The Wonder (2022) è un film Netflix del regista cileno Sebastián Lelio, il primo a vincere l’Oscar al miglior film straniero nel 2017 per Una donna fantastica.
Non un novellino, insomma.
Quindi ancora una volta vediamo il lato più positivo di Netflix, che investe (anche in pubblicità) su autori meno noti e che in sala purtroppo non avrebbero lo stesso riscontro che in streaming, sopratutto in questo periodo…
Di cosa parla The Wonder?
1862, Irlanda. Elizabeth è una giovane infermiera vedova che viene chiamata ad essere testimone di un miracolo…
Non vi consiglio di guardare il trailer, ma ve lo lascio comunque qui:
Vale la pena di vedere The Wonder?
Sì, ma con un grosso avvertimento.
In questo caso è quanto mai dovuto un trigger alert: per quanto non ci sia niente di esplicito, si parla di violenza su bambini, in momenti che mi hanno profondamente angosciato.
Non è infatti un film leggero, anzi ha un ritmo molto lento e compassato, nonostante la durata contenuta. Se vi piacciono i film dal taglio mistery e profondamente psicologico, guardatelo.
Ma, come detto, vi sconsiglio di guardare il trailer: per come è raccontato, sembra uno di quei prodotti del sottogenere horror delle possessioni che hanno intestato (e infestano ancora) il nostro cinema.
E non potrebbe essere più lontano da quel tipo di film.
Quando Dio è vicino
Per quanto la rappresentazione della religiosità del film sembri molto lontana da noi, era una mentalità del tutto normale fino a non molto tempo fa. Anche nel nostro paese.
Una religiosità popolare, per cui Dio è vicino ed è ovunque e per cui, come si dice nello stesso film, chiunque può essere scelto come santo e martire. E non a caso, i protagonisti della prima tradizione martiriale erano molto spesso personaggi di umilissime origini, che però avevano mostrato una fede particolarmente sentita.
Ed è proprio questo il punto del film.
Il valore della penitenza
In quel contesto la fede era particolarmente sentita in realtà molto povere e umili. Con un aldilà visto anche come un premio, un traguardo da raggiungere dopo una vita di stenti.
Ma era anche una religiosità molto materiale: fare tanto con il poco che si poteva, solitamente penitenza quindi fisiche, legate al cibo o al sesso. In particolare una penitenza per sciogliere o alleviare i dolori dei purganti o, in questo caso, liberare un dannato dalle fiamme dell’Inferno.
E così la piccola Anna si prende sulle sue fragili spalle l’assoluzione del fratello davanti al terrificante incubo dell’aldilà infernale. E per una colpa che è stata fatta contro lei stessa…
Raccontare la morte
Per quanto si veda, tutto sommato, di come questo film sia stato fatto con un budget abbastanza contenuto, la messinscena è davvero affascinante.
Una fotografia molto spenta, quasi gotica, che racconta un paesaggio brullo e desolante, dove solamente la luce di un miracolo può portare sollievo. Persino quando quel miracolo diventa morte e malattia, nel racconto così sentito e vicino di una bambina priva di forze per mancanza di cibo. La stessa bambina che all’inizio, anche per l’essere venerata come una santa, sembrava florida e in salute…
Un aggancio emotivo semplice, ma che ho fortemente sentito.
L’importanza del martirio
I martiri sono dei simboli.
Per una persona di fede sono di fatto dei modelli da cercare il più possibile di seguire, che sopportano le peggiori torture e disgrazie grazie alla forza della loro fede, venendo anche ovviamente premiati.
In questo caso non si tratta strettamente di un martirio, ma di un miracolo, che si trasforma inevitabilmente in un martirio. Ed è davvero agghiacciante come la comunità intorno ad Anna la porti a fare un sacrificio, che in un certo senso è a beneficio di tutti.
Perché in qualche modo, come lei può raggiungere la beatitudine, gli altri possono vivere della sua luce e avere Dio ancora più vicino…
Terminator 2 (1991) è il secondo capitolo della duologia omonima diretta da James Cameron, poi proseguita da diversi sequel dalle sorti alterne.
Arrivato a quasi dieci anni dal primo capitolo, fu un sequel di incredibile successo, considerato dagli appassionati anche migliore dell’iconico primo capitolo.
Sono passati diversi anni dal primo capitolo e Sarah Connor è rinchiusa in un centro di igiene mentale, mentre suo figlio, l’ancora giovanissimo John Connor, è il nuovo bersaglio di un viaggiatore del futuro...
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Terminator 2?
Banalmente, sì.
Come avevo detto nella recensione del precedente capitolo, non ero stata così tanto colpita a livello intrattenitivo, nonostante riconoscessi l’ottimo livello tecnico e registico. Per questo film sono stata molto sul chi va là per paura che seguisse la medesima struttura narrativa del primo, che a mio parere era davvero debole.
E invece sono stata parzialmente sorpresa.
Terminator 2 mi ha permesso parzialmente di superare il mio disinteresse intrinseco per i film action, soprattutto perché la pellicola non può essere appiattita solo su questo (come neanche del tutto la precedente, in realtà). Di fatto, è un prodotto che, a otto anni di distanza, riprende in mano i fili narrativi, riesce ad innovarsi e a portare novità, rimanendo comunque fedele a sé stessa.
Se vi è piaciuto Terminator, guardatelo sicuramente.
Se non vi è piaciuto, vale la pena dargli un’altra possibilità con questo film.
Is this struttura narrativa?
Durante il primo film avevo trovato quasi estenuante la struttura narrativa.
Un infinito inseguimento che sembrava insolvibile, e che poi si risolveva sempre in maniera estenuante nelle sue dinamiche, con la punta di diamante che era ovviamente il Terminator di Arnold Schwarzenegger. E per questo ero molto dubbiosa su questo film.
Invece sono rimasta abbastanza soddisfatta.
Per quanto la parte action e degli inseguimenti sia una grossa fetta del film, non definisce tutto l’andamento narrativo, che invece prosegue a tappe con una serie di obbiettivi piuttosto interessanti e avvincenti. Un deciso miglioramento, che ha reso la narrazione più ampia e interessante.
E non è l’unico passo avanti.
Finalmente, Sarah Connor
Sarah Connor era un elemento piuttosto debole della prima pellicola. E per più motivi.
Anzitutto perché era un personaggio totalmente vittima degli eventi, la quale, tranne nell’ultimissimo momento, non agiva mai attivamente in scena. Invece in questo sequel il suo personaggio migliora da ogni punto di vista.
Oltre a diventare un personaggio incredibilmente attivo, ha una profondità narrativa e emotiva mille volte più interessante, che mi ha personalmente anche molto coinvolto. Oltre a questo, riesce finalmente ad essere una protagonista femminile di un film action che non è la vittima da salvare, ma anzi una donna forte e determinata che si allena per sconfiggere il nemico.
E io dico, finalmente vedo veramente la Sarah Connor che mi era stata promessa.
Un aggancio efficace
Un’ottima scelta della pellicola è stata l’introduzione di John Connor in versione adolescente.
In questo modo si è riusciti, a otto anni di distanza, a riagganciare i fan del primo film e a coinvolgere nuovissimi fan che vedevano sullo schermo come protagonista un ragazzino non tanto diverso da loro, destinato a diventare un eroe.
Oltre a questo, John Connor porta una comicità piuttosto simpatica e piacevole, che ammorbidisce i toni del film, oltre ad arricchire la pellicola di un taglio da buddy movie che non ho potuto fare a meno di apprezzare.
La meraviglia degli effetti speciali
Senza stare troppo a parlare di quanto sia fantastica la fotografia e la regia in generale di questa pellicola, sono rimasta senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali.
Tutti gli effetti legati a T-1000 in particolare sono qualcosa da far girare la testa: non riescono praticamente mai a deludere e sembrano così veri in scena, oltre ad essere incredibilmente creativi.
E stiamo parlando del 1991.
