente comprensibile per un romanzo scritto cinquanta e più anni fa, ma di fatto poco vendibile.

E negli anni hanno cercato di metterci più di una pezza.

Il cast femminile ne Il Signore degli Anelli era al limite del disastroso: passavamo da Arwen, il classico personaggio femminile che sospira e si emoziona drammaticamente in una relazione romantica impossibile, a Eowyn, una forzatura su gambee di cui ho già parlato abbastanza.

L’unico personaggio più interessante era di fatto Galadriel, che non a caso è diventata protagonista di Rings of Power, che però nella saga ha uno screentime molto più limitato di quanto ci si ricordi.

E poi c’è Tauriel.

Devo ammettere però che, per quanto Tauriel sia senza ombra di dubbio un token, me la ricordavo decisamente peggio. Almeno per La desolazione di Smaug, è un personaggio femminile abbastanza funzionante, che si ribella, ma non in maniera forzata e poco credibile, ma tutto sommato interessante.

E almeno non ho trovato la sua storia romantica non è terribilmente noiosa e inutilmente drammatica come quella di Aragorn e Arwen.

Parliamo di Thranduil in La Desolazione di Smaug

Uno dei miei personaggi preferiti in assoluto della trilogia è senza dubbio Thranduil.

Oltre al fatto che adoro il suo character design, sono semplicemente innamorata di Lee Pace come attore – che fra l’altro abbiamo visto recentemente in un ruolo analogamente fantastico nella serie tv Fondazione.

E personalmente ho un interesse abbastanza limitato di quanto questo personaggio sia fedele o meno al canone tolkieniano.

Perché non riesco ad immaginare un elfo più elfo di questo personaggio.

Con tutto che indubbiamente l’attore ha caricato leggermente la recitazione nella scena del confronto con Thorin…

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Avventura Cinema gelido Comico Commedia Commedia nera Drammatico Film Giallo Wes Anderson

Grand Budapest Hotel – Il picco artistico

Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson è per me il miglior film diretto da questo autore, in cui riesce ad unire la sua estetica peculiare con una piccola storia giallo.

Nonostante un budget abbastanza contenuto (25 milioni di dollari), ebbe un ottimo successo commerciale, con 172 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Grand Budapest Hotel?

All’interno di una complessa cornice narrativa, la storia racconta di Zero, un giovane lobby boy che viene coinvolto in un intrigato intrigo con M. Gustave, il direttore del Grand Budapest Hotel…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Grand Budapest Hotel?

Tony Revolori e Saroise Ronan in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Come detto, Grand Budapest Hotel è il mio film preferito di Anderson, quello dove, per me, ha raggiunto il suo picco artistico, riuscendo a conciliare la sua folle passione per la simmetria e i dettagli con una piacevole storia mistery.

Se vi piace Wes Anderson, ovviamente non ve lo potete perdere. Se invece non vi siete mai interessati a questo regista, è un buon film per mettere un piede nella porta della sua regia.

Io ho cominciato proprio da qui.

Due attori incredibili (fra i tanti)

Tony Revolori e Ralph Fiennes: in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Più di ogni altro film di Anderson, questo raccoglie una pletora di attori più o meno famosi, alcuni già feticci di Anderson, come Jason Schwartzman, Owen Wilson e ovviamente Bill Murray.

Ma le perle di diamante sono Ralph Fiennes e Adrien Brody.

Ralph Fiennes è assolutamente perfetto per il suo ruolo, riuscendo ad interpretare ottimamente un personaggio particolarissimo, un tipico personaggio andersiano. Preciso, severo, innamorato del suo lavoro e del mondo in cui è totalmente immerso.

Adrien Brody è uno dei miei attori preferiti, e in questa pellicola correva il rischio di rendere il suo personaggio quasi macchiettistico. E invece è la perfetta controparte di Fiennes: un avido e maligno approfittatore, disposto a tutto per mettere le mani sull’eredità della madre.

