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Yes Man – Vuoi cambiare la tua vita?

Yes Man (2008), per la regia di Peyton Reed, fu uno degli ultimi film da star di Jim Carrey, dopo gli splendidi successi, sia in ambito drammatico che comico, di film come Ace Ventura (1994) e Eternal sunshine of the spotless mind (2004).

Il film fu comunque un discreto successo al botteghino (223 milioni di dollari contro 70 di budget), ricevendo recensioni miste dalla critica e dal pubblico.

Insomma, non esattamente il film più iconico di questo straordinario attore.

Un Jim Carrey che mi sembra arrivato ad un punto della sua carriera dove aveva già sperimentato moltissimo coi generi, e che in questo film cerca di dare sempre il meglio di sé, non sempre riuscendoci.

Insomma, quasi il suo canto del cigno.

Di cosa parla Yes Man?

Carl lavora per una banca e, dopo il fallimento del suo matrimonio, è diventato un uomo chiuso in sé stesso, che trascura i suoi amici e le sue relazioni. Per un particolare incontro deciderà di partecipare ad un programma che impone di dire sì a tutte le proposte che gli arrivano, indipendentemente da cosa si tratta.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Yes Man?

Jim Carrey, John Michael Higgins e Terence Stamp in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Sì e no.

Personalmente Yes Man non sarebbe il primo film che consiglierei nella lunga carriera di Carrey.

Indubbiamente un film dove si è cercato di prendere una via diversa: una classica commedia del periodo, ma che cerca di prendere una strada più profonda e matura. Non riuscendoci sempre del tutto.

In questo film ho visto un Carrey che, all’apice della sua carriera, cerca di rendere organica la recitazione comica e drammatica, con risultati altalenanti. In generale, non è un film che mi sento di sconsigliare.

Tuttavia, davanti alla scelta di commedie più valide, quantomeno a livello intrattenitivo, come Una settimana da Dio (2003) e The Mask (1994), non sarebbe appunto la mia prima scelta. Ma, se volete avere un panorama completo della carriera di Carrey, non potete sicuramente perdervelo.

La parabola dell’uomo triste

Jim Carrey in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Mi ha da subito colpito la tristezza del personaggio di Carl: anche la recitazione di Carrey trasmette un grande senso di tristezza e rassegnazione, di persona delusa dalla vita che vuole saperne nulla delle opportunità che gli vengono offerte.

Da subito pensavo che ci sarebbe stato un elemento magico alla Una settimana da Dio, invece Yes Man racconta la parabola di un uomo che ha perso ogni fiducia nel mondo e che deve cercare di rimettersi da solo in carreggiata e saper rischiare.

Per quanto ovviamente sia tutto portato all’estremo, ho preferito che si raccontasse un impegno e una maturazione che il protagonista fa per sé stesso, non obbligato o avvantaggiato da una forza esterna e irrazionale.

Ovviamente la soluzione finale per cui il protagonista si era auto suggestionato dall’idea di terribili conseguenze è piuttosto abusata, ma nel complesso è apprezzabile.

La recitazione altalenante

Jim Carrey e Zooey Deschanel in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Paradossalmente, la recitazione della giovane Zooey Deschanel l’ho trovata più convincente di quella di Jim Carrey. Il problema di Carrey in questo film è il non riuscire a dosare la recitazione comica per fare in modo che sia coerente con quella drammatica.

Se appunto all’inizio cominciamo con un Carrey che è un uomo triste e incattivito, con la scelta della nuova vita esplode in una recitazione che per certi tratti si avvicina a quella folle di Ace Ventura, passando eccessivamente da un estremo all’altro.

Molto lontano, per me, dalle capacità che aveva dimostrato appena cinque anni prima in Una settimana da Dio.

Al contrario Zooey Deschanel, nella sua semplicità, è la scelta di casting perfetta: è una ragazza davvero adorabile e innocua, con una recitazione quasi infantile, ma che la rende la controparte perfetta a Carl.

Cadere negli eccessi

Jim Carrey in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Un grave problema del film, per fortuna limitato, è quello di voler scadere nella comicità veramente spicciola in alcune sequenze.

Questo aspetto è particolarmente fastidioso all’interno di una commedia che, come detto, cerca di dare un minimo di profondità in più alla vicenda. Insomma, le stesse dinamiche in un film come The Mask non mi avrebbe dato così fastidio.

Mi riferisco particolarmente alla scena del rapporto con l’anziana vicina di casa di Carl, davvero di cattivo gusto, e alla presunta punchline finale del film, dove tutti i partecipanti al congresso di Yes Man hanno rinunciato ai propri vestiti, che ho trovato trovata veramente poco vincente e coerente col tono del film.

Come nella maggior parte dei film di Jim Carrey, sono presenti attori presenti in praticamente tutte le commedie del periodo o diventati famosi in altri prodotti.

Anzitutto ovviamente Zooey Deschanel, che divenne famosa per la serie New Girl a partire dal 2011, e Bradley Cooper, che dopo aver bivacchiato in diversi prodotti di questo tipo, raggiunse una prima notorietà con Una notte da leoni (2009).

Altri piccoli cameo: Terence Stamp, qui il capo degli Yes Man, è nella seconda stagione di His Dark Materials; Rhys Darby, il bizzarro Norman, è l’NPC che accompagna i personaggi all’inizio del gioco in Jumanji (2017).

Luis Guzmán, l’uomo che Carl salva dal suicidio, è il poliziotto messicano in Come ti spaccio la famiglia (2013); infine John Michael Higgins è un caratterista presente in diversi film di questo tipo, fra cui Bad Teacher (2010).

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In viaggio con Pippo – Il mio terribile papà

In viaggio con pippo (1995) di Kevin Lima fu un caso incredibile di rivalutazione di un prodotto alla sua uscita in home video.

Il film infatti uscì nelle sale più per un obbligo contrattuale della Disney che per vera fiducia nel progetto, tanto che incassò pochissimo (37 milioni di dollari contro 18 di budget) e ricevette critiche poco entusiaste.

Tuttavia, con l’uscita in videocassetta, divenne un piccolo cult degli Anni Novanta e Duemila, in particolare per la generazione dei millennials.

Di cosa parla In viaggio con Pippo

Max è un giovane adolescente che vorrebbe solo essere popolare e conquistare la ragazza dei suoi sogni. Per uno strano caso di equivoci, finisce costretto ad un viaggio con il padre, Pippo, che vuole riallacciare i rapporti con lui.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In viaggio con Pippo?

Assolutamente sì.

Per me ancora oggi è un film che vale una visione, anche per immergersi appieno negli Anni Novanta e in uno dei suoi maggiori cult. Una commedia davvero gustosa e divertente, la quale, nonostante qualche ingenuità, è ancora assolutamente attuale.

La consiglio soprattutto se apprezzate le dinamiche alla buddy movie in ambito familiare e il genere road movie.

Oltre a questo, ha una durata talmente breve, che passa in un attimo.

Un rapporto difficile

Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

In viaggio con Pippo è un road movie dal taglio buddy comedy, che racconta il tentativo di un padre di riallacciare i rapporti col figlio ormai cresciuto. Una storia di fatto molto semplice che però, per quanto dovrebbe essere comica, ha dei tratti molto drammatici, al limite dell’inquietante.