Unica piccola pecca è stata la sequenza in cui T-1000 muore, dove, come era anche per certe sequenze della prima pellicola, sembra molto bidimensionale e poco credibile. Ma è davvero una piccolezza all’interno di un comparto tecnico di prima categoria.
Un Terminator di troppo
Ma T-1000 è anche il punto debole della pellicola.
La sua presenza l’ho trovata veramente accessoria, tanto che l’inseguimento finale, che riprende le mosse dal primo capitolo, è la parte meno interessante dell’intero prodotto.
E il grande problema è che il povero Robert Patrick, che poi si è rifatto anche recentemente in serie come Peacemaker, non ha un’unghia dell’iconicità di Arnold Schwarzenegger.
E mi è sembrato davvero un elemento che dovevano inserire per far quadrare la storia e farla quantomeno assomigliare al film precedente, ma che in realtà diventa quasi un elemento sotterraneo della narrazione, che corre parallelamente al resto degli eventi.
Cameron, non ti capisco
So già cosa risponderanno gli appassionati di Cameron al mio dubbio, ma ci tengo comunque a prendermi questo piccolo spazio per parlarne.
Cameron aveva fra le mani una trama potenzialmente interessantissima come quella del futuro distopico di Skynet, che mostra brevemente solo in alcuni momenti delle pellicole da lui dirette. Poi, altri registi meno capaci hanno preso in mano la saga e fatto quello che probabilmente il pubblico si aspettava.
E invece James Cameron ha deciso di non incastrarsi in questa saga, ma di mettere un punto alla questione in maniera definitiva. E, per la sua carriera, a posteriori è stata indubbiamente la scelta migliore.
Ma è una scelta che comunque non riesco a capire del tutto…
Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re (2003) è il terzo e ultimo capitolo della trilogia diretta da Peter Jackson tratta dall’opera di Tolkien.
Un ultimo episodio che doveva reggere sulle spalle una conclusione epica di un racconto complesso e pregno di significati. E ovviamente la conclusione dell’avventura è incredibile, anche se…
Sam e Frodo vengono condotti in quello che sembra essere l‘unica via per raggiungere il Monte Fato, ma anche quella più ingannevole…
Nel frattempo, Aragorn e Gandalf devono gestire la complessa situazione politica e militare che ancora furoreggia.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Il ritorno del Re?
Ovviamente sì.
Se state guardando, soprattutto se per la prima volta, la trilogia di Peter Jackson non potete perdervi l’epico (e lo è davvero!) finale della saga. Come sempre rimarrete probabilmente senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali, della regia dinamica, della profondità narrativa di questa pellicola.
Incredibile come un film basato su un’opera così complessa abbia creato una saga così incredibile, che non ha perso praticamente mai un colpo, ma ha proseguito di gran carriera verso un incredibile finale, fra l’altro con tempi anche piuttosto stretti.
Uno di quei prodotti che non si può mancare di vedere almeno una volta nella vita, insomma.
L’aspetto battagliero
La parte militare è la parte che ho trovato personalmente meno interessante del film a livello intrattenitivo.
Per diversi motivi, fra cui il fatto che è in generale la parte che meno mi interessa dei film in toto, ma anche perché, diversamente dallo scorso capitolo, non vi è quasi nessuna costruzione narrativa oltre alla battaglia, ma è lo scontro il punto stesso del discorso.
Con tutto che le scene di battaglie sono dirette magistralmente, il lato tecnico è al limite della perfezione, e pieno di colpi di scena di grande interesse ed efficacia.
Ma c’è un grosso ma…
Lode all’odio (di nuovo) ne Il ritorno del re
Come avevo già raccontato per lo scorso capitolo, non riesco veramente a sopportare il personaggio di Eowyn.
E ne Il ritorno del Re ho trovato incredibilmente forzato darle tutta quella importanza nella storia, quando il suo ruolo era assolutamente accessorio. E, soprattutto, è assolutamente poco credibile che, in una società così profondamente medievale, una donna sia in primo luogo capace di combattere.
Perché Eowyn non mena colpi a casaccio, ma riesce anzi ad evitare le botte di un personaggio come Angmar e a sconfiggerlo con veramente troppa facilità. E con la battuta più agghiacciante dell’intero film.
Ma capisco le necessità produttive.
Fine delle cose che non mi piacciono di questa pellicola.
Il peso dell’anello
Direi che non mi aspettavo niente di meno dalla conclusione della storyline di Frodo.
Il nostro protagonista è ormai avvelenato dal potere dell’anello, e viene ancora di più deviato dalle maligne bugie di Gollum. Così, per gelosia dell’anello, si rivolta contro il suo amico. Ma questa ovviamente è la scelta peggiore: appena si lascia alle spalle Sam, viene subito punito dagli eventi.
A dimostrazione ancora una volta che questa avventura sarebbe stata impossibile per Frodo senza Sam al suo fianco…
Il ruolo di Sam
Pellicola dopo pellicola, sono rimasta sempre più colpita da quanto sia fondamentale la figura di Sam e di come, di fondo, quest’opera sia un grande inno all’amicizia. Davanti ad una situazione disperata come quella della scalata del Monte Fato, davanti a Frodo distrutto dal viaggio, Sam fa l’impensabile: lo prende sulle spalle e scala il Monte.
E la fa soprattutto perché vuole che Frodo si liberi di questo fardello, che è quantomai evidente che lo stia distruggendo…
E questo, fra l’altro, dopo averlo salvato da morte certa.
Il fallimento di Frodo
Mi ha personalmente sorpreso il risvolto che ha avuto la storia di Frodo.
Per quanto fosse evidente come la corruzione dell’anello l’avesse conquistato, mi aspettavo in ultimo un momento di ripensamento e redenzione. Invece Frodo si lascia del tutto conquistare dall’anello, rifiutandosi di distruggerlo, con l’intenzione di tenerlo per sé, come avrebbe fatto se Gollum non glielo avesse strappato così violentemente.
E solo davanti alla scelta estrema, fra morire per cercare inutilmente di recuperare l’Anello come Gollum, e tornare fra le braccia dell’amico, solo allora sceglie effettivamente di tornare in sé. Ma senza quella redenzione netta che mi sarei aspettata da un eroe di questo tipo.
Tuttavia, questo elemento, oltre ad essere originale e interessante, è quantomai fondamentale per il finale…
Perché Frodo parte per Valinor?
Ammetto che sulle prime non avevo ben compreso il finale.
Tuttavia, dopo essermi adeguatamente informata anche tramite un caro amico tolkeniano (che ringrazio), tutto ha avuto senso.
I motivi per cui Frodo lascia la Contea sono differenti. Il motivo più pratico, che non viene esplicitato in maniera così netta nel film, è trovare la cura per la malattia e per il dolore dato dalla puntura di Shelob.
Ma, più profondamente, Frodo è stato per sempre segnato dall’esperienza che ha avuto con l’Anello, anche perché lui stesso è consapevole di essersi alla fine lasciato vincere dallo stesso.
E, dopo un’avventura del genere, non può più essere il Frodo della Contea…
The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey, in Italia noto con il titolo infelice di Le 5 leggende, è un lungometraggio animato, risalente al periodo in cui la Dreamworks era ancora capace di far sognare…
Un prodotto per un pubblico infantile, ma che parla piacevolmente anche agli adulti, con tematiche profonde e raccontate in maniera incredibilmente brillante e originale.
Un film che purtroppo non portò ai risultati sperati: a fronte di un budget di abbastanza ingente di 145 milioni di dollari, incassò complessivamente 306 milioni, non riuscendo a rientrare nelle importanti spese di marketing.
Di cosa parla The Rise of the guardians
I guardiani dell’infanzia, North (Babbo Natale), Easter (il coniglietto pasquale), Sandman (L’omino dei sogni) e Tooth (la Fatina dei denti), di trovano a dover fronteggiare un nuovo nemico, Pitch Black, l’uomo nero…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The rise of the guardians?