Un piacevole intrigo

Tony Revolori e Saroise Ronan in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

L’intrigo è un elemento onnipresente della trama, che si srotola perfettamente per l’intera durata della pellicola. E ogni tappa della storia è assolutamente irresistibile nelle sue dinamiche e nei suoi personaggi, anche quelli più secondari.

In particolare, ho adorato i diversi plot twist e le varie scene di omicidio dirette con la sublime tecnica regista di Anderson, con anche qualche momento più splatter e violento, come la strage alla prigione o lo strangolamento del maggiordomo alla chiesa.

E fin da I Tenenbaum (2000) il regista ha dimostrato di non andarci troppo per il sottile in questo senso…

E con un finale premiante per i protagonisti.

Anche se…

Il finale malinconico

Ralph Fiennes: in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Un tratto piuttosto tipico di Anderson è di portare elementi di una certa malinconia all’interno delle sue pellicole, soprattutto sul finale.

In questo caso la lacrima scende facilmente davanti al racconto di Zero da adulto, soprattutto quando ha come sfondo l’hotel ormai in decadenza, con uno stile evidentemente da Unione Sovietica.

Ma entrambe le storie sia di Agatha che di M. Gustave finiscono tragicamente, evitando quei finali dal sapore quasi fiabesco che molto spesso caratterizzano questo tipo di prodotti.

Ma non in un film di Anderson.

La costruzione a scatole cinesi di Grand Budapest Hotel

Un elemento piuttosto peculiare della pellicola è l’utilizzo delle cornici narrative in una costruzione a scatole cinesi.

Si comincia in un contesto forse contemporaneo in cui una ragazza senza nome si avvicina alla statua dell’autore del libro che sta leggendo; poi entriamo nel libro con la prefazione dell’opera in cui parla lo stesso autore; e poi si passa al racconto di come incontrò Zero; per poi vedere il racconto di Zero con anche la sua voce fuori campo.

Un finale tanto più malinconico per raccontare una storia davvero passata

Essere Wes Anderson

Un aspetto che trovo sempre incredibile della filmografia di Wes Anderson, tanto più in Grand Budapest Hotel, è la come siano sempre pieni di cameo e interpretazioni di attori di un certo livello.

Da attori più di nicchia come i già citati Jason Schwartzman e Owen Wilson, ad effettive star come Adrien Brody e Ralph Fiennes, tutti pronti a portare la loro fantastica presenza nei suoi film, anche per screentime davvero contenuti.

Wes Anderson è probabilmente il regista più popolare di Hollywood.

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Animazione Avventura Cult rivisti oggi Disney Dramma familiare Drammatico Fantasy Film Racconto di formazione

Frozen – Il mediocre di successo

Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee è uno dei lungometraggi animati più redditizi della storia della Disney. Un prodotto che ebbe infatti un successo immenso, tanto che alcune parti del film sono ancora oggi assolutamente iconiche.

Per capire il tipo di riscontro che ebbe, a fronte di un budget di appena 150 milioni di dollari, incassò quasi 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Se avete vissuto nel periodo della frozen-mania saprete fino a che punto eravamo bombardati dalle infinite riproposizioni di Let it go e affini, da cui io stessa fui coinvolta. Tuttavia, andando a guardare il prodotto con un giudizio più analitico, e non di pancia, emergono tutte le crepe.

Di cosa parla Frozen?

Elsa e Anna sono due sorelle in un regno immaginario dal sapore germanico, e vivono un’infanzia spensierata. Se non fosse che Elsa possiede dei poteri apparentemente incontrollabili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Frozen?

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

No.

E potremmo chiuderla qui.

Ammetto di avere un malcelato fastidio per questa pellicola, che mi portò al tempo a vederlo due volte al cinema, non riuscendo per nulla a capire l’entusiasmo che aveva suscitato. Lo trovai un film assolutamente normale, anzi molto difettoso, una brutta copia di Rapunzel (2010), da cui pescava a piene mani, in maniera anche piuttosto maldestra.

Col tempo, mi resi conto di quanto questo prodotto dovesse il suo successo a pochi elementi di vincenti, che oscurarono tutto il resto. Per me è un film mediocre, mediocrissimo, ma se proprio volete vederlo, non aspettatevi gran che.

