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Men – Il maschile fragile

Men (2022) è l’ultima pellicola di Alex Garland, cineasta noto per pellicole come Ex Machina (2015) e Annientamento (2018).

Ovviamente ha avuto un incasso molto limitato: appena 11 milioni in tutto il mondo, davanti ad un budget finora sconosciuto, ma che dovrebbe aggirarsi fra i 5-10 milioni di dollari.

Di cosa parla Men?

Harper è una giovane donna che, dopo essersi separata tragicamente dal marito, decide di concedersi una meritata vacanza in una piccola tenuta di campagna. La sua vita e la sua permanenza vengono però minacciati dalla presenza opprimente di diversi uomini…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Men?

Rory Kinnear in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Men è un film molto complesso, che presenta diversi livelli di lettura e che in un certo modo si perde nell’elemento onirico e fantastico, non sempre spiegabile. Quindi non aspettatevi di trovarvi davanti ad un horror classico e facilmente comprensibile, ma piuttosto ad un prodotto molto più vicino alla cripticità di un The Lighthouse, per esempio.

In generale comunque è un film che vale assolutamente la pena di vedere, per godersi un prodotto che racconta la figura dell’uomo e del suo rapporto con la donna in maniera interessante e inusuale. Tuttavia è giusto sapere che è anche una pellicola con una violenza e un orrore molto fisico e esplicito, che potrebbe essere non digeribile per alcuni.

Ma, se questo elemento non è per voi un problema, correte a guardarlo.

Un uomo, mille uomini

Rory Kinnear e Jessie Buckley in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Un aspetto peculiare di Men, di cui non ci si accorge immediatamente, è che tutti gli uomini in scena, ad eccezione dell’ex-marito James, sono interpretati dallo stesso attore, ovvero l’ottimo Rory Kinnear.

Questa scelta offre molteplici chiavi di lettura, a partire dal fatto che molti personaggi appaiono fasulli: in particolare il prete, con una parrucca visibilmente finta, il padrone di casa Jeffrey, con i suoi dentoni bianchissimi, e il ragazzino, con il viso che è un evidente deep fake.

La chiave di lettura più immediata è che questa esperienza permette ad Harper di raggiungere la consapevolezza che tutti questi uomini sono in realtà fatti della stessa pasta (tanto che si partoriscono l’un l’altro).

E che, di conseguenza, rappresentano anche la figura opprimente del marito di cui cerca di liberarsi.

La mascolinità minacciosa…

Per la maggior parte della storia il maschile appare minaccioso, aggressivo e per certi versi anche incomprensibile.

Partiamo dall’aggressione più velata di Jeffrey, che parla in maniera fastidiosa a Harper in quanto donna non sposata, e così anche il poliziotto, che banalizza il pericolo che la donna sente di correre per l’uomo nudo che la perseguita.

Il maschile poi diventa via via più violento fisicamente e soprattutto sessualmente.

la casa, che rappresenta evidentemente il corpo di Harper (anche solo per le pareti rosse che sembrano le sue interiora), viene continuamente penetrata dal maschile: non a caso, quando Harper parla dell’uomo che ha cercato di entrarle in casa, usi due volte la parola penetrare.

Il simbolismo del film porta ad una traslitterazione dalla mano al pene.

Molta attenzione infatti su queste mani maschili che cercano di afferrare il corpo di Harper e penetrare dentro la casa attraverso la buca delle lettere, ma che diventano appunto un fallo quando il ragazzino mima l’atto sessuale sull’uccello con la maschera di donna.

…e il maschile debole

Jessie Buckley in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Ma il maschile diventa debole quando di fatto Harper lo castra: nel momento massimo dell’aggressione, ovvero quando il prete cerca di violentarla, lei invece lo penetra con il coltello e lo uccide.

E così anche quando la mano cerca di penetrare dentro alla casa e la donna gliela taglia a metà, momento in cui la regia enfatizza la superiorità di Harper rispetto al personaggio maschile con inquadratura dal basso verso l’alto.

Infatti, quando rientra infine in casa, Harper non cerca più di chiudere la porta: non ha più paura, ma vede invece una mascolinità ormai fragile, debole, che cerca di avvicinarsi a lei, ma non più in maniera minacciosa.

Quello è il momento di consapevolezza della radice del maschile violento, ovvero la sua ricerca, a partire dalle parole del marito, dell’affetto e dell’attenzione del femminile (e non solo).

L’uomo solo

Rory Kinnear in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Il film può avere un’ulteriore chiave di lettura proprio dal personaggio del marito.

Infatti, James è distrutto dall’idea di perdere la moglie e, di conseguenza, il suo amore.

Tuttavia è di fatto incapace di affrontare il problema in maniera sana, ma solo violenta e minacciosa: minacciando di suicidarsi, cercando di riappropriarsi della donna e anche cercando di sottometterla fisicamente.

E questo racconta un effettivo problema sociale dell’uomo che è socialmente incapace di raccontare le sue emozioni in quanto istruito a nascondere, pena l’essere paragonato al femminile debole. Al contrario il maschile viene anche educato alla violenza, e solo con quella riesce ad esprimerla.

Per questo alla fine Harper capisce che la fragilità del marito e la sua ricerca di amore è un problema intrinseco, di cui lei di fatto non ha colpa e che non poteva veramente risolvere.

E infatti alla fine appare sollevata e finalmente libera da questo peso.

Il regista di Men odia gli uomini?

Può sembrare una domanda molto stupida, ma non lo è per niente.

Questo è il classico film estremamente divisivo in cui il target della critica potrebbe sentirsi attaccato. Per questo è giusto puntualizzare che il film non è tanto banale da voler dire che tutti gli uomini sono dei molestatori e degli stupratori.

Al contrario, vuole raccontare un problema sociale di grande importanza, ovvero quello dell’approccio anche involontariamente insano dell’uomo nei confronti della donna, in tutti i modi più disparati mostrati nel film.

Fra l’altro mettendo a fuoco un problema sociale altrettanto importante, ovvero la radice della violenza di questa mascolinità, senza andare a rendere semplicemente mostruoso il maschile.

Il simbolismo di Men

Il simbolismo di Men è piuttosto peculiare e si presta a diverse chiavi di lettura.

L’elemento centrale è rappresentato dallo strano bassorilievo della chiesa, che viene ripreso più volte durante il film: il volto dell’uomo nudo alla fine, in generale i vari urli di Harper, in particolare quando urla nella vasca da bagno sul finale.

Quella raffigurazione è il green man, simbolo antichissimo con vari significati, ma che di base rappresenta la rinascita. All’interno del film può essere proprio interpretata come la figura della mascolinità violenta e di come vede invece la femminilità passiva, in particolare sessualmente passiva.

E invece la femminilità si rivolta contro il maschile, diventando Harper stessa appunto il green man che urla.

Come lettura in più, il prete nella vasca da bagno sembra citare la vicenda di Agamennone e Clitemnestra, l’apoteosi della donna vendicativa. Lo conferma anche lo sfondo della scena: il bagno con la vasca da bagno, la stessa in cui Clitemnestra uccide il marito all’interno del mito.

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L’attimo fuggente – Perchè leggiamo la poesia?

L’attimo fuggente (1988) di Peter Weir è uno dei maggiori cult a cui è associata la figura del compianto Robin Williams. Fra l’altro un prodotto nato da un grande autore, regista di The Truman Show (1998), fra le altre cose.