La domanda forse più giusta sarebbe: vale la pena di vedere questa pellicola anche da adulti?
Per me assolutamente sì, perché è un prodotto con diverse chiavi di lettura, create con una cura e un’eleganza che poteva solamente provenire da questa casa di produzione ai tempi d’oro…
Ovviamente specifico che sono totalmente di parte: al tempo vidi il film al cinema quattro volte, con l’aggiunta delle infinite visioni domestiche. E non a caso, insieme aRapunzel (2010), è fra i miei lungometraggi animati preferiti in assoluto.
Quindi non lasciatevi frenare (né qui né altrove) dal fatto che sia un prodotto animato: vi perdereste veramente una perla.
Jack Frost – La spensieratezza
Jack Frost è fondamentalmente il protagonista del film è anche, soprattutto da un certo punto in poi, il filo conduttore dell’intera vicenda.
Il suo centro non viene esplicitamente rilevato, ma, guardando con attenzione la pellicola, è quantomai evidente: Jack Frost rappresenta la spensieratezza, ma anche la capacità di andare oltre propri limiti e oltre le proprie paure.
Ma anche, in una lettura più adulta, può essere anche il non lasciarsi sopraffare dalla tristezza e dal buio interiore.
Il percorso di questo personaggio è alla ricerca della sua identità, che gli fa scoprire come sia sempre stato capace di vincere la paura, sua e degli altri. Così aiutare i Guardiani a ritrovare il contatto con i bambini che dovrebbero proteggere.
E come, per estensione, di come anche da adulti, sommersi dagli impegni, non possano dimenticarsi di quella spensieratezza tutta infantile che rende la vita un pochino più leggera da vivere…
North – La meraviglia
North, insieme a Easter, è il personaggio col character design più interessante e originale, di fatto inaspettato.
Il nome completo è Nicholas St. North, facendo quindi riferimento alla ben più antica figura di San Nicola, che poi coi secoli si è riadattata a quella di Babbo Natale.
Tuttavia è un Babbo Natale assolutamente atipico: è battagliero, rumoroso, guascone, ma anche la figura più saggia del gruppo. Un uomo dalla statura immensa più vicino allo stereotipo dell’uomo del Nord che alla figura tipica di Babbo Natale.
Ma, nonostante il suo aspetto, è il personaggio che racchiude la magia della meraviglia che i bambini provano davanti a questo mondo tutto nuovo e eccitante da scoprire
Ed è anche un invito all’adulto a non lasciarsi vincere dal grigiore della vita quando si è oppressi dalla pesantezza quotidiana, ma ritrovare la bellezza della scoperta e del lasciarsi (e volersi) far sorprendere ed emozionare.
Easter – La speranza
Easter, ovvero il Coniglio Pasquale, è indubbiamente il personaggio più interessante e a cui è legato il simbolismo più evidente.
Come viene più volte ripetuto, la Pasqua, e quindi anche la sua figura, sono legati alla speranza, che è ribadita anche in altri due elementi: il colore degli occhi, di un verde intenso, e che, quando una delle sue buche si chiudono, spunta un fiore, persino nella neve.
Entrambi elementi tradizionalmente associati al concetto di speranza.
Un concetto che sembra molto astratto, ma che in realtà è incredibilmente concreto: perdere la speranza, quindi la fiducia e l’ottimismo che è intrinseco per l’infanzia, è devastante per un bambino.
E infatti, la perdita della speranza rappresenta l’ultimo momento delle luci che si spengono. E la speranza si sgretola molto più facilmente una volta raggiunta la vita adulta, quando si ha effettivamente conoscenza del mondo…
Tooth – Il ricordo
Anche se forse Tooth, la Fatina dei denti, è il personaggio di per sé meno interessante, il suo potere è quantomai affascinante.
Il periodo dell’infanzia è il momento fondamentale della crescita, che getta le basi della nostra personalità e dei valori che in seguito si formeranno. E la perdita, il cambio per così dire dei denti, rappresenta il passaggio dal periodo infantile, più fragile, a quello adulto, dove si dovrebbe avere i denti più forti e definitivi.
Tuttavia quei denti persi non possono essere sprecati, perché raccontano un periodo che appunto non può essere mai dimenticato, e che ci definisce.
Altrimenti saremmo persi e senza un’identità come Jack Frost…
Sandman – Il sogno
Sandman è il guardiano del sogno e del sonno.
Tuttavia non si tratta solamente del sogno che si fa di notte, ma anche della capacità di immaginazione positiva, che crea immagini piacevoli e fantastiche. Così i bambini creano un universo alternativo, a loro misura, in cui rifugiarsi.
Ma il sogno è fondamentale anche per un adulto: insieme alla speranza è quello che non ci fa mai arrendere, e che ci ricorda che non c’è mai limite a quello che potenzialmente possiamo sognare e realizzare…
Pitch Black – L’incubo
Pitch Black significa buio pesto.
E il buio è una paura atavica, sia per bambini che adulti.
Infatti Pitch è un’ombra, uno spettro, che si nasconde effettivamente sotto ad un letto come il mostro sotto il letto, o l’uomo nero, per l’appunto.
La paura è anzitutto legata all’incubo, quindi il contrario dei sogni. Ma lo stesso è derivato da delle paure che possono essere molto più concrete, proprio come quelle di Jack Frost: non essere creduto, accettato, visto…
E la paura si evolve e si differenzia, con situazioni anche molto più diverso e gravi, ma il concetto rimane sempre lo stesso: con la spensieratezza, la speranza, la meraviglia e il sogno, la potremo sconfiggere.
Attraverso lo sguardo
Gli occhi sono un elemento fondamentale della pellicola, quasi un fil rouge che unisce tutti i protagonisti.
La magia di Jack Frost si vede proprio attraverso gli occhi, la meraviglia di North è attraverso gli occhi enormi di un bambino, Jack Frost vede i suoi ricordi attraverso i suoi occhi e gli occhi della sorella…
Lo sguardo quindi la percezione, la percezione che può essere mutata e plasmata, con i sentimenti sia positivi che negativi. E così si può passare facilmente dalla paura al divertimento, alla spensieratezza, e con poco…
Il mascheramento smascherato
Guardando il film da un punto di vista più superficiale, appare evidente che sia stato concepito come una sorta di film di supereroi.
Infatti, come si cerchi di raccontare concetti importanti e di grande profondità, ma mascherandoli in una veste digeribile per il grande pubblico e, soprattutto, per il pubblico infantile. Tuttavia è evidente che non ha funzionato.
Questo probabilmente perché, per quanto il ritmo sia incredibilmente incalzante e la storia interessante, anche uno sguardo più superficiale intuisce che ci sia qualcosa di più rispetto a quanto vienemostrato. E questo di più non è per nulla immediato.
Aspetto che purtroppo potrebbe aver solo confuso il pubblico di riferimento…
Terminator (1984) di James Cameron è il primo capitolo della duologia omonima diretta dall’iconico regista, che portò poi ad altri quattro seguiti e tentativi di rilancio, non sempre vincenti…
Un film che è diventato facilmente iconico, grazie alla straordinaria scelta di un interprete come Arnold Schwarzenegger, che sembra veramente nato per il ruolo, e che al tempo era noto soprattutto nella scena culturista.
Un film prodotto con veramente pochissimo, appena 6,4 milioni di dollari, e che, per questo, fu un ottimo successo commerciale: 78 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Terminator?
Un misterioso killer sembra prendere di mira donne dal nome Sarah Connor. Ma il suo vero obiettivo è piuttosto inusuale…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Terminator?
In generale, sì.
Ammetto che è un film che mi ha entusiasmato meno di quanto mi aspettassi, ma sono stata colpita dagli elementi che l’hanno reso un cult, ovvero l’infinita tamarraggine e convinzione di Arnold Schwarzenegger.
Per il resto, è un film che può indubbiamente entusiasmare i patiti di film action, soprattutto datati, ma narrativamente parlando è abbastanza debole e leggermente ridondante. Tuttavia, non mi sento assolutamente di sconsigliarlo.
