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The Royal Tanenbaums – Iconici e acerbi

The Royal Tenenbaums (2001) è uno dei primi film di Wes Anderson, quando era ancora un regista molto di nicchia. Infatti in questa pellicola si nota come non fosse ancora il Wes Anderson che conosciamo oggi, per così dire.

Un piccolo film prodotto con un budget non minuscolo: fra i 21 e i 28 milioni, con un incasso di 71 milioni di dollari, rendendolo un buon successo commerciale.

E diventando per certi versi involontariamente iconico.

Di cosa parla The Royal Tanenbaums?

I Tanenbaum sono una famiglia imperfetta: i figli crescono con un’infanzia molto particolare, additati fin da subito come piccoli geni, dilaniati dai traumi e dal padre assente, che decide improvvisamente far capolino nella loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Royal Tenenbaums?

Gwyneth Paltrow e Bill Murray in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Oltre ad essere complessivamente un film molto gradevole e con una durata assolutamente digeribile, è sicuramente un prodotto da riscoprire se siete appassionati di Wes Anderson.

Infatti in questa pellicola si trova un Anderson ancora acerbo e alle prime armi, ma che già mostrava i primi semi dei suoi temi più cari, ripresi in film successivi, e della sua estetica.

Tuttavia, è dovuto indicare dei trigger alert: è fra i prodotti più dark della sua produzione, quindi si parla in maniera abbastanza esplicita del suicidio e della morte in generale.

Pur contenute all’interno del genere della commedia, non mancano le scene d’impatto, una in particolare piuttosto forte.

A parte questo, vale assolutamente la pena di recuperarlo.

Involontariamente iconici

Oggi, davanti alle commedie con finali e risvolti agrodolci di Wes Anderson, consideriamo questi aspetti come un suo tratto autoriale.

Tuttavia in The Royal Tenenbaums questo taglio decisamente drammatico e dark sembra più raccontare il sentimento della generazione proprio del periodo in cui la storia è ambientata, in cui discorsi sul suicidio (veri o presunti) erano quasi all’ordine del giorno.

Quindi il racconto di questi ragazzi così tormentati e pieni di traumi, che non riescono a vivere serenamente la propria vita familiare e soprattutto sentimentale, era del tutto riconoscibili dai giovani di quella generazione.

In particolare nel personaggio di Margot.

Un’icona imperfetta

Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Margot, ad una lettura più superficiale, potrebbe apparire come la classica adolescente di quel periodo.

La matita nera sotto agli occhi, l’atteggiamento distaccato e misterioso…insomma la ragazza enigmatica che era il sogno di tanti adolescenti, che avrebbero voluto essere anche solo la metà interessanti quanto lei.

E non a caso il suo personaggio è diventato iconico ed è stato per molto tempo citato continuamente, anche solo per le GIF che la ritraevano, anche da persone che probabilmente non avevano visto il film.

Ma in realtà Margot è molto di più.

Una giovane donna con davvero un’infanzia traumatica, che ha esplorato il mondo in lungo e in largo alla ricerca di sé stessa, con azioni anche piuttosto estreme che nessuno ha provato a frenare, anzi è stata in un certo modo incoraggiata per l’aura di mistero e ammirazione che la circondava.

Ma questo l’ha portata anche a non saper avere relazioni sane e soddisfacenti, tradendo la fiducia di più e più persone. In ultimo si è trovata sola, in un matrimonio poco soddisfacente, andando ancora a rincorrere un amore adolescenziale…

L’assenza involontaria?

Gene Hackman in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Royal Tenenbaum è una figura nel suo piccolo piuttosto complessa.

Un padre assente per la maggior parte della vita dei suoi figli, senza neanche saperne veramente il motivo. In un certo senso sembra che si sia lasciato trascinare dagli eventi e dal suo istinto, facendo quello che in quel momento gli sembrava più giusto, senza starci troppo a pensare.

Per questo si è però col tempo totalmente allontanato dalla propria famiglia, a cui comunque voleva bene, facendo nel corso della pellicola una serie di sforzi più o meno maldestri (e neanche del tutto giusti) per riavvicinarsi a loro.

Il tutto sopratutto per riacquistare la propria posizione con la moglie, alla fine rendendosi conto di quanto si fosse perso senza di loro.

Con un ultimo momento di felicità prima di morire, per davvero.

Raccontare i traumi

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

The Royal Tenenbaums è un film che parla soprattutto di traumi.

Anzitutto Richie, che ha vissuto tutta la vita all’ombra di Margot, tanto da rinunciare al suo talento per il tennis proprio perché ferito dal suo non aver scelto lui come partner.

E per lo stesso motivo decide anche di provare a togliersi la vita, con un atto estremo in cui si spoglia della sua identità. Tuttavia questo gli permette in un certo senso di fare la muta, di ricominciare a vivere con una persona almeno un po’ più consapevole di se stessa.

Non da meno è anche Chas, totalmente traumatizzato dalla morte della moglie, tanto da fare di tutto per continuare a tenere il più possibile al sicuro i propri figli da qualunque pericolo, anche il più assurdo.

E, a sorpresa, ritrova la sua tranquillità e accetta il suo trauma proprio grazie al padre.

In tono minore, ma comunque con un personaggio molto tipico da Wes Anderson, è Eli Cash, il cui problema più evidente è la sua dipendenza dalla droga, ma in realtà altrettanto problematico è il suo non riuscire ad affermarsi ed essere un artista fallito, che non trova mai la sua vera strada nella vita, anelando sempre di essere quello che non è: un Tenenbaums.

I semi di Wes Anderson

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Come detto, in questa pellicola si trovano molti temi cari e i caratteri che già definiranno l’estetica di Wes Anderson negli anni a venire.

Oltre al tipo di estetica vintage, ispirata alle atmosfere degli Anni Sessanta, spicca molto anche l’utilizzo delle luci piene e aranciate, oltre alla cura già piuttosto centrale per i dettagli della scena.

Il tipo di personaggi sono molto tipici di Wes Anderson, a partire dal padre imperfetto, che si vide poi in Fantastic Mr Fox (2008) e la donna enigmatica, come poi in Moonrise Kingdom (2012).

Così anche le ambientazioni: prima di tutto dell’hotel, che sarà il grande protagonista in Gran Budapest Hotel (2016), e le atmosfere marine che poi saranno al centro di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004).

Ma soprattutto le prime avvisaglie della sua ossessione per la simmetria delle scene si vedono molto bene in questa inquadratura:

Luke Wilson e Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson
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Scream 2 – I sequel fanno schifo?

Scream 2 (1997) di Wes Craven è il sequel dell’omonimo prodotto uscito l’anno precedente: a fronte del grande successo commerciale della prima pellicola, non poteva che esserci un secondo film.

Per il secondo film il budget fu in proporzione molto aumentato (da 15 a 24 milioni), con quantomeno una conferma del successo, nonostante l’incasso leggermente inferiore di 172 milioni di dollari (il primo ne aveva incassati 183).

Di cosa parla Scream 2?

Qualche anno dopo le vicende del primo film, Sidney è al collage e cerca di condurre una vita normale. Ovviamente questo non è possibile, perché l’incubo che ha vissuto sembra concretizzarsi nuovamente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 2?

Assolutamente sì.