Sicuramente i bambini lo ameranno.

Elsa: un’adulta irrequieta

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Elsa non è un bel personaggio.

E con questo intendo dire che la sua figura è stata particolarmente esaltata come un grande passo avanti per la Disney a livello di rappresentazione dei personaggi femminili, dal momento che è forse la prima che non abbia una storia romantica all’interno del suo percorso.

Tuttavia questo non significa che sia un passo veramente avanti né un buon esempio per il target di riferimento.

Infatti il problema non è tanto avere o meno un interesse romantico, ma essere definito dallo stesso: protagoniste come Mulan e Rapunzel vivono indipendentemente dalle loro storie romantiche, e hanno una crescita emotiva molto più interessante.

Elsa è infatti un’adulta irrequieta, prigioniera (per motivi che poi affronteremo) della sua stessa famiglia, e che non è capace di vivere serenamente la sua vita e che, da un momento all’altro, perde la testa e lascia totalmente a briglia sciolta i suoi poteri.

E tutta la sua storia manca di un’evoluzione emotiva degna di questo nome.

I problemi non risolti

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

L’evoluzione emotiva di Elsa dovrebbe portare alla risoluzione di un profondo conflitto interiore che la rendeva incapace persino di uscire dalla sua stanza.

Tuttavia questo prende anzitutto una strada del tutto negativa, dove lei sembra quantomeno risolvere (senza che questo abbia una chiara spiegazione) il valore distruttivo dei suoi poteri, rendendoli invece positivi e costruttivi.

Ma nulla si risolve dal punto di vista emotivo.

E infatti la troviamo ancora piuttosto tormentata sia quando Anna la va a trovare, sia dopo, con intere scene in cui mostra la sua irrequietezza. E la risoluzione di tutti i suoi problemi sembra l’accettazione dell’amore della sorella e, per estensione, l’accettazione di tutti gli altri.

Ma senza che di fatto ci sia stata una vera evoluzione o un vero percorso, se non una sorta di terapia d’urto con la morte della sorella. Senza che sappiamo nulla sull’origine dei poteri, di come infine riesca a controllarli.

Nulla.

Anna: il bilanciamento drammatico

Anna (Kristen Bell) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Anna è di fatto la vera protagonista della pellicola.

E non è di per sé un personaggio problematico, ma è piuttosto appiattita nella figura della principessa ingenua e ingiustificabilmente positiva, che riesce facilmente a farsi circuire da un personaggio assolutamente ridicolo come Hans.

Ma c’è un chiaro motivo.

Elsa è un personaggio troppo drammatico per un prodotto con target infantile, troppo tormentato per essere effettivamente digeribile ed essere effettivamente protagonista del film.

Per questo ha bisogno di un bilanciamento drammatico da parte di Anna, nonostante il suo comportamento sia totalmente poco credibile, in quanto dovrebbe avere almeno la metà dei drammi emotivi di Elsa.

Invece Anna sostiene tutto il peso emotivo della sorella, la va a cercare e in ultimo la salva effettivamente. E si salva da sola.

Insomma, un personaggio che poteva essere ben più interessante di come è stato scritto.

L’anello debole

Anna (Kristen Bell) e Kristoff (Jonathan Groff) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

La storia romantica di Anna e Kristoff è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Complice anche lo screentime veramente scarso che gli è stato concesso.

Di fatto, Anna e Kristoff si devono innamorare, e devono intraprendere una relazione perché la trama lo richiede. Dal punto di vista emotivo, Anna non ha effettivamente imparato così tanto, perché capisce di amare il suo compagno di viaggio dopo non tantissimo tempo che stanno insieme e dove non sembra che ci sia un’effettiva evoluzione del loro rapporto.

E questo è così tanto diverso dall’apparente rapporto idilliaco con Hans?

Banalmente, basterebbe confrontare l’eccellente costruzione del rapporto fra Flynn e Rapunzel in Rapunzel: i due partono da una relazione incredibilmente antagonistica, vivono una precisa e interessantissima evoluzione, con una relazione romantica va molto oltre il semplice amore, ma che ha un significato ben più profondo.