Potrebbe sorprendervi.
Nato per un ruolo
L’assoluto punto di forza della pellicola è proprio il suo villain, il Terminator. E, come detto, non poteva esserci un attore più adatto di Arnold Schwarzenegger per questo ruolo.
Sembra genuinamente che non stia neanche recitando, tanto che, quando il suo personaggio deve dimostrare la sua forza sovrumana, mi viene il dubbio che non ci fosse niente di finto…
D’altronde, l’attore era innanzitutto una star nel mondo del culturismo, e si era già fatto notare a livello internazionale per un ruolo non dissimile, nella duologia di Conan. Insomma, le sue scene, anche quelle più sopra le righe, le ho assolutamente adorate.
Una protagonista insipida
La sua controparte positiva non si può dire altrettanto vincente.
L’attrice, Linda Hamilton, era al tempo giovanissima e ancora molto alle prime armi. La sua carriera, fra l’altro, non è mai decollata, restando sempre molto vincolata alla saga di Terminator.
Purtroppo, come protagonista fallisce soprattutto dal punto di vista dell’evoluzione: per la maggior parte della pellicola Sarah Connor è un personaggio indifeso e da salvare, che non ha fondamentalmente una volontà propria, ma che si lascia trasportare dagli eventi.
Il suo momento di evoluzione avviene troppo in fretta e troppo tardi, senza un’adeguata costruzione, portandoci ad una caratterizzazione finale poco credibile e che non giustifica quello che è stato raccontato sul suo futuro.
Il tocco registico di Cameron si vede ampiamente nella messinscena affascinante, la fotografia suggestiva e la direzione delle scene di azione di grande impatto.
Quasi altrettanto vincente è il comparto trucco e degli effetti speciali: molto bella e credibile la sequenza in cui Terminator si cura il braccio, un pochino meno quando si apre l’occhio, quando è evidente (per ovvi motivi) che l’attore avesse addosso una maschera di gomma.
Non male anche Terminator nella sua forma metallica, anche se in certe scene sembra molto bidimensionale.
Nel complesso, un’ottima prova di un regista capace di rendere di valore anche un prodotto mainstream.
Un racconto ridondante
La trama di Terminator è purtroppo molto ridondante: è fondamentalmente un infinito inseguimento, puntellato da alcuni elementi di trama e dai grandi momenti di Arnold Schwarzenegger.
Soprattutto sul finale mi rimbombava nella testa uno degli insegnamenti fondamentali di Scream:
Infatti, da certi punti di vista, la struttura narrativa è simile a quella di uno slasher, con il protagonista imbattibile e che sembra non morire mai.
Anche il recente Halloween Ends (2022) insegna…
I sequel dovuti
A differenza di altri prodotti che portarono ad infiniti sequel senza che ce ne fosse il minimo bisogno, come Lo squalo (1975)e Scanners (1981), questa pellicola è una miniera d’oro per sequel e spin-off.
Infatti, la trama del futuro è incredibilmente affascinante, e, soprattutto fatta con budget più consistenti, poteva portare a dei prodotti spettacolari. Ammetto di avere solo un vago ricordo di Terminator Salvation (2009) e abbastanza un buon ricordo di Terminator 2 (1991), quindi non posso giudicare nella sua interezza.
Ma i numeri parlano chiaro: fra i sequel, quelli andati meglio furono il secondo e il terzo, mentre i successivi, anche per via di un budget ben più consistente, ebbero risultati medi, fino a abbastanza mediocri con l’ultimo, Terminator – Destino Oscuro (2019).
Personalmente mi sarei aspettata risultati più vicini a quelli del recente rilancio di Jurassic Park…
Il Signore degli Anelli – Le due torri (2002) di Peter Jackson è il secondo capitolo della trilogia dedicata all’opera di Tolkien.
Il capitolo mediano di una trilogia è sempre quello più problematico: bisogna raccontare una storia interessante, ma senza arrivare alla fine del percorso. E il rischio è sempre quello di sembrare un filler di poco interesse.
E invece Le due torri riesce ad essere narrativamente quasi più vincente del primo capitolo.
Il capitolo centrale è l’intreccio di più storie: Sam e Frodo continuano il loro viaggio, non con qualche sorpresa. Aragorn e i suoi compagni, nel tentativo di salvare i due piccoli hobbit, si trovano coinvolti in una situazione politica ben più complessa…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Le due torri?
Assolutamente sì.
Come detto, un capitolo mediano che dà molte soddisfazioni.
A differenza della possibile pesantezza del primo capitolo, Le due torri risulta un capitolo molto più narrativamente coinvolgente, con una struttura più classica con un punto di arrivo più chiaro e che lo spettatore aspetta con grande attesa.
Personalmente l’ho apprezzato quasi di più del precedente, ed è uno di quei fantastici casi in cui il sequel è ottimo se non migliore, come era il caso di L’impero colpisce ancora (1980).
La tragedia di Gollum
Gollum è la grande novità della pellicola.
Brevemente introdotto (a parole) nel primo capitolo, in questo film diventa un personaggio fondamentale, con un’evoluzione inaspettata. Si lascia infatti brevemente conquistare dalle parole di Frodo, che nella sua infinita pietà cerca di salvarlo e farlo tornare alla sua forma più umana.
E il racconto della sua psicologia dilaniata (letteralmente) è uno dei momenti più iconici della saga, grazie anche all’ottima interpretazione di Andy Serkis, in uno dei momenti più alti della sua carriera, insieme a Il pianeta delle scimmie.
Fra l’altro con un CGI che farebbe ancora oggi impallidire tanti blockbuster…
Un’ottima distrazione
Sarebbe stato troppo semplice se Sam e Frodo fossero già arrivati alla fine della propria avventura. E sarebbe stato altrettanto poco credibile se il loro viaggio si fosse prolungato per tre film, senza alcun intoppo.
Invece credibilmente i due hobbit arrivano da Sauron, ma non arrivano fino al Monte Fato. E l’allungamento del viaggio è credibile e l’intoppo che trovano è assolutamente funzionale.
Infatti, con la vicenda di Faramir, si inserisce sia un approfondimento della storia di Boromir, una di quelle classiche cosa che non sai che ti servivano, ma che alla fine si rivelano necessarie; sia si racconta meglio di come l’anello sia desiderato e di come Frodo si possa facilmente far corrompere dallo stesso.
E con questo intermezzo il popolo degli uomini sembra rinunciare definitivamente al desiderio dell’anello.
La storyline vincente
Come la vicenda cardine è la distruzione dell’anello, è molto più funzionale porne una accanto, quella di Aragorn e del regno di Edoras, per ampliare e rendere più interessante la narrazione.
Questa linea narrativa è gestita in maniera praticamente perfetta, con una costruzione avvincente e ben strutturata. E soprattutto rende complessivamente più interessante l’intero film, perché pone un punto di arrivo chiaro e crea un’ottima tensione.
E poi il punto di arrivo è uno spettacolo.
La meraviglia della battaglia del Fosso di Helm
Non sono uno spettatore che si lascia facilmente impressionare dalle scene d’azione né di battaglia, anzi spesso è il contrario.
Ma non ho che potuto rimanere a bocca aperta davanti alla bellezza di questa battaglia.
Oltre ad essere uno spettacolo visivo, è anche ben costruita sia sulla tensione, raccontando uno scontro che sembra praticamente impossibile da vincere, variando molto la messa in scena e facendoci seguire chiaramente tutti i momenti della vicenda. E infine portando il colpo di scena finale, la salvezza che non si sperava più.
E, per rendere tutto davvero perfetto, non manca anche l’elemento comico di Gimli e Legolas, assolutamente ben contestualizzato e genuinamente divertente.
Una bromance mancata
Penso che un po’ tutti siano arrivati con le lacrime agli occhi al finale, quando un’altra volta Frodo e Sam confermano il loro meraviglioso rapporto di amicizia.