Una pellicola che, non a caso, fu un incredibile successo commerciale: incassò 235 milioni a fronte di un budget ridottissimo di 16 milioni.

Di cosa parla L’attimo fuggente?

Il collegio maschile di Welton è rinomato per essere piuttosto severo e rigido, dove la futura classe dirigente viene formata. Un gruppo di ragazzi viene stupito dall’eccentrico Mr. Keating, che cercherà di insegnare loro qualcosa di più delle semplici nozioni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché L’attimo fuggente è un cult imperdibile

Robin Williams in una scena de L'attimo fuggente (1988) di Peter Weir

L’attimo fuggente è diventato un cult imperdibile perché riesce a parlare ad una generazione, alle sue insicurezze e alla sua ribellione contro una vita che sembra già scelta per loro, con una serie di dinamiche ancora molto attuali.

La pellicola è un film corale che ci accompagna alla scoperta di questi personaggi così semplici e fallibili, ma anche pieni di sogni e speranze apparentemente irrealizzabili. Una pellicola fra l’altro con un Robin Williams in una delle sue migliori interpretazioni, con momenti veramente toccanti e profondi che ci parlano anche a trent’anni di distanza…

Insomma, se non l’avete mai visto, non potete perdervelo.

Un contrasto micidiale

Gale Hansen, Josh Charles e Allelon Ruggiero in una scena del film L'attimo fuggente (1988) di Peter Wier

La pellicola si apre con un contrasto micidiale fra il comportamento dei protagonisti e l’ambiente in cui sono letteralmente costretti: si dimostrano, anche se in modo diversi, pieni di sogni, ambizioni ed energia da vendere, ma in un ambiente che cerca il più possibile di metterli in difficoltà e domarli.

Oltre al contrasto fin da subito fra Neil e il padre, la carrellata di lezioni mostrate offre fin da subito un’idea chiara del tipo di ambiente: quasi per dovere, i ragazzi sono continuamente frustrati e spinti verso l’impossibile. Per questo la lezione di Mr. Keating appare ancora di più così diversa.

Mr. Keating: il buon maestro

La figura di Mr. Keating è ben costruita nella sua anomalia all’interno dell’ambiente. Anzitutto, perché è stato appositamente scelto un attore con physique du role che è assolutamente perfetto: piacente e rassicurante, in contrasto con l’aspetto austero e rigido degli altri insegnanti, in particolare il Preside.

E fin da subito questo professore non ha la volontà di domare questi adolescenti, di imbottirli di nozioni e nient’altro. Al contrario vuole fare in modo che ritrovino il loro spazio, seppur minimo, dove potranno esprimersi.

E non è un sognatore senza controllo, ma un buon maestro consapevole dalla realtà della vita, ovvero di come questi ragazzi indubbiamente diventeranno quei banchieri e avvocati come ci si aspetta da loro.

Ma al contempo vuole insegnare loro che la vita non è solo quello, ma che potranno trovare sempre la libertà di essere davvero se stessi.

Neil: l’eroe tragico

Neil è anzitutto un eroe perché si trova a combattere con una realtà che gli è ostile e che cerca in tutti i modi di cambiare. Il suo nemico principale, il suo mostro da sconfiggere, è il padre. Un uomo fondamentalmente impossibile da cambiare, indurito da una vita in cui, per sua stessa ammissione, non ha potuto avere le stesse possibilità del figlio.

Il padre deriva infatti da una realtà sociale molto più complessa, in cui ci si doveva mettersi in gioco molto più duramente per emergere a livello economico. Un contesto in cui non ci si poteva aspettare di perdersi in sciocchezze come le proprie passioni.

E proprio per questo Neil è tragico, perché si trova a combattere contro una realtà che non può cambiare, in cui è drammaticamente costretto. A primo acchito il suo suicidio potrebbe sembrare forzato, ma in realtà, riuscendo effettivamente ad immedesimarsi nel personaggio, si può capire la profondità del suo dolore.

Todd: il timido bardo

Todd è un personaggio che appare inizialmente come di sfondo per la vicenda: incredibilmente silenzioso e sulle sue, ma di cui vediamo alcuni sprazzi che ci permettono di empatizzare con lui. È anche il personaggio che più profondamente assorbe la lezione di Mr. Keating, cercando di scrivere poesie proprio per esprimere il suo essere.

E, quando finalmente il professore lo sblocca, facendogli recitare una poesia concepita al momento, rivela le sue incredibili capacità e la profondità del suo animo. Ed è anche quello di fatto che soffre maggiormente la perdita di Neil, che era diventato il suo punto di riferimento per la rivalsa che lui stesso stava cercando.

E così è anche quello che, infine, porta tutti gli altri alla ribellione.

Charlie: il satiro

Charlie è una figura che appare subito come quella dello spaccone, che nell’ambito dell’immaginario classico può essere associato al satiro: figura con comportamenti eccessivi e che viene continuamente osteggiato dalla società in cui vive, persino emarginato (e infatti alla fine è espulso dalla scuola).

Però al contempo rappresenta anche una forza vitale, inarrestabile, i cui due strumenti sono la poesia irriverente e l’amore per le donne, che riesce facilmente a procacciarsi proprio per il suo fascino da eroe maledetto.

Charlie è il personaggio che forse vince più di tutti: non sapremo mai cosa gli è successo fuori scena, ma in qualche modo è riuscito eroicamente a smarcarsi da una situazione che gli stava più che stretta, non facendosi sottomettere come in qualche modo hanno dovuto fare i suoi compagni.

Knox: l’innamorato

Knox appare come un personaggio forse minore all’interno della storia, ma è comunque un altro lato dell’insegnamento di Keating: lasciar liberi i propri sentimenti e avere il coraggio di esprimerli.

E Knox è veramente l’innamorato senza speranza, quello che farebbe di tutto per conquistare la donna amata, anche senza di fatto conoscerla come succedeva d’altronde in molta poesia classica e medievale.

Tuttavia, è uno dei pochi personaggi che alla fine vincono per così dire, riuscendo effettivamente a conquistare, pur non sempre con metodi del tutto giusti, la ragazza dei sogni.

Cosa ci insegna L’attimo fuggente sulla letteratura

Robin Williams e Norman Lloyd in una scena de L'attimo fuggente (1988) di Peter Weir

L’attimo fuggente critica più o meno consapevolmente un tipico modo di insegnare la letteratura e l’arte nelle scuole, in particolare nella scuola italiana. Che sia il liceo o l’università, è quanto mai frequente che la stessa sia raccontata nella maniera più pesante e nozionistica possibile, facendoci ingoiare definizioni e opere senza la giusta preparazione o maturità per farci approcciare ad essa.

Per questo ci troviamo spesso a dover leggere ed affrontare opere solamente perché siamo obbligati a farlo, non perché abbiamo piacere a farlo.

E, forse sempre inconsapevolmente, L’attimo fuggente critica una corrente letteraria ancora purtroppo molto viva ad oggi, ovvero lo strutturalismo. Semplificando la definizione della Treccani, si tratta di una critica letteraria basata sul giudicare solamente l’aspetto formale di un’opera, senza valutarne il valore artistico di per sé.

Per semplificare molto, è il tipo di teoria alla base del modo in cui vi hanno insegnato la letteratura al liceo (e nei casi più gravi anche all’università), ovvero analizzando in maniera meccanica l’opera con concetti come narratore onnisciente, racconto in prima persona e simili.