Già solamente il motore della vicenda, ovvero l’equivoco di Pippo che pensa che Max possa diventare un delinquente e finire in prigione, è terribilmente realistico e agghiacciante, anche per la messa in scena.

Pippo, da sempre convinto di avere un figlio con la testa a posto e che non farebbe nulla di male, viene terrorizzato dal preside della scuola, che scruta Max con fare poco rassicurante. E l’idea che il figlio prenda una brutta strada è una delle paure che colpiscono qualunque genitore, negli Stati Uniti anzitutto.

Così Max agisce con grande ingenuità, cercando di ingannare il padre per i propri fini ma sentendosi al contempo terribilmente in colpa.

Davvero straziante la scena in cui, con grande riluttanza, cambia il percorso del loro viaggio sulla preziosa mappa del padre. Lo stesso padre che cerca di ascoltare il figlio, dandogli in mano la mappa del loro viaggio e, di conseguenza, fornendogli la libertà di decidere come meglio ricostruire il loro rapporto.

Nonostante questi aspetti che lo rendono un film maturo e ancora interessante, la pellicola pecca in non pochi aspetti.

Un film imperfetto

Pippo e Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Un problema non indifferente del film è che sembra che manchi qualcosa.

Alcuni eventi della trama, soprattutto verso la fine, sembrano molto raffazzonati. Così Roxanne perdona immediatamente Max della sua bugia, così Max e Pippo si riconciliano troppo facilmente con una canzone e con altrettanta facilità riescono ad entrare al concerto, che era l’obbiettivo finale del film.

Se guardate qualsiasi prodotto analogo dello stesso periodo, la risoluzione finale richiede sempre un minimo di costruzione, anche improbabile, in cui i personaggi superano un ostacolo apparentemente insormontabile.

Per fare un esempio molto banale, in Quanto è difficile essere teenager! (2004) la protagonista vuole (come Max) recarsi ad un concerto, pur non avendo i biglietti. Questo elemento viene portato avanti per tutta la trama e ha un tipo di costruzione che poi porta effettivamente al finale.

Niente di tutto questo per In viaggio con Pippo.

Non è un sorprendente scoprire che ci furono diversi problemi produttivi, sia per il budget abbastanza risicato sia per problemi tecnici, col risultato che si dovette rifare da capo parte del film.

Oltre a questo, la pellicola fu approvata da Jeffrey Katzenberg, che fu a capo della Disney fino al 1994, per poi essere licenziato e diventare uno dei cofondatori della Dreamworks Animation.

Per questo i nuovi capi della casa di produzione di Topolino non ebbero evidente interesse nel progetto e lo rilasciarono, come detto, principalmente per obblighi contrattuali con Katzenberg.

Perché In viaggio con Pippo divenne un cult

Big Foot in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Quindi, perché In viaggio con Pippo divenne un cult?

La bellezza del film risiede principalmente due aspetti: l’originalità di alcune trovate e il taglio narrativo.

Anzitutto, diversi elementi di questa pellicola diventarono immediatamente iconici, come il gorgonzola spray tanto amato da Bobby e la divertentissima gag di Big Foot. Elementi non del tutto comuni in piccoli film per bambini di questo tipo, e che oggi avrebbero sicuramente generato una quantità infinita di meme.

Oltre a questo, il taglio narrativo è piuttosto particolare, ed è anche il motivo del suo insuccesso: non parla per niente ai bambini, ma al contrario racconta in maniera credibile sia le ansie del protagonista adolescente sia le preoccupazioni di Pippo come padre.

Oltretutto il personaggio di Pippo in questo film è nel ruolo piuttosto atipico di padre, con anche dei tratti drammatici non indifferenti.

Perché fu un disastro al botteghino?

Anche in questo caso le motivazioni non sono più di tanto difficili da individuare.

Come detto, il taglio narrativo è eccessivamente adulto e rivolto ad un pubblico più adolescenziale che infantile, una problematica simile all’insuccesso de Il pianeta del tesoro (1998).

Al contempo, ci sono delle scene onestamente inquietanti, che possono colpire non nel modo migliore un pubblico di bambini, come è stato per Cup Head Show.

Fra queste, la bambina al negozio di foto di Pippo il cui posteriore viene incollato letteralmente al tavolo, così lo spettacolo degli Opossum, che ha un taglio al limite dell’orrorifico per raccontare la frustrazione di Max.

Una seconda possibilità

Proprio per il grande riscontro che ebbe con l’uscita in home video, la Disney decise, a cinque anni di distanza, di rilasciare un seguito, An Extremely Goofy Movie (2000), noto in Italia come Estremamente Pippo.

In questo caso ebbe un buon riscontro di pubblico e di critica, pur essendo rilasciato nella versione direct to video, ovvero direttamente in videocassetta. Gli fu dedicata una campagna marketing non da poco, con diversi gadget negli Happy Meal di McDonald’s in occasione della sua uscita.

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Il Padrino: Parte II – La grande eredità

Il Padrino: Parte II (1974) è il secondo capitolo dell’iconica trilogia di Francis Ford Coppola con protagonista Al Pacino e, in questo film, anche l’allora stella nascente di Robert De Niro. Nonostante De Niro abbia un minutaggio decisamente minore rispetto a Pacino, il film fu un buon trampolino di lancio per l’attore, pochi anni prima di cominciare il proficuo sodalizio con Scorsese nell’iconico Taxi Driver (1976).

Con un budget più che raddoppiato (13 milioni contro i 6 del primo film), la pellicola incassò decisamente di meno rispetto al precedente capitolo (solo 47 milioni, contro l’incasso di 243 milioni de Il Padrino). Fu tuttavia acclamato dalla critica e vinse sei Oscar con 11 candidature, fra cui il primo Oscar di De Niro come Miglior attore non protagonista.

Purtroppo, ancora una volta, la grandezza dell’interpretazione di Al Pacino non ottenne il risultato previsto: venne candidato come Miglior attore protagonista, ma non si portò a casa la statuetta.

Di cosa parla Il Padrino: Parte II

Il Padrino: Parte II è ambientato a circa sette anni di distanza dal primo capitolo, raccontando le vicende di Michael Corleone, che ha ormai assodato il proprio potere come nuovo Padrino, ma è comunque continuamente insidiato da nemici interni ed esterni. Al contempo, pur con un minutaggio molto più ridotto, si raccontano le origini di Vito Corleone, da quando venne mandato ancora bambino negli Stati Uniti alla sua scalata al potere a New York.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di guardare Il Padrino: Parte II?

Assolutamente sì, soprattutto se vi è piaciuto Il Padrino (1972). Per me Il Padrino: Parte II è un’ottima conferma delle capacità di Coppola di portare in scena una storia complessa e avvincente, all’interno di un film dalla durata monumentale. A questo proposito, il mio consiglio è di guardarlo quando avete tempo da spenderci, in quanto non è un film semplice da seguire e da digerire, oltre ad avere appunto una durata piuttosto importante.

Tuttavia è ancora una volta un film che non può mancare nel vostro bagaglio cinefilo. Tuttavia, prima delle visione, è bene che siate coscienti di un problema non da poco.