Perché, davvero, se Frodo non avesse avuto Sam al suo fianco non sarebbe riuscito ad arrivare alla fine della sua avventura. Infatti, Sam non è una semplice spalla, ma un elemento assolutamente fondamentale della narrazione.
E non posso fare a meno di pensare che se questi film fossero usciti una decina di anni più tardi saremmo stati sommersi dalle fanfiction dedicate.
Che forse lo siamo già stati, inconsapevolmente…
Lode all’odio per le Due torri
Mi prendo questo piccolo spazio conclusivo per ammettere una mia colpa (?): ho trovato estenuante e veramente poco interessante la relazione fra Aragorn e Arwen.
Mi rendo conto che si tratti di un blockbuster e che sia necessario inserire anche personaggi femminili di una qualche centralità e così delle relazioni romantiche. Tuttavia, se già questa storyline mi interessava poco nello scorso capitolo, mi ha definitivamente annoiato con questo triangolo amoroso insopportabile con Éowyn.
Fra l’altro Éowyn un personaggio che sembra vivere praticamente in funzione di questo elemento…
Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler è il sequel di Black Panther (2018), prodotto a seguito della tristissima scomparsa di Chadwick Boseman, protagonista del primo film, nonché l’interprete che dava il volto all’eroe della storia.
Un triste avvenimento che ha scombinato totalmente le carte in tavola del progetto, dovendo portare un nuovo eroe e una nuova Pantera Nera, quando le basi per ovvi motivi non erano mai state buttate.
E, stranamente, non è neanche il maggiore problema del film.
Come era prevedibile davanti al riscontro e al fantastico incasso del primo capitolo, il film ha aperto benissimo nel box office mondiale, con 330 milioni di incasso. E probabilmente continuerà altrettanto bene.
Candidature Oscar 2023 per Wakanda forever (2022)
Migliorattrice non protagonista a Angela Bassett Migliore costumi Migliore trucco e acconciatura Miglior canzone Migliori effetti speciali
Di cosa parla Wakanda Forever?
Dopo la morte del suo re, il Wakanda si trova nella delicata situazione di dover gestire la sua posizione internazionale. Come se questo non bastasse, c’è un nuovo e pericolosissimo nemico all’orizzonte, che minaccia l’esistenza stessa del paese…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Wakanda Forever?
Wakanda Forever è un film che vi consiglio solamente in due casi: se siete dei fan sfegatati dell’MCU e non potete perdervi nessun film, oppure se siete emotivamente molto legati al primo film e per questo attendete molto il sequel.
Per il resto, non è film che mi sento di consigliare.
Una pellicola inutilmente lunga, una trama colabrodo e scene action neanche così interessanti. Un prodotto MCU preso e inscatolato nella maniera più pigra e pasticciata possibile, decisamente peggiore del primo, che era sempre problematico, ma decisamente più quadrato.
Una grande delusione, per qualcuno che non si aspettava niente.
La drammatica indifferenza
È giusto cominciare questa recensione raccontandovi come mi sono sentita per sostanzialmente la totalità della pellicola.
In qualsiasi momento mi sarei potuta alzare, uscire dalla sala e dimenticarmi per sempre di questo film, senza avere alcun interesse a sapere cosa fosse successo dopo. La struttura narrativa di questi prodotti è molto spesso lineare e prevedibile, ma si regge su una buona capacità di intrattenimento e l’interesse verso il protagonista e le sue avventure.
Niente di tutto questo per Wakanda Forever.
I personaggi sono insipidi, la trama prevedibile e poco appassionante, anzi gira moltissimo su sé stessa, arrivando stancamente e stupidamente ad un punto troppo tardi e senza portare elementi di vero interesse.
Anzi, ci sono troppe cose veramente poco credibili, ultima solo la scelta dei protagonisti di portare la battaglia finale nel luogo più utile del loro nemico, lo stesso che può controllare animali mastodontici come le balene e le orche.
E sono questi gli eroi per cui dovrei tifare?
Una nuova e buona Pantera?
Uno dei pochi punti vagamente positivi della pellicola è il personaggio di Shuri.
Ma non perché sia una buona protagonista, ma perché ha almeno una costruzione emotiva e psicologica, grande differenza rispetto alla freddezza che ho provato vedendo T’Challa in Black Panther. Tuttavia, niente di nuovo, niente di interessante e, soprattutto, niente di ben scritto.
Teoricamente il suo percorso dovrebbe essere attraverso il lutto, poi il desiderio di vendetta e una sorta di incattivimento che la porta ad essere crudele nei confronti di tutti, soprattutto dei suoi nemici. Tuttavia, complice la scrittura e la scarsa capacità recitativa di Letitia Wright, ne risulta un racconto poco funzionante.
La stupidità di Namor
Namor è senza dubbio uno dei peggiori villain di tutto l’MCU.
Se per lo scorso film mi sono sentita di difendere il villain, perché tipicamente nei prodotti della Marvel è l’aspetto più debole.
Non posso farlo in questo caso: Namor è davvero indifendibile. La sua stupidità è talmente vasta che, proprio nel momento in cui sta distruggendo il Wakanda, decide di lasciare ai suoi nemici una settimana di tempo per riorganizzarsi contro di lui.
E non è credibile che questo avvenga per le sue motivazioni iniziali, ovvero di allearsi con il Wakanda: Namor dice letteralmente ho tanti guerrieri quanti i fili d’erba, ovvero migliaia, se non centinaia di migliaia, guerrieri col potere delle Pantere Nere. Per questo ha letteralmente nessun motivo per cercare ancora l’alleanza con il Wakanda, tanto più ora che gli si è dimostrata ostile.
Come se tutto questo non bastasse, è veramente imbarazzante che questo personaggio abbia in buona sostanza le stesse motivazioni e lo stesso piano del villain dello scorso film.
Poche volte ho visto una così profonda pigrizia narrativa.
Ramonda: racconto di una stronza
Ramonda, la regina, è per me uno dei peggiori personaggi del film, seconda solo a Namor.
Quasi come la figlia, è un personaggio totalmente incattivito, che si comporta in maniera impulsiva e ingiustamente cattiva. In particolare, l’ho trovata davvero terrificante nel suo comportamento con Okoye. Se non ve lo ricordate, la generale nel primo film aveva rivoltato la lama contro il suo stesso marito ed era sempre rimasta fedele al Wakanda, come aveva giurato.
Ma Ramonda decide di rinfacciargli questa, punendola ingiustamente e per pura cattiveria.
Non ho pianto la sua morte, sinceramente.
La pochezza estetica
Come nel primo film ero abbastanza interessata all’estetica e alla sua ispirazione del tutto particolare all’afrofuturismo, sono rimasta veramente delusa dalla scelta invece dall’estetica riguardo alla nuova nazione e ai villain.
Anzitutto per Talokan, che nel film evidentemente doveva sembrare un paradiso subacqueo, che invece ho trovato invece un incubo. Un luogo buio, tetro, spoglio, dove non vorrei mai mettere piede. Quindi quando Namor dice a Shuri vedi cosa devo proteggere, mi veniva quasi da ridere.
Poi in generale la maggior parte dell’estetica di Namor e del suo popolo l’ho trovata incredibilmente plasticosa e sinceramente brutta, molto lontana dall’eleganza che anche in questo film ho trovato nel Wakanda e nel suo popolo.
Per non parlare di quanto Namor appaia ridicolo con quelle alette ai piedi, che lo rendono un personaggio inutilmente cartoonesco e fumettoso, in maniera del tutto fuori contesto rispetto al resto del film…
Iron Heart: è ora di smetterla
Sono personalmente stufa delle introduzioni di nuovi supereroi in prodotti di altri. Mi rendo drammaticamente conto della necessità di marketing che c’è dietro: è la Marvel che imbocca forzatamente lo spettatore di qualcosa che non voleva, così da stuzzicarne la curiosità.