Concetti del tutto accettabili, a livello superficiale.

Ma, come ci racconta L’attimo fuggente, la letteratura è molto più di questo.

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Crimes of the future – (Ri)scoprire il corpo

Crimes of the future (2022) di David Cronenberg è l’ultima pellicola del maestro dell’orrore dopo quasi dieci anni di assenza dalla sala. Ed è stato anche il mio battesimo del fuoco per la sua cinematografia, che conosco molto marginalmente e che non ho mai veramente affrontato.

E, dopo la visione, non vedo l’ora di scoprirne di più.

La pellicola si è rivelata purtroppo un incredibile flop commerciale, anche se certamente non è stata pensata per un ritorno economico consistente: ha incassato appena 3.4 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di una spesa di 35 milioni.

Di cosa parla Crimes of the future?

Cosa succederebbe se il corpo non potesse più provare dolore e l’uomo si evolvesse per essere sempre più affine ad un mondo di plastica e spazzatura?

Questo è il mondo in cui vivono Saul e Caprice, due artisti performativi che portano in scena spettacoli davvero peculiari: a Saul crescono organi anomali nel suo corpo, che vengono tatuati e poi estratti dalla sua partner durante lo spettacolo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimes of the future?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Dipende.

Partiamo col dire che Crimes of the future non è un film per nulla semplice.

La trama non è di per sé centrale, ma è al contrario un veicolo per raccontare un mondo futuristico e desolante, spoglio e senza speranza. Un mondo concentrato unicamente sul corpo e sulle sue trasformazioni, senza più paura per l’orrore e per il grottesco.

Quindi, se non vi piace particolarmente il body horror e un tipo di orrore particolarmente materiale, è probabile che questo film non faccia per voi. Come prodotto lo posso in parte paragonare a Mad Max – Fury road (2015): un film incredibile, basato molto su un orrore spettacolare e corporeo, ma in cui la trama è di fatto secondaria.

Una società perduta?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Nel film vediamo un mondo spoglio, fatto di rottami, spazzatura e degrado.

E non sembra che la cosa interessi a nessuno.

L‘intero focus è sull’uomo, sulle sue trasformazioni, in una sorta di neo-umanesimo. L’evoluzione è talmente rapida che non è neanche possibile definirla e regolarla: continuamente nel film si parla di come certe cose siano concesse, altre non ancora, e sembra sempre di agire nelle zone d’ombra della legge.

La stessa tecnologia sembra vecchia e datata, e non sembra esserci altro desiderio di quello di curare il corpo, plasmarlo a proprio piacimento, non cercando per la bellezza, ma il grottesco, che diventa in qualche modo anche erotico.

Arrivando all’estremo con la cosiddetta chirurgia da tavolino, ovvero la chirurgia improvvisata, di strada.

La corporeità

La corporeità domina ogni elemento.

Perfino la tecnologia stessa sembra essere definita tramite la corporeità, non cercando delle linee eleganti e futuristiche, ma dei macchinari che sembrano delle creature fatte di pezzi di corpo, di ossa bianche e lucide.

Il desiderio di corporeità arriva fino a fare dei concorsi di bellezza per la bellezza interiore, di fatto quella degli organi interni, a creare degli spettacoli concentrati sull’estrazione dell’organo più artistico e addirittura il desiderio erotico di vedere un’autopsia dal vivo.

E un’autopsia sul corpo di un bambino.

Kristen Stewart: c’è sempre una prima volta

Kristen Stewart in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Se avete letto la mia recensione di Spencer (2021) sapete cosa ne penso di Kristen Stewart, che qui interpreta la timida impiegata Timlin. E devo dire che è la prima volta, da quando ha cominciato a recitare, che l’ho vista veramente recitare in un ruolo.

Indubbiamente non è del tutto uscita dalla sua comfort zone della ragazza timida e impacciata, elemento che spesso accomuna i suoi personaggi, anche in prove attoriali assolutamente non pessime (ma neanche grandiose) come in Spencer, appunto.

Spero sia un primo passo nella giusta direzione.

Per ora, ha la mia attenzione.

Crimes of the future spiegazione finale

Personalmente ho trovato difficile comprendere il finale, che è definitivo praticamente dal dialogo fra Saul e il Detective Cope: non riuscendo a seguirlo, complice forse il doppiaggio poco indovinato, non sono riuscita (sul momento) a capire il resto.

Se siete anche voi nella mia situazione, siete nel posto giusto.

Nel finale il detective rivela a Cope che il Vice Department ha sostituito gli organi del bambino per evitare che si scoprisse questa realtà di evoluzione umana, che si adattava a questo ideale di nutrirsi della plastica e degli scarti industriali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Per questo le due impiegate che dovrebbero apparentemente controllare il funzionamento dei macchinari, in realtà erano in combutta con la stessa polizia. E per questo hanno ucciso il dottore (che forse ci viene fatto intendere avere la stessa mutazione di Becker) e il padre del bambino ucciso.

Alla fine Saul decide di allontanarsi dalla polizia e del suo lavoro, cominciando a nutrirsi di plastica e capendo che questo è quello che il suo corpo vuole: l’ultima inquadratura mostra un Saul molto rilassato e, finalmente, felice.

Qual è il significato di Crimes of the future?

Partendo dal fatto che il film a mio parere è del tutto godibile senza dover dare alcuna interpretazione, il significato della pellicola è in realtà abbastanza intuitivo.

Cronenberg ci vuole raccontare di un futuro desolante, ma anche possibile: un futuro in cui le guerre climatiche e la distruzione delle risorse ha portato a una realtà degradante, dove l’uomo comincerà a non potersi (o non volersi) più nutrire dei prodotti naturali, ma piuttosto di quelli artificiali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Un futuro in cui si adatterà semplicemente alla distruzione che lo circonderà, concentrandosi solo su sé stesso, in maniera quasi ossessiva.

La volontà di nutrirsi di rifiuti industriali sarebbe l’ultimo passo verso questa idea di essere un tutt’uno con l’orrore che lo circonda.

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American Animals – L’insoddisfazione rapace

American Animals (2018) di Bart Layton è un heist movie di rara bellezza, capace di sperimentare con il formato del documentario in maniera assolutamente originale e sperimentale. È difficile spiegare questo film a chi non l’ha mai visto: basti sapere che non è ispirato ad una storia vera, ma, come il film stesso spiega fin dall’inizio, è effettivamente una storia vera.

Le notizie sul budget non sono sicure, ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 3 milioni di dollari, con un incasso di 4 milioni in tutto il mondo: un incasso piuttosto misero, per un film di grande valore.

Di cosa parla American Animals?

Spencer e Warren sono due studenti universitari annoiati dalla vita, totalmente insoddisfatti del percorso che sembra già stato scelto per loro. Per questo decidono di intraprendere una apparentemente semplicissima rapina…

Vi metto qua il trailer, ma personalmente vi sconsiglio di guardarlo: un caso da manuale di come banalizzare drammaticamente un prodotto, cercando di collegarlo ad un film di maggior successo.

Infatti nella pellicola si cita brevemente Le iene (1992) di Quentin Tarantino, e il trailer italiano gira tutto intorno a questo, quando di fatto è una citazione che, se decontestualizzata come in questo caso, mostra un taglio narrativo che il film di fatto non possiede.