La mia terribile esperienza con Prime Video

Qui si apre una polemica fra me e la sottoscritta, ma che può essere utile a chi si approccia per la prima volta alla pellicola. Ho guardato il film su Prime Video e ho avuto immense difficoltà a seguire le parti in cui i personaggi, in particolare De Niro, parlano in italiano con forte accento dialettale. Potete immaginare, con tutto lo sforzo che indubbiamente ci ha messo De Niro, come possa suonare un americano che cerca di parlare in italiano dialettale: una combo micidiale.

Il problema è che non solo queste parti all’interno del film rappresentano interi ed importanti dialoghi, ma, almeno sulla piattaforma di Prime Video, in quelle scene non sono presenti i sottotitoli. Con la poco piacevole conseguenza che ho trovato al limite dell’impossibile seguire certe scene.

Non so se sia una scelta autoriale del regista stesso e non ho idea del tipo di distribuzione che avuto questo film ai tempi e su altre piattaforme. Tuttavia, è bene arrivare alla visione con la consapevolezza di questo problema.

Perché Il Padrino: Parte II è anche migliore del primo film

Al Pacino nei panni di Micheal Corleone in una scena de Il Padrino: Parte II (1974) diretto da Francis Ford Coppola

Per quanto abbia apprezzato Il Padrino, ho trovato il seguito addirittura superiore: oltre all’altissimo livello della recitazione, la storia è ancora più intrigante, in quanto arricchita da un maggiore trasporto emotivo per via del tradimento non più di un nemico esterno, ma del fratello di Michael stesso.

Una vicenda ancora più intricata, spezzata da uno sguardo (meno ampio di quanto mi aspettassi) sulle origini di Vito Corleone e dell’impero da lui creato. Una regia sempre di altissimo livello, cadenzata da momenti al cardiopalma e una violenza cruda e ben dosata, che rende le scene vive e indimenticabili.

Michael Corleone

Per quanto sia stata al tempo maggiormente apprezzata la recitazione di Robert De Niro, per me Al Pacino in questa pellicola è mostruoso. Riesce infatti a dosare la sua recitazione per questo personaggio spietato e calcolatore, con il suo iconico sguardo gelido e omicida. Tuttavia, non un uomo senza sentimenti: poche ma fondamentali le scene in cui perde la calma, di solito quando non ha il controllo sulla situazione.

Così ha una reazione terribile quando Kay gli rivela di aver abortito alle sue spalle, altrettanto perde il controllo quando gli annunciano la perdita del suo nascituro e infine stampa un bacio ferocissimo sul volto sconvolto del fratello Fredo quando gli rivela che conosce il suo tradimento.

Ma ancora più terribile è come allontana da sé le persone, con una freddezza terrificante e frasi lapidarie: così chiude la porta in faccia a Kay quando torna per rivedere i figli, così congeda Fredo, dicendogli Tu non sei più nulla per me.

Ma in fondo è un uomo che soffre terribilmente, rimasto solo dopo aver assassinato il fratello che aveva finto di perdonare. La pellicola si chiude un commovente flashback con cui Michael ricorda quando la sua famiglia era ancora viva e unita.

Ora, invece, è un uomo solo.

Vito Corleone

Per quanto Robert De Niro sia un attore che apprezzo moltissimo e che in questa pellicola ci regali una performance più che ottima, non mi ha del tutto convinto la sua scelta per questo ruolo. Al tempo delle riprese De Niro aveva già trent’anni, mentre avrebbe dovuto essere massimo uno sbarbato ventenne. E, in generale, non sono riuscita ad associare il suo volto a quello del Vito Corleone di Marlon Brando.

Tuttavia ho apprezzato la sua recitazione, perfettamente coerente rispetto a quella di Marlon Brando nel precedente capitolo. A differenza del figlio, Vito Corleone, soprattutto all’inizio, si pone come un boss assolutamente bonario, furbo e convinto delle sue capacità di ottenere il rispetto degli altri.

Così riesce ad ingannare Don Fanucci e ucciderlo a sangue freddo, così accoltella senza pietà Don Ciccio, il boss siciliano che aveva attentato alla sua famiglia quando era ancora un bambini indifeso. Un momento di passaggio al pari di quello del figlio nel primo capitolo della trilogia, con l’omicidio Sollozzo.

Fredo Corleone

La figura di Fredo emerge prepotentemente rispetto al fratello, da cui non potrebbe essere più diverso. Come Michael è abile e calcolatore, Fredo si getta all’interno di un disgustoso tradimento per pura gelosia del fratello minore, che ha inaspettatamente preso potere a suo svantaggio.

Si vede la sua inettitudine quando cerca di scappare disordinatamente dal fratello a Cuba, così si fida dello stesso quando, al funerale della madre, lo abbraccia come un bambino, fingendo di perdonarlo.

In seguito a questo evento, Fredo non sembra avere il minimo sospetto che Michael stia cercando infine di attentare alla sua vita. E pronuncia la sua ultima preghiera, del tutto inconsapevole di star celebrando la sua estrema unzione.

Cosa non mi ha convinto, nonostante tutto

Al di là della questione linguistica, non sono stata del tutto convinta dalla scelta della storia da raccontare. Non mi ha infastidito il fatto che la trama fosse fondamentalmente identica a quella del primo capitolo, ma più che altro non ho trovato del tutto vincente l’inserimento della storia delle origini di Vito Corleone.

Infatti mi aspettavo che la sua storia avesse decisamente più spazio, mentre è contenuta in un minutaggio piuttosto limitato e, anche per questo, mi è sembrata molto accessoria. Avrei preferito piuttosto che il film non la includesse, parlando solamente della storia di Michael. Tuttavia, come detto, non per questo non l’ho apprezzata.

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Il Padrino – L’origine di un cult

Il Padrino (1972) è il primo film della trilogia cult omonima, diretta da Francis Ford Coppola. Considerato uno dei maggiori capolavori della Storia del Cinema, il film rilanciò Marlon Brando come attore e fece al contempo conoscere Al Pacino, fino a quel momento sostanzialmente sconosciuto, a livello internazionale.

Al tempo fu un incredibile successo commerciale: 243 milioni di incasso a fronte di un budget ridottissimo, circa 6 milioni. Fu candidato anche a ben 10 oscar, vincendone tre, e divenne un cult immortale nell’immaginario collettivo.

Di cosa parla Il Padrino

New York, 1946. Vito Corleone è a capo di una importante e potentissima famiglia mafiosa. La sua vita è scandita da una intricata rete di scambio di favori criminali, che terminano spesso con atti violenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché guardare Il Padrino anche oggi?

Marlon Brando nei panni di Vito Corleone in una scena di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

Il Padrino è un’opera irrinunciabile. Non solamente perché è un film assolutamente iconico ancora oggi, ma perché è un prodotto di altissimo livello, con interpreti che hanno regalato prove attoriali indimenticabili.

E, soprattutto, rivedere le frasi e le scene iconiche nel contesto del film gli dà tutto un altro sapore.

Tuttavia, Il Padrino non è un film per nulla semplice: oltre alla durata decisamente importante della pellicola, è un film che va seguito con molta attenzione per non perdersi nel marasma di nomi e di rapporti racconti.