Possiamo dire lo stesso per Anna o concludiamo che si tratta dell’ennesima principessa che si innamora perché deve innamorarsi?

Alla faccia del passo avanti…

Una relazione quasi grottesca

Inoltre, relazione fra Anna e Kristoff è talmente forzata da risultare quasi grottesca.

Il punto più drammatico è quando i due si recano dai troll per curare Anna, ma la scena si trasforma in una sequenza senza senso, anzi piuttosto fastidiosa, in cui i troll pensano che Kristoff voglia sposare Anna e li costringono quasi a farlo.

Per concludere con la più classica paraculata Disney del vero amore che vince su tutto.

E a questo punto Anna viene riportata a palazzo per essere salvata da Hans, per poi inseguire in maniera anche abbastanza disturbante Kristoff per farsi baciare. E per fortuna questa idea è sventata dal film stesso, in cui mostra che il vero amore è quello fra Anna e Elsa.

Elemento che, però, va ancora più a svalutare la relazione fra Anna e Kristoff.

Un viaggio dispersivo

Anna (Kristen Bell), Kristoff (Jonathan Groff) e Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Altro elemento problematico di Anna è la gestione del suo viaggio.

Anna intraprende il viaggio per andare da Elsa, non risolve assolutamente niente, e si lascia inutilmente trasportare da Kristoff verso un siparietto agghiacciante (di cui sopra), e infine si mette in trappola da sola.

Quindi sostanzialmente Anna diventa vittima degli eventi stessi, riesce a salvarsi sul finale, ma di fatto, da circa metà del film in poi, si dimentica del problema principale della pellicola, ovvero sua sorella, e mette (anche comprensibilmente) al centro della trama la sua salvezza personale.

E tutto viene risolto magicamente negli ultimi minuti.

I genitori: i veri villain

La conclusione più surreale di questa pellicola è rendersi conto che i genitori sono i veri villain.

Non stiamo parlando certo di popolani che devono proteggere la figlia dal linciaggio della massa, ma regnanti che potenzialmente potevano rendere la loro figlia una figura di culto, persino un’arma, e modellare l’opinione pubblica a loro uso e consumo.

Invece, giustamente, non solo non cercano neanche di provare ad aiutarla a capire i suoi poteri, magari cercando una persona che potesse darle una mano, ma la fanno sempre più rinchiudere in sé stessa, traumatizzandola definitivamente.

Un meccanismo della trama senza alcun costrutto.

O piuttosto una forzatamente versione positiva del rapporto distruttivo fra Rapunzel e Madre Gothel…

Olaf: un disastro estetico

Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

So che molti non saranno d’accordo, ma io detesto Olaf.

Le sue canzoni sono veramente di cattivo gusto a livello estetico, plasticose e totalmente fuori contesto, non mi piace l’ironia e il punto chiave della sua personalità, ovvero amare un elemento contrario alla sua natura.

Ma soprattutto detesto il suo character design, che trovo molto abbozzato e sinceramente brutto, secondo solamente a quella mostruosità del mostro marshmallow che caccia Anna e Kristoff dal palazzo di Elsa.

Ed è un problema anche più ampio.

L’unica cosa che funziona

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Nonostante tutti i difetti, la relazione fra Anna e Elsa è l’elemento più solido della trama, e forse anche quello che tutto sommato la tiene insieme.

Un elemento emotivo molto forte, forse anche più importante da raccontare ad un pubblico infantile piuttosto che replicare nuovamente la questione del vero amore romantico. E infatti una delle canzoni più iconiche della saga è Wanna build a snowman?, con tutto il carico emotivo che si porta dietro.

E la scelta di rendere il salvataggio della protagonista per mano della sorella e non di un uomo appena conosciuto, nonostante si incastri male nel contesto, era una buona idea, almeno sulla carta.

Perché Frozen ha avuto tutto questo successo?

Il successo di Frozen, ovviamente, è stato veicolato dal pubblico infantile che si è innamorato del prodotto, e in particolare del personaggio di Elsa.