Perché guardare American Animals?

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Come anticipato, American Animals è un prodotto incredibilmente sperimentale. All’interno del film ci sono le interviste dei protagonisti reali della rapina raccontata, che interagiscono anche direttamente con gli attori in scena. Quindi la storia raccontata è totalmente genuina e corrispondente agli eventi reali.

Non dovete però immaginarvi un mockumentary: il documentario è reale e ottimamente integrato all’interno della pellicola, ma non finge di essere quello che non è. Ma, per capire di cosa sto parlando, dovete guardarlo voi stessi.

È un film che mi sentirei di consigliare abbastanza a tutti: se siete appassionati di heist movie, sopratutto quelli più interessanti e di concetto come Logan’s Lucky (2017), non potete veramente perdetevelo.

Perché i manoscritti sono così importanti in American Animals?

Ci tengo a spendere due parole riguardo all’importanza e alla preziosità dei manoscritti, perchè potrebbe apparire strana a chi non è del settore.

Anzitutto, certi manoscritti sono considerati effettivamente delle opere d’arte: i cosiddetti volumi illuminati sono impreziositi da miniature, di fatto piccoli dipinti di anche di grande valore, fatti per esempio con la foglia d’oro. Non a caso facevano (e fanno) parte delle collezioni di re e regine.

Inoltre, i manoscritti, anche senza essere belli, possono avere un valore storico incalcolabile: semplificando molto, più un volume si avvicina temporalmente ed a livello di fedeltà al testo originale dell’opera, più è prezioso. E, soprattutto nel caso dei testi a stampa, le prime edizioni hanno un valore altissimo fra studiosi, ma anche e soprattutto collezionisti.

E il mercato nero di questi manoscritti è più prolifico di quanto si possa pensare…

Raccontare una storia vera

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

L’incontro fra la forma del documentario e film in senso stretto è fondamentalmente perfetta: oltre ad una messa in scena della parte documentaristica che si vede essere passata nelle mani di un autore capace, il montaggio è magistrale.

La fluidità con cui si passa da una scena all’altra, con un montaggio dinamico e che riesce perfettamente a coniugare le parole delle persone reali della vicenda con gli attori in scena. E la macchina da che riesce veramente a cogliere l’essenza del loro racconto, lasciando che i protagonisti si raccontassero, per riportare visivamente le loro parole sullo schermo.

La scelta degli attori

Barry Keoghan in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Il casting degli attori è davvero ottimo: tutti gli interpreti sono scelti e diretti con grande cura, riuscendo oltre ad assomigliare moltissimo alle persone reali, ad essere le loro perfette controparti in scena.

In particolare è stato veramente interessante vedere in scena due attori di grande valore, ma che abbiamo cominciato a conoscere davvero solo recentemente. Anzitutto Evan Peters, che è noto principalmente al grande pubblico per il suo ruolo di Quicksilver negli ultimi due film degli X-Men e come Fietro (Fake Pietro, in riferimento al casting finto di Piero Maximoff) in Wandavision. In realtà ha fatto molto altro, anzitutto vincendo recentemente l’Emmy per l’acclamata serie Omicidio ad Easttown.

E come non parlare di Barry Keoghan, interprete con un volto e un’espressività tutta sua, che lavorato in film molto di nicchia come Il sacrificio del cervo sacro (2017) e che recentemente si è affacciato al grande pubblico con Eternals (2021). Ma probabilmente lo ricorderete soprattutto per il poco che l’abbiamo visto come Joker in The Batman (2022).

L’insoddisfazione rapace

Barry Keoghan in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

American Animals si propone anche di esplorare le motivazioni dietro ai protagonisti, che sembrano del tutto essere ricondotti ad una insofferenza e insoddisfazione rapace. La stessa insoddisfazione che sembra divorarli dentro, rinchiusi in una vita già definitiva senza aver fatto nulla di interessante.

Per certi versi mi ha ricordato Bling Ring (2013), anche se in questo caso la motivazione è molto più profonda. I protagonisti si immaginavano al centro di una vicenda avventurosa e avvincente, che gli cambierà la vita e che ricorderanno per sempre. E che sarà di fatto senza conseguenze.

Ma la realtà si rivela molto diversa.

Il punto di rottura

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Il punto di rottura gira tutto intorno alla figura della bibliotecaria.

La donna è infatti l’incognita del piano che nessuno, nemmeno Warren, vuole davvero affrontare. Nel suo racconto del piano la questione sembra molto semplice: la donna gli sviene semplicemente fra le braccia.

Ma quando invece deve molto maldestramente colpirla e legarla, quando la donna piange e addirittura si urina addosso, allora tutto crolla. Se notate prima di quel momento i personaggi sono abbastanza contenuti, anzi decisamente scherzosi nei loro rapporti.

Invece, da quel momento in poi la situazione precipita, e tutte le tensioni sotterranee esplodono, arrivando fino al punto in cui Chas li punta una pistola addosso, Eric fa a botte per un nonnulla, Warren ruba stupidamente da un supermercato e Spencer provoca un incidente.

Di fatto tutti i personaggi arrivano ad un punto di esplosione, in cui vogliono solo farsi prendere, farsi punire.

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Bombshell – Raccontare uno scandalo

Bombshell (2020) di Jay Roach è una pellicola che racconta lo scandalo che nel 2016 coinvolse Roger Ailes, ex-capo dell’emittente teleivisva FOX, e altri dirigenti accusati da diverse donne di molestie ed aggressioni a sfondo sessuale.

Il film ha alle spalle una produzione molto sentita, con a capo Charlize Theron, che è anche l’interprete principale. Fra l’altro un prodotto che si sbilanciò molto nell’attaccare non solo l’emittente televisiva incriminata, ma anche Trump quando era ancora in carica.

La pellicola purtroppo non è stata un grande successo commerciale, rientrando a malapena nelle spese: appena 61 milioni di dollari di incasso a fronte in un budget di 30.

Di cosa parla Bombshell?

La vicenda ruota intorno a tre donne: Megyn Kelly (Charlize Theron), Kayla Popsil (Margot Robbie) e Gretchen Carlson (Nicole Kidman), tutte accumunate dall’esssere impiegate presso l’emittente televisiva FOX Television e di dover subire attenzioni non volute o effettivi ricatti sessuali per fare carriera. E non sono le sole…

Bombshell può fare per me?

 Charlize Theron in Bombshell (2019) di Jay Roach

Bombshell si inserisce nella lungo trend che vedremo da qui ai prossimi anni (come il film in prossima uscita incentrato sul caso Weinstain, She said), che racconta i vari scandali sessuali che sono scoppiati a partire dal 2015 in poi anche grazie al movimento Me too.

E vi si inserisce bene, sperimentando anche con il genere mockumentary e offrendo un prodotto che non vuole nè feticizzare nè spettacolarizzare una vicenda assai drammatica. La regia è invece capace di raccontare in maniera potente e coinvolgente il dramma di queste tre donne, particolarmente quello della giovane ed ingenua Kayla, senza praticamente mostrare nulla.

Un film necessario, per conoscere un vicenda che non ha avuto particolare risalto al di fuori degli Stati Uniti.