Per quanto possiate odiare i sequel, non fermatevi al primo film: Scream 2 è un prodotto con una grande dignità, che conferma la genialità della metanarrativa del primo film, arrivando a prendersi in giro in maniera decisamente brillante.

L’unico avvertimento, e che mi ha leggermente deluso, è il fatto che l’elemento metanarrativo è più forte, ma molto meno presente rispetto alla prima pellicola, risultando complessivamente un prodotto più dispersivo, complice anche la durata maggiore.

Comunque, vale assolutamente la pena di recuperarlo.

I sequel fanno schifo?

Stab 2? Who wanna do it? Sequels suck

Stab 2? Ma chi lo vuole. I sequel fanno schifo.

Il titolo di questo articolo è volutamente provocatorio, come d’altronde l’argomento all’interno della pellicola. Un’intera sequenza è dedicata a questo tema, in cui si condanna esplicitamente i sequel degli horror, che hanno rovinato il genere

The entire horror genre was destroyed by sequels

L’intero genere horror è stato distrutto dai sequel

La forza di Scream 2 è la sua capacità di voler essere alternativo ai topos che definisco i sequel del genere, come spiega Randy:

The body count is always bigger […] The death scenes are always much more elaborate.

Il numero dei morti è sempre maggiore […] Le scene di morte sono più elaborate

Infatti, sicuramente possiamo dire che il conto delle morti è decisamente maggiore, e per certi versi anche giustificato: il killer in questo caso non aveva specificatamente in mente di uccidere Sidney, ma di costruire un caso e un grande scandalo. D’altronde, come spiega molto bene

It’s a classic case of life imitating art imitating life

È un classico caso della vita vera che imita l’arte che imita la vita vera

La genialità di Stab

Tutta la sequenza iniziale è, oltre che divertentissima, assolutamente geniale.

Anzitutto perché il titolo così stupido (come sottolineato dagli stessi personaggi) del film nel film, ironizza in realtà anche col titolo del franchise stesso.

Insomma, Stab è un titolo tanto più stupido di Scream?

Ma è un elemento intrinseco della narrazione, che vuole parodiare, senza mai cadere nel ridicolo, tutto il filone horror. E anche in questo caso ci riesce perfettamente, particolarmente nelle scene di Stab che sono le versioni cheap del primo film.

I personaggi afroamericani sono dei token?

Un elemento altrettanto interessante della prima sequenza del film è il discorso riguardo alla poca presenza di attori afroamericani all’interno del genere horror.

E in questo senso il film fa una scelta molto intelligente.

Oltre a dedicare una delle parti più importanti e significative della pellicola proprio a degli attori neri, la pellicola ha cercato di includerne il più possibile nel cast dove c’era spazio, azzoppato dal fatto di dover recuperare i personaggi del film precedente, che erano tutti inevitabilmente bianchi.

Tuttavia, lodevole il tentativo di includere personaggi secondari interpretati da attori afroamericani con significato e un ruolo preciso nella pellicola, non stereotipati e soprattutto non le prime vittime della situazione. Anzi, il cameraman si defila dalla situazione proprio per non diventare una vittima.

Si potrebbe discutere all’infinito se questi personaggi non fossero altro che dei token, ma per il tempo in cui è uscita la pellicola è stato un passo avanti interessante e lodevole.

Costruire un finale efficace

Serial killer are typically white males

I serial killer di solito sono uomini bianchi

Uno dei punti più alti del primo film era il finale, in cui si parlava ancora più metanarrativamente dei finali dei film horror. E in questo caso il film ha deciso di puntare ancora più in alto.

Anzitutto sono riusciti a portare sempre una coppia di killer con motivazioni diverse, ma che coprono tutte le necessità del film. Abbiamo da una parte un personaggio esageratissimo che racchiude al suo interno tutte le già citate necessità di raccontare un sequel.

Dall’altra abbiamo un killer ancora con motivazioni molto terrene come nella prima pellicola, fra l’altro andando a portare una serial killer donna, cosa che, per ammissione dello stesso film, è molto raro.

E, nonostante sia stata una sequenza estremamente e volutamente violenta, la scelta dei protagonisti che sparano gli ultimi colpi di pistola (dovuti e precauzionali) sui loro corpi, con tanto di Mickey che riprende improvvisamente vita come da buon cliché di un qualsiasi horror.

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Manhattan – Inghiottiti dalla città

Manhattan (1979) è la pellicola più importante e iconica di tutta la produzione di Woody Allen, un cult nonché un capolavoro del cinema occidentale. E i motivi si sprecano.

Fondamentalmente, se avesse smesso improvvisamente di produrre film dopo questa pellicola, sarebbe stato comunque artisticamente inarrivabile.

Troviamo ancora una volta come protagonista Diane Keaton, con una dinamica altrettanto amara e coinvolgente come in Io e Annie (1977). Fu anche il primo grande successo del regista: a fronte di un budget di 9 milioni di dollari, ne incassò 40.

Di cosa parla Manhattan?

Isaac è un autore televisivo con una vita sentimentale tormentata: divorziato dalla moglie con cui è ancora ai ferri corti e in una relazione con una ragazza molto più giovane di lui, si innamora della donna sbagliata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Manhattan?

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Manhattan è considerato un capolavoro del cinema, e non a caso: un livello artistico che definire mostruoso è poco, con scelte che non sono solo un vezzo o un esercizio di stile, ma organiche al tipo di narrazione profonda e coinvolgente.

Ma non dirò di più: se non l’avete mai visto è giusto che lo scopriate da soli.

Oltre a questo riprende la bellezza di Io e Annie proprio nel raccontare delle relazioni genuine e profondamente coinvolgenti, con, fra l’altro, un umorismo brillante e ben dosato.

Insomma, uno di quei film che non possono non essere visti.

Quando il bianco e nero non è solo un vezzo

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Manhattan è un film girato in bianco e nero, ed è una scelta registica con un significato ben preciso: Allen gioca continuamente con la luce e il buio, portando scene anche completamente buie o molto luminose sui toni del bianco in cui le figure scure dei personaggi si stagliano sullo sfondo.

Ancora più interessante è l’uso della luce diegetica: le scene per la maggior parte vivono della luce in scena, l’unica di cui i personaggi possono servire per apparire agli occhi dello spettatore, finendo spesso per essere facilmente inghiottiti dal buio che li circonda.

Entrambe queste scelte senza il bianco e nero non avrebbe avuto lo stesso effetto.

La città al centro

Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Altra scelta registica peculiare sono state le non poche sequenze con camera fissa, in cui i personaggi entrano ed escono dai limiti della scena senza che la macchina da presa li segua. A volte interi dialoghi avvengono proprio fuori scena, con inquadrature che invece privilegiano la vista della città.

Come se questo non bastasse, i personaggi sono sempre messi a lato dell’inquadratura, anche quando sono gli unici soggetti in scena. Questo sempre con la volontà di mettere la città, e per estensione lo spazio, al centro, e fare in modo che la stessa inghiotta i personaggi.

La comicità naturale

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

We should meet some stupid people once in a while. We could learn something.

Potremmo frequentare delle persone stupide ogni tanto. Potremmo imparare qualcosa.

Con questo film Allen riesce a trovare definitivamente una sua dimensione comica, tenendo tutta la comicità sulle sue spalle e portando un tipo di umorismo molto naturale, con poche battute brillanti e genuinamente divertenti.