Tuttavia, prendetevi un pomeriggio e regalatevi questa esperienza: non ve ne pentirete.

Vito Corleone: Il primo padrino

Come detto, Vito Corleone appare inizialmente come il centro dell’azione. Parallelamente alla realtà festosa e felice del matrimonio della figlia, il Padrino deve gestire la processione di persone che gli chiedono i favori più disparati, la maggior parte con una componente violenta e omicida.

A primo impatto lo spettatore non assocerebbe mai a questa figura così contenuta e riflessiva a degli atti di tale violenza, come la famosa testa di cavallo nel letto.

Proprio per questo probabilmente Vito si è capo della famiglia, divenendo punto di riferimento come figura saggia e imperscrutabile. Riuscendo in ultimo anche a salvare la vita del figlio, Michael, rivelandogli come scovare il chi l’ha tradito.

Marlon Brando è riuscito a regalare una performance che è divenuta immediatamente iconica, per l’incredibile posatezza e particolarità del personaggio, che gli valse infatti la statuetta agli Oscar come Miglior Attore Protagonista.

Michael Corleone: l’erede

Michael Corleone viene sapientemente presentato come personaggio di contorno, che decide consapevolmente di non partecipare agli affari di famiglia.

Il primo momento di azione è l’omicidio di Sollozzo: Michael si presenta alle sue vittime come le persone al di fuori dei fatti, assolutamente innocuo, a differenza dell’animoso fratello, Sonny.

E infatti tutta la scena dimostra un Michael impacciato, con la mano tremante e indecisa sul da farsi.

Ma che infine agisce.

La trasformazione definitiva avviene durante il periodo in Sicilia. Il suo primo scambio da boss è con il padre della sua prima moglie, Apollonia. Michael aveva infatti notato la ragazza e che l’aveva subito scelta come sua sposa.

Così, adottando l’atteggiamento posato e la fermezza dello sguardo del padre, contratta.

E vince.

Da qui in poi il suo volto diventerà sempre più imperscrutabile, con questi occhi vitrei e minacciosi.

L’atto finale è il ritorno a New York: dopo la morte di Sonny, Michael acquista sempre più potere e comincia a riordinare gli affari di famiglia: prima il giuramento davanti al prete per il battesimo della sorella, con un montaggio alternato che mostra tutti gli omicidi a sangue freddo di cui è il mandante.

E infine la scena di chiusura, in cui viene definitivamente riconosciuto come il nuovo Padrino, con gli astanti gli baciano le mani.

La rappresentazione degli italoamericani

Al Pacino nei panni di Michael Corleone in una scena di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

Uno scoglio non da poco per il film era raccontare la realtà della mafia italo americana in maniera che non fosse stereotipata e appiattita, come abbiamo visto anche in prodotti come House of Gucci (2021).

Cominciamo col dire che ovviamente alcuni passaggi faranno sanguinare le orecchie a qualunque italiano, anche solamente per Corleone pronunciato Corleoni.

Tuttavia, ne Il Padrino comunità italo americana è in realtà ben raccontata. Infatti nella maggior parte delle scene si parla in inglese, con qualche parola e frase in italiano di tanto in tanto.

L’unica eccezione sono alcuni personaggi che parlano principalmente in italiano, ma che sono attori effettivamente italiani e in un contesto, come quello della fuga siciliana di Michael, che lo giustifica. Una rappresentazione per una volta credibile, insomma.

Anzi, nota di merito alla scelta di rendere la difficoltà di Michael di parlare in italiano quando appunto si trova in Sicilia, con una pronuncia stentata e inquinata dalla sua parlata americana.

Cosa, complessivamente, non mi ha convinto

Al Pacino nei panni di Michael Corleone in una scena di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

Ci sono due aspetti che non mi hanno del tutto convinto della pellicola o che comunque mi hanno reso difficoltosa la visione.

Anzitutto, la quantità di nomi e personaggi raccontati, in cui ho fatto fatica ad orientarmi. Ho infatti avuto qualche problema nel finale a capire quali fossero i personaggi più importanti del tradimento.

Così, lo scorrere del tempo.

Nonostante sia abbastanza chiaro, se non fosse per gli indizi visivi in scena (come il bambino di circa un anno di Michael e Kay) non avrei mai percepito effettivamente il passaggio del tempo, di cui non ho colto appieno il senso di alcune ellissi, che mi sono parse futili.

Le citazioni iconiche

All’interno della pellicola ci sono due momenti assolutamente iconici, ma che acquisiscono veramente significato quando vengono contestualizzati nella pellicola.

Marlon Brando nei panni di Vito Corleone in una scena di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

My father made him an offer he couldn’t refuse

Mio Padre gli ha fatto un’offerta che non poteva rifiutare.

Questa famosissima citazione è quanto più interessante se contestualizzata: non si può rifiutare l’offerta del Padrino non perché sia assolutamente conveniente, ma perché, se non la si accetta la prima volta, si avranno delle conseguenze, solitamente molto sanguinose. E infatti nel dialogo in cui viene citato questo elemento si dice anche

Luca Brasi held a gun to his head, and my father assured him that either his brains – or his signature – would be on the contract.

Luca gli puntò una pistola alla testa e mio padre disse che su quel documento ci sarebbe stata la sua firma, oppure il suo cervello. 

Un’altra scena assolutamente iconica è quella della testa del cavallo nel letto. Una sequenza ottimamente costruita, introducendo prima il cavallo e mostrandolo come qualcosa di prezioso per la vittima, che pagherà le conseguenze per il rifiuto alle richieste del Padrino.

La scena è un climax sensazionale, sia per la regia che dalla musica utilizzata, con infine la chiusa incorniciata dalle urla di orrore di John Marley. Una scena di una tale violenza visiva e sonora che non poteva non rimanere nell’immaginario collettivo, per poi essere citata da innumerevoli prodotti successivi.

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Quando c’era Marnie – Nel mare dei ricordi

Quando c’era Marnie (2014) è un film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi, recentemente tornato alla regia con Mary e il fiore della strega (2018).

Il film si colloca in un momento abbastanza drammatico per lo studio: dopo lo scarso successo de Il racconto della principessa splendente (2013), la casa di produzione decise di prendersi una pausa.

È tornata recentemente con Earwig e la strega (2020), primo film in animazione 3D, stroncato da pubblico e critica.

A fronte di un budget abbastanza risicato – 10,5 milioni, circa 1,15 miliardi di yen – incassò abbastanza bene: 36 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Quando c’era Marnie

Anna è una ragazzina di tredici anni, chiusa in sé stessa e con molti drammi interiori irrisolti. La madre adottiva, preoccupata anche per la sua salute, decide di mandarla in campagna dalla zia, così da respirare aria fresca e rimettersi in forma.

In questa occasione Anna incontrerà una misteriosa e bellissima ragazza, Marnie.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Quando c’era Marnie?

Anna e Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

Assolutamente sì.

Ho recuperato abbastanza recentemente Quando c’era Marnie, ma è subito diventato uno dei miei film preferiti.

Sarà per la storia che sento molto vicina, per tutti momenti davvero toccanti della pellicola e la profondità della vicenda raccontata, ma anche ad una seconda visione è riuscito ancora ad emozionarmi e coinvolgermi.