Raccontare la paura

Margot Robbie e John Lithgow in Bombshell (2019) di Jay Roach

Come anticipato, non è per nulla semplice riuscire a raccontare una vicenda così importante senza arrivare a spettacolizzarla, anche involontariamente. E Bombshell riesce perfettamente a non farlo: l’unica scena che vediamo rappresentare effettivamente una molestia è diretta alla perfezione, senza sessualizzare il corpo di Margot Robbie, ma anzi enfatizzando la sua ottima recitazione corporea ed espressiva, che già di per sè è molto esplicativa.

Così anche il resto della vicenda non è mostrato, perchè non ce ne era bisogno: basta raccontare la terribile camminata di Kayla verso l’ufficio di Roger: una donna sola, che sa che deve sottoporsi ad un processo umiliante per ottenere un minimo di attenzioni.

E che, lo vediamo, ottiene quello che vuole: più si va avanti nel film, più il suo trucco si fa appariscente, per avvicinarsi al modello di donna perfetta e da mettere in mostra in primo piano per fare audience.

Ogni tipo di molestia

 Charlize Theron in Bombshell (2019) di Jay Roach

La capacità di Bombshell è di saper raccontare tutto lo spettro di molestie a cui le donne del film (e nella vita reale) sono sottoposte. E nessuna è meno grave: si parte dalla molestia verbale, anche in diretta televisiva, con umiliazioni viste come complimenti e battute innocenti.

Si arriva poi ai ricatti sessuali neanche troppo sottili, ai licenziamenti per le donne che non si volevano far schiacciare, alle ripetute molestie per quelle che hanno ceduto. E non solamente per le tre protagonista, ma per un numero in continua crescita di donne che hanno finalmente la possibilità di farsi avanti.

Un sistema marcio, che non accenna a migliorare.

Nessun cambiamento

Il finale del film non è per fortuna consolatorio nè inutilmente ottimista: lo dimostra chiaramente Kayla, che, anche se i colpevoli sono stati licenziati, decide lo stesso di andarsene. Perchè chiaramente le altre persone che dovrebbero prendere il posto dei colpevoli non hanno interesse a proteggere le vittime nè a cambiare il sistema, ma a solo a salvare la faccia.

Non un finale positivo, ma piuttosto molto duro e realistico, che ho molto apprezzato.

Per quanto in generale il film sia molto fedele agli eventi raccontati, ci sono comunque alcune piccole differenze da segnalare.

Anzitutto, la scelta di Megyn Kelly di mettersi contro Ailes potrebbe essere stata una scelta più opportunistica di quanto la racconti il film: davanti alla causa intentata da Gretchen Carlson, Kelly si trovò davanti alla possibilità di liberarsi da un capo che non la sosteneva più e in generale di poter rimettere in riga i suoi colleghi uomini, oltre che a uscirne meglio come immagine personale e poter avere più potere negoziale per il suo contratto.

Per quanto Kayla Pospisil sia un personaggio inventato ad hoc per il film, effettivamente una delle dipendenti dirette di Ailes, Laurie Luhn, raccontò di aver avuto il compito di procacciare al suo capo delle giovani ragazze dipendenti dell’emitettente, per spingerle ad un incontro privato con lui, consapevole che questo sarebbe probabilmente finito (come minimo) in una molestia sessuale.

Altro in Bombshell

Anche il personaggio di Jess Carr è totalmente inventato: fra le vittime denunciate di Ailes non ce ne era nessuna che portasse il suo nome o avesse attinenze col personaggio. Tuttavia la stessa racconta una realtà sotterranea di giornalisti di tendenze liberali all’interno della Fox News.

Da segnalare che la leg cam del film non è per nulla un’invenzione, anzi è un elmento denunciato più volte negli anni all’interno dell’emitettente. La frase detta da una delle truccatrici riguardo a una delle ragazze che tornava da un incontro con Ailes senza il trucco sul naso e il mento (segno di essere stata coinvolta in delle prestazioni sessuali), è altresì vera.

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Il sorpasso – Il dramma del boom

Il Sorpasso (1962) di Dino Risi è un film che si inserisce nel cosiddetto genere della commedia del boom.

Un filone che si sviluppò fra la metà degli Anni Cinquanta e Sessanta per raccontare il fenomeno economico-sociale del Boom Economico che travolse, fra gli altri, anche l’Italia.

E fu anche un enorme successo commerciale: nonostante una timida apertura, la pellicola godette di un ottimo passaparola, diventando il prodotto di maggior successo in Italia quell’anno.

Di cosa parla Il sorpasso?

Roberto è un timido studente di legge, che si trova da solo a studiare durante la giornata di Ferragosto a Roma. Viene coinvolto in un viaggio improvviso e travolgente da Bruno, un uomo conosciuto proprio quella mattina.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Il Sorpasso è un film imperdibile

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso è una perla della cinematografia nostrana, una pellicola con un incredibile Vittorio Gassman, che interpreta Bruno, che è la perfetta controparte del compianto Jean-Louis Trintignant, che interpreta Roberto.

Una commedia irresistibile, che lascia però un sorriso amaro in bocca: capace di raccontare il sogno del boom, ma svelando anche la drammaticità con pochi tocchi ben azzeccati.

Al contempo, è considerabile un buddy movie ante litteram, che si dice abbia persino influenzato Easy Rider (1969, dal titolo con cui era stato distribuito negli Stati Uniti, Easy Life).

Un capolavoro intramontabile, insomma.

Bruno: l’inarrestabile nel Sorpasso

Si chiamava Roberto. Il cognome non lo so. L’ho conosciuto ieri mattina.

Bruno rappresenta il fragile sogno del boom economico: apparentemente travolgente e inarrestabile, in realtà con una fragilità e una fallibilità intrinseca.

Il suo personaggio infatti solo apparentemente si destreggia facilmente fra i luoghi, le donne e gli affari. In realtà fino alla fine del film non ha un soldo in tasca e solo fortuitamente guadagna 50.000 lire dal futuro marito della figlia.

Così ci prova praticamente con tutte le donne che incontra, dalle tedesche che insegue fino alla ex-moglie alla fine, ma nessuna sembra interessata a lui o comunque si concede davvero. Così sembra sempre pronto a destreggiarsi fra gli affari, ma in realtà non ne combina veramente nessuno.

E proprio la sua fallibilità si definisce quando perde il suo slancio e viene riportato coi piedi per terra dai personaggi che gli stanno intorno, in particolare Roberto, che agisce un po’ da grillo parlante. Così, quando inseguono le ragazze tedesche e si trovano in un cimitero, quando un Bruno indeciso cerca comunque di continuare il suo piano, è Roberto che lo invita ad andare via. E Bruno accetta.

Roberto: l’inetto nel Sorpasso

È che ognuno di noi ha un ricordo sbagliato dell’infanzia.

Come Bruno rappresenta lo sfolgorante sogno del boom, Roberto è invece l’immagine di una sorta di nostalgia infantile per il passato, dell’incapacità di adattarsi alla frenesia del nuovo presente.

In particolare vive dei suoi sogni d’infanzia, della stanza dei lettini nella casa degli zii, dell’amore ancora vivo per Zia Lidia, degli apparenti fallimenti con Valeria, la ragazza dei suoi sogni. E al contempo vive nei suoi pensieri, dove sembra pronto all’azione, ma che non realizza mai fino alla fine.

Roberto è un personaggio continuamente in imbarazzo e fuori posto, in particolare nella scena della spiaggia, dove non accetta mai di scoprirsi come gli altri, dove non vuole mai adeguarsi. Anzi la sua è una continua fuga, un continuo tentativo di tornare sui suoi passi e scendere dal treno e tornare ai suoi libri, alla Roma deserta ma rassicurante.