Molta della comicità nasce dalla situazione paradossale in cui la società dei ricchi newyorkesi persa nelle sue divagazioni senza senso per darsi un tono, con situazioni paradossali e spassosissime, che si prestano facilmente a battute di effetto.

Insomma con questo film Allen capisce che è meglio poco, ma di qualità.

Cosa ci insegna Manhattan delle commedie romantiche

Woody Allen e Meryl Streep in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Come già in Io e Annie, Manhattan racconta in maniera sincera il mondo delle relazioni, con le sue complicatezze e insidie. Solitamente le commedie romantiche hanno un finale confortante, per cui ogni cosa si risolverà inevitabilmente a nostro favore e tutto andrà al proprio posto, nonostante tutto.

E come sembra che il nostro partner viva in nostra funzione.

Invece con questa pellicola Allen ci racconta la realtà contraria, la più dolorosa: come quella relazione che sembrava perfetta può in realtà finire in una bolla di sapone, ci si può ripensare, tornare sui propri passi. Lasciare. Non aspettare. E, infine, accontentarsi.

Con un finale amarissimo, ma dovuto.

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2022 Biopic Drammatico Film Film Netflix Nuove Uscite Film

Blonde – Un’icona fragile

Blonde (2022) di Andrew Dominik è un film Netflix incentrato sulla figura di Marilyn Monroe, tratto dall’omonimo romanzo del 1999. Romanzo che, specifichiamo, non è una biografia dell’attrice, ma un racconto romanzato della sua vita.

Personalmente (e non penso di essere l’unica), mi aspettavo un biopic in senso classico, che banalmente ripercorresse, pur in una veste più intima e drammatica, la tragica vita dell’attrice icona degli Anni Cinquanta.

Niente di più sbagliato.

Di cosa parla Blonde?

Blonde ripercorre gli anni della vita di Marilyn Monroe, al secolo Norma Bates, partendo dall’infanzia e percorrendo tutti i momenti più salienti della sua carriera attoriale e della sua vita personale.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè Blonde è un prodotto diverso dal solito

Ana De Armas in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik, film Netflix

Come anticipato, mi aspettavo un biopic nel senso più classico: il materiale al riguardo non mancava. Invece, mi ha sorpreso. Nonostante parta effettivamente come il più classico prodotto di questo genere, nel giro di poco dimostra la sua natura.

Indubbiamente racconta la vita di Marilyn, ma è il come la racconta: una regia incredibilmente sperimentale, drammaticamente onirica, che non manca di sbavature, ma che al contempo riesce ad ipnotizzarti con proposte visive sempre nuove e sorprendenti.

Tuttavia, non è un film semplice, anzi: oltre alla durata davvero importante (due ore e quarantasette), è comunque un film straziante, che ti immerge nella vita di questa icona del cinema, ma prima di tutto di questa donna dalla vita davvero tragica.

Da vedere, ma prendendosi il proprio tempo.

Un pezzo di carne

Ana De Armas in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik, film Netflix

Il film è molto incentrato sul corpo di Marylin, tanto da arrivare a spogliarlo continuamente (e anche troppo per i miei gusti), e di come fosse sessualizzato e posseduto continuamente. Al cinema, l’attrice era l’oggetto del desiderio, la donna ammiccante e impossibile, considerata per la maggior parte della sua vita più per il suo corpo che per il suo talento.

Così al primo provino viene stuprata, al secondo non viene considerata la sua performance, ma solamente il suo bel fondoschiena.

E così anche nella sua vita privata, in particolare con il primo matrimonio con Joe di Maggio: uomo che, nascondendosi dietro alla scusa di non voler che la moglie si butti via, fa di tutto per avere il controllo sul suo corpo, che può essere solo suo.

Vivere all’ombra di Marilyn

Ana De Armas in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik, film Netflix

I invented you

Io ti ho creata

Tanto più evidente e drammatico è come la fama le stesse stretta: il vero desiderio di Marylin non era diventare famosa, ma di riuscire a costruire una famiglia felice come quella che non aveva mai avuto.

E invece il suo maggiore successo fu proprio il suo essere iconica, ma portando in scena un personaggio che era stato costruito, che si vede la grande differenza fra lei e Norma. La protagonista è infatti una ragazza ingenua e molto fragile, con desideri semplici che le vengono sempre portati via.

Molto diversa invece dall’icona sexy che venne messa in scena, l’oggetto di desiderio di ogni uomo.

I padri

Ana de Armas e Adrien Brody in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik

Il rapporto con gli uomini non fu mai felice.

Secondo la visione del film, Norma visse la sua vita nell’inseguire l’immagine del padre mai incontrato, e che di fatto non si mise mai in contatto con lei. E non è un caso che Norma si mise sempre insieme a uomini con almeno vent’anni più di lei.

E il rapporto era proprio quello fra un padre e una figlia, più che quello fra due innamorati. Tanto più sconvolgente quando il Kennedy la forza ad una prestazione orale e gli dice proprio di non essere timida, proprio come se fosse una bambina.

L’eccesso

Ana de Armas in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik

Come anticipato la regia è molto sperimentale. Ed è una cosa positiva e negativa allo stesso tempo.

Positiva perchè comunque riesce a rendere più interessante e innovativo un biopic, con idee sempre diverse per ogni scena e che riescono a rendere maggiormente viva e interessante la scena, sopratutto tramite le scene dal taglio onirico. In particolare molto interessante la messa in scena delle sequenze di sesso (o stupro), che riescono a dire tutto senza mai sfociare nella volgarità.

Negativa perchè certe volte questo sperimentalismo sfocia nell’eccesso e quasi nel cattivo gusto. A posteriori ho poco apprezzato questo uso poco chiaro del cambio fra immagini a colori e in bianco e nero, così come il cambio di formato video. Allo stesso modo piuttosto grottesco (e nel senso più negativo possibile) il dialogo che Norma ha con il bambino nascente.

È l’anno di Ana de Armas per Blonde?

Ana de Armas in Blonde è stata incredibile.

Sono rimasta semplicemente stregata dalla sua interpretazione, nel modo in cui è riuscita ad entrare nel personaggio, con moltissime scene anche molto dolorose e tragiche. E per quanto mi riguarda per me sarebbe un crimine non candidarla, se non addirittura farle vincere una statuetta ai prossimi Oscar.

Molto probabilmente questo film sarà uno dei prodotti che Netflix porterà ai prossimi Academy Awards (nonostante l’uscita abbastanza anticipata rispetto alla premiazione), insieme a Bardo (2022) di Alejandro Iñárritu, in uscita a Dicembre.

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Scream – E così nasce l’anti-horror

Scream (1996) di Wes Craven è il primo capitolo della saga anti-horror omonima, un cult ancora oggi. E un cult non a caso: nel momento della saturazione del genere horror, Craven decise di portare qualcosa di profondamente diverso.

Una pellicola che non avevo mai recuperato negli anni, ma che ho avuto il piacere di ricoprire, in attesa anche del nuovo capitolo in uscita il prossimo anno, Scream 6 (2023).

Un film fatto con poco (appena 15 milioni), ma che fu immediatamente un successo commerciale, incassando 183 milioni di dollari, il maggior incasso del 1996.

Di cosa parla Scream?

