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La spada nella roccia – Il coming of age della Storia

La spada nella roccia (1963) è il diciottesimo Classico Disney, nonché l’ultimo uscito prima della morte di Walt Disney – e l’ultimo che supervisionò direttamente.

A fronte di un budget di 2 milioni di dollari, fu un buon successo commerciale: 4,75 milioni di dollari nella sua prima distribuzione.

Di cosa parla La spada nella roccia?

Artù è un giovane ragazzo orfano destinato a diventare uno scudiero. Ma il destino ha in mente qualcosa di diverso per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La spada nella roccia?

Assolutamente sì.

Anche se spesso è considerato un film minore nella storia della Disney di questo periodo, La spada nella roccia è una pellicola da riscoprire: ereditando la narrazione per quadri di Lilli e il Vagabondo (1955), questo Classico è un tipico coming of age

…ma che riesce a distinguersi da molti suoi simili grazie ad un umorismo piacevolissimo, una morale che rappresenta un incontro fra realtà storica ed evoluzione del protagonista piuttosto peculiare, e momenti ormai diventati iconici.

Insomma, da vedere.

La spada nella roccia Produzione

La spada nella roccia era nei piani della Disney fin dal 1939.

Infatti quell’anno Walt Disney acquistò i diritti per trasporre l’opera di T. H. White, ma in piani produttivi saltarono più volte negli anni, prima di tutto per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e poi per il progressivo disinteresse nei confronti del progetto.

Proprio come La carica dei 101 (1961), anche la sceneggiatura de La spada nella roccia fu sviluppata da un unico autore, che richiese non meno di due rielaborazioni, anche per la difficoltà intrinseca di adattare l’opera di partenza.

Il casting vocale fu turbolento.

La prima scelta per il doppiaggio di Artù fu Rickie Sorensen, che però crebbe considerevolmente durante la produzione, al punto da dover essere sostituito da due figli del regista, Wolfgang Reitherman.

Ne consegue che, fra una scena e l’altra, e persino all’interno della stessa scena, si può notare un cambiamento vocale per il personaggio di Artù.

Per la parte animata si utilizzò ancora una volta la tecnica Xerox, con l’aggiunta della tecnica touch-up per la fase di pulizia delle bozze che andavano poi effettivamente a comporre le immagini della pellicola.

Grazie a questa nuova idea, gli assistenti di animazione, che prima avrebbero dovuto trasferire gli schizzi degli animatori della regia su nuovi fogli di carta, scrivevano invece direttamente sugli schizzi degli animatori, riuscendo così a risparmiare molto tempo.

Immaturità

Pur con qualche perdonabile ingenuità, il racconto dell’immaturità storica de La spada nella roccia è davvero ottimo.

Il periodo portato in scena può essere volgarmente collocato nell’Alto Medioevo, sicuramente in un’epoca pre-carolingia: per quanto secoli non così devastanti come spesso raccontati, comunque rappresentarono un momento di grande povertà e di dispersione culturale.

Il deterioramento del sistema scolastico, la frammentazione del panorama intellettuale, dovuta anche alla devastazione politica, rende infatti credibile un analfabetismo diffuso e un’epoca basata unicamente sul valore della forza.

E proprio qui si inserisce Merlino.

Prospettiva

Merlino rappresenta lo spettatore…

…e con lo stesso dialoga.

Avendo una prospettiva – seppur non chiarissima – dell’evoluzione umana, quasi da umanista incallito, Merlino non riesce a sopportare questo guazzabuglio medievale, quasi come se fosse lo spettatore contemporaneo calato in una realtà senza elettricità, senza idraulica, senza cultura…

Proprio per questo, l’educazione di Artù non è fine a sé stessa.

Merlino non vuole solo educare il futuro Re di un’Inghilterra mancante di una guida, mancante di alcun tipo di lungimiranza, ma vuole fare in modo che lo stesso sia il punto di svolta per la stessa, soprattutto culturalmente parlando.

In questo senso il mago esagera anche nel suo coinvolgimento – proponendo materie, come la biologia, che non esistevano proprio in quel periodo – ma proprio perché nella sua prospettiva è fondamentale gettare le basi per un’Europa acculturata e con una visione proiettata verso il futuro.

Per questo Artù non è Artù…

Corrispondenza

Senza voler portare un’eccessiva sovralettura, il personaggio di Artù, più che corrispondente al mitico condottiero britannico del VI sec., è una rappresentazione più o meno consapevole di Carlo Magno.

Saltando qualche secolo in avanti e spostandoci a livello geografico, il leggendario Re dei Franchi era sostanzialmente una analfabeta che gettò le basi culturali fondamentali per la rinascita intellettuale dell’Occidente fra il Basso Medioevo e l’Età Umanistica.

Insomma, una figura storica capace di cambiare prospettiva.

Ed è proprio questa la base della sua apparentemente stramba educazione.

Merlino cerca di porre il giovane pupillo in vesti diverse e molto più indifese, dove Artù deve capire come salvarsi la pelle grazie al suo intelletto e non più (solamente) tramite la forza, proprio per portare ad una visione molto più a lungo raggio.

In questo modo Artù potrà effettivamente essere il Re che farà cambiare prospettiva al suo Paese e all’Occidente tutto, proprio mentre l’Inghilterra sta cercando il suo prossimo regnante – e la sua prossima guida – ancora tramite una prova di forza.

Ostacolo

Perché Artù può estrarre la spada?

Anche se la sfuriata di Merlino quando il giovane protagonista sceglie di diventare uno scudiero sembra troppo improvvisa, in realtà è del tutto giustificata: nonostante i suoi grandi sforzi, il suo pupillo sceglie comunque di sottomettersi alla cultura dominante…

…e di porsi anzi in secondo piano in un mondo definito da scontri all’ultimo sangue e da una totale dimenticanza del vero simbolo che avrebbe definito il futuro del Paese – la Spada nella Roccia – che viene riscoperto proprio dal protagonista.

E Artù può estrarre la spada perché, nonostante la sua poca forza fisica, ha dimostrato in più occasioni di sapersi – anche solo potenzialmente – adattare a circostanze cangianti e sfidanti, e quindi di essere capace, a differenza dei suoi compatrioti, di diventare la guida di cui il suo Paese ha bisogno.

Per questo Merlino sceglie di tornare da Artù proprio nel momento di maggior bisogno, quando lo stesso ha mosso il primo passo nella sua evoluzione, ma quando ha ancora bisogno di una insegnante che gli faccia guardare al futuro con una maggior consapevolezza e intelligenza.

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2022 Avventura Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Fantastico Film George Miller

Tremila anni di attesa – Un qualunque desiderio

Tremila anni di attesa (2022) di George Miller, traduzione abbastanza impropria di Three Thousand Years of Longing, è un incontro piuttosto curioso fra il genere fantastico e il dramma storico.

A fronte di un budget di ben 60 milioni di dollari, è stato un terrificante flop commerciale, con appena 20 milioni di dollari di incasso…

Di cosa parla Tremila anni d’attesa?

Alithea è una studiosa britannica che da tempo soffre di apparenti allucinazioni. Ma qualcosa di molto concreto sta per accadere nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tremila anni di attesa?

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Assolutamente sì.

Dopo Fury Road (2015), anche con Tremila anni d’attesa George Miller ha dimostrato di essere un autore estremamente creativo e multiforme, sostanzialmente incapace di fossilizzarsi sul genere che gli ha sostanzialmente definito il successo ad Hollywood…

…ma volendo sperimentare, qui e altrove, con generi e dinamiche molto diverse fra loro, riuscendo comunque a confezionare un racconto avvincente, impreziosito da una morale per nulla scontata.

Insomma, da riscoprire.

Aspettative

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Con tematiche di questo tipo è facile risultare banali…

…soprattutto nel tentativo di essere originali.

Invece, fin da subito, Miller sorprende con dinamiche ben equilibrate e, in qualche modo, persino credibili: Alithea non prova a strofinare la lampada perché pensa che ci sia dentro un genio, ma piuttosto la pulisce con uno spazzolino elettrico…

…e così il djinn non parla immediatamente in inglese, ma comincia col la lingua di Omero.