Perché, nonostante tutte le mie analisi, è indubbio che Elsa sia un personaggio intrigante e sicuramente diverso dal solito. Ma soprattutto il suo character design è davvero incredibile, ben pensato e davvero vendibile.

E infatti per me ancora rimane un mistero come abbiamo fatto un lavoro creativo così ottimo con questo personaggio e così pessimo col resto.

Stesso discorso vale per Let it go, canzone che personalmente apprezzo, sia per la scena, sia perché è stata cantata da un’artista di grande talento come Idina Menzel, sia per il valore emotivo che l’accompagna.

Un altro elemento molto iconico, in un mare di canzoni, con l’eccezione di Wanna build a snowman?, piuttosto mediocri e dimenticabili.

Insomma, un prodotto con pochi elementi vincenti e iconici in un oceano di mediocrità.

Frozen 2 – La rivelazione

Mi sono fatta delle grassissime risate con Frozen II (2019).

Sia perché il film si presta molto di più (volontariamente o involontariamente) alla risata, sia perché sono state confermate tutte le mie ipotesi sul successo del primo film, di cui sopra.

Se ci avete fatto caso, questo prodotto, nonostante un incasso sempre straordinario, è stato accolto molto più tiepidamente dal pubblico non in target, che invece aveva tanto lodato la prima pellicola.

E questo perché, secondo me, Frozen II è un film che mostra la stessa mediocrità del primo, con la differenza che manca degli elementi iconici che avevano definito il successo del precedente film.

Tuttavia un ottimo modo per vendere nuovi giocattoli, indubbiamente.

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Avventura Commedia Drammatico Fantasy Film Il viaggio di Bilbo Racconto di formazione Viaggio nella Terra di Mezzo

Un viaggio inaspettato – Una simpatica quest

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (2012) è il primo capitolo della trilogia prequel del Signore degli Anelli, sempre diretta da Peter Jackson.

Un prodotto che ebbe una produzione molto più tormentata rispetto alla trilogia originale – che, ricordiamo, era stata girata tutta insieme nel giro di 8 mesi.

Un film che costò quasi il doppio rispetto ai film precedenti (180 milioni di dollari), e che però arrivò subito a superare il miliardo di incasso, con 1,1 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato?

Mentre Bilbo sta concludendo le sue memorie e per festeggiare il suo 111esimo compleanno, ricorda l’inizio della sua inaspettata avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato?

Martin Freeman e Richard Armitage in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

In generale, sì.

Ma ci sono dei grossi ma.

Il punto è che sta tutto come volete intraprendere la visione di questa pellicola e della trilogia in generale: se lo prendete a sé stante, è un film assolutamente godibile e complessivamente ben fatto.

Se invece siete profondamente legati alla trilogia originale, o se siete dei tolkieniani puristi (e pure un po’ incazzati), vi consiglio caldamente di passare ad altro.

Per il vostro bene.

Un eroe diverso

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

Ho già ampiamente parlato del tipo di eroe che è Frodo: profondamente tragico, fallibile e vicino allo spettatore.

E si definisce anche più nettamente in confronto col tipo di personaggio che invece è Bilbo. Come punto di partenza hanno avuto la buona pensata di non caricare il personaggio con la stessa tragicità della sua controparte della trilogia originale.

Perché gli sarebbe stata stretta.

Bilbo è in tutto per tutto un eroe comico, che comincia un’avventura in tono molto minore e che ha una conclusione positiva. Oltre a questo, è un personaggio che rappresenta un pubblico molto più adulto rispetto a quello del primo, con tutti i problemi da adulto.

E forse è stata proprio quella l’idea: agganciare il pubblico dei fan ormai cresciuti, a dieci anni di distanza…

Una simpatica quest

Una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

Mentre guardavo la pellicola mi sono resa conto che aveva molto più il sapore di quest da GDR rispetto alla trilogia originale.

Infatti, rispetto a La compagnia dell’anello, l’obbiettivo molto più vicino e raggiungibile, il viaggio presenta una serie di deviazioni dal percorso, che comprendono anche il trovare la direzione effettiva per l’obbiettivo.