È passato quasi un anno dalla morte della madre di Sidney, che non riesce a superare la sua scomparsa, i cui dettagli sono ancora fumosi. Un serial killer comincia a minacciare la sua vita e la comunità, con degli strani collegamenti con l’omicidio della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream?

Drew Barrymore in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Nonostante sia un film di quasi trent’anni fa, Scream è ancora assolutamente godibile. Ovviamente non vi dovete aspettare un horror autoriale alla Nope (2022), ma un prodotto che si inserisce efficacemente nel filone dell’horror commerciale, pur deridendolo.

In particolare, ve lo consiglio se siete particolarmente appassionati all’horror slasher degli Anni Settanta – Ottanta, che la pellicola cita continuamente.

E nella maniera più metanarrativa che possiate immaginare.

Giocare con la metanarratività

Più si prosegue nella narrazione, più le citazioni e i riferimenti agli horror cult si moltiplicano, andando a dialogare direttamente con il film stesso. Il momento più alto è quando Bill dice a Sidney

It’s all…one great big movie

È tutto un grande incredibile film

E da lì è tutto in discesa.

Si sprecano poi i parallelismi con Halloween (1978), in particolare in due momenti: quando, davanti alla scena in cui la protagonista si sta spogliando, il montaggio alternato ci mostra Sidney che fa lo stesso nell’altra stanza. E poi quando Randy urla alla protagonista del film

Jamie, look behind you!

Jamie, dietro di te!

e ha lui stesso il killer alle spalle che lo sta per uccidere. Infine, altrettanto memorabile quando sempre Randy, mentre stanno guardando Bill a terra apparentemente morto, ricorda:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

e infatti Bill torna in vita e Sidney gli spara, chiosando

Not in my movie.

Non nel mio film.

Ci sono anche momenti più gustosamente umoristici, come quando il preside parla con il bidello, che si chiama Fred ed è vestito come Freddy Krueger della saga di horror Nightmare.

Uscire dagli schemi

Matthew Lillard e Skeet Ulrich in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Scream riesce ad essere diverso dal canone non solo a parole, ma anche nei fatti. Anzitutto, portando una violenza al limite dello splatter e del grottesco, che non appare finta, con anche una certa ironia che sdrammatizza molte scene di tensione.

Fra tutte, piuttosto indovinata la scena prima della morte di Tatum, in cui lei crede che il killer sia uno scherzo e gli chiede se vuole che sia la sua vittima. E anche, più in piccolo, quando Sidney è chiusa in macchina e il killer le sventola davanti alla faccia le chiavi che stava cercando per scappare.

Ma soprattutto è originale la scelta di mettere una coppia di killer e soprattutto di non appiattire gli stessi sull’immagine di personaggi pazzi e con un passato tormentato, assegnandogli invece motivazioni più semplici e terrene.

Ma il colpo di genio è stato fare in modo che il sospettato numero uno fosse effettivamente il colpevole, e non un modo per confondere lo spettatore. Spettatore, fra l’altro, ormai abituato a questo tipo di dinamica e che non si sarebbe lasciato facilmente ingannare.

Una regia non scontata

Tutt’oggi l’horror commerciale – sempre con splendide eccezioni – è caratterizzato da produzioni da discount, per cui di solito si mettono alla regia dei semplici mestieranti che portano una messinscena molto mediocre, con spesso anche una sceneggiatura molto scontata.

Al contrario Wes Craven riesce a plasmare la messa in scena con una regia dinamica e interessante, con anche tocchi registici piuttosto peculiari, come il particolare sul riflesso del killer negli occhi del Preside prima di morire.

E in generale è una regia che gioca molto di inquadrature improvvise e con insistenti primi piani stretti.

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Don’t Worry Darling – È ora di essere felici?

Don’t worry darling (2022) è l’ultima pellicola di Olivia Wilde con protagonisti Harry Styles e Florence Pugh. La seconda pellicola della regista, dopo l’ottimo Booksmart (2019), in Italia noto con l’infelice titolo di La rivincita delle sfigate.

Una pellicola circondata da moltissimi pettegolezzi (che non ho intenzione di approfondire) e la cui presenza di Harry Styles potrebbe essere un boomerang (di cui bisogna parlare).

Per ora ha aperto molto bene nel primo weekend, con 30 milioni in tutto il mondo. A fronte di un budget di 35 milioni di dollari, è possibile che ci sia un buon rientro economico.

Di cosa parla Don’t worry darling?

Alice e Jack sembrano vivere una vita perfetta, in una perfetta comunità esclusiva degli Anni Sessanta. Ma le anomalie del mondo che li circonda sono sempre più evidenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Don’t worry darling?

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Davanti ad una pellicola complessivamente interessante e godibile, non è un film che considero personalmente imperdibile. Non mi verrebbe per nulla di bocciarla (come tanti hanno fatto), ma neanche di esaltarla.

Nonostante la regia sia dinamica e la storia abbastanza interessante, presenta una sceneggiatura in non pochi punti difettosa, arrivando ad una conclusione non banale, ma neanche del tutto soddisfacente.

Insomma, se volete dargli una chance, dategliela. Ma non aspettatevi qualcosa di alto livello o davvero originale come era stato per il precedente film della regista.

Harry Styles ha attirato il pubblico sbagliato?

Anche senza aver visto il film, appare del tutto evidente che non stiamo parlando di un filmetto da pomeriggio di Italia 1, nè di un prodotto esattamente per tutti i palati.

Tuttavia, dalla mia esperienza in sala, ho scoperto che questa pellicola ha attirato non pochi spettatori non abituati alla sala e sopratutto attirati solamente dalla presenza di Harry Syles.

Ed è un peccato.

Perché a parte tutto posso dirvi che Harry Styles non è un attore di richiamo messo lì apposta e senza nessun talento, ma un neonato attore che in questa pellicola ha davvero dato il suo meglio.

Tuttavia, visto anche il riscontro tiepido (se non peggio) della pellicola, la presenza di questo interprete potrebbe renderlo un successo economico, ma essere bocciato da un pubblico che è corso in sala per un film che non era pensato per lui.

Fuggire la realtà

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

La rivelazione finale è stata da parte mia non poco apprezzata, in quanto riesce ad aggiornare ai giorni nostri un film con una dinamica piuttosto tipica, con piccoli cult come La donna perfetta (2004). E infatti io mi aspettavo un finale simile.

E invece mi ha sorpreso.

Da questo punto di vista racconta un problema sociale che, con le dovute differenze, è assolutamente presente, ovvero il fuggire dal mondo reale in quello virtuale. Come Jack porta all’estremo questo concetto rinchiudendo la compagna in una realtà virtuale, così non poche persone ritrovano una vita alternativa e più soddisfacente online che offline.

Il che può essere una cosa positiva come molto negativa.

Jack, perché?

Harry Styles in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Per quanto le motivazioni di Jack non siano più di tanto approfondite, bastano poche battute per comprendere il suo personaggio. Jack di fatto si incasella in quella pressione sociale maschile di sostenere la sua donna, nonostante la stessa sia perfettamente capace di farlo da sola.

Emblematico in questo senso quando, in uno dei flashback, Jack dice ad Alice E ora come farò a prendermi cura di te?, proprio a sottolineare proprio questo tipo di esigenza. La stessa trova poi sfogo nell’idea mondo virtuale dove di fatto rinchiudere le donne, probabilmente anche con l’idea di renderle più controllabili.