Una pellicola racconta in maniera matura e profonda il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, del ritrovare sé stessi e venire a patti col proprio passato, con piglio molto drammatico, anche a livelli strazianti, ma complessivamente ben equilibrato.

Marnie dei miei ricordi

Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

In originale Quando c’era Marnie si intitola 思い出のマーニー, che significa Marnie dei miei ricordi.

Quando l’ho scoperto, non ho potuto che apprezzare ancora di più la bellezza e la profondità di questa pellicola.

Il film gioca sul limite fra il magico e il reale, senza volerlo spiegare fino in fondo. Semplicemente la nonna di Anna, Marnie, ha voluto ritornare in contatto con la nipote, legata a questo particolare luogo della sua memoria e che amava molto: la villa della sua infanzia.

In realtà Marnie è sempre stata nella vita di Anna, anche se lei non lo sapeva: da notare in particolare la bambola con le sembianze della nonna che la piccola Anna abbraccia nelle scene di flashback.

Anna, non conoscendo finora la vera storia della sua famiglia, ha sofferto terribilmente, sentendosi abbandonata.

In realtà, proprio dopo un passato di reale abbandono, Marnie cercò di crearsi una famiglia migliore, ma tutto le crollò addosso con la morte del marito e poi della figlia, portandola ad una profonda depressione, che infine la vinse.

Ma, nonostante tutto, ci viene raccontato come non si perse mai d’animo e cercò fino alla fine (e oltre) di essere felice e ricostruire la sua vita.

Un’emotività problematica

Anna e Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

Anna viene fin da subito raccontata come un personaggio molto problematico.

Un’emotività fragilissima, che non si sente per nulla amata dalla sua madre adottiva, soprattutto dopo la scoperta dei sussidi ricevuti dalla sua famiglia. Oltre a questo, odia i suoi genitori e sua nonna per averla abbandonata, anche se sa che non era colpa loro.

E si odia per questo.

Il contatto con Marnie, ragazza che la ama incondizionatamente e che sente da subito vicina a sé, la porta a volerla salvare dalle sue fragilità e debolezze.

Aiutare sé stessi

Aiutando la Marnie del passato, Anna aiuta sé stessa.

In questo riesce a ritrovare pian piano la propria felicità e a venire a patti con il proprio passato e col proprio presente. Particolarmente toccante e significativo il momento in cui Anna si sente abbandonata da Marnie, sia effettivamente che metaforicamente, ma che infine riesce a perdonarla per la sua debolezza e per non esserle stata vicino.

Infatti, Marnie evidentemente desiderò accoglierla fin da subito nella sua casa con affetto e amore, anche per colmare i suoi sbagli passati. E, finalmente, ha la sua occasione di riscatto: regalare alla nipote una vita felice e appagante.

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Melancholia – La felicità mentita

Melancholia (2011) è un film di Lars von Trier, cineasta danese autore di pellicole di altissimo valore, autore di pellicole particolarissime e spesso al centro di polemiche.

Il film ebbe un incasso molto contenuto, anche se ampiamente prevedibile visto il genere di pellicola: 17 milioni di dollari al box office contro un budget di 9 milioni.

Di cosa parla Melancholia?

Justine, interpretata da Kirsten Dunst, è una giovane donna affetta dalla cosiddetta malinconia, uno stato di profonda tristezza e mancanza di energie. Questo le impedisce di vivere serenamente il suo matrimonio, con cui si apre il film, mentre un enorme cataclisma sta per piombare sulla terra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Melancholia?

Kirsten Dunst in una scena di Melancholia (2011) di Lars Von Trier con Kirsten Dunst vincitrice della pama d'oro a Cannes

Assolutamente sì.

Melancholia è un film davvero particolare: fin da subito si viene travolti dalla regia, che è cadenzata fra movimenti di macchina iperrealistici e musiche imponenti, quasi operistiche, con un costante sguardo quasi voyeuristico.

Uno svolgimento molto lento e angosciante, persino nel climax finale, e che ci permette di entrare nell’intimità prima di Justine, poi della sorella, Claire. Il film è infatti articolato in due cicli, perfettamente paralleli.

Insomma, non ve lo potete perdere.

I due cicli

Come anticipato, il film è suddiviso in due parti, o, meglio, due cicli.

Il parallelismo fra le due sezioni è perfetto perché rappresenta appunto il ciclo di evoluzione delle due sorelle. Nella prima parte Justine sembra padrona della situazione e genuinamente felice, per poi rivelare la sua fragilità ed i suoi comportamenti autodistruttivi.

All’inizio della seconda parte è invece totalmente priva di forze, ma lentamente ritorna padrona di sé stessa, parallelamente all’avanzare della Melancholia.

Kirsten Dunst in una scena di Melancholia (2011) di Lars Von Trier con Kirsten Dunst vincitrice della pama d'oro a Cannes

Allo stesso modo per la maggior parte del film Claire sembra padrona della situazione, quasi tiranneggiare sulla sorella, fino a urlarle addosso tutta la sua esasperazione.

Ma, alla fine, man mano che si avvicina la Melancholia, perde progressivamente le forze, e si lascia infine guidare dalla sorella in un apparente luogo sicuro e protettivo, ma estremamente fragile come le loro esistenze.

Splendida in questo senso la costruzione dell’angoscia di Claire, derivata dallo stesso tentativo di rassicurazione del marito, che finisce invece per confermare le sue paure.

Justine, una Cassandra

Kirsten Dunst in una scena di Melancholia (2011) di Lars Von Trier con Kirsten Dunst vincitrice della pama d'oro a Cannes

Justine è in tutto è per tutto una Cassandra.

Prevede un futuro catastrofico e angoscioso, ma nessuno le crede.

Dando una interpretazione quasi fantastica, si può pensare che il suo personaggio sia legato alla Melancholia, come dimostra anche la scena in cui, completamente nuda, si sollazza alla luce del pianeta. E così nel flashforward iniziale sembra ottenere dei poteri dal cataclisma stesso, a cui era stata sempre sensibile.

Infatti, in diversi punti del film alza gli occhi al cielo e osserva l’arrivo imminente del pianeta, mentre altri personaggi, come John, il marito di Claire, cercano di negarlo, con fare anche paternalistico.

E, in questa interpretazione, si può pensare che la sua malinconia derivi appunto da questa distruzione imminente.

In altro modo, la Melancholia sembra rappresentare un’angoscia o un male nascosto che è sempre presente, celato dietro ad un’apparente serenità, rappresentata dal sole, dietro appunto al quale il pianeta si nasconde nel film.

Un male che avanza, ma di cui Justine è appunto completamente e profondamente consapevole, a differenza di tutti gli altri.

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The Truman Show – Il seme della follia

The Truman Show (1998) è un film diretto da Peter Weir (lo stesso di L’attimo fuggente, 1989) e che rappresentò un punto di arrivo importante per la carriera di Jim Carrey.

Infatti, dopo un’ascesa fulminante con film come The Mask (1994) e Ace ventura (1994), Carrey ebbe finalmente la possibilità di mostrarsi come attore completo.

Al tempo il film fu un discreto successo al botteghino (264 milioni di incasso contro 60 di budget) e divenne col tempo un cult dei cinefili.