Tilda Swinton in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Allo stesso modo, la reazione della protagonista è piuttosto graduale.

La donna è sulle prime molto – giustamente – sospettosa nei confronti del genio, memore delle innumerevoli storie in cui diversi umani sprovveduti sono stati intrappolati dai loro stessi desideri mal espressi…

E, per questo, deve essere convinta del contrario.

Vittima

Il djinn è, in un certo senso, la vera vittima della storia.

Dopo essere stato imprigionato in una trama dal forte sapore biblico, finisce sfortunatamente nelle mani della classica protagonista delle storie di questo tipo: una sciocca ragazza che si sente fin troppo sicura dei suoi desideri, e che per questo finisce schiacciata dagli stessi.

E, al contempo, il djinn dimostra la sua impotenza.

Nonostante sia una creatura millenaria, con poteri inimmaginabili, può poco davanti al reticolo di inganni e di autodistruzione che avvelena la corte, in cui basta un sussurro, un dubbio, per fare cadere un castello di carte già piuttosto fragile…

Ed il genio è tanto più impotente davanti alla scarsa lunghezza di vedute della ragazza, che si dimostra incapace di reagire e di salvare sé stessa – e di conseguenza anche il djinn – andando proprio a sottolineare la sua forte dipendenza dall’umano.

Occasione

Quello che potremmo chiamare l’atto centrale di Tremila anni d’attesa funge più quasi intermezzo.

Il djinn rimane per lungo tempo sullo sfondo della sua stessa storia, ancora una volta articolata su un domino invisibile di eventi che si concatenano e che cambiano da un momento all’altro la sorte dei personaggi – compreso lo stesso genio.

 Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Così l’umore altalenante del sultano viene solo temporaneamente quietato da un innamoramento fin troppo breve, e la sua improvvisa morte getta nel caos il regno stesso, che finisce nelle mani di un bambinone e delle sue concubine, incapaci di gestire alcunché…

…fra cui la sorte dello stesso djinn.

Ma sembra che il destino abbia qualcosa in serbo per lui…

Legame

L’ultima avventura del djinn sembra essere quella decisiva.

Finito nelle mani di una giovane donna con un intelletto sgargiante, imprigionata in un matrimonio soffocante, il djinn ha finalmente la possibilità di realizzare dei sogni che arricchiscono non solo la sua padrona, ma anche lui stesso.

Ma proprio questo è la sua rovina.

Avendo desiderato per millenni di entrare nell’aldilà promesso dei djinn, il protagonista finisce per legarsi in maniera inaspettata con Zefir, con cui concepisce persino un figlio, ma che, nonostante l’incredibile conoscenza acquisita, è come tutti vittima delle sue debolezze.

Infatti, basta un momento di incomprensione per fare esprimere involontariamente alla donna il suo ultimo desiderio, che effettivamente rappresenta la profondità del suo cuore in quel momento, ma che la condanna ad una vita di oblio.

Allora è questa la volta buona per il djinn?

Desiderio

Tilda Swinton in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Cosa desidera veramente Alithea?

A differenza di tutti gli altri umani prima di lei, la donna non sembra essere mossa da particolari necessità.

Tuttavia, questa sua ritrosia nel trovare un desiderio soddisfacente è in realtà specchio del suo essersi ormai in qualche modo arresa alla vita: avendo bruciato quell’unica occasione di fuga dalla solitudine, ormai la sua esistenza non ha più bisogno di altri sconvolgimenti.

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Eppure, è proprio questo il suo più intimo desiderio.

Il desiderio che la protagonista infine esprime è di realizzare finalmente una relazione duratura e travolgente, che possa compensare a quella solitudine che l’ha turbata più di quanto sarebbe disposta ad ammettere…

…e che porta ad incatenare il djinn su un piano dell’esistenza che non è il suo.

Per questo il finale è così calzante.

Proprio rinunciando al suo desiderio, Alithea si differenzia dagli altri umani che, in un modo o nell’altro, si erano fatti distruggere dalle loro stesse passioni, scegliendo invece una serena esistenza puntellata da poche ma essenziali felicità.

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Mad Max: Fury Road – La rinascita dell’antieroe

Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller rappresenta il rilancio della saga storica di Mad Max e il sequel spirituale di Mad Max oltre la sfera del tuono (1985).

Nonostante abbia ricevuto diversi riconoscimenti agli Oscar di quell’anno, al tempo della sua uscita fu un discreto flop commerciale: con un budget fra i 154 e 185 milioni, incassò appena 380 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Mad Max: Fury Road?

Mad Max, un anti-eroe perseguitato dal suo passato, si trova involontariamente coinvolto nei complessi giochi di potere di Immortan Joe e della sua Imperatrice, Furiosa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mad Max: Fury Road?

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Assolutamente sì.

Fury Road è un ottimo esempio di come rilanciare una saga così profondamente legata per estetica e per dinamiche al periodo storico di uscita – insomma, esattamente il contrario di Il risveglio della Forza, che fra l’altro arrivò in sala lo stesso anno…

Infatti Miller confezionò una pellicola che si ricollega in maniera semplice ma funzionale a quanto visto in precedenza, ricostruendo il suo antieroe e il suo mondo ancora una volta con una regia spettacolare e piena di sorprese.

Insomma, da non perdere.

Rinascita

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

L’incipit di Fury Road è fondamentale.

A ben trent’anni di distanza dall’ultimo capitolo della saga, era necessario per Miller dare un’infarinatura generale del suo protagonista anche alle nuove generazioni di spettatori, assolutamente all’oscuro dei film originali.

Per questo, sceglie di rimescolare un po’ le carte in tavola, riprendere alcuni spunti di Oltre la sfera del tuono – i bimbi sperduti che Max salvava – per raccontare un antieroe solitario, costantemente perseguitato dai suoi rimpianti, che ne definiscono l’iconica pazzia.

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E tanto basta.

La personalità di Max è infatti profondamente turbata, tanto che sceglie programmaticamente di non legarsi mai veramente a nessuno, proprio per i dolorosi ricordi di non essere riuscito a salvare le persone a cui più teneva.

E proprio per questo il suo personaggio funge anche da vettore per catapultare – e catapultarsi – nella rinnovata scena politica dominata da Immortan Joe – fra l’altro una vecchia conoscenza, in quanto interpretato dal compianto Hugh Keays-Byrne, il villain di Mad Max (1979).

Succube

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Non a caso, per tutto il primo atto Max è succube della situazione.

Spogliato, rasato, reso letteralmente una sacca di sangue alla mercé di uno di War Boys, il suo coinvolgimento nella preparazione della nuova corsa ci permette di gettare uno sguardo al dietro le quinte, alla precisa gerarchia della Cittadella.

Di fatto, Immortan Joe, preparato per presentarsi al pubblico con i suoi simboli distintivi, affama – o, meglio, asseta – il suo popolo mantenendo il totale monopolio sulla seconda risorsa più ricercata in questo nuovo mondo: l’acqua.

Hugh Keays-Byrne come Immortan Joe in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E il suo punto di forza è proprio la santificazione.

Immortan Joe non è un semplice dittatore, ma un personaggio che è riuscito a rendersi epico, in quanto immortale e apparentemente imbattibile, già solo andando a rimodellare il respiratore che lo tiene in vita non come un handicap, ma come una maschera feroce e temibile.

Sulla stessa linea, il villain sventa qualsiasi ipotesi di rivolta proprio modellando la sua forza militare intorno ad un mito eroico dal sapore norreno, in cui ogni soldato, anche il più inetto, può sperare di essere accolto nel Valhalla, la valle degli eroi.

Per questo Furiosa è fondamentale.

Ribellione

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

La ribellione di Furiosa viaggia su più livelli.

Di fatto, la donna vuole tornare alla sua terra d’origine, a quella terra dell’abbondanza da cui è stata rapita in giovane età e a cui ha cercato più volte di fare ritorno, fallendo anche per la sua crescente popolarità agli occhi di Immortan Joe.