E non è un caso che il mondo sia ambientato in un contesto storico per nulla favorevole per l’emancipazione femminile.

Di fatto Jack non è un villain, ma un personaggio molto diviso con se stesso e che sente dentro di sè di star veramente facendo la cosa giusta.

Troppo poco (ma non sempre)

Olivia Wilde e Nick Kroll in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Uno dei grandi difetti della pellicola è il poco approfondimento che viene dato a certi aspetti della storia. In particolare viene dato tanto, forse troppo, spazio alla scoperta del mistero da parte di Alice (cosa non per forza negativa) e la rivalsa finale è invece molto più rapida e, di fatto, carente.

Il film lascia troppe domande senza risposta: perché se si muore nel mondo virtuale si muore anche in quello reale? L’areoplano che vede Alice è un bug del sistema? Perché effettivamente la moglie di Frank lo accoltella? E si potrebbe andare avanti…

Al contrario mi sento del tutto di approvare la scelta di un finale aperto, che ci salva da quei noiosissimi finali consolatorio dove il protagonista, una volta che si è salvato, riesce a recuperare la sua vita.

Questo finale è invece proprio quello che serviva per non appesantire la narrazione.

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Do Revenge – L’adolescenza a mille

Do Revenge (2022) è un teen movie recentemente uscito su Netflix, per la regia di Jennifer Kaytin Robinson, che ricordiamo con piacere (?) per essere stata alla sceneggiatura del recente Thor: Love & Thunder (2022). Un film che mi era stato consigliato e che avevo guardato in prima battuta con grande superficialità.

Tuttavia, andando avanti, mi sono resa conto di quanti spunti di riflessione offrisse.

Così l’ho visto una seconda volta.

Di cosa parla Do Revenge?

Drea è una ragazza al penultimo anno di una high school privata e prestigiosa, in cui è entrata grazie ad una borsa di studio. Nonostante faccia parte del gruppo dei ragazzi più popolari (e ricchi) della scuola, la sua vita viene rovinata dalla diffusione di un suo video intimo, probabilmente per mano del suo ex-ragazzo.

Per questo, con la complicità della nuova arrivata, Eleanor, decide di vendicarsi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Do Revenge?

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Non fatevi (del tutto) frenare dal fatto che si tratti di un teen movie e dal fatto che appaia potenzialmente molto trash: è indubbio che faccia parte di quel genere, ma non raggiunge mai picchi di narrazione scadente ed esagerata. Personalmente io sono un’amante del genere, ma mi rendo anche conto che, essendo uscita ormai da un pezzo da quella fase della mia vita, questi film spesso non parlino più la mia lingua.

Tuttavia, questo succede quando un teen movie non ha altro da aggiungere alla trama se non una semplice crescita dei protagonisti, tipicamente con focus sulle dinamiche amorose. In una scala di gravità, mettiamo al punto più alto prodotti come Tutte le volte che ho scritto ti amo (2018), nel mezzo film anche piacevoli come Love, Simon (2018), nel punto più lontano capolavori di genere come Mean Girls (2004).

Poi c’è Do Revenge.

Quando i teen movie sono godibili anche se non sei teen

L’ostacolo che pongono i teen movie solitamente è che non sono pensati solamente per un pubblico di adolescenti, con un linguaggio cinematografico e generazionale che può essere facilmente incomprensibile nel caso in cui si faccia parte di quella generazione.

Quindi sono anche prodotti con una data di scadenza: senza niente togliere a chi sia piaciuto, il già citato Tutte le volte che ho scritto ti amo probabilmente non sarà considerato dalla prossima generazione ed è talmente un prodotto usa-e-getta ancorato al suo genere di appartenenza è difficile che sia apprezzato al di fuori del target di riferimento.

Al contrario abbiamo prodotti come Mean Girl per gli Anni Duemila e Clueless (1995) per gli Anni Novanta che sono dei cult intramontabili, assolutamente apprezzabili anche oggi.

Perchè sono prodotti non del tutto legati al loro genere, che riescono a raccontare dinamiche intergenerazionali, e a mischiarsi con altri generi cinematografici. Come Mean Girl aveva un taglio surreale e quasi grottesco, Clueless è una brillante riproposizione del romanzo Emma di Jane Austen.

Do Revenge, senza poter raggiungere quelle vette, riesce comunque a raccontare tematiche profonde e anche impegnative, come la difficoltà del coming out, il classismo, il sessismo sotterraneo, e via dicendo. Questo, riuscendo anche a incontrarsi quasi con il genere thriller.

Un film che non manca di ingenuità, ma che vale la pena di recuperare.

Anche se non vi piacciono i teen movie.

Un uomo, un harem

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

La parte forse più interessante della pellicola è il villain maschile, ovvero Max.

Max è una sorta di Regina George, che però ha il grande merito di raccontare il nuovo gusto estetico di questa generazione. Si può notare infatti come abbia un abbigliamento vagamente queer: gli orecchini, lo smalto alle unghie, le camicie ampie che lasciano scoperto il petto glabro.

Un tipo di estetica che è nata recentemente intorno a personaggi come Harry Styles e Timothée Chalamet, che raccontano un maschile che riesce finalmente a liberarsi di opprimenti stereotipi sociali. E che si sente di sperimentare con abbigliamenti stereotipicamente attribuiti all’altro sesso.

Senza che per questo sia additato come meno maschile, appunto.

Il sessimo in Do Revenge

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Oltre a questo, Max è un villain davvero interessante perchè racconta una dinamica drammaticamente reale, ovvero quella di un’uomo che, avendone le possibilità, si attornia di donne che utilizza come oggetti, unicamente per accrescere il suo ego.

E la rivelazione finale è significativa in questo senso: Max ha rovinato con odio e cattiveria la vita di Drea semplicemente perchè lei non era stata evidentemente grata nei suoi confronti per averla resa importante.

Si vede che c’è anche una dinamica simile per esempio con Tara, l’ex migliore amica della protagonista, il cui padre è aiutato da Max nella sua carriera al senato. E la stessa, nonostante si senta in colpa per aver escluso Drea, supporta continuamente Max, anche quando si dimostra un evidente traditore.

La difficoltà di raccontare personaggi queer

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il personaggio di Nora è interessante quanto problematico.

Da una parte è lodevole veder raccontare, in un prodotto comunque pensato per un target molto giovane, la difficoltà del coming out per un adolescente queer e l’omofobia sotterranea che deve sopportare. La storia di Nora è particolarmente drammatica: era riuscita a dichiararsi alla sua ragazza dei sogni, di cui era evidentemente innamorata, ed è stata non solo respinta, ma sotterrata da un pesantissimo pettegolezzo.

Questo aveva fra l’altro fatto ritornare la sua fidanzata, Carissa, nello stanzino, ovvero rendendola incapace di vivere serenamente la sua sessualità. E così Nora si incattivita, si è chiusa in se stessa, sentendosi (ed essendo effettivamente percepita) come un’intoccabile, arrivando pure a sottoporsi alla chirurgia estetica in giovanissima età.