Di cosa parla The Truman Show

Truman (nome parlante) è fin dalla sua nascita all’interno di un ambizioso reality show, che è totalmente realistico: Truman è assolutamente inconsapevole di vivere all’interno della finzione televisiva, ma comincerà a raccogliere gli indizi che lo porteranno alla consapevolezza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Truman Show?

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Assolutamente sì.

Avevo visto The Truman Show una sola volta diversi anni fa, e non ricordavo l’altissima qualità di questa pellicola. Il film gode di una solidissima struttura narrativa, che si articola ad ondate per i diversi momenti di consapevolezza di Truman.

Si avvicina pericolosamente al genere grottesco, senza mai scadere nella banalità o nel cattivo gusto. Il tono è perfettamente calibrato, riuscendo a trasmetterti il giusto senso di angoscia e di trasporto per il personaggio di Truman.

Perché, alla fine, gli spettatori del reality che vediamo in scena siamo noi, in tutto e per tutto. Non a caso i titoli di testa sono quelli del programma rappresentato, non del film stesso.

Un punto di arrivo

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Dopo delle ottime prove attoriali in ambito comico, solo quattro anni più tardi Jim Carrey ebbe la fortuna di essere diretto da un ottimo regista che ne capì la potenzialità.

Carrey in questa pellicola dimostra infatti tutte le sue capacità, caricando la recitazione dal punto di vista comico e grottesco, ma al contempo riuscendo a destreggiarsi ottimamente anche nelle scene più drammatiche.

Per non parlare della recitazione corporea, con cui riesce a trasmetterti tutta la potenza del suo personaggio.

La morale

Ed Harris in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

The Truman Show presenta una morale molto interessante, soprattutto per come è rappresentata la figura del creatore dello show.

La metafora cristiana è evidentissima: Christof (molto simile a Christ) è il creatore di Truman, che lo ha circondato di tutto ciò che lo possa rendere felice e l’ha protetto dalle brutture del mondo esterno, in questa sorta di paradiso terrestre televisivo.

E proprio con questo racconto il creatore cerca di convincere Truman a rimanere, con una logica che si può trovare in altri ottimi prodotti con una trama simile come Dogtooth (2009).

La bellezza della pellicola sta proprio nel fatto che non si vuole rappresentare Christof come una persona avida che vuole solo arricchirsi, ma, al contrario, come un uomo che si vede come un padre amorevole che cerca di proteggere il figlio.

Il tono

Jim Carrey Laura Linney e in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Il tono di The Truman Show è ben calibrato.

Fra il grottesco e il surreale, soprattutto nei tentativi di Christof di impedire a Truman di scoprire la verità, portandolo al limite della follia. Scoprire di avere una vita costruita a tavolino, controllata in ogni particolare, in cui tutto però è fondamentalmente finto, pensato per un determinato scopo.

Così dall’altra parte avere la possibilità di avere uno sguardo quasi voyeuristico costantemente fisso sulla vita di una persona vera, che si percepisce come vicino a noi, anche se non la si conosce personalmente.

Il pubblico tenuto sulle spine fino all’ultimo e infine congedato con un finale consolatorio, dove Truman annuncia scherzosamente di andarsene, salutandoci. E a quel punto la chiusa perfetta: è finito il film, è finito questo The Truman Show, cosa danno sugli altri canali?

All’interno del film sono presenti diversi attori più o meno famosi che conosciamo soprattutto per prodotti televisivi successivi.

Uno dei poliziotti che guarda lo show è Joel McKinnon Miller, Scully nella serie Brooklyn 99, la moglie di Truman, Meryl, è Wendy della serie Ozark, la madre di Truman è Holland Taylor, Ellen nella miniserie di Netflix Hollywood, l’operatore che si vede sempre dietro le quinte è il caratterista Paul Giamatti, il creatore dello show è Ed Harris, un personaggio (di cui non posso dire di più) della prima stagione di Westworld.

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Emma. – Rimanere coi piedi per terra

Emma. (2020) è un film tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen, diretto da Autumn de Wilde, fotografa statunitense nota per i suoi ritratti e per la regia di videoclip musicali, nella sua prima opera cinematografica.

Purtroppo la pellicola uscì proprio in concomitanza con l’inizio della pandemia, quindi incassò veramente poco: appena 26 milioni di dollari, pur non risultando un flop per il budget contenuto – 10 milioni.

Di cosa parla Emma.

La protagonista della pellicola è Emma, giovane nobildonna inglese non ancora sposata, ma molto abile a tessere le relazioni altrui. In particolare si preoccupa di far sposare la sua protetta, Harriet.

Da qui seguono diversi intrighi e vicissitudini che coinvolgeranno la protagonista ed un ampio gruppo di personaggi secondari.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Emma.?

Mia Goth e Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Assolutamente sì.

Emma. ed è tutto quello che potreste aspettarvi da Jane Austen: una storia romantica di matrimoni e intrighi nel contesto della piccola nobiltà inglese. Ma il suo merito è non scadere nel facile dramma che caratterizza spesso prodotti di questo tipo, e, sopratutto, non cercare di attualizzare le vicende.

Al contempo è anche una commedia frizzante e divertente, che intrattiene facilmente e dimostra come sia possibile portare in scena un dramma storico con una storia avvincente e articolata, senza dover scadere in banalità o in esagerazioni fuori contesto e luogo.

L’abito fa il monaco

Mia Goth e Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Emma è in una posizione sociale superiore alla maggior parte dei personaggi, e sfrutta appunto questo suo potere per tessere le relazioni delle persone che gli stanno intorno. La sua posizione sociale prominente è evidente in ogni scena, soprattutto in quelle in cui è nel mezzo di personaggi che sono socialmente inferiori a lei.

La scelta dei costumi in questo senso è azzeccatissima.

Infatti, i personaggi di una classe più elevata si notano subito, soprattutto quelli femminili, per via di un abbigliamento più chiassoso e ricco, mentre i personaggi più socialmente svantaggiati indossano abiti più umili e contenuti.

Il percorso di Emma

Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Emma è un personaggio incredibilmente tridimensionale.

Compie un interessante percorso di crescita e consapevolezza, e il suo punto di arrivo non è né il matrimonio né l’innamoramento. Il fine della sua storia è infatti quello di comprendere la sua posizione e di non abusarne malignamente.

Il momento della realizzazione è quando deride pubblicamente Mrs. Bates, la quale, per la sua posizione inferiore, non può controbatterle.

E così Emma capisce di non voler diventare una persona sgradevole e vanesia come Mrs. Elton, la moglie del canonico, ma anzi di voler appunto usare la sua posizione per aiutare gli altri. Fra l’altro questo aspetto del suo carattere era il motivo Mr. Knightley si era innamorato di lei.

Un casting particolare

Callum Turner e Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Scelta peculiare quella del casting dei protagonisti: per quanto consideri Anya Taylor Joy di una bellezza quasi divina, non ha comunque un volto convenzionalmente gradevole, anzi.

Il suo volto presenta dei tratti molto marcati e particolari, che la rendono una splendida scelta per il ruolo. Così Johnny Flynn, che incarna più l’ideale di bellezza del periodo che quella odierna: labbra pronunciate, sguardo assorto, capigliatura tormentata.