Al contempo, Furiosa vuole salvare altre donne succubi, seppur in maniera diversa, della Cittadella.

Infatti, Immortan Joe tiene sotto scacco un gruppo di giovani e fertili donne con il solo obbiettivo di rimpolpare le sue file di War Boys, illudendole in una vita piena di lusso e comodità, per renderle sostanzialmente delle schiave sessuali.

E questa illusione, al pari del ricatto dell’acqua, è fortemente penetrata nelle menti di questi personaggi, tanto che in più di un’occasione una di loro ha l’istinto di tornare sui suoi passi, nella prigione dorata forse preferibile alla devastazione del mondo esterno…

E sia Furiosa che le madri sono accomunate dal loro essere indispensabili.

Non a caso, queste giovani donne sono particolarmente consapevoli del loro corpo e di come utilizzarlo a loro favore: particolarmente incisiva in questo senso la scena in cui Angharad minaccia di far saltare il bambino che porta in grembo.

Allo stesso modo, Furiosa è l’unica donna che in qualche modo Immortan Joe rispetta effettivamente, non rendendola solamente un’incubatrice o una fonte di latte materno, ma piuttosto la punta di diamante del suo esercito.

E, a questo punto, sorge una domanda fondamentale…

Centrale

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Furiosa è la vera protagonista?

Per certi versi non è l’Imperatrice ad inserirsi nella storia di Mad Max, ma piuttosto il contrario: il protagonista della saga, in maniera in realtà molto tipica, inciampa nelle trame di un altro personaggio

…e ne diventa parte fondamentale.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E la gestione in questo senso è sublime.

Una scrittura più ingenua avrebbe banalizzato il rapporto fra Max e Furiosa in una relazione amorosa, con una classica dinamica enemy to lovers – sulla falsariga di quello che succede, per certi versi, fra Nux e una delle madri in fuga.

Al contrario, il rapporto di fiducia fra i due personaggi si costruisce gradualmente, arrivando alla comune consapevolezza che entrambi stanno cercando la libertà – Max dalle catene, Furiosa dal controllo della Cittadella – diventando così compagni di fuga.

Ma se il paradiso verde non esiste…

Alternativa

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Durante il loro viaggio, i protagonisti si imbattono quasi per caso in un luogo lugubre e a cui non dedicano più di uno sguardo…

…e che invece era effettivamente la loro meta.

Infatti, il felice rincontro con le Molte Madri si frantuma immediatamente davanti alla consapevolezza che il paradiso ricercato è stato ingoiato dalla devastazione che ha ormai avvelenato ogni cosa in questo scenario desertico e mortifero…

…e porta in prima battuta Furiosa ad avere l’istinto di diventare niente come Max: un viaggiatore in fuga, senza una meta, se non il pallido ricordo di un mondo che non esiste più, in una vita definita solo da dolorosi rimorsi.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Per questo, l’intervento di Max è fondamentale.

Il protagonista sceglie di dare a Furiosa una possibilità che ormai ha negato a sé stesso: costruire con le proprie forze un angolo felice in cui vivere all’interno della depressione presente, anche dove sembra più impossibile, proprio smascherando Immortan Joe…

Ma, proprio per questo, Max non può restare: dopo aver salvato la vita a Furiosa e dopo averla messa sul trono, il nostro eroe torna a cavalcare le strade, lasciando la nuova Imperatrice con uno sguardo d’intesa estremamente eloquente:

Esisto così, in questa terra devastata: un uomo, ridotto a un unico istinto: sopravvivere.

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La bella addormentata nel bosco – Una protagonista di sfondo

La bella addormentata nel bosco (1959) è il sedicesimo classico Disney basato sull’omonima fiaba dei Fratelli Grimm e sull’opera di Perrault in I racconti di Mamma Oca (1697).

A fronte di 6 milioni di dollari, fu un pesante insuccesso commerciale: appena 5,3 milioni di incasso, portando ad una perdita finanziaria tale da portare lo stesso Walt Disney a cominciare a disinteressarsi all’animazione…

Di cosa parla La bella addormentata nel bosco?

Il re Stefano e la regina Leah riescono dopo anni ad avere una bellissima bambina. Ma un invito mancato cambierà decisamente le carte in tavola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La bella addormentata nel bosco?

Assolutamente sì.

Con mia sincera sorpresa, La bella addormentata nel bosco potrebbe essere fra i miei Classici Disney preferiti di questa fase – e per un motivo molto semplice: la storia di Aurora e Filippo è incredibilmente accessoria, mentre il fulcro della trama è altrove.

Raramente si vede in un film Disney una presenza così preponderante del villain e dei personaggi – almeno sulla carta – secondari, che invece appaiono come i veri protagonisti della stessa – o, comunque, i motori dell’azione.

Insomma, ve lo consiglio molto.

La bella addormentata nel bosco Produzione

La bella addormentata nel bosco rappresentò l’inizio della rottura di Walt Disney con l’animazione.

La lavorazione del film cominciò infatti nel 1951, ma proseguì con grande lentezza quasi fino alla fine del decennio: se inizialmente si pensava di far uscire la pellicola nel 1953, la produzione venne rimandata di ben due anni per l’impegno di Walt Disney nell’apertura di Disneyland.

La produzione riprese effettivamente nel 1956 e si programmò la nuova uscita per il 1957, ma la costruzione del parco assorbì talmente tante risorse e budget che i tempi si allungarono ancora, e Walt Disney visionò il progetto solo nell’agosto del ’57…

…ma con poco ed effettivo interesse.

La direzione artistica si rifece molto ad una produzione precedente e simile: Biancaneve e i sette nani (1937), riprendendo alcune idee scartate da Walt Disney, come tutta la dinamica della cattura del principe e la danza nel bosco fra Aurora e Filippo.

Tuttavia, si presero importanti distanze dal primo Classico: anche se l’ispirazione estetica era simile, Walt Disney volle che questo nuovo prodotto si distinguesse in maniera netta dai precedenti…

…e per questo si scelse di abbandonare lo stile più dolce e arrotondato usato in precedenza per abbracciare invece un tratto più stilizzato e spigoloso, rifacendosi anche all’estetica propria del periodo storico rappresentato.

Inoltre, La bella addormentata nel bosco fu il primo Classico ad essere fotografato secondo il nuovo processo di widescreen – il Super Technirama 70 – riservato nella storia Disney a pochissimi prodotti, ma che permetteva una cura più articolata e complessa per gli sfondi.

Inoltre, fu anche l’ultimo classico Disney inchiostrato a mano: a partire dal successivo La carica dei 101 (1961) ci si sarebbe spostati all’uso della xerografia per trasferire i disegni degli animatori dalla carta alla celluloide.

Protagonista

Aurora è così poco protagonista del suo stesso film da non apparire se non a storia già avviata.

Invece, le vere figure centrali sono subito in scena.

Dopo il breve prologo introduttivo che getta le basi della trama, appaiono fin da subito le sagge fate madrine, invitate per benedire la nascita di Aurora con un regalo a testa, dimostrando fin da subito il loro appoggio politico (?) al futuro del regno.

Questo sottile sottofondo è ben definito dall’arrivo di Malefica: i primi a reagire non sono i genitori di Aurora, ma bensì una delle tre fate, Serenella, profondamente offesa di essere definita plebaglia dalla nobile strega.

Ed è sempre la fatina ad affermare che Malefica non è benvoluta in quell’occasione, motivo per cui la Regina Leah, piuttosto impensierita, chiede – o, meglio, prega – la strega di non reagire all’offesa subita.

E la risposta di Malefica è piuttosto subdola…

Possibilità

Malefica avrebbe potuto uccidere Aurora immediatamente.

E invece sceglie una via ben peggiore.

Come si vedrà più avanti anche nel film, la punizione di Aurora non è niente di personale nei confronti della bambina, ma piuttosto una presa di posizione piuttosto forte politicamente parlando da parte della strega.