E, quando decide finalmente di adattarsi alla nuova realtà, viene punito.

Il dramma del boom

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso rappresenta in tutto e per tutto la fragilità del sogno di ricchezza e di possibilità senza limiti, quando l’Italia stava vivendo una ritrovata (e apparente) situazione di felicità.

Questa euforia è rappresentata in primo luogo dal viaggio spericolato e che non si pone regole, anzi le infrange volutamente. Poi dalla ricchezza dei luoghi frequentati: prima l’autogrill, poi il club del Cormorano e infine la spiaggia.

La spiaggia in particolare è davvero il luogo più travolgente e imprevedibile, da cui Roberto cerca continuamente di sottrarsi. Pieno di gente fino a scoppiare, rumoroso e concitato, e che sembra sempre il punto di partenza per possibilità diversissime.

Non a caso sul motoscafo di Bibì si parla di arrivare a Portofino in un paio d’ore, e alla fine proprio Bibì e Lilly vanno via improvvisamente alla volta dell’Isola dell’Elba.

Una corsa inarrestabile, che non sempre si risolve in un esito positivo.

Il momento anzi più alto che svela la fragilità del boom è quando Bruno cerca di comprare l’incidente: vediamo solo le casse a terra, il guidatore che lo ascolta e, senza una parola, si allontana con le mani premute in viso, mentre l’inquadratura si allarga e mostra un cadavere a terra.

Un sogno bellissimo, ma che può facilmente fallire.

Scrivere in corsa (e schiantarsi)

Vittorio Gassman in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

La bellezza di questo film è che fu scritto col preciso fine di raccontare un’Italia credibile e vera.

Per questo, durante la scrittura del film gli sceneggiatori Ettore Scola e Ruggero Maccari tenevano sempre sottomano i giornali del giorno, per inserire riferimenti anche alla immediata attualità.

Un esempio è quando Bruno parla della giurisprudenza marziana, perché proprio in quel periodo, quando il sogno dell’Allunaggio si faceva più vicino, si cominciava a parlare di questi argomenti.

Il finale fu, secondo gli stessi autori, deciso per una scommessa, ma in realtà non potrebbe essere più giusto che così: un sogno sfavillante che si conclude con una terribile tragedia.

La figura della donna

La figura della donna ne Il Sorpasso è estremamente variegata.

Per la maggior parte del tempo vediamo donne enigmatiche, irraggiungibili e che non si concedono molto facilmente: così le due ragazze tedesche del cimitero, la cassiera all’autogrill, e persino la ragazza che Roberto incontra alla stazione.

Per la maggior parte donne immerse nella bellezza del boom, che decidono per se stesse, a partire dalla giovanissima figlia di Bruno.

Ci sono due splendide eccezioni che si pongono ai due estremi: la zia Lidia, timida donna di campagna che si lascia per poco tentare dalle lusinghe di Bruno, ma che, guardandoli andare via, ricompone la sua crocchia e si ritira di scena.

E al lato opposto la donna rapace: Gianna, la moglie del Commendatore, che seduce senza pietà Bruno al Club del Cormorano, anche davanti agli occhi del marito.

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The Martian – La commedia del sopravvissuto

The Martian (2015) di Ridley Scott è un simpatico (e sottolineo simpatico) film di fantascienza con protagonista Matt Damon.

Un ottimo successo commerciale: 603 milioni di dollari di incasso contro un budget di 108 dollari. Anche piuttosto contenuto per una produzione del genere.

Un film che vidi con piacere a poca distanza con Interstellar (2014), di cui condivide anche parte del cast, e che mi aveva lasciato un ottimo sapore in bocca. Pensavo che fosse per l’ottima regia di Scott: niente di più sbagliato.

Di cosa parla The Martian?

Durante una missione sul Pianeta Rosso, il team di astronauti viene colpito da una tempesta e perde uno dei suoi componenti, il botanico Mark Watney. A sorpresa in realtà Mark è sopravvissuto e, mentre cerca di contattare la Terra per farsi salvare, deve trovare un modo per sopravvivere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Martian?

Matt Damon in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

Differentemente da come mi ricordavo, The Martian è un film incredibilmente accessibile. In maniera un po’ anomala per una fase di produzioni più drammatiche come appunto Interstellar, ha un inaspettato taglio comico.

Per questo vi consiglio di non guardarlo aspettandovi un film di Ridley Scott, ma piuttosto un buon film di fantascienza, maledettamente appassionante, ma con valore artistico vicino allo zero.

Niente di male in questo senso, ma se siete appassionati del regista potreste rimanerne delusi. Inoltre non ve lo consiglio se non potete sopportare quel tipo di film molto americani e costruiti a tavolino per piacere a quel tipo di pubblico, quindi con dinamiche anche molto prevedibili.

Ma, in generale, è un piacevolissimo film di genere.

La commedia del sopravvissuto

Jeff Daniels e Kristen Wiig in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

La scelta di questo titolo non è casuale: come anticipato, il film ha un taglio inaspettatamente comico-realistico in senso stretto. È una storia con un eroe comico, piacevole e naturalmente simpatico, per cui tifiamo e di cui seguiamo un’avventura che ha pochi momenti veramente drammatici.

Ed è obiettivamente una storia di cui è facile appassionarsi, perché gioca su pochi elementi vincenti e ben posizionati: un andamento fondamentalmente comico e leggero, tutto costruito intorno al personaggio di Matt Damon, puntellato di pochi ma importanti momenti drammatici che portano ad una costruzione della tensione ben bilanciata.

Senza accorgermene, alla fine della pellicola mi sono trovata nella stessa situazione del pubblico nel film che segue con passione il salvataggio di Mark: col fiato sospeso, col cuore stretto quando avviene un imprevisto, con la commozione quando finalmente Mark viene salvato.

Un eroe americano

Matt Damon in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

Il grande successo di questa pellicola a livello commerciale è anche legato a quanto sia impregnato di una forma mentis del tutto americana. Si parla infatti di un eroe molto statunitense, che si trova in una situazione di pericolo, ma non si perde mai d’animo e sopravvive solo grazie alle proprie forze. Una sorta di sogno americano traslitterato su un altro pianeta: se ti impegni, otterrai tutto quello che vuoi.

Infatti si può notare come Mark non sia presentato come un personaggio particolarmente intelligente, ma, piuttosto, molto creativo e instancabile. E, di nuovo, un protagonista naturalmente simpatico e che il popolo statunitense e così anche il pubblico in sala ama fin dalla prima scena.

Perché, per quanto Mark parla di cose complesse e reali, accompagna lo spettatore, anche guardandolo dritto negli occhi grazie ad un ottimo escamotage narrativo. E così il coinvolgimento è assicurato.

Bellezza, non arte

Come detto, non ricordandomi il tipo di regia del film, davo per scontato che fosse un elemento di grande valore della pellicola. Niente di più sbagliato, appunto: la regia è piuttosto nella media, niente che ti aspetteresti da un autore come Scott.

Non mancano certo le riprese aeree sicuramente belle da vedere, ma nel complesso non si può parlare più che di una regia buona, ma quasi alcuni guizzo degno di nota.

Aguzza la vista!

Nel film sono presenti moltissimi attori più o meno noti, noti soprattutto per serie tv, di grande successo.