Perché, onestamente, quanti avrebbero accettato con entusiasmo e a scatola chiusa la serie dedicata a questo personaggio senza questa introduzione?
Ho sentito tanto entusiasmo intorno a questo personaggio, che dovrebbe seguire le orme di Ironman. Tuttavia, il tempo è poco e, nonostante si cerchi di mimare proprio le dinamiche del personaggio di ispirazione, Riri Williams mi è risultatadavvero insipida.
Ma forse quello che mi ha fatto davvero arrabbiare è stata la battuta con cui il personaggio si auto introduce, che mi è sembrato quasi al pari del Ma sei una supereroina egiziana? in Moon Knight.
Insomma, quasi un modo per svelare un token.
Il rispetto di Wakanda Forever
Il racconto intorno al personaggio di Boseman non è stato così tanto di cattivo gusto come mi aspettavo, ma mi ha dato lo stesso fastidio.
Per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto limitare questo omaggio ad un semplice accenno, e non metterlo così tanto in scena, fra l’altro come elemento della narrazione in maniera così plateale sul finale.
Perché, per quanto ne vogliamo dire, mentre mi si stringeva il cuore ricordando la sua tragedia, mi sono anche resa conto che questa narrazione era anche finalizzata a lucrare sulla stessa.
E nessuna dichiarazione in merito alla bontà dell’operazione da chi ci ha lavorato potrà togliermi questo pensiero dalla testa.
Dove si colloca Wakanda Forever (2022)?
Come per il primo film, anche Wakanda Forever è un film abbastanza a sé stante.
È ovviamente successivo Endgame (2019) – le cui vicende si svolgono nel 2023 – ma, secondo la timeline di Disney+, si colloca fra Moonknight e She Hulk, ovvero la primavera del 2025.
Piccole donne (2019) di Greta Gerwig è un period drama tratto dal celebre romanzo omonimo. Un film che fu circondato da un grande chiacchiericcio, e non sempre per i motivi giusti. E non a caso ottenne numerose candidature, in parte per me assolutamente inspiegabili.
Inghilterra, seconda metà dell’Ottocento. La vicenda ruota intorno alle quattro sorelle March, con caratteri molto diversi ma che incarnano i topos delle eroine romantiche tipiche di quel periodo.
Fra matrimoni e amori infelici, un classico dramma strappalacrime, ma fatto con una certa cura.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Piccole donne?
Dipende.
Dal mio personale punto di vista, non ha un grande valore artistico, ma potrebbe essere un film molto coinvolgente, se siete pronti a farvi catturare da certi ganci emotivi.
Io personalmente mi sono lasciata agganciare.
Infatti Piccole Donne è una storia molto emotiva, con una profonda esplorazione della psicologia dei personaggi, anche in maniera facilmente coinvolgente. E possono essere due ore molto piacevoli in un prodotto che vuole essere sicuramente lacrimevole, ma anche molto confortante, tutto sommato.
Innamorati di Saoirse Ronan
Molti registi, soprattutto ad inizio carriera, hanno i loro attori feticcio. Di Caprio per Scorsese, Johnny Depp per Burton, e via dicendo.
Per Greta Gerwig è Saoirse Ronan, con cui aveva già lavorato per Lady Bird (2017).
E proprio come nel precedente film, non vedeva l’ora di farle interpretare un personaggio che si oppone testardamente a tutti, ma è fragile internamente. Per figure di questo tipo, che potrebbero risultare in qualche modo antipatiche allo spettatore, si lascia sempre loro lo spazio per ammettere le proprie debolezze.
E così è anche il caso di Jo.
Tuttavia io non sono riuscita a farmi conquistare. Ammetto che mi ha non poco emotivamente colpito la sequenza sul finale, in cui Jo ammette che avrebbe infine sposato Laurie se glielo avesse chiesto, soprattutto per il suo senso di solitudine.
E non di meno ho apprezzato la costruzione di un personaggio femminile che risolve i suoi problemi al di fuori di una relazione romantica, ma piuttosto tramite una propria realizzazione personale.
Tuttavia per tutto il film non ho potuto fare a meno che darle ragione quando ammette che la sua situazione di tristezza sia unicamente colpa sua, della sua superbia e testardaggine.
Insomma, non sono riuscita a stare dalla sua parte.
Dalla parte di Amy
Amy è il personaggio più bistrattato dell’intero film.
Anche se spiega comunque abbastanza esplicitamente il suo disagio sul business dei matrimoni, comunque viene complessivamente raccontata come la sorella invidiosa e aggressiva, che si oppone alla sorella ben più meritevole dell’affetto dello spettatore.
E al contempo appare anche come il personaggio che deve starci meno simpatico, perché non si sottrae al sistema oppressivo del mercato dei matrimoni come la sorella, appunto.
Eppure io sto dalla parte di Amy.
Sono riuscita molto di più ad empatizzare con la sorella non particolarmente brillante e che si sente la seconda scelta, ma che alla fine realisticamente riesce a sistemarsi economicamente e emotivamente con Laurie.
E l’ho sinceramente preferita, perché il suo dolore mi è sembrato molto più sincero rispetto a quello di Jo.
E non è neanche l’unico problema del suo personaggio.
Il premio dell’odio
Scherzosamente tra me e me mi piace pensare che avrebbero dovuto dare il Premio dell’odio alla costumista di Piccole donne per come ha vestito Florence Pugh. E con lei anche il reparto make-up.
Ma probabilmente tutto viene dalle mani della regista, per nulla innamorata di questa attrice, anzi.
Se si fa un confronto fra come è vestito e gestito esteticamente il personaggio di Jo rispetto ad Amy, la differenza salta subito all’occhio. Saoirse Ronan è alta e snella, e la fotografia, la scelta dei colori e dei vestiti la fanno apparire molto slanciata e ne esaltano la figura.
Florence Pugh è ben più bassa, ha il volto tondo e paffuto, e il fisico più massiccio. E giustamente si è deciso nei flashback di metterle le trecce e la frangetta, pessime per il suo volto, e di vestirla per la maggior parte delle volte con linee dritte e vestiti chiusi fino alla gola che la ingoffiscono.
Purtroppo non è la prima volta che lei o altre attrici non perfettamente snelle non siano messe in risalto, ma anzi si cerchi di nascondere il loro fisico ed ingoffirle.
Era successa una cosa non molto differente in Black Widow (2021): mentre Scarlett Johansson ha la tutina attillata senza nulla sopra e che esalta il suo fisico, Florence Pugh è in molte scene ancora una volta ingoffita da una giacca smanicata sopra la tuta, oppure con abiti molto meno aderenti.
L’altra femminilità di Meg
Un grande pregio del film è di saper raccontare diversi tipi di femminilità e soprattutto di eroine romantiche. Oltre all’eroina che va contro la femminilità imposta (Jo) e quella che invece vi cerca il suo posto (Amy), Meg è il personaggio femminile che sceglie l’amore nonostante l’aspetto economico.
E il classismo dilaga quando lei sente pesantemente il peso della sua scelta, di non poter essere felice come le altre sue coetanee ben più ricche e con i vestiti più belli.Ma alla fine anche lei trova la sua dimensione e accetta la bellezza che la sua vita comunque può offrirle.
Beth: l’eroina tragica
Beth è in tutto e per tutto l’eroina tragica.
Un elemento tipico della narrazione romantica è proprio quello della malattia, soprattutto quella che disabilitante.
In questo caso Beth è l’aggancio emotivo principale della pellicola, soprattutto per la scena della sua morte. All’inizio lo spettatore tira un sospiro di sollievo quando scopre che Beth sette anni prima non è morta, ma è altrettanto distrutto quando scopre che nel presente è invece successo.
Una figura fra l’altro angelica e innocente, con un genio inesplorato che riesce solo marginalmente a mostrare nella sua brevissima vita. Forse un personaggio un po’ di contorno, ma che ha una tutta una sua funzione molto ben bilanciata all’interno della pellicola.