Infatti, maledicendo la protagonista con un destino crudele, Malefica si pone in una posizione di grande vantaggio rispetto a Re Stefano: la sua minaccia sarà presente sul suo regno e sul suo futuro per i prossimi sedici anni, a meno che…

…a meno che il Re non si faccia perdonare.

Infatti, anche se non viene detto esplicitamente, con la sua risposta Stefano prende una posizione molto chiara: invece che provare a porre rimedio all’offesa, appella Malefica in malo modo – strega, in inglese creature…

…e cerca, molto ingenuamente, di impedire che la profezia si avveri, distruggendo tutti gli arcolai.

E a questo punto la palla passa di nuovo alle fate.

Schema

In quanto veri motori dell’azione positiva della storia, le tre fate scelgono un modo ben più intelligente per proteggere Aurora.

Andando a nascondersi nel bosco, scegliendo abiti per così dire borghesi e rinunciando di fatto alla loro magia, il terzetto capisce che il modo migliore per impedire che la maledizione di Malefica faccia il suo corso è di nascondere Aurora.

In questo contesto decisamente serio prende piede l’umorismo piuttosto piacevole della pellicola, finalizzato evidentemente ad ammorbidire una storia con un taglio molto cupo, nonché ricca di momenti al limite dell’orrorifico.

Inoltre, la scena del compleanno di Aurora cerca anche un po’ di ridimensionare le fate.

Non delle abili strateghe e macchinatrici come si era visto all’inizio, ma delle fatine un po’ pasticcione e testarde, che finiscono per rovinare un piano lungo sedici anni per via una contesa che, per quanto umoristicamente davvero gradevole, appare altresì assai sciocca.

Tuttavia, come vedremo anche successivamente, questa dinamica del piano che si rovina in pochi attimi offre anche il fianco ad un sottofondo piuttosto inquietante: la presenza di Malefica, per quanto la si combatta, è sempre in agguato.

E Aurora?

Desiderio

Aurora è la più classica principessa Disney.

Per quanto, come detto, non sia veramente la protagonista della storia, ma bensì una pedina nelle mani di diversi personaggi, ad Aurora viene regalato un ampio segmento centrale per riuscire a definirsi.

Di fatto la principessa non è tanto dissimile da Biancaneve – vive in armonia nel bosco e parla con gli animali – ma è soprattutto dotata di un elemento che si era visto finora solo con Cenerentola: la cosiddetta canzone del desiderio.

Del tutto ignara delle dinamiche politiche che si stanno svolgendo alle sue spalle, Aurora canta il suo desiderio – incontrare il principe dei suoi sogni – definendosi proprio come personaggio quasi onirico, del tutto slegato dalle brutture terrene.

Ed effettivamente il suo sogno si realizza: quello per Filippo – il primo principe effettivamente caratterizzato fino a questo momento – è un innamoramento a prima vista, un amore predestinato – soprattutto politicamente…

Ombra

Malefica è fin troppo sottovalutata.

Per quanto le fate abbiano progettato un piano apparentemente perfetto per salvaguardare il futuro di Aurora, si lasciano facilmente battere non solo facendosi scoprire in maniera piuttosto ingenua, ma soprattutto lasciando Aurora sola nel momento di maggior pericolo.

Purtroppo, la giovane principessa può poco davanti alla maledizione di Malefica: come in trance, si incammina obbediente verso il proprio nefasto destino, accompagnata da un commento sonoro estremamente incalzante…

…e a poco servono i suoi timidi tentativi di sottrarsi ai comandi della strega, finalmente vittoriosa di aver reso inerme il futuro del regno, e di aver così realizzato la sua maligna vendetta nei confronti di Stefano.

E, a questo punto, ancora una volta, la palla passa alle fate.

Campione

La maggior parte dei personaggi sono all’oscuro di quello che sta succedendo.

Le fate scelgono programmaticamente di nascondere la loro grave mancanza, immergendo tutto il castello in un limbo di sonno profondo, al pari di Aurora, così da poter avere il tempo di risolvere la spinosa vicenda.

In particolare, le fate hanno bisogno del loro campione.

Filippo è, al pari di Aurora, una pedina.

Conscia che il principe potrebbe mettergli i bastoni fra le ruote, Malefica non solo lo rapisce, ma lo carica di un destino persino peggiore di quello della principessa: potrà lasciare il castello e tornare dalla sua amata solo quando sarà vecchissimo e sostanzialmente inerme.

E, visto che evidentemente lo stesso è incapace di liberarsi da solo – e di salvare Aurora – le fate devono ancora una volta intervenire non solo per eliminare le sue catene, ma anche per dotarlo degli strumenti per battere Malefica.

Ne segue un duello particolarmente incalzante, in cui la strega fa di tutto per impedire a Filippo di arrivare al castello, persino affrontarlo di persona nelle vesti di un diabolico drago nero, che infine il principe riesce a battere…

…mostrando, per la prima volta, il cadavere di un villain Disney.

E a queste note piuttosto lugubri segue una chiusura invece piuttosto dolce e sognante, che meglio si accompagna alla coppia di innamorati, che danzano fra le nuvole in una perfetta armonia.

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Avventura Azione Comico Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Star Wars - Trilogia sequel

L’ascesa di Skywalker – La vendetta di Abrams

Star Wars – L’ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams, anche conosciuto come Episodio IX, è l’ultimo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

A fronte di un budget davvero enorme – 416 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale – poco più di 1 miliardo di dollari – ma anche la conferma del progressivo abbandono del pubblico, incassando meno del precedente.

Di cosa parla L’ascesa di Skywalker?

Il ritorno di Palpatine risveglia i più grandi timori della Ribellione, mentre Rey si appresta ad affrontare il suo destino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ascesa di Skywalker?

Rey, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

No…?

L’ascesa di Skywalker è un disperato tentativo di mettere una pezza a Gli Ultimi Jedi (2017) e all’importante cambio di rotta di Rian Johnson, cercando il più possibile di annullarlo e, apparentemente, di dare al pubblico quello che vuole.

Ne risulta un film incredibilmente pasticciato, in cui i personaggi si muovono come marionette, spinti da un posto all’altro da meccanismi della trama e dalle totali inconsistenze della stessa, per un risultato veramente desolante…

Insomma, non mi prendo la responsabilità di consigliarvelo.

Cristo

Leia e Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Uno dei limiti maggiori di L’ascesa di Skywalker è il tentativo di fare due film in uno…

…e, sostanzialmente, di annullare Gli Ultimi Jedi.

Una tendenza che si vede chiaramente fin dalla primissima scena di allenamento di Rey: vengono – per motivi di minutaggio – saltati a piè pari i momenti di effettivo incontro e scontro di Rey con la Forza, mostrandocela fin da subito come una Jedi incredibilmente capace.

Ed è solo l’inizio.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Rey – ma anche Kylo – viene premiata con dei poteri veramente eccessivi – ma del tutto necessari per riuscire a portare avanti la trama – che avrebbero avuto un incredibile bisogno di essere introdotti e giustificati

Ne consegue che la protagonista non solo è capace di controllare i fulmini – tecnica incredibilmente complessa, soprattutto per un Jedi – ma di possedere anche poteri curativi al limite del cristologico, programmaticamente introdotti nella scena dell’incontro col serpente.

E non è neanche l’aspetto peggiore.

Soluzioni 

Ray, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

La trama e i personaggi vivono di deus ex machina.

Tutto il loro viaggio è puntellato da continui salvataggi e soluzioni servite su un piatto d’argento, ottenute veramente con poca fatica – Lando aveva sempre da parte il pugnale, C3-PO riesce a leggere la lingua Sith, la spia all’interno del Primo Ordine si rivela e li aiuta…

E ogni tentativo di rendere anche solo più drammatica o un minimo avvincente la loro ricerca cade inevitabilmente nel vuoto, in quanto tutti i possibili errori vengono risolti felicemente in pochissimo tempo, anche contro ogni logica.