Ed è ancora più insicura per l’omofobia sotterranea che serpeggia nel suo ambiente sociale, già solamente per come Drea definisce Carissa, abbastanza con disprezzo ed etichettandola come

That crunchy granola lesbian

Quella lesbica hippie

Gli stereotipi di Do Revenge

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il problema tuttavia rimane per come Nora e gli altri personaggi femminili queer vengono rappresentati, ovvero come diversi dagli altri, o trasandati (come Nora prima del makeover) oppure associati ad una estetica da tomboy. Una rappresentazione che ho idea che non sia stata fatta con malizia, ma con sincera ingenuità, ma che è comunque un grave errore all’interno di un prodotto con questi propositi.

Il problema del classismo

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un altro macrotema della pellicola è il classismo che strozza la società americana.

Nella società statunitense è veramente difficile emergere se non si hanno i soldi per farlo, anzi è un paese con una mobilità sociale piuttosto bassa. Per questo Drea si prende sulle spalle l’impegno di sopravvivere l’ultimo anno in un contesto che è diventato per lei l’inferno, perchè è l’unico modo in cui può entrare in una università importante e così costruirsi una vita migliore.

Perchè lei, provenendo da una famiglia non abbiente, non riesce ad entrare così facilmente come le sue amiche che, grazie ai soldi e alla loro posizione sociale, corrono in una corsia prioritaria.

Svelare l’ipocrisia

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Ad oggi le maggiori aziende non cercano più di convincerti sulla qualità del prodotto, ma sui valori dell’azienda stessa. Così funziona per certi versi anche col personal brand, elemento centrale del personaggio di Max.

Un ragazzo che è in realtà incredibilmente egocentrico, sessista e che usa ed oggettifica le donne, ma che vuole vendersi come invece progressista. Così per l’improbabile club dei CIS Hetero Man Championship Female Idenfying Student League (non significa fondamentalmente nulla), con l’idea di portare un San Valentino più inclusivo e scardinare l’idea delle relazioni monogame.

Concetti che sono di per sè anche giusti, ma che vengono dalla bocca di una persona che è appunto a parole in un modo, ma che nella realtà (come si vede alla fine) non ha alcun rispetto per le donne nè crede in nessuno di questi concetti che propone.

L’elemento thriller

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un elemento davvero gustoso della pellicola è il taglio thriller sul finale.

La rivelazione di per sè non annulla la costruzione del personaggio di Nora, che comunque rimane una ragazza con tante difficoltà nel trovarsi le giuste amicizie e a relazionarsi con gli altri. Cosa che fra l’altro la rende così violenta e macchinatrice, come si era mostrata fin dall’inizio.

Ed è esilarante la scena in cui aspetta Drea a casa come se fosse proprio un serial killer che aspetta la sua vittima, scena fra l’altro che è stata retta benissimo sulle spalle di Maya Hawke: in mano ad un’altra interprete meno capace, la stessa sequenza sarebbe risultata inevitabilmente ridicola.

Tuttavia, andando a portare questo elemento così forte come plot-twist, si rende leggermente meno credibile la riconciliazione finale fra le protagoniste, che sono di fatto ridimensionate nella loro cattiveria perchè riescono a confrontarsi e perchè si mettono contro con un personaggio indubbiamente negativo e per nulla pentito delle sue azioni.

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Io e Annie – Una lettera amara

Io e Annie (1977) di Woody Allen rappresentò il momento in cui artisticamente il regista divenne quello che conosciamo oggi, autore di commedie con un’ironia frizzante ma anche amara, e trame sempre più consolidate.

Questa pellicola si potrebbe definire superficialmente una commedia romantica, ma in realtà è molto più di quello. È una lettera d’amore molto amara a un amore appena sbocciato.

E che non durò per molto.

Il film fu anche il primo incasso sostanzioso della carriera di Allen: davanti ad un budget di 4 milioni, incassò ben 38,3 milioni di dollari.

Di cosa parla Io e Annie?

Alvy e Annie si sono appena lasciati, e si ripercorre, con diverse intersezioni e flashback, la nascita e la fine del loro amore.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Io e Annie?

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Assolutamente sì.

Io e Annie è una di quelle pellicole che personalmente non mi ha preso del tutto sulle prime, ma che poi mi ha fatto quasi involontariamente affezionare ai protagonisti e alla loro relazione, così difettosa e al contempo davvero divertente.

Non fatevi frenare dall’idea che sia una commedia romantica, perché non utilizza neanche una delle dinamiche tipiche del genere. Vuole anzi in tutto e per tutto essere un racconto credibile e sentito, una storia vera in cui è facile riconoscersi.

Un film da vedere quasi come prologo prima di arrivare a Manhattan

Raccontare una storia

Woody Allen in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Scelta curiosa, ma anche intelligente, quella di cominciare la storia con la sua fine, raccontando già da subito di come la relazione si sia conclusa.

E poi partire con un racconto davvero tenero e appassionante di come la relazione è sbocciata nella maniera più ingenua possibile, per poi mostrare tutti i momenti di rottura e di difficoltà nel farla funzionare.

E anche con tante contraddizioni che li portano ad allontanarsi temporaneamente, per fortuna evitando quella classica dinamica per cui la donna amata appaia perfetta a discapito delle altre donne imperfette.

Infatti, il riavvicinamento avviene per colpa di Annie, che cerca una qualsiasi scusa per riallacciare i rapporti e portare all’ultimo periodo insieme.

Un finale dolce e amaro

Woody Allen in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

La bellezza di Io e Annie è anche e soprattutto il finale, in cui ammetto che mi sono sinceramente commossa, nonostante me lo aspettassi. Forse non tanto perché tutto sommato mi ero affezionata alla coppia protagonista, ma perché è un boccone amaro e malinconico.

Non vi è la volontà di raccontare un finale consolatorio o speranzoso, ma di due persone che semplicemente decidono di non far più parte della vita dell’altro. Con una carrellata finale dei momenti più significativi della loro storia, che fa scendere l’inevitabile lacrima sul finale…

La maturazione artistica di Diane Keaton

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Ammetto che non ho mai seguito più di tanto la carriera di Diane Keaton, ma questo è il secondo film in cui mi ha davvero sorpreso.

Se in Il dormiglione (1973) era principalmente esuberante, anche se piacevolissima, in Io e Annie mostra di essere un’attrice già in parte arrivata, con una recitazione ben calibrata e dosata.

Il suo personaggio non è infatti per nulla semplice e scontato, ma definito da più tratti: la sua ingenuità all’inizio, la sfrontatezza con cui guida, il suo rapporto col sesso…e si potrebbe andare avanti. In questa pellicola Keaton si è veramente sbizzarrita, ma senza mai andare all’eccesso sul lato comico.

I camei che non ti aspetti

In questa pellicola ci sono due camei davvero inaspettati, proprio come era stato per Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971)

Il fratello di Annie è interpretato da niente poco di meno dell’immenso Christopher Walken, al tempo appena trentenne, a pochi anni di distanza dalla vittoria agli Oscar per Il cacciatore (1979). In questo caso la sua gag piuttosto dark, per quanto sia breve, l’ho piuttosto apprezzata e mi ha strappato una sincera risata.

Molto più rapido il cameo di Jeff Goldblum, che appare in una piccolissima scena in cui risponde al telefono. Goldblum al tempo era anche più giovane: appena vent’anni sulle spalle e da pochi anni attivo sulle scene, ancora lontano dal grande successo di Jurassic Park (1996).