Il posto giusto, il momento sbagliato
Qui non voglio togliere importanza a Greta Gerwig con autrice e regista, ma contestualizzare il successo che hanno avuto i suoi film.
Non me ne vogliano gli appassionati, ma secondo me Gerwig non è al momento il meglio che abbiamo nella scena del cinema contemporaneo, e credo che ci siano autrici decisamente più interessanti di lei, anche solo Jane Campion Il potere del cane (2021).
Già solo in Piccole donne la regia secondo me non è così eccezionale, non particolarmente ispirata, e anche troppo chiassosa.
Per ora questa regista per quanto mi riguarda ha fatto dei prodotti buoni, ma non eccezionali, che meritavano molto meno plauso di quanto hanno ricevuto.
E purtroppo, sopratutto per i discorsi che si facevano al tempo, ho paura che questa autrice sia diventata una sorta di token in un contesto delle premiazioni, soprattutto gli Oscar, dominate da registi uomini…
Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello (2001) di Peter Jackson è il primo capitolo della trilogia cult tratta dalle opere di Tolkien. Dopo la mia parziale delusione di Rings of Power, da buona casual fan di questa saga ho voluto riguardarla da capo, dopo tanti anni dalla prima visione.
E secondo me è quantomai evidente quanto la serie abbia provato ad imitare la grandezza di queste opere, che però si sono rivelate davvero inarrivabili.
Questo film fu anche un incredibile successo economico: a fronte di un budget di 93 milioni di dollari, ne incassò quasi 900.
Di cosa parla Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello?
Dopo un ampio prologo dedicato alla creazione e alla perdita dell’Anello, veniamo catapultati nella Contea degli Hobbit, minuscole creature fantastiche che si troveranno al centro della storia. In particolare il nostro eroe, Frodo, si trova fra le mani questo oggetto preziosissimo, ma anche molto pericoloso, che deve essere distrutto.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello?
Ovviamente sì.
Molti si potrebbero sentire un po’ minacciati da quest’opera, soprattutto davanti alla durata piuttosto corposa, oltre al culto che la circonda. Tuttavia, vale assolutamente la pena di approcciarsi quantomeno al primo capitolo della saga, un caso abbastanza raro di un blockbuster che venne riconosciuto anche per il suo valore artistico.
E in effetti già questa prima opera, nonostante abbia dei tratti estetici tipici di un altro periodo, dimostra tutta la passione di questo autore nel portare sullo schermo l’opera di Tolkien, riuscendo a reggere magnificamente tre (e più) ore di film.
E a questo proposito…
Meglio la versione cinematografica o la versione estesa?
Una dura scelta.
Ma la scelta in realtà è più semplice da quello che sembri: se vi state approcciando per la prima volta a questo film, non vi consiglio di guardare la versione estesa. Non perché non ne valga la pena, ma perché le tre ore e venti di durata sicuramente si sentono, e potrebbe non dico guastare la visione, ma renderla più impegnativa del necessario.
Tuttavia, se state rivedendo i film e soprattutto se siete appassionati della saga, vale assolutamente la pena di approcciarsi alla versione estesa, che aggiunge scene magari non fondamentali, ma che sicuramente ampliano la narrazione.
Un eroe minuscolo
Una delle caratteristiche più peculiari del film, e più in generale dell’opera di Tolkien, è la scelta dell’eroe. Frodo è un ragazzino, quasi un bambino, che non ha esperienza del mondo, e che anzi ha una statura minuscola, un personaggio che può essere schiacciato potenzialmente da chiunque.
E infatti è proprio il topos dell’eroe per caso, che porta sulle spalle l’importante peso di salvare il suo mondo, ma che al contempo è continuamente fallibile e impaurito. Ed è solo l’inizio di un grande percorso di crescita e di scoperta, che lo spettatore può seguire con grande affiatamento.
E infatti Jackson si è trovato per le mani un protagonista perfetto, che può essere quanto più possibile vicino allo spettatore, che si comporterebbe forse in maniera non tanto dissimile nella medesima situazione.
L’anello, il vero nemico
Un elemento di grande interesse della pellicola è come Sauron, il grande nemico, sia fondamentalmente assente. I personaggi vengono soprattutto a contatto con i suoi sottoposti, in particolare i terribili nazgol, nemici con un’estetica semplice, ma molto efficace.
Ma il vero nemico è l’anello.
L’anello è un nemico infido, che non si può effettivamente sconfiggere se non distruggendolo, con cui non si può dialogare, che è al contempo il nemico e l’oggetto del desiderio. Quindi il protagonista è minacciato da ogni parte: da chi vuole impossessarsene e dall’anello stesso che vuole essere posseduto.
E particolarmente interessante che l’anello non è desiderato per motivi di per sé negativi. Infatti, come dice Gandalf:
E infatti anche Boromir alla fine se ne vuole impossessare perché attratto dal tipo di potere che quell’oggetto può dare. Teoricamente, quindi, per fare il bene del suo popolo.
Una regia dinamica
Un grande pregio della pellicola, come per la saga di Scream e come Dune (2021), è la regia.
All’interno sempre di un prodotto dalla durata importante e con concetti non sempre facilmente digeribili, la messinscena e soprattutto i movimenti di macchina donano una tridimensionalità e una dinamicità incredibilmente coinvolgente alle scene.
Non di meno la fotografia e le ambientazioni sono molto più cupe di quando mi ricordassi, in parte anche figlie degli Anni Novanta e di certe tendenze nascenti nel millennio che era appena cominciato. Elementi che potenzialmente potevano far scadere il prodotto in un’estetica di seconda categoria.
Ma è tutto il contrario.
Una narrazione a tappe
La struttura narrativa di per sé non è problematica, ma indubbiamente può apparire non poco pesante e forse meno coinvolgente per il fatto che è evidentemente solo la prima parte di un viaggio.
E tanto più che è una narrazione a tappe, in cui ognuna è anche una tappa del viaggio stesso. Quindi non si vede di per sé un’evoluzione della vicenda, ma il tentativo di portare avanti un’avventura complessa e che, tutto sommato, risulta fallimentare nella sua prima fase.
Perché Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello mi è piaciuto Perché Rings of Power no
Questa è ovviamente la mia opinione personale, ma non riesco a considerare Rings of Power all’altezza della saga madre. Rivedendo infatti questo film mi sono resa conto di quanto al confronto la serie prequel mi sembra non più che una grande fanfiction ad alto budget.
Tanto per cominciare di Rings of Power, come avevo già raccontato nella recensione dedicata, non mi è piaciuta la regia e le ambientazioni. Mentre in La compagnia dell’anello ho visto delle ambientazioni credibili e molto più dark, nella serie ho trovato principalmente setting anche molto belli, ma eccessivamente patinati e luminosi, e di conseguenza per me molto finti.
Un’altra cosa molto fastidiosa della serie è stata la mia alienazione.
Molti elementi della trama vengono inseriti senza essere spiegati, quando bastava veramente una riga di sceneggiatura per rendere la storia più comprensibile. Invece ne La compagnia dell’Anello ci sono tutte le didascalie necessarie, e mai ingombranti.
Insomma, non voglio distruggere la serie, ma finalmente mi è chiaro perché ho sentito questa grande differenza di apprezzamento fra i due prodotti.
Black Panther (2018) di Ryan Coogler è una origin story dedicata al personaggio omonimo, che era già stato brevemente introdotto in Captain America – The Winter Soldier (2014). Un film che è diventato un caso, per tanti motivi, nonché un prodotto di grande importanza per la comunità africana e afrodiscendente.
E ovviamente questa importanza è arrivata a raccontarlo come un capolavoro.
Prima di fiondarci in sala a guardare il sequel,Wakanda Forever (2022), vale la pena riflettere sul primo capitolo e su quello che, al di là del giudizio di pancia, è effettivamente. Sicuramente fu uno dei più grandi successi commerciali dell’MCU: a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, incassò 1,3 miliardi in tutto il mondo.