Così Chewbacca per qualche motivo era su tutt’altra navicella, così Zorii Bliss passa dal voler uccidere Poe Dameron a regalargli la sua unica possibilità di costruirsi una nuova vita, per non parlare di come un pugnale riesce a corrisponde perfettamente alle rovine distrutte dal mare della Seconda Morte Nera…

Ma c’è un meccanismo della trama ancora più gustoso.

Presentimento

Ray e Poe in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Ogni qual volta che in L’ascesa di Skywalker non sanno come giustificare un momento della trama, si usa il presentimento.

Rey e Finn sono pieni di presentimenti e sensazioni del tutto ingiustificate, che permettono loro di prendere la scelta giusta – e il momento più alto è indubbiamente l’epifania di Finn su come distruggere la flotta di Palpatine e su quale fra le diverse navi prendere si mira.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Questa dinamica è particolarmente e tragicamente rivelatoria di un’incapacità di scrittura già presente in Il risveglio della Forza (2015), ma che in questo caso diventa ancora più evidente per il suddetto desiderio di incastrare due film in una sola pellicola.

Oltretutto, questo elemento è anche più tragico nel finale, in cui si mostra tutta l’incapacità di costruire in maniera convincente l’alleanza dell’intera Galassia con la nuova grande minaccia di un morto redivivo…

Confusione

Palpatine in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Proprio come questo film, Palpatine non sa cosa vuole fare.

Lasciando anche da parte l’assurdità della sua rinascita dopo la sua morte in Il ritorno dello Jedi (1983), questa pellicola riesce a rendere il principale antagonista della saga un personaggio inconsistente, non riuscendo a dargli un chiaro piano di azione.

Probabilmente l’idea sulla carta era di portare in scena un villain nell’ombra, che cercava di manipolare Kylo per fare in modo che gli portasse la sua erede, così da farle prendere il suo posto come nuova Imperatrice del Final Order.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Nel concreto, Palatine è totalmente confuso.

Parte dal voler – senza alcun motivo – eliminare Rey – cosa che poteva tranquillamente accadere – per poi dirle esplicitamente di ucciderlo per poterla possedere, per poi ricordarsi stupito – nonostante fosse il suo stesso piano – della Dualità della Forza.

Insomma, un villain introdotto all’ultimo dopo che Johnson aveva distrutto il vero cattivo della saga – Snoke – andando quindi a ripiegare su quello che Abrams sa fare meglio – e peggio: il fanservice esasperante.

Ombra

Ma il vero villain nell’ombra è Kylo.

Dovendo forzatamente riportare in scena Palpatine, il film finisce per mettere in ombra quello che dovrebbe essere il vero antagonista – e protagonista – di questo film, che finisce solo per rincorrere Rey e rimanere drammaticamente in secondo piano.

Un problema che si vede molto chiaramente nella scena della sua redenzione: un arco evolutivo che avrebbe dovuto svolgersi durante i tre film, ma che viene invece ridotto a pochi, patetici momenti.

Sembra insomma che basti una voce dall’etere della madre – con cui finora Kylo non aveva avuto nessun contatto – e il confronto con il fantasma del padre – oppure, secondo i produttori, il ricordo interattivo di Han Solo – per fargli cambiare idea.

E così diventa ancora più inconsistente il suo sacrificio, che ricalca quello di Anakin, per raccontare la storia di un villain vuoto e pasticciato, che non ha mai avuto un minimo di profondità…

…la stessa che manca al finale, in cui Rey si appropria di un nome che, evidentemente, non le appartiene.

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Il giardino delle parole – Alla prossima pioggia

Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai è un mediometraggio anime di genere sentimentale.

Il film è stato distribuito in Giappone insieme ad un cortometraggio, ed è arrivato in Italia con una proiezione esclusiva nel Maggio del 2014.

Di cosa parla Il giardino delle parole?

Takao e Yakari sono due persone molto sole, che si ritrovano casualmente in un giardino pubblico. E da lì nasce qualcosa di inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il giardino delle parole?

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

In generale, sì.

Il giardino delle parole contiene una dinamica tipica della filmografia di Shinkai, in particolare del subito successivo Your name (2016): l’incontro apparentemente sofferto di due personaggi che sembrano destinati a vivere separati.

In questo caso il regista nipponico è sempre sul precipizio di scadere nel melodramma più smaccato, ma riesce nel complesso a mantenere un buon equilibrio dei toni, cercando il più possibile di rimanere coi piedi per terra, pur inserendo una componente fortemente drammatica ed emotiva.

Insomma, ve lo consiglio.

Fuga 

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Entrambi i protagonisti fuggono.

Per Takao la fuga è da una scuola in cui non sente di trovare un futuro, inseguendo i suoi sogni in maniera ben più matura dei suoi coetanei, rinunciando persino alle vacanze per poter lavorare e mettere via abbastanza risparmi per riuscire ad autofinanziarsi.

Yukari invece fugge da una situazione che non si sente di essere abbastanza forte da affrontare – al punto che, da qualche scampolo di dialogo, scopriamo quanto era stata profonda la sua sofferenza, non riuscendo a camminare, a mangiare altro che birra e cioccolato…

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

E la pioggia è l’occasione perfetta.

La pioggia è quell’elemento che solitamente porta le persone a fuggire e a rifugiarsi nelle proprie abitazioni o in luoghi affollati, e a svuotare quel giardino che diventa invece il rifugio dei due protagonisti, inizialmente sorpresi di trovare un compagno di solitudine.

E qui di parole, paradossalmente, ne servono poche.

Essenziale

Takao Akizuki in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Le parole sono ridotte all’essenziale.

In una situazione normale di incontro, nello sbocciare più consueto di un’amicizia, le prime parole che i due si sarebbero scambiati avrebbero riguardo i loro nomi, il loro passato, la loro più immediata quotidianità…

Invece è come se i due protagonisti fossero colti in fallo nella loro fuga, e per questo limitano i loro scambi di parole a quel poco da tenere l’uno compagnia all’altro – al punto che, verso il finale, Takao ammette di non sapere quasi nulla della giovane donna, neanche il suo nome…

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Ma per Yukari quel silenzio è essenziale.

Infatti, la donna è stata derubata della sua autorità, della fiducia e dei buoni rapporti che sembrava portare avanti con i suoi alunni, e, tramite questo giovane studente in fuga, riesce a ricostruire la sua identità e a rimettersi in piedi, a cambiare vita.

E, a Takao, cosa rimane?

Inizio

Takao Akizuki in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Lo scioglimento della vicenda nel complesso mostra una buona intelligenza di scrittura.

Come mi ha poco convinto lo sfogo di Takao – forse non adeguatamente costruito per essere così esuberante – al contrario ho apprezzato la maturità della giovane professoressa di mettere un freno all’improvviso innamoramento del suo studente…

…così da lasciargli lo spazio per maturare.

Infatti, il finale è volutamente aperto.

Takao ha capito la lezione della donna – non lasciarsi travolgere dalle emozioni del momento – e, anche se con difficoltà, riesce a superare gli esami finali, e a continuare parallelamente a portare avanti il suo sogno…

…così da ritornare, un giorno, da Yukari, quando sarà abbastanza maturo, lasciando come pegno nel parco le scarpe che ha creato per lei, una promessa per un futuro più sereno da condividere insieme.

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Lilli e il vagabondo – I terribili cani borghesi

Lilli e il vagabondo (1955) di registi vari è il quindicesimo Classico Disney e il primo uscito sotto la Buena Vista Distribution.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu il più grande incasso per la Disney dai tempi di Biancaneve e i sette nani (1937), con 6.5 milioni di dollari al botteghino.

Di cosa parla Lilli e il vagabondo?

Inghilterra, 1909. Lilli è una cocker amata e coccolata dalla sua famiglia. Ma sta per arrivare un intruso nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lilli e il vagabondo?

In generale, sì.