Oltre a Jessica Chastain e Matt Damon, visti poco tempo prima in Interstellar, Chiwetel Ejiofor, che qui interpreta Venkat, è famoso sopratutto per essere il protagonista di 12 anni schiavo (2013) ed è recentemente apparso in Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) nei panni di Modor.

L’indimenticabile Sean Bean, che qui interpreta il ribelle Mitch, ma che è famoso sopratutto per essere stato Ned Stark in Game of thrones e Boromir ne Il signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello (2001).

Abbiamo poi tre attori dell’MCU: Sebastian Stan, che qui interpreta Chris, uno della squadra di Mark, e che è famoso sopratutto per aver interpretato il Soldato d’inverno nella saga di Captain America, e che abbiamo visto recentemente anche in Pam & Tommy nei panni di Tommy Lee. Poi Michael Peña, uno degli attori comici più irresistibili della saga di Antaman, dove interpreta Luis, uno degli amici di Scott. In questo caso è Rick, uno della squadra di scienziati capitanata da un terzo attore dell’MCU, Benedict Wong, lo Stregone Supremo di Doctor Strange.

Annie è Kristen Wig, attrice associata sopratutto a prodotti di scarso valore e successo come il cosiddetto Gosthbusters al femminile (2016) e il recente Wonder Woman 1984 (2020), dove interpretava Cheetah. Poi Jeff Daniels, che qui interpreta il capo della NASA, famoso sopratutto per essere il protagonista della serie The Newsroom. Infine Nick Mohammed, che ricorderete sicuramente come Nathan della serie Ted Lasso.

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Call me by your name- Persi in un bellissimo sogno di Tumblr

Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino è un piccolo cult della cinematografia mainstream. Infatti, nonostante incassò pochissimo (appena 40 milioni in tutto il mondo), acquisì col tempo moltissima popolarità e lanciò Timothée Chalamet come attore.

Un film che ho sempre evitato di guardare, perché davvero poco interessata ad esso ed al genere in generale. E infatti avrei potuto passare in maniera decisamente migliore il mio tempo. Tuttavia, come in altri casi, ci sono ottimi motivi per cui potrebbe piacervi. E non a caso la sua popolarità è di fatto facilmente spiegabile.

Di cosa parla Call me by your name?

Elio è un diciasettenne franco-americano che sta passando, come ogni anno, le vacanze in Italia. La sua vita verrà sconvolta dell’incontro con Oliver, studente straniero ospitato dal padre nella loro casa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Call me by your name?

Dipende.

Prima di scegliere di guardare questo film, io ci penserei molto bene, per evitare di rimanere incastrati in un film che potrebbe non far per nulla per voi. Infatti, nonostante cerchi in parte di distaccarsi da alcuni stereotipi del genere, è di fatto un dramma romantico dal sapore adolescenziale.

Ed è veramente solamente questo: il racconto gira intorno alla scoperta della sessualità da parte di Elio e alla sua relazione con Oliver, e veramente non c’è altro. Quindi se, come me, non siete particolarmente fan di questo tipo di storie col dramma facile, lasciate davvero stare…

Altrimenti, potrebbe essere il vostro nuovo film preferito.

Perché Call me by your name è diventato un cult?

I punti di forza di Call me by your name sono l’originalità, la scelta del protagonista e l’ambientazione.

Indubbiamente si tratta di una delle poche pellicole mainstream, oggi come cinque anni fa, che racconta una relazione queer senza stereotipare o feticizzare i suoi protagonisti.

E questo è stato indubbiamente un valore della pellicola, che ha superato, almeno in parte, questo tipo di narrazione.

Oltre a questo, il protagonista scelto è perfetto, sia come attore, sia per come e stato scritto. Un personaggio in cui un adolescente, soprattutto un adolescente queer, può facilmente immedesimarsi (e che ha coinvolto anche me).

Infine (e questa non è una cosa positiva) l’ambientazione è scelta ad hoc per il pubblico statunitense, che riesce a digerire un’Italia solo se cristallizzata in una realtà lontana nel tempo e, di fatto, inesistente.

Immedesimarsi nel protagonista

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Partiamo dalle poche cose positive.

E indubbiamente Timothée Chalamet, che ho apprezzato sia per Dune (2021) che per Piccole donne (2019), è stato davvero convincente.

La bontà del suo personaggio è dovuta sia alla scrittura, sia alle capacità recitative dell’attore. Va a suo vantaggio anche il fatto che Chalamet, che al tempo aveva ventun anni, è un diciassettenne assolutamente plausibile.

Anzi, potrebbe essere persino più giovane.

Oltre a questo, il suo comportamento è del tutto credibile e realistico: si innamora di un uomo molto più adulto di lui, è totalmente schiavo della sua sessualità e la esplora, fingendosi grande e senza paura, in realtà di paura avendone moltissima…

Raccontare la queerness, e bene

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Tutto sommato la trattazione della queerness dei protagonisti è ben gestita.

Sia perché, a differenza di altri prodotti, non è limitante: entrambi i personaggi hanno relazioni sessuali soddisfacenti sia con uomini che con donne, senza essere ridotti a mere etichette e stereotipi.

Al contempo, si parla due ragazzi assolutamente normali e credibili, totalmente estranei a certi stereotipi ancora molto presenti nel cinema occidentale. E, soprattutto per quanto riguarda Oliver, si tratta di personaggi dalla mascolinità molto forte e presente, costantemente messa in scena.

L’indelicatezza del miscasting

Armie Hammer in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Un problema per me piuttosto grave è stato castare Armie Hammer per Oliver.

Il suo personaggio infatti dovrebbe essere un ventiquattrenne (per quanto non venga mai detto esplicitamente nel film). Purtroppo Hammer, a differenza di Chalamet, dimostra tutti i trent’anni che aveva al tempo.

Per questo è stato per me fondamentalmente impossibile appassionarmi alla relazione dei protagonisti: sullo schermo non vedevo un ventenne e un diciassettenne, ma un trentenne e un diciassettenne (o anche più giovane).

Impressione che ha dato alla scena tutto un altro sapore…

E questo è un problema non tanto per l’età effettiva dell’attore, ma per l’incapacità di farmi sospendere l’incredulità. Un elemento che, purtroppo, sembra che dia fastidio solo a me e che troviamo drammaticamente in progetti anche recenti come Licorice Pizza (2021).

Il sogno italiano

Armie Hammer e Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Una cosa che non perdonerò mai a questa pellicola è il fatto che un regista italiano si sia abbassato al gusto statunitense invece che portare una rappresentazione interessante del suo paese.

Infatti è indubbio che l’ambientazione nella Italia provinciale degli Anni Ottanta, che sembrano in realtà Anni Sessanta, è stata scelta ad uso e consumo del pubblico statunitense.

Lo spettatore medio statunitense è incapace comprendere che l’Italia contemporanea non è più quella de La dolce vita (1960).

Una realtà è drammaticamente evidente da film come il recente Luca (2021) e dall’insuccesso di ogni prodotto italiano che abbiamo provato a portare all’estero che non facesse parte di questo immaginario.

Il finale punitivo

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Ancora meno mi è piaciuto il finale punitivo del film.

Non solo perché si vede ancora una volta questa incessante sofferenza che i personaggi queer vivono nel cinema occidentale, perché è un finale che ho trovato veramente gratuito e poco credibile.