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Bullet train – Perché gli action movie sono noiosi?

Bullet train (2022) di David Leitch è un action movie uscito recentemente in sala. O, meglio, uno dei migliori action movie che potreste vedere negli ultimi tempi. Non è un caso che alla regia ci sia l’autore di due dei migliori film d’azione degli ultimi anni: John Wick (2014) e Atomica Bionda (2017). E, per non farsi mancare nulla, è stato anche regista di Deadpool 2 (2018).

E si vede.

Ad oggi ha incassato 213 milioni in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90: rientrati pienamente nel budget, anche se meritava di più.

Di cosa parla Bullet train?

La trama ruota intorno a diversi personaggi, accomunati dall’essere invischiati con i peggiori boss del crimine al mondo. Fra colpi di scena e voltafaccia, come sempre nulla è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché guardare Bullet train?

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Bullet train è un film da vedere per vari motivi, anzitutto per il fatto che prende i maggiori problemi degli action movie e li supera egregiamente. Quindi ve lo consiglio particolarmente se non vi piace particolarmente il genere.

La pellicola è incredibilmente divertente e intrattenente, costruendo anche un piccolo ma avvincente mistero che serpeggia per tutta la sua durata. Una bella sorpresa, per un autore di valore, che vale assolutamente la pena di recuperare.

Perchè gli action movie sono noiosi

Non me ne vogliano gli appassionati del genere: se non vi piace semplicemente (e anche giustamente) vedere la gente menarsi con grandi frasi ad effetto, è facile che vedendo molti action movie, soprattutto quelli poco ispirati, vi annoierete a morte.

Un film come The Gray Man, per capirci.

I due più importanti problemi degli action movie puri sono la mancanza di originalità (e chiarezza) nelle scene di azione e il prendersi incredibilmente sul serio.

E Bullet train supera entrambi questi problemi.

Anzitutto, come ci si potrebbe facilmente aspettare da questo regista, le scene di azione non solo sono piuttosto originali, ma spesso anche divertenti e, soprattutto, dirette con una regia dinamica, frizzante e chiarissima.

Inoltre, il film scherza spesso con se stesso e con gli stereotipi del genere a cui appartiene, non prendendosi mai veramente sul serio, ma riuscendo ad ironizzare su tutto, alleggerendo la situazione nei momenti giusti.

Mettere insieme i pezzi

Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Una colonna portante di Bullet train, nonché uno degli aspetti che gli impedisce di essere un pallido film action, è la sua componente mistery. Un elemento che non è affrontato dai personaggi come se dovessero effettivamente investigare la questione, andando anzi a tentoni e mettendo insieme i pezzi quasi casualmente.

Infatti chi deve mettere insieme gli indizi, anche prima dei personaggi stessi, è lo spettatore stesso, cui viene fornita una pista visiva inequivocabile. Così come il figlio di Morte Bianca è morto piangendo sangue, così anche tutti gli invitati al matrimonio di Wolf muoiono nella stessa maniera.

E qui il film dà la prima finta soluzione: il cameriere che urta Wolf al matrimonio e che di fatto gli impedisce di bere il vino è Ladybug. Ma, differentemente da quello che si pensa, non l’ha fatto appositamente. E, soprattutto, il veleno non era nel vino che Wolf non ha bevuto, ma nella torta che Hornet aveva preparato.

Tutti i pezzi vanno al loro posto quando si racconta la fuga del serpente e poi l’introduzione di Honert, che chiude il cerchio.

Creare un universo di ironia

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Quando si scrive un film comico, o quando comunque si vuole inserire una linea comica all’interno di un prodotto, la strategia migliore è quella di farlo affezionare alla comicità del film.

Nel caso di Bullet train con pochi tocchi e scelte indovinate si è riuscito a creare un universo di ironia perfettamente funzionante.

Già l’immagine di Lemon, un uomo adulto che giudica le persone tramite un cartone per bambini, anche portandosi dietro gli stickers della serie, è esilarante. Ma questo elemento viene ancora più intelligentemente sviluppato in due direzioni.

Da una parte le battute comiche, che incredibilmente non smettono mai di far ridere. Dall’altra, con un effetto anche drammatico e funzionale alla storia: sul treno sono tutti dei Diesel, perché bluffano.

E ha anche una funzione nella trama: Lemon lascia lo sticker di Diesel su Prince per far capire all’amico che non è una persona di cui fidarsi. E, nel piccolo monologo dopo la sua morte, gli dice che lui era come Thomas.

Personaggi mai banali

Brad Pitt e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Complessivamente i personaggi del film sono tutti a loro modo interessanti, mai banali e con la loro unicità. Infatti, a differenza di altri film di questo genere in cui i personaggi sono solo figurine sullo sfondo, ognuno ha i suoi tratti caratteristici. Tangerine è iroso e impulsivo, Lemon è un uomo semplice ma anche spietato, LadyBug è la linea comica ed un uomo ossessionato dalla sua crescita personale.

E così via.

La sceneggiatura riesce insomma a mettere in scena un piccolo universo di personaggi che riescono perfettamente ad incastrarsi fra loro in maniera mai banale e scontata, ma in continuo cambiamento e in maniera sempre interessante.

Con splendide eccezioni…

I pochi difetti?

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

I pochi difetti del film si concentrano tutti intorno ai momenti in cui si prende sul serio. In particolare, riguardo ai personaggi di Morte Bianca e The Prince. La figlia di Morte Bianca non è di per sé un personaggio poco interessante, ma alla lunga l’ho trovata leggermente ridondante nei suoi comportamenti. E ha una fine non soddisfacente, ma distrutta dall’elemento comico: per quanto abbia riso quando Lemon la investe per vendicarsi della morte del fratello, mi aspettavo una conclusione più interessante.

Ancora meno convincente ho trovato Morte Bianca, che è un personaggio fortemente costruito all’interno del film, arrivando ad un reveal finale che ho trovato complessivamente poco soddisfacente. Il suo personaggio mi è parso troppo stereotipato e poco tridimensionale per l’importanza che gli era stata data nel film.

Insomma, tutti i momenti in cui il film è troppo attaccato al suo genere mi è piaciuto di meno.

Pochi tocchi di David Leitch

Zazie Beetz in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

In questo film troviamo diversi elementi quasi tipici di questo regista: eredita anzitutto da Deadpool 2 il cameo di Ryan Reynolds, nonchè l’attrice di Hornet, Zazie Beetz, che in Deadpool 2 intepretava Domino, la ragazza fortunata.

Dallo stesso film conferma il suo gusto nell’inserire cameo di attori famosi: come nel cinecomic aveva messo Tom Cruise, qui vediamo anche Channing Tatum e il già citato Ryan Reynolds.

Ovviamente poi conferma la sua capacità di raccontare scene d’azione in maniera appassionante e mai banale, fra l’altro ancora con la splendida scelta di sparatoria dalle macchine come in John Wick.

Cosa succede in Bullet train?

Se non siete sicuri di aver compreso tutta la trama di Bullet Train, ecco una spiegazione per voi.