Al contrario, Callum Turner, che interpreta Mr. Churchill e che abbiamo (purtroppo) visto recentemente che in Animali fantastici: I segreti di Silente (2022), presenta una bellezza più convenzionale. Ma è totalmente funzionale alla trama: Emma, oltre anche per l’idea che si è fatta su di lui, deve esserne immediatamente ammaliata.

Personaggi secondari esplosivi

Josh O'Connor e Tanya Reynolds in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

La pellicola può godere di personaggi secondari scoppiettanti.

Anzitutto Mr. Woodhouse, il padre di Emma, interpretato da un esplosivo Bill Nighy, che ricorderete sicuramente per essere stato il Ministro della Magia a partire da Harry Potter e il Principe Mezzosangue (2009).

Un uomo che spinge la figlia a non sposarsi per non abbandonarlo, ma alla fine dà indirettamente la sua benedizione alla nascente coppia, barricandosi dietro ben due paraventi per concedere loro un po’ di intimità.

Così Josh O’Connor, che interpreta il canonico: viscido e macchinatore, con una presenza scenica al limite del grottesco, e che ben si sposa con la maligna stravaganza di Augusta, la moglie nuova di zecca che si procura dopo il rifiuto di Emma.

Due personaggi sgradevoli e bizzarri in maniera davvero spassosa.

Inoltre, Tanya Reynolds (Augusta) e Connor Swindells (Robert Martin) insieme a Josh O’Connor (Il canonico) sono tutti presi da Netflix: gli ultimi due da Sex Education (rispettivamente Lily e Adam) e Josh O’Connor lo ricorderete per aver interpretato Carlo, figlio di Elisabetta, nelle ultime due stagioni di The Crown.

L’innamoramento

Johnny Flynn e Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Anche se potrebbe sembrare, la storia d’amore rappresentata non è la classica situazione enemy to lovers.

Infatti, Emma e Mr. Knightley sono amici da tempo per legami familiari, e lui, sapendo che a lei piace essere l’ape regina che controlla tutti e che è sempre al centro dell’attenzione, la punzecchia (per esempio esaltando la raffinatezza di Jane), ma cerca anche di riportarla coi piedi per terra, come nel caso della questione del matrimonio fra Harriet e Mr. Elton.

La seconda metà del film è il momento dell’innamoramento: Mr. Knightley mostra di apprezzare profondamente Emma, non solo per la sua bellezza, ma per altre doti intellettive e sociali, come fra l’altro Emma si aspettava da lui.

Nella scena del ballo a casa di Mr. Weston si percepisce una tensione di erotica non indifferente, che fortunatamente non si conclude in una scena di sesso anacronistica e volgare come in altri prodotti.

E alla fine arriva l’inevitabile dichiarazione d’amore, con una scena profondamente romantica e tormentata. Ma il momento è rimandato dall’urgenza di Emma di risolvere i suoi errori e di far sposare Harriet con Mr. Martin, intervenendo in prima persona.

E solo in chiusura del film il loro rapporto viene concretizzato, fra l’altro sdrammatizzando col già citato piccolo siparietto comico del padre di Emma. E non potrò mai ringraziare abbastanza questa pellicola di non essersi persa nel facile dramma strappalacrime, ma di essersi invece impegnata nella costruzione di un rapporto credibile e ben raccontato.

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La storia della principessa splendente – La difficoltà di raccontare una favola

La storia della principessa splendente (2013) è un lungometraggio animato nipponico, opera di Isao Takahata, uno degli animatori di punta dello Studio Ghibli.

Una produzione lunghissima: otto anni, di cui solo cinque per lo storyboard. All’uscita in sala ottenne incassi discreti, ma un grande riconoscimento di pubblico e critica.

Di cosa parla La storia della principessa splendente?

La principessa splendente, trovata per caso da un tagliatore di bambù all’interno di un fusto, la principessa è un essere magico che cresce a velocità incredibile. Ma diventa anche in fretta un oggetto del desiderio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La storia della principessa splendente?

Dipende.

In generale, consiglierei questa pellicola a persone che hanno già dimestichezza con lo Studio Ghibli e con un tipo di animazione giapponese piuttosto riflessiva e legata all’elemento magico ed enigmatico.

L’ho trovato tra i film più difficili per questa casa di produzione, ma comunque un tassello importante nella storia della stessa.

Se non ve la sentite di approcciarvi a questo tipo di visione, cosa assolutamente comprensibile, vi consiglio di provare altri prodotti più accessibili dello Studio. Sicuramente non è la pellicola che consiglierei a chi si approccia per la prima volta a questa produzione o addirittura all’animazione giapponese in toto.

Una tecnica unica

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

La tecnica di animazione de La storia della principessa splendente è assolutamente unica, almeno secondo la mia esperienza.

Si ispira evidentemente ai dipinti su rotolo della tradizione giapponese, portando personaggi definiti con pochi tratti, talvolta addirittura caricaturali, dispersi su grandi spazi bianchi.

Questa tecnica di animazione non è neanche del tutto nuova allo Studio Ghibli: molti dei film di questa casa di produzione hanno degli sfondi che sembrano dei dipinti. In questo caso il risultato è di grande raffinatezza, che può piacere o meno a seconda del proprio gusto.

A me personalmente ha convinto a metà.

Una favola, un archetipo

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

Essendo una favola, è evidentemente un racconto archetipico, in cui è facile riconoscere degli stilemi piuttosto comuni sia nel cinema occidentale che orientale.

Questo aspetto può essere più o meno di vostro gusto, a seconda anche di quanto conoscete o volete conoscere del folklore giapponese e di un tipo di impostazione così tanto favolistico.

Oltre a questo, la pellicola racconta anche una cultura antichissima, profondamente sessista e segregante per entrambi i sessi, tanto che la principessa è per molto tempo tenuta quasi prigioniera all’interno del palazzo.

In questo senso torna un tema molto caro allo Studio Ghibli, ovvero il contrasto fra la realtà urbana e artificiosa e quella naturale e più genuina.

La durata immensa

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

Visto che la storia è allungata moltissimo rispetto all’opera originaria, la pellicola è appesantita da una durata veramente immensa. Inoltre, nonostante l’apparente semplicità della trama, verso la fine il film diventa complesso e non facile da seguire.

D’altra parte, il tipo di trama archetipica, quindi per certi versi veramente prevedibile, toglie in parte godibilità alla visione. Infatti, per la maggior parte del tempo, possiamo già intuire le svolte di trama.

La storia della principessa splendente

L’approfondimento dell’esperta

La pellicola è tratta da un racconto anonimo risalente al X secolo, tradizionalmente considerato il primo esempio di monogatari, un genere fondamentale per la letteratura giapponese classica.

Il contesto storico

Nel X secolo il Giappone si trovava in piena epoca Heian, un periodo di pace e di fioritura delle arti. Le uniche testimonianze giunte fino a noi sono quelle della vita di corte, che raccontano una società poligamica.

La norma era infatti che un uomo avesse una moglie ufficiale e varie concubine, mentre la poligamia delle donne era solo sopportata. Una realtà omosociale, ossia c’era una netta divisione tra gli ambienti maschili e quelli femminili, i quali non si intersecavano mai, se non di notte, quando l’uomo raggiungeva in segreto l’amante.