Lilli e il vagabondo non è il più indimenticabile prodotto della Disney di questo periodo, ma è comunque una visione piuttosto piacevole, rimasta nella memoria degli spettatori per diverse scene iconiche –  di cui una piuttosto inquietante…

I suoi più importanti difetti sono rappresentati da una trama che funziona più ad episodi, con dei collegamenti fra i diversi momenti del film non sempre centrati e del tutto credibili, ma che possono nel complesso essere perdonati.

Lilli e il vagabondo Produzione

La storia di Lilli e il vagabondo fu ispirata ad una dinamica reale.

Già nel 1937 Joe Grant propose una prima idea della storia, facendo riferimento a come la sua cocker fosse stata messa da parte con l’arrivo del figlio, e negli anni sviluppò diverse idee e concept…

…ma nessuna che soddisfò Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino era infatti scettico proprio sulla protagonista e sulla sua storia, troppo poco intrigante e con poca azione.

L’idea vincente arrivò all’inizio degli Anni Quaranta, quando Disney lesse su un quotidiano la breve storia Happy Dan, The Whistling Dog e propose a Grant di inserire il personaggio di Biagio.

Il lavoro continuò anche dopo l’abbandono di Grant dello studio, ma la pellicola prese forma solamente nel 1953, sulla base degli storyboard di Grant e sul racconto sopra citato.

Uno dei cambiamenti più significativi – o potenziali tali – fu la scena iconica degli spaghetti: Walt Disney era deciso fino all’ultimo a tagliarla, considerandola troppo sciocca e poco efficace.

Ma uno degli animatori, Frank Thomas, era talmente convinto di volerla inserire che la animò senza sceneggiatura, riuscendo a stupire Walt Disney che infine si convinse a mantenerla all’interno della pellicola.

Lilli e il vagabondo fu anche il primo film Disney girato col Cinemascope, quindi con un taglio dello schermo più ampio.

Questo cambiamento pose diversi problemi agli animatori, che potevano contare meno sui primi piani e avevano problemi a rendere i personaggi dominanti in una scena che altrimenti sarebbe apparsa piuttosto vuota.

Quadretto

La pellicola si apre con un quadretto familiare agrodolce.

L’arrivo di Lilli nella nuova casa è definito da un primo tentativo dei suoi padroni di addomesticarla, costringendo la cucciola a dormire nella cuccia in fondo alle scale che è stata preparata apposta per lei, con una dinamica che mi ha davvero stretto il cuore...

Ma questo è solo il primo passo della conquista di Lilli del cuore dei suoi genitori.

Come ogni bravo cane domestico, fin dal suo risveglio Lilli definisce lo spazio della casa e lo protegge, fungendo da sveglia forzata per i suoi padroni, doppiato il giardino e scacciando gli intrusi, per poi tornare con il giornale fresco di giornata in bocca.

E questa simpatica gag del quotidiano stracciato in realtà rivela molto di più: la presenza di Lilli ha illuminato la vita della famiglia, spogliandola di molte preoccupazioni e riuscendo finalmente a comporre un quadro famigliare appagante e genuinamente felice…

…ma è davvero così?

Seme

Biagio è, nel suo simpatico modo, un sobillatore.

La pellicola ci regala una breve introduzione del suo personaggio, uno spirito libero che nessuno è riuscito ad ingabbiare, che si rifiuta di far parte di una sola famiglia, ma di averne una per ogni giorno della settimana, arrivando non poco sottilmente a disprezzare l’alternativa.

E l’alternativa è proprio Lilli.

Il randagio si intrufola nella vita della protagonista nel momento di maggiore fragilità, dando voce e concretezza ai suoi dubbi e perplessità: un figlio in arrivo, per cui verrà inevitabilmente messa da parte e ridotta a mera presenza in una fredda cuccia nel giardino.

Questa inquietudine viene in prima battuta sventata dall’effettivo comportamento dei genitori, solo all’inizio piuttosto irrazionali nei loro comportamenti, ma che infine riescono infine a includere Lilli nella nuova realtà familiare senza troppi problemi.

Ma è una calma apparente…

Intruso

Per quanto iconico, lo snodo narrativo della zia Sara mi ha poco convinto.

La famiglia di Lilli abbandona su due piedi cane e figlio e li lascia alle cure di questa donna velenosa e piena di pregiudizi nei confronti dei cani, che si introduce in casa con una nuova minaccia nel taschino.

Così il siparietto inquietantissimo dei gatti siamesi che fanno a pezzi la casa e fanno ricadere la colpa su Lilli è evidentemente un meccanismo della trama per spingere definitivamente la protagonista nelle zampe di Biagio.

Tuttavia, la parte centrale è anche la più piacevole.

Nel loro scorrazzare, Biagio e Lilli prendono diverse vesti: rubagalline, venditori improvvisati e infine una coppia di innamorati nell’indimenticabile scena della pasta da Tony, una breve parentesi romantica prima del picco drammatico della pellicola.

Borghese

Il finale mi convince a tratti.

Mi hanno leggermente tediato le dinamiche del risentimento di Lilli nei confronti di Biagio, che si rifiuta di essere solamente la sua prossima conquista, e che già cerca di condurlo verso un suo snaturamento, da cane di strada a docile animale domestico.

Al contrario, piuttosto avvincente ed incalzante la scena del diabolico ratto che insidia la casa ed il bambino, e che permette alla coppia di rafforzare la fiducia nei confronti di Lilli, e infine di accogliere il randagio come nuovo membro della famiglia.

E proprio questa chiusura soffre di un taglio netto e sbrigativo.

Biagio ha presenta un cambio di carattere e di vita senza che venga mostrato alcun tipo di rimpianto, alcuna effettiva motivazione, se non l’affetto nei confronti di Lilli, che comunque non è abbastanza esplorato per giustificare questo cambiamento.

Eppure, questo finale che oggi fa sorridere, probabilmente per il pubblico degli Anni Cinquanta era la conclusione perfetta: un personaggio un po’ scapestrato, una mina vagante, che finalmente metteva la testa a posto e diventava un padre di famiglia squisitamente borghese.

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Gli Ultimi Jedi – Farò il mio Star Wars…

Star Wars – Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson, anche conosciuto come Episodio VIII, è il secondo capitolo della saga sequel.

Fin da subito si rivelò un prodotto assai divisivo: nonostante fu un grande successo commerciale – 1.3 miliardi di dollari di incasso per un budget di 300 milioni – il risultato al box office fu decisamente inferiore rispetto al precedente – e probabilmente influì sul flop del successivo Solo – A Star Wars Story (2018).

Di cosa parla Gli Ultimi Jedi?

Dopo aver ritrovato Luke Skywalker, Rey continua nella sua scoperta della Forza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Ultimi Jedi?

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Ancora una volta, dipende.

Considero questa pellicola leggermente migliore de Il risveglio della Forza (2015): a livello di gusto strettamente personale, ha un umorismo che, per quando non ci azzecchi nulla con la saga, io personalmente apprezzo, e che almeno mi ha strappato qualche risata.

Ma, soprattutto, Episodio VIII riesce a risolvere un problema del capitolo precedente: rendere un minimo più credibili gli archi narrativi dei protagonisti, pur essendo peggiore per il resto nella gestione della storia, con un eccesso ingiustificato di personaggi e situazioni che, in ultima analisi, si rivela incapace di gestire.

Ma come avventura a sé stante potrebbe anche intrattenervi.

Posizione

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Con il primo confronto fra Luke e Rey, Rian Johnson spiega chiaramente le sue intenzioni.

Ovvero, gettare dalla finestra il lavoro di Abrams.

In questo senso è veramente difficile capire quali parti della pellicola possano essere ricondotte alle poche direttive lasciate dal regista del primo film – il fanservice esasperante? Lo scheletro narrativo della storia di Finn? – ma tendenzialmente è chiaro che il nuovo regista ebbe sostanzialmente carta bianca.

E questo è un problema a tratti.

Leia Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Di fatto, Johnson fece il suo Star Wars, che, soprattutto per l’avventura di Finn e Rose, ricorda molto più Solo che qualsiasi altro film della saga – e nel senso più negativo possibile: per me, semplicemente, spesso non sembra di star vedendo una storia ambientata nella Galassia Lontana Lontana.