La trama prende le mosse dal piano di Morte Bianca, che ha portato a bordo del treno le diverse persone che considerava come colpevoli della morte della moglie. Anzitutto Lemon e Tangerine, che dovevano salvare il figlio, che sono gli stessi autori della strage in Bolivia degli uomini del boss, che ha dovuto andare a gestire la situazione e quindi non essere sulla macchina in cui c’era la moglie.

Al contempo la moglie è morta perchè l’unico chirurgo che doveva salvarla era stato avvelenato da Hornet, che quindi Morte Bianca ha ingaggiato per uccidere il figlio, promettendogli i soldi della cauzione per il rapimento dello stesso. E l’omicidio del figlio era voluto perchè la sua ulteriore bravata era stato il motivo per cui la moglie era sulla macchina in cui poi è stato uccisa. Infine LadyBug era sul treno al posto di Carver, che era l’autore della morte della donna.

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

The Prince non fa parte del piano di Morte Bianca, ma aveva un piano tutto suo: ha attirato il figlio di Yuichi sul tetto di un centro commerciale per spingerlo giù e poi rivelare al padre che era stata lei a mandarlo in ospedale, riuscendo così ad attirarlo sul treno.

Infatti Yuichi gli serve per uccidere Morte Bianca: l’uomo avrebbe dovuto cercare di uccidere il boss, con un tentativo che sarebbe ovviamente andato a vuoto come tutti i precedenti, e a quel punto Morte Bianca l’avrebbe ucciso, come sua abitudine, tramite la stessa arma dell’attentato. E quell’arma conteneva un meccanismo per cui, premendo il grilletto, scoppiava in faccia al malcapitato.

La valigetta con il meccanismo analogo serviva come piano di riserva per lo stesso fine.

Il bullet train esiste veramente?

Sì, il bullet train esiste veramente.

Inoltre, come viene mostrato nel film, in Giappone vi è una rete di treni ad alta velocità che collega le maggiori città. La velocità si aggira sui 320 km/h: per fare un paragone, un nostro Frecciarossa può raggiungere i 400 km/h.

Però no, in cinquant’anni di servizio, non vi è stato un solo incidente a bordo di questi treni.

E alla fine arriva Sandra Bullock a rovinarmi il film. E vabbè.

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Cinema d'autunno Drammatico Film Racconto di formazione Recult

Will Hunting – Tutta una vita davanti

Will Hunting (1997) di Gus Van Sant è uno dei film con una delle produzioni più ambiziose e sentite degli ultimi trent’anni: scritto e ideato dalla coppia Ben Affleck e Matt Damon, al tempo giovanissimi.

Diretto da un autore come Gus Van Sant – lo stesso che ha diretto film incredibili come Milk (2008) e che è riuscito ad avere l’idea allucinata di proporre un remake shot-by-shot di Psycho (1960). E, infine, la partecipazione di un attore così incredibile e iconico come Robin Williams.

Cosa poteva uscire da un progetto del genere?

Un film amatissimo e iconico: con solo 10 milioni di budget, incassò la bellezza di 225 milioni in tutto il mondo e vinse l’Oscar per la Migliore sceneggiatura.

Di cosa parla Will Hunting?

Will Hunting è un ragazzo di poco più di vent’anni, un genio capace di risolvere i più complessi problemi matematici, oltre che recitare a memoria libri interi. Ma al contempo è anche un ragazzo difficile, che vive per strada e che non è capace di prendere il volo e sfruttare la sua genialità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Will Hunting è un film imperdibile

Matt Damon in una scena di Will Hunting (2017) di Gus Von Sant

Will Hunting è un film capace di raccontare una generazione, nonché il tema degrado e il vivere per strada, senza banalizzare i personaggi come cattivi o una generazione perduta, elemento per nulla scontato per prodotti di questo genere.

Ed è un film imperdibile anche solo per vedere i primi passi che muovevano sia Matt Damon, l’attore prodigio, sia un inedito Ben Affleck nel ruolo del bad boy. E ovviamente Robin Williams in uno dei ruoli più profondi e memorabili della sua carriera.

Il tutto all’interno di una storia profonda ed emozionante, che coinvolge e appassiona fin dalla prima scena.

Will Hunting: la genialità perduta

Will è un ragazzo perduto, che si nasconde dietro alla sua genialità e alla corazza strafottente per mascherare tutte le sue insicurezze interiori, che lo rendono incapace di avere delle relazioni vere e durature. Lo si vede molto bene nel suo rapporto con Skylar, con cui non è capace di fare il passo finale.

Un ragazzo indurito da una vita difficile, che si limita da solo, andandosi ad invischiare in crimini di strada e buttando via il suo talento. E, per la maggior parte del film si comporta come uno spaccone, andando a vanificare tutti gli sforzi che il professore fa per lui, opponendosi testardamente all’idea di cambiare vita.

Insomma, Will dà sempre il peggio di sé.

Solo Sean riesce a prenderlo nella maniera giusta, perché è l’unico capace di ridimensionarlo e, alla fine, rompere la facciata e fargli capire la sua vera potenzialità, liberandolo della paura che ha vissuto per tutta la vita.

Sean: il maestro di vita

Come detto, Sean è l’unico che riesce a rompere la facciata di Will, ma è anzitutto quello che riesce a porre dei limiti alla sua avventatezza.

In particolare, nella prima seduta non ha problemi a mettergli le mani al collo quando osa dire qualcosa sulla moglie morta, scendendo proprio al livello di Will.

E ancora più potente è il monologo che segue il loro secondo incontro, quando Sean ridimensiona del tutto la persona di Will, creata artificialmente solamente tramite i libri, mancando totalmente di esperienza di vita effettiva.

Sean non forza mai Will, e non ha intenzione di farlo, nonostante quanto sia spinto dal professore. E infatti alla fine Will riesce a trovare sé stesso, ad uscire dal suo guscio perché è spinto gentilmente e coi giusti tempi in quella direzione.

E alla fine, come riesce a far capire a Will che può prendere il volo senza sentirsi in colpa, così anche lui capisce che non è mai troppo tardi per riprendere in mano la propria vita.

Chuckie: non essere banali

Chuckie è il personaggio su cui il film poteva essere il più banale possibile, e dove invece ci ha regalato un ottimo personaggio secondario. La pellicola fino alla fine fa sembrare che lui e il gruppo di amici siano quasi contro questa genialità di Will.

E ci si aspetterebbe che proprio Chuckie avrebbe ostacolato la scelta di Will di lasciare finalmente il nido. E invece è lo stesso che dà all’amico la spinta definitiva, che gli fa infine prendere la giusta decisione.

Una scena che ci offre una lezione semplice ma non meno importante sull’amicizia:

La cosa migliore che possiamo fare per le persone a cui teniamo è incoraggiarle ad ottenere il meglio dalla loro vita, anche se questo significherà allontanarle da noi.

Cosa ci insegna Will Hunting ancora oggi

Matt Damon in una scena di Will Hunting (2017) di Gus Von Sant

Will Hunting ci insegna a non avere paura.

A conoscerci, a non avere vergogna delle nostre capacità, di non farci ingoiare dalle nostre insicurezze per non avere il coraggio di prendere il volo. Spesso tendiamo a rannicchiarci nella nostra tranquilla e confortante quotidianità, non riuscendo a metterci alla prova con nuove sfide, che potenzialmente potranno migliorarci.

E, soprattutto, ci insegna che non è mai troppo tardi per rimettersi in gioco.