Il motivo della riscrittura

La trama del Taketori monogatari è molto ampliata nel film, soprattutto per la prima parte, che racconta una situazione di iniziale equilibrio e pace: della vita in campagna con la famiglia adottiva e agli amici nel testo originale non vi è traccia.

Di conseguenza le scene di conflitto tra il padre e Kaguyahime (lett. principessa splendente) che si fondano sulla nostalgia della vita agreste, più semplice e autentica, non avevano motivo di esistere.

Perché allora riscrivere la storia originale, allungandola e rischiando di risultare pesanti?

In effetti un motivo c’è: il finale del Taketori monogatari non è lieto perché, secondo le interpretazioni, sarebbe una sorta di punizione per aver violato la netta separazione tra terreno e alieno, avvenuta nel momento stesso in cui il tagliabambù ha deciso di accogliere nella sua vita lo spirito della principessa.

Dalla rottura di questo tabù (ricorrente nella cultura giapponese antica) nascevano i conflitti del testo fino al ritorno di Kaguyahime al regno della luna, causa di grandissimo dolore per i genitori.

Un finale diverso

La pellicola vuole invece fare luce su un altro tipo di conflitto: il contrasto tra la bellezza altra e la sofferenza terrena viene riadattato e applicato al contrasto tra natura e urbanizzazione.

La vita in campagna era idilliaca, perfetta, semplice; quella nella capitale finta, costrittiva, crudele. Da qui nasce la brama della protagonista di ritornare ai luoghi della sua giovinezza, che scoprirà poi essere irrimediabilmente diversi: muore in lei anche la speranza della nostalgia.

Questo film, come molti altri dello studio Ghibli, presenta una pesante critica dello stile di vita moderno ed evoluto e allo stesso tempo piange la perdita di uno più antico e idealizzato.

Per dare questo effetto si è manipolato il principio estetico di epoca Heian detto mono no aware, concetto di difficile traduzione che indica il senso di meraviglia misto a nostalgia che gli animi sensibili provano di fronte alla bellezza della natura in relazione alla sua caducità.

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Sorry to bother you – Un sogno allucinato

Sorry to bother you (2018) è una commedia nera e surreale, scritta e diretta da Boots Riley, rapper e produttore cinematografico al suo esordio alla regia. Un film che si propone di denunciare in maniera divertente e pungente la realtà statunitense odierna, dello sfruttamento del lavoro e del razzismo onnipresente.

Al tempo fu un piccolo successo al botteghino: 18 milioni di dollari di incasso contro un budget di poco più di 3 milioni. E col tempo è entrato nel cuore di molti, andando ad infoltire la proposta cinematografica di genere satirico, ancora poco presente nel cinema mainstream.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Sorry to bother you

Sorry to bother you racconta la storia di Cassius, uno dei tanti giovani afroamericani in difficoltà economica, che porta avanti la sua vita fra lavori estenuanti e degradanti. Trova lavoro presso una compagnia di televendite e, su consiglio di un suo collega, comincia ad utilizzare la sua white voice, ovvero quel tono di voce che imita la parlata stereotipica dei ricchi statunitensi, per diventare un venditore di successo.

Questo lo porterà infatti a scalare i vertici dell’azienda, rivelandone i più assurdi e orribili segreti.

Perché guardare Sorry to bother you

Tessa Thompson e Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

Sorry to bother you è una commedia intelligente e graffiante, che fa riflettere su una problematica tutt’ora molto pressante (e non solo in USA): inseguire il sogno del successo tramite il duro e sfiancante lavoro, con l’idea che questo sia facilmente ottenibile. Così anche, dall’altra parte, lo sfruttamento disumano della classe lavoratrice, fino ad una disumanizzazione della stessa per ottenere il massimo del guadagno.

Una filosofia capitalista che quindi colpisce entrambe le parti: sia chi investe nel lavoro, totalmente accecato dal desiderio di guadagno e del produrre sempre di più e più velocemente, sia chi lavora, ossessionato dall’idea di far carriera ad ogni costo. Insomma, un film di quattro anni fa, ma con una tematica ancora molto attuale.

Sorry to bother you fa per me?

Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

Sorry to bother you è una pellicola non esattamente per tutti i palati. Mi sentirei di accostarla ad altri due film molto divisivi: Don’t look up (2021) per la tematica e Scott Pilgrim vs The world (2010) per il taglio surreale. Se vi piacciono questi due prodotti, ma anche se siete vicini al cinema di Jordan Peele, in particolare Us (2018), potrebbe essere un film per voi.

Più in generale, se vi piacciono le commedie al limite del grottesco, con tematiche molto forti e attuali, guardatelo. Se rifuggite i film surreali come la peste, passate ad altro.

Use your white voice

Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

La questione della white voice è una delle più interessanti della pellicola: non semplicemente la voce da bianco in senso stretto, ma la voce che i bianchi americani associano ad un tipo di persona di successo, il modello di self-made man a cui aspirano.

Tuttavia, il protagonista rimane comunque una persona diversa per la comunità in cui cerca di inserirsi. Emblematica in questo senso la scena della festa a casa di Steve Lift, il capo dell’azienda, quando gli chiedono di rappare, capacità steroetipicamente associata alla comunità nera. E lui canta nigga shit, conquistando il plauso del pubblico.

Ed è l’utilizzo della white voice, così divertente ma anche grottesco, tanto da ricordarmi L’occhio più azzurro (1970, Toni Morrison), che porta il protagonista al successo. E infatti, quando diventa un Power Seller, deve abbandonare quasi del tutto la sua vera voce, che lo identifica appartenente alla comunità nera, e diventare il più possibile simile allo stereotipo di una persona bianca.

Vendere, vendere, vendere

Lakeith Stanfield e Armie Hammer in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

La WorryFree è una delle trovate più geniali del film, perfetta per rappresentare la totale alienazione del lavoratore, che non può permettersi di vivere, e, lavorando per questa azienda, non dovrà più preoccuparsene, non dovendo mai abbandonare le vesti da lavoro. Probabilmente un attacco sottile ad Amazon, ma non solo.

Il passo successivo sono gli Equisapiens, nient’altro che una riproposizione moderna del concetto di schiavismo: persone private di ogni dignità e umanità, letteralmente. Questa soluzione assolutamente disumana ottiene tuttavia il consenso popolare, indice appunto di una società annebbiata dall’idea del guadagno a tutti i costi.

Il sogno allucinato

Armie Hammer in una scena del film di Boots Riley

Il film infatti non è altro che un racconto del sogno allucinato del capitalismo: tutti possono avere successo, tutti possono diventare dei Power Caller. È lì a disposizione, è sopra i vostri occhi, a portata di mano. Tuttavia la possibilità di ottenere quella vittoria è solo apparente: come è detto esplicitamente all’interno del film, facendo il lavoro degradante della classe media, non sarà mai possibile arrivare, nonostante il racconto che se ne fa, a certi livelli di guadagno.

E anche se uno su mille riesce ad ottenere quel successo, è un successo che richiede entrare nella mentalità del capitalismo selvaggio e senza scrupoli. Quindi abbandonare a poco a poco ogni moralità, fare di tutto per arricchirsi e acquisire il successo.