Tuttavia, col senno di poi, alcuni spunti erano potenzialmente interessanti.

In particolare, Rey.

Oscuro

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Rey poteva essere nessuno.

La tendenza generale di Johnson era di aprire nuovi orizzonti alla saga con protagonisti dal passato oscuro, cercando finalmente di smarcare Star Wars dalla famiglia Skywalker, per evitare che diventasse una soap opera.

In questo modo la saga avrebbe potuto aprirsi a nuovi personaggi e nuove storie, senza dover sempre ricollegare tutto in maniera forzata, finendo per minare le possibilità di una storia che altrimenti si sarebbe potuta espandere in tantissime direzioni.

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Infatti, Rey viene raccontata semplicemente come un personaggio predestinato a diventare l’altra metà della Forza, nonostante non abbia nessun effettivo legame con la famiglia di Kylo, apparente antagonista che cerca disperatamente di salvare, ricalcando la storia di Luke in Il ritorno dello Jedi (1983).

Nonostante sia sicuramente un’idea ridondante, tutto sommato nella sua esecuzione tenta quantomeno di rendere più tridimensionali i suoi protagonisti, anche con il continuo confronto fra Luke, Rey e Kylo, che lascia molto più spazio di evoluzione ai personaggi di quanto non avesse fatto Episodio VII.

Genuino

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

La gestione di Luke mi convince a metà.

Da una parte non mi dispiace l’idea di decostruire il personaggio, portandolo totalmente al suo opposto: da eroe che non si fermava davanti a nulla, a figura decaduta ed estremamente sfiduciata nei confronti del futuro della Forza e degli Jedi.

D’altra parte, capisco che questa non era – comprensibilmente – l’intenzione né di Abrams né di Mark Hamill stesso, che avrebbe voluto probabilmente raccontare il personaggio come un novello Yoda, che addestrava Rey per portarla ad essere pronta a scontrarsi con la sua nemesi.

Luke Skywalker e Leia in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

E, anche se mi dispiace vederlo tolto di scena nel giro di un film, mi convince tutto sommato il ruolo che ha nel finale, in cui gabba un Kylo così immaturo e accecato dalla frustrazione da rendersi neanche conto di star combattendo contro un fantasma.

Non forse la fine migliore, ma non sono sicura che Abrams avrebbe fatto meglio…

Discordanze

Fra Gli ultimi Jedi e L’ascesa di Skywalker (2019) c’è stato un inevitabile dialogo discordante.

Passando da film in film, i due registi presero e disfarono costantemente il lavoro dell’altro: se nel primo capitolo Kylo si mostrava per la maggior parte a volto coperto, nel sequel Johnson lo costringe a distruggere la maschera, la stessa che Abrams gli farà riparare…

…allo stesso modo Snoke, che nel primo capitolo poteva godere di una presenza scenica particolarmente minacciosa – sovrastava sempre il resto dei personaggi ed era quasi evanescente – sotto la gestione Johnson viene riportato con i piedi per terra e reso sostanzialmente sacrificabile.

E, come vedremo, questo sarà il più grande sgarbo a Abrams.

Ma il personaggio ancora una volta sacrificato è Finn.

Nel sequel vengono rimischiate le carte in tavola: il personaggio è più o meno forzatamente allontanato da Rey e fornito di un nuovo interesse amoroso, Rose, uno delle tante new entry portate alla ribalta da Johnson ed immediatamente ridotte alle retrovie poi da Abrams.

Oltretutto la sua storia sembra del tutto indipendente da quella di Rey per finalità e per taglio narrativo, deviando ancora una volta dal seminato di Abrams, costruendo una trama che viaggia ma su due strade parallele che a malapena si incontrano nel finale…

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Le avventure di Peter Pan – L’ombra dell’infanzia

Le avventure di Peter Pan (1953) di Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson è il tredicesimo Classico Disney basato sull’opera teatrale Peter & Wendy (1904) di J. M. Barrie.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu nel complesso un discreto successo commerciale, con 8 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Le avventure di Peter Pan?

Wendy e i suoi fratelli vivono nel sogno di Peter Pan. Ma i sogni sono belli quando rimangono tali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le avventure di Peter Pan?

Assolutamente sì.

A differenza di quello scandalo di Peter Pan & Wendy (2023), il Classico del 1953 è un’ottima trasposizione dello spettacolo di J. M. Barrie, riuscendo a smussare gli angoli quando serve, senza però evadere la profonda critica e morale che pervade l’opera originale.

Infatti non mancano, come d’altronde tipico della Disney del primo periodo, note fra il drammatico e persino l’inquietante, in maniera però più sottile e meno esplicita rispetto ad altri prodotti di quest’epoca, con significati ulteriori comprensibili forse solo ad una rilettura più adulta…

Peter Pan Produzione

Le avventure di Peter Pan doveva essere il secondo film di Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino aveva un particolare amore per l’opera di J. M. Barrie, ma poté acquisire i diritti solo nel 1939, e, a cavallo fra i due decenni, esplorò diverse idee di trasposizione.

Inizialmente la storia doveva essere molto più vicina all’originale, molto più cupa, e si pensò persino di scrivere la trama dal punto di vista di Nana, che seguiva i bambini nell’Isola che non c’è, oppure di lasciare indietro John quando questo si dimostrava troppo cinico e noioso per partecipare all’avventura.

La produzione fu interrotta con l’arrivo della guerra, che costrinse la casa di produzione a creare solo film propagandistici, mettendo in pausa non solo questa idea, ma anche quella di Alice nel Paese delle Meraviglie (1951).

Nei primi anni del dopoguerra la Disney era in crisi finanziaria e non cominciò a ripensare all’opera fino al 1947, nonostante le perplessità di Roy Disney, fratello del fondatore, sull’attrattiva dell’operazione.

A differenza di molti prodotti precedenti, le scene in live action non furono ricalcate, ma solamente utilizzate come riferimento, perché altrimenti le animazioni sarebbero state troppo rigide ed innaturali.

Crescere

Wendy non ha (più) bisogno dell’infanzia.

A differenza dell’altra ottima traspirazione del 2003, Wendy è solo a parole turbata dalla volontà del padre di farla crescere, dal forzato abbandono della camera dell’infanzia: i suoi comportamenti raccontano una ragazzina già sulla via di abbandonare l’ingenuità infantile.

Infatti, fin da subito si dimostra piuttosto intraprendente nelle sue decisioni, andando persino a scavalcare l’autorità paterna, mostrandosi anche in seguito e a più riprese per nulla sprovveduta né ingenua come invece i suoi fratelli.

Non a caso la sua travolgente accoglienza sconvolge sulle prime Peter, venuto solo per recuperare la sua ombra, ma che invece cede quasi subito alle cure di Wendy, e turba solo parzialmente la serena crescita della protagonista

…cercando di trascinarla con sé verso il terribile sogno dell’infanzia infinita.

E in questo senso, la figura di Peter ha tutto un altro sapore.

Ombra

Peter Pan è, per certi versi, il vero antagonista della sua stessa pellicola.

Proprio come J. M. Barrie l’aveva concepito come spirito e rappresentazione dell’infanzia più caotica e distruttiva, quando Wendy svela alla madre che sta aspettando l’arrivo del ragazzo eternamente giovane la stessa è colta da un senso di inquietudine – e a ragione…

Infatti, Peter è un’ombra che penetra l’infanzia della protagonista proprio quando questa sta per abbandonarla, conducendola in luogo dove tutto è permesso, persino una vita feroce, selvaggia e, soprattutto, fuori dal controllo e dalle pressioni degli adulti per crescere al più presto.

Di fatto Disney scelse di annullare quasi ogni tipo di connessione romantica fra i due personaggi…

…mettendoli anzi in costante contrasto, proprio a partire dalla scena delle sirene, in cui più volte Peter si dimentica di Wendy, e lascia senza troppe preoccupazioni che sia maltratta dalle dispettose donne pesce.