Infatti, per quanto il film continui a dirlo a parole, niente di quello che ho visto mi racconta veramente una società omofoba che non avrebbe accettato la relazione dei protagonisti. Anzi, vediamo una famiglia totalmente aperta all’idea, dei personaggi secondari che non fanno mai nessun tipo di commento in merito.

Oltre a questo, ed è davvero paradossale, in una scena verso metà film Oliver parla letteralmente di quanto abbia avuto piacere a fare sesso con Elio a voce alta davanti ad una edicola in paese, con fra l’altro una persona alle sue spalle.

Insomma, una bella narrazione fatta apposta per portare alla lacrimuccia finale…

L’imbarazzo

Ci sono due momenti che mi hanno fatto veramente imbarazzare per il film.

Anzitutto, ho trovato al limite del comprensibile questo specie di segreto che hanno i due protagonisti, ovvero quello di chiamarsi con il nome dell’altro.

Non l’ho trovato per nulla romantico o interessante, ma un modo gratuito per creare una scena iconica e citabile, oltre che il momento commovente sul finale.

Ma quello che mi ha fatto davvero esasperato è stato il discorso del padre sul finale.

Anzitutto per il fatto che, di nuovo, questa omofobia così pericolosa non si sente dal film. E di conseguenza questa idealizzazione della relazione di Elio e Oliver, che di fatto non ha nulla di speciale, l’ho trovata nauseante.

Soprattutto perché il padre, se proprio avesse voluto incoraggiare il figlio a vivere serenamente la sua queerness, avrebbe potuto dire ben altre cose più che raccontargli come speciale e unica una relazione appunto non così importante.

Nel film infatti non vediamo un ragazzo che scopre la sua sessualità, ma che ne è già cosciente e che si approccia a Oliver anche sfacciatamente in questo senso. Da parte mia ho visto più che altro un’avventura estiva come tante.

Tuttavia questo tipo di narrazione della relazione speciale e indimenticabile è funzionale al pubblico di adolescenti target.

E quindi, per quanto ridicola, non poteva certo mancare.

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Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.

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Interstellar – La monumentalità guastata

Interstellar (2014) di Christopher Nolan è uno dei più ambiziosi progetti in ambito fantascientifico degli ultimi anni.

Non a caso è stato un grande successo commerciale: 703 milioni di dollari di incasso contro un budget di 165. Ed è infatti uno dei film più citati ed apprezzati del regista.

Di cosa parla Interstellar?

In una Terra al limite del collasso, l’ingegnere Joseph Cooper viene inaspettatamente coinvolto in una missione spaziale per salvare l’umanità. Questo però significherà abbandonare i figli per un numero indefinito di anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Interstellar è un film imperdibile

Matthew McConaughey, Timotheè Chalamet e Mackenzie Foy in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Assolutamente sì.

Come detto, Interstellar è una delle produzioni più ambiziose degli ultimi anni, un film che si propone di portare il racconto dei viaggi nello spazio ad un altro livello. Paradossalmente, la storia di per sé è davvero semplice, ma viene arricchita da una serie di concetti scientifici e pseudo-fantascientifici non poco complessi.

Un film davvero monumentale, sia nell’estetica sia nella sua durata, assolutamente necessaria per raccontare un’avventura così importante e ricca di colpi di scena e concetti importantissimi.

Insomma, non potete assolutamente perdervelo.

E se alla fine sarete più confusi che altro, potete tornare qui e vedere la risposta a (spero) tutte le vostre domande.

Perché ho amato Interstellar

La bellezza (e bruttezza paradossalmente) di Interstellar è la sua complessità. E si tratta di una complessità voluta perché Nolan ama profondamente essere complesso, come Tenet (2020) ha ben dimostrato.

Tuttavia, a differenza di Tenet, la complessità è quasi dovuta per rendere credibile un’avventura così monumentale. Soprattutto perché basata su varie teorie scientifiche (come la Teoria della Relatività) e pseudo-scientifiche (il Wormhole), che sono la colonna portante della narrazione.

Matt Damon in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Al contempo Interstellar è una storia molto umana: i personaggi sono profondamente guidati dalle loro passioni e dai loro sentimenti. Ed è anche un tema del film: il Dr. Mann racconta proprio come l’uomo sia spesso guidato dell’interesse egoistico verso gli affetti vicini a lui e incapace di pensare sul lungo periodo.

Ma paradossalmente il dramma di Mann è anch’esso totalmente egoistico: sapendo di poter essere salvato solamente portando dei dati incoraggianti, li falsifica. Allo stesso modo inizialmente Cooper pensa principalmente a tornare dalla propria famiglia, Amelia a ricongiungersi con il suo amato.

E così gli stessi personaggi sono incredibilmente fallibili, e sono infiniti i drammi che devono affrontare e i complessi morali cui sono continuamente messi davanti. Ma sono comunque ricompensati da un finale positivo e fondamentalmente consolatorio.

Cosa non sopporto di Interstellar

Ci sono due elementi che poco sopporto di Interstellar: il facile dramma e la povertà di spiegazione.

Per me il dramma fra Cooper e Murph poteva essere facilmente evitato se questo avesse spiegato letteralmente alla figlia che stava andando a salvare il mondo. Ed era anche più giusto nei confronti di una bambina neanche tanto piccola, che avrebbe probabilmente meglio sopportato l’angoscia del mondo (evidentemente) al collasso piuttosto che l’abbandono del padre.

Allo stesso modo avrei preferito che le spiegazioni nel film fossero più ricche e chiare, e non volutamente nebulose. Insomma, non sopporto quando vengono lasciati così tanti punti di domanda, e non per dare spazio alle teorie, ma per volontà proprio di non dare spiegazioni (e a volte incapacità, anche se non in questo caso).

Tutto quello che non hai capito di Interstellar

Come funziona il tempo?

Per come è rappresentato il tempo in Interstellar, valgono due concetti fondamentali: il loop e la Teoria della Relatività. Il primo è il più semplice da capire: tutto il film è un loop in cui il Cooper del futuro influenza le azioni di Murph e di se stesso del passato.

Oltre a questo, il tempo è assolutamente relativo: il tempo è una dimensione che è da noi considerata lineare, ma in realtà non lo è. E, per questo, cambiando prospettiva e ambiente, il tempo ci appare scorrere in maniera differente.

Chi sono loro?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

I personaggi vengono aiutati dell’umanità del futuro, capace di vivere in cinque dimensioni e di permettere all’uomo del passato di viaggiare attraverso il wormhole da loro creato per raggiungere i nuovi pianeti abitabili.

Cos’è il wormhole?

Il wormhole di cui si parla nel film è una teoria scientifica che prevede il collegamento fra due luoghi anche molto distanti nello spazio. In questo caso appunto permette ai protagonisti di raggiungere in un tempo accettabile una nuova galassia con pianeti abitabili.

Cosa succede nel finale?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Cooper attraversa il buco nero e si trova in uno spazio artificiale, il tesseract (o tesseratto) dove il tempo diventa una dimensione materiale. Così tutti i momenti di Murph sono visibili materialmente e Cooper può intervenire e mandare dei messaggi alla figlia.

Così le manda tramite il codice morse dei dati quantistici contenuti all’interno del buco nero che le permettono di avere le conoscenze matematiche per costruire le tecnologie con cui poter viaggiare attraverso il wormhole e raggiungere altri pianeti abitabili.