Di cosa parla Black Panther?
Dopo la morte del padre, T’Challa diventa il nuovo re di Wakanda, lo stato africano isolazionista, mentre il suo trono viene minacciato da un personaggio misterioso…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere BlackPanther?
La giusta domanda in realtà sarebbe: ha senso guardare Black Panther al di fuori del resto dei film dell’MCU?
Sì e no.
Anche se fondamentalmente riesce ad essere un prodotto abbastanza autonomo, in cui non ci sono altri personaggi di altri film in scena (a parte nelle ignorabili scene post-credit), a mio parere ha poco senso vederlo se non si è un minimo appassionati dell’MCU, soprattutto a quattro anni di distanza.
Infatti, come approfondiremo meglio nella parte spoiler, Black Panther è un film MCU e supereroistico in generale molto medio,che non brilla più di tanto, se non proponendo un setting diverso dal solito.
Se invece volete vedere Black Panther in vista di Wakanda Forever o per un recuperone generale dell’MCU, ovviamente vale la pena di guardarlo: in una mia ipotetica classifica, Black Panther sarebbe in una posizione mediana.
Insomma, senza infamia e senza lode.
Immagini in movimento
Il mio principale problema con questo film è che tutti i personaggi in scena potrebbero lasciarci per una morte improvvisa e non me ne potrebbe interessare di meno.
E secondo è anche un difetto della pellicola, che non intraprende un particolare approfondimento del personaggio, che invece appare piuttosto distante dallo spettatore e con conflitti che sembra già subito capace di risolvere. E non è una scusante il fatto che sia stato introdotto in un’altra pellicola.
Perché lo stesso è successo con Spidermanin Captain America – Civil War (2016).
Premetto per correttezza che sono molto di parte, perché Spiderman Homecoming (2017) è il mio film MCU preferito e così lo Spiderman di Tom Holland è il mio Spiderman preferito.
Tuttavia, è anche vero che in Homecoming, complice anche una minore drammaticità della storia, mi sono trovata davanti ad un protagonista con una storia molto coinvolgente e che, soprattutto, era davvero fallibile e vicino allo spettatore.
Benché lo scheletro narrativo di Black Panther sia abbastanza simile (come simile alla maggior parte delle origin story supereroistiche), non sono riuscita a trovare lo stesso tipo di coinvolgimento. Anche perché tutti i problemi di T’Challa sono muscolari e si risolvono con combattimenti vinti da chi è più abile a menar le mani, fondamentalmente.
Insomma, secondo me questo personaggio manca di un’adeguata profondità narrativa e psicologica.
E non parliamo poi del villain…
Un villain insulso
Il villain di Black Panther è per me uno dei meno indovinati dell’MCU.
Non tanto per la sua introduzione o per il modo in cui si comporta, ma per le sue motivazioni.
Purtroppo in questo film si è deciso proprio di colpire alla pancia dello spettatore, e scegliere di raccontare una discriminazione a livello globale nei confronti delle persone afrodiscendenti.
Problema che indubbiamente esiste, ma che appare quanto mai evidente come il discorso al riguardo sia stato fatto principalmente con un’idea molto statunitense e provinciale.
Infatti il discorso di Killmonger sul razzismo e sulla discriminazione non è derivato da un’esperienza internazionale dove ha visto la sua comunità oppressa, ma, al contrario, semplicemente dalla sua infanzia difficile in un ghetto statunitense.
Ergo, anche se si sta parlando di razzismo a livello globale, in realtà si sta parlando unicamente della società statunitense, a cui il film è indirizzato. Ma, nonostante questo, Killmonger è convinto che sia giusto dichiarare guerra a tutti i paesi del mondo, dove apparentemente (ma senza che lui ne abbia una reale sicurezza), la sua comunità viene sempre e ugualmente discriminata.
Insomma, riflettendoci un attimo, le motivazioni del villain appaiono abbastanza ridicole e poco credibili.
Tuttavia, è anche giusto essere clementi.
I problemi di Black Panther sono i problemi di tutti
Sarebbe totalmente ingiusto accanirsi su alcuni problemi di questo film.
Infatti, diversi difetti che si possono imputare a questa pellicola, si possono allo stesso modo imputare a molti altri film Marvel.
Per esempio, il problema del protagonista freddo e distante è una questione ben più grave in Captain Marvel(2019). Così i villain insulsi si trovano in una buona parte di tutti i film Marvel, soprattutto all’inizio, partendo da Iron man (2008) fino a Doctor Strange (2016).
Allo stesso modo non ho neanche voglia di sprecare tante parole riguardo al villain minore, Ulysses Klaue, un antagonista da operetta interpretato da Andy Serkis in una delle peggiori prove attoriali della sua carriera.
E neanche mi voglio troppo accanire sulle motivazioni ridicole di Killmonger: è solo uno fra tanti.
Per questo motivo non considero Black Panther un pessimo film, ma un film medio dell’MCU.
Un setting diverso
Un merito indubbio del film è la novità delle ambientazioni e, in parte, dell’estetica.
L’estetica di Black Panther è basata in gran parte sulla corrente dell’afrofuturismo, un movimento nato negli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento. Una corrente caratterizzata da diverse espressioni artistiche, ma accomunate in generale dall’elemento fantastico e fantascientifico affiancato alla cultura tradizionale africana.
Una corrente finalizzata quindi a rivendicare la cultura africana e il suo posto nell’evoluzione tecnologica e umana.
Questa pellicola ha fatto tornare questa corrente artistica molto in voga ed ha indubbiamente portato un elemento abbastanza unico nel panorama dell’MCU. Personalmente ho apprezzato questi elementi di incontro fra due realtà estetiche così diverse, tanto che le scene fuori dal Wakanda mi sono sembrate esteticamente poco interessanti.
Tuttavia, questa stessa corrente porta con sé dei problemi.
Black Panther è un film razzista?
Sembra una domanda stupida e provocatoria, ma per molti non lo è.
Alla luce di quanto detto sul tipo di corrente artistica seguita da questo film, è evidente che ad un pubblico occidentale possono apparire quantomeno strani certi accostamenti, come i palazzi ultramoderni con i tetti di paglia.
La mia idea è che questo film sia stato fatto con tutte le migliori intenzioni, che in parte si sono realizzate, e che in parte invece potrebbero aver avuto non il migliore degli esiti.
Con questo mi riferiscono principalmente al sistema elettivo basato su una lotta potenzialmente all’ultimo sangue.
Non parlo tanto di come questo elemento possa apparire proprio di una società più primitiva, ma più che altro come lo stesso possa non essere stato la migliore rappresentazione per la comunità afrodiscendente. Infatti, nella società statunitense, a cui la pellicola è principalmente indirizzata, gli afroamericani sono spesso raccontati come criminali, violenti echiassosi.
E non si è pensato al rischio di rafforzare questo stereotipo raccontando una società di persone nere basata sulla violenza?
Black Panther è un capolavoro?
Per quanto mi rendo conto che il concetto di capolavoro è molto fumoso e personale, direi che possiamo metterci una mano sul cuore e dire che no, Black Panther non è un capolavoro.
Come detto, al di là dell’importanza che può aver avuto e delle emozioni che ha dato a tanti, è obiettivamente un film medio, con uno scarso valore artistico e che non aggiunge niente neanche al suo genere di riferimento.
E la sua candidatura agli Oscar è stata puramente per motivi politici.
Dove si colloca Black Panther (2018)?
Black Panther è un origin story abbastanza a sé stante.
Il personaggio era già stato introdotto in Captain America: Civil War (2016), ma ha la sua storia completa in questo film. La pellicola fa parte di quei prodotti che possiamo definire pre-Endgame: come per Captain Marvel (2019), viene introdotto un nuovo personaggio che poi combatte nella battaglia finale della Fase 3.
La pellicola dovrebbe essere ambientata fra il 2016 e il 2018, e fa parte della Fase 3.