Purtroppo già qui si sente il voluto allungamento della trama, dovendo distribuire un libro di appena 400 pagine su tre capitoli. Tuttavia la più grossa deviazione del film, la trappola dei goblin, è anche quella che porta la scena migliore.

La sequenza di Gollum

Andy Serkis in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

L’incontro di Gollum e Bilbo era uno dei momenti più importanti da raccontare: non solo definisce l’incontro con l’anello, ma anche la decisione più importante della vita del protagonista.

Non uccidere Gollum.

La sequenza a loro dedicata mi è particolarmente piaciuta perché è stata trattata con la giusta tragicità, e per tutto il tempo sentivo il pericolo di Gollum, che abbiamo già conosciuto come una creatura infida e bestiale.

Tuttavia, come Frodo dopo di lui, Bilbo prova una profonda pietà nei confronti di questo personaggio. In effetti Smeagol è in fondo una creatura di cui avere pietà: un hobbit che ha perso ogni elemento di umanità ed è diventato una figura bestiale, ma, soprattutto, miserabile.

La questione di Thorin

Thorin è una delle maggiori polemiche che hanno circondato questa saga.

In effetti, anche per come ci erano raccontati e come li avevamo visti in Il signore degli anelli e poi anche in Rings of power, i nani hanno dei tratti molto marcati e anche molto buffi.

Infatti Gimli era il comic relief della saga originale.

Tuttavia in questa saga avevano bisogno di un personaggio che fosse fondamentalmente la controparte di Aragorn. E non poteva avere un aspetto meno affascinante…

È un discorso incredibilmente triste da fare, ma è anche molto realistico: se Thorin non avesse avuto questo aspetto non sarebbe stato credibile nel suo personaggio.

Le aquile di Gandalf e altre amenità di un viaggio inaspettato

Fin dal Signore degli Anelli, impazza la cosiddetta polemica delle aquile di Gandalf. Molto banalmente, non pochi spettatori si sono lamentati per come le aquile arrivano sia alla fine de Il ritorno del re (2003), sia alla fine di Un viaggio inaspettato come deus ex machina.

Come al solito, mi sono informata.

E ho tre cose da dire.

Anzitutto, a livello strettamente letterario e di canone, no, le aquile non potevo arrivare prima e no, non potevano trasportare direttamente i protagonisti alla loro destinazione. Questo banalmente perché le aquile sono delle divinità, non degli animaletti da compagnia, e intervengono solamente quando lo ritengono necessario.

Ad un livello quasi metanarrativo, Gandalf non vuole rendere così semplice il viaggio né di Frodo né di Bilbo, perché lo stesso non è un semplice percorso, ma un viaggio che permette anche ai personaggi di crescere e maturare. Tanto più che lo stesso Gandalf è una creatura divina, quindi molto più in alto rispetto alle piccole vicende della Terra di Mezzo.

In ultimo, come ho già mostrato, non sono d’accordo con questa polemica, ma mi sento vicina ad un concetto piuttosto importante: se allo spettatore viene la domanda perché non è stato fatto prima? non è un buon segno. E se ne Il ritorno del re la questione per me non si pone, tutto il comportamento di Gandalf sul finale (aquile permettendo) è comunque discutibile e denota una sceneggiatura per certi tratti abbastanza traballante.

Come va considerato lo Hobbit

Ci tengo a dire due parole su questa questione.

Io capisco perfettamente quale sia stato il problema per molti fan della trilogia originale davanti a questo prodotto.

Banalmente, manca della stessa epicità.

Ma è indubbio che lo stesso taglio narrativo sarebbe stato tremendamente fuori posto davanti alla materia raccontata. Come detto, l’avventura di Bilbo è decisamente in tono minore rispetto a quella di Frodo. E di conseguenza è stata trattata.

E per me va bene così.

Con tutto che ci sono degli indubbi difetti soprattutto nella gestione della storia, ma che non vanno a mettere in discussione l’intera operazione.