Ma il mondo di Peter è pura finzione.

Finzione

Passando da un quadro all’altro proprio come a teatro, la missione di John e di Michael è estremamente rivelatoria.

Nonostante la lotta con gli indiani sia piuttosto violenta, la stessa viene subito rivelata come parte di un eterno gioco delle parti, proprio come se gli stessi fossero solo parte di una delle tante fantasie infantili dei bambini sperduti, senza che la realtà debba mai venire a bussare alla porta…

…o forse sì? 

L’unico che può davvero spezzare la finzione è Uncino.

Fin da subito il suo personaggio è caricato di un nutrito numero di gag con un umorismo piuttosto dark – dai vari assassini ingiustificati alla dinamica della presunta testa mozzata durante la rasatura – che si concretizzano infine in un effettivo tentativo del pirata di farla finita con Peter Pan.

Ed infatti è proprio Uncino quello che causa per la prima volta un cambio delle carte in tavola: il rapimento di Giglio Tigrato spinge il capo tribù a minacciare di uccidere in maniera anche piuttosto violenta i bambini sperduti, e così di mettere anche lui un punto al gioco eterno. 

E i giochi sono fatti di ruoli…

Ruolo

Wendy non vuole sottostare ad un ruolo.

Questo elemento si vede molto bene nella scena della festa con gli indiani, quando una donna della tribù cerca di costringerla a sottostare ad un ruolo – la figura femminile dedita alla cura del focolare – e, proprio in quel momento, Wendy, come Uncino, decide che il gioco è finito.

A questa improvvisa realizzazione segue un’opera di persuasione nei confronti dei bambini sperduti e soprattutto dei fratelli, riportati alla ragione, riportati nelle braccia accoglienti quanto educative della madre – ruolo che, comprensibilmente, Wendy non vuole ancora ricoprire.

Ma, davanti a questo picco di drammaticità, il finale è un po’ buttato via.

A questo punto era abbastanza comprensibile che Disney volesse deviare dal seminato dell’opera in maniera significativa.

La chiusura del Classico è infatti un lieto fine pieno di speranza, in cui il sogno di Peter non è infranto, che anzi viene ricordato con commozione dagli stessi genitori, che forse un tempo erano stati sull’Isola che non c’è…

Ma l’idea di J. M. Barrie era ben diversa…

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Il risveglio della Forza – The Fast Wars Saga

Star Wars – Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams, anche chiamato Episodio VII, è il primo capitolo della cosiddetta saga sequel.

A fronte del budget più alto mai investito fino a quel momento per un film di Star Wars – ben 447 milioni di dollari – incassò 2 miliardi di dollari, posizionandosi – al tempo – al terzo posto fra i film col maggiore incasso di sempre.

Di cosa parla Il risveglio della Forza?

Diversi anni dopo Il ritorno dello Jedi, la Galassia è di nuovo sconvolta da una nuova realtà tirannica nata dalle ceneri dell’Impero: il Primo Ordine. Ma c’è ancora speranza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il risveglio della Forza?

Dipende.

La mia prima e ingenua visione di Il risveglio della Forza di ormai diversi anni fa mi lasciò complessivamente soddisfatta, anzi piacevolmente sorpresa da un prodotto da cui onestamente non mi aspettavo nulla – del tutto ignara di quello che sarebbe successo dopo…

E invece, ad una nuova visione più consapevole, mi sono resa conto che quello che consideravo l’unico capitolo davvero salvabile della nuova trilogia, è in realtà un film scritto in maniera estremamente approssimativa, che non funziona né come film di Star Wars né come film autonomo.

Ma se siete fanatici della saga al punto da emozionarvi anche per un remake così blando, probabilmente vi divertirete molto.

Introduzione

Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Come primo capitolo Il risveglio della Forza aveva principalmente il fine di introdurre i nuovi personaggi.

Eppure, è proprio su questo fronte che fallisce.

L’elemento più eclatante in questo senso è la gestione di Rey, la nuova eroina della saga, che risulta nient’altro che un contenitore vuoto, piegato alle esigenze della trama, incapace di esistere come personaggio autonomo, e incapace di anche il più blando confronto con la sua controparte: Luke.

E la mancanza di una caratterizzazione si nota particolarmente nel rapporto con BB-8.

Tutta la dinamica col piccolo droide fa evidentemente il verso all’analogo incipit di Una nuova speranza (1977), ma manca ingenuamente dello stesso respiro che definisca il rapporto fra i due personaggi, al punto che il picco drammatico – il tentativo di comprare BB-8 – risulta del tutto inefficace.

Ma Rey non è da sola…

Mancanza

John Boyega in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Se Rey tutto sommato può godere di un minimo di minutaggio introduttivo, il personaggio davvero più ingiustamente sacrificato è Finn.

Memore anche di Clone Wars, sarebbe stato potenzialmente molto interessante approfondire la storia di un clone ribelle, che però manca totalmente di un’introduzione – se non molto tardiva – portando in scena un personaggio con un arco evolutivo improvviso e, ancora una volta, inefficace.

Ma il suo personaggio ha un trattamento anche peggiore se si pensa al rapporto con Rey.

John Boyega e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Nelle intenzioni probabilmente si voleva creare un classico pattern di compagni di avventure che diventano anche innamorati, ma la gestione è stata un vero disastro – e neanche del tutto per colpa di Abrams…

L’unico momento vagamente credibile è quando si ritrovano nel finale sullo Star Destroyer, ed effettivamente Rey si dimostra decisamente riconoscente nei suoi confronti – ma perché a questo punto il film presuppone che loro abbiano già stretto un rapporto.

Ma parliamo di Han Solo.

Solo

Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

La gestione di Han Solo è quella che, nel complesso, mi ha convinto leggermente di più.

Ovviamente non per il rapporto con Rey, per cui diventa sostanzialmente una figura paterna nel giro di una fuga sul Millennium Falcon, ancora una volta negando ai personaggi il giusto respiro per sviluppare un rapporto…

…ma per la dinamica con Leia e con Kylo, per cui il film poteva contare sull’eredità di una storia d’amore iconica e su due attori di particolare valore – che comunque recitavano veramente al minimo delle loro possibilità.

Harrison Ford e Adam Driver in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Per questo, nel complesso, l’incontro fra padre e figlio funziona, e non solamente perché vediamo morire sullo schermo uno dei personaggi più amati della saga, ma perché nel complesso la dinamica è efficace e coinvolgente, grazie a due personaggi che, per diversi motivi, non sono totalmente da buttare.

Eppure, con Kylo ci provano in tutti i modi…

Eredità

Sulla carta riportare in scena sostanzialmente la storia di Anakin non era del tutto disastrosa.

Una scelta che si inserisce nell’idea di un soft reboot della trilogia classica, e che ancora una volta può contare sull’affezione del pubblico verso un personaggio estremamente rivalutato nel tempo, e che trova nelle capacità attoriali di Driver una nuova incarnazione complessivamente dignitosa.

Sicuramente in questo senso non aiuta la caratterizzazione di un villain che si comporta come un ragazzino ribelle, che però si rivela più interessante nella scena del primo confronto con Rey, quando Kylo cerca di penetrarle la mente, ma viene battuto al suo stesso gioco, mandando a pezzi il suo già fragile ego.

Adam Driver e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Ma, ancora una volta, Rey è il crocevia di tutti i problemi.

Probabilmente l’idea era di definire fin da subito le diverse tendenza dei personaggi, uno verso il Lato Chiaro, l’uno verso il Lato Oscuro, con anche un labile tentativo di Kylo di portare la ragazzina dalla sua parte, quando questa dimostra le sue incredibili capacità di dominare la Forza.

Ma, per l’ennesima volta, non solo manca un’adeguata costruzione di questo rapporto, ma ci sono proprio degli effetti buchi di trama: Rey sembra comprendere immediatamente e senza alcuna spiegazione il funzionamento della Forza e di come controllarla…

…riuscendo fin da questo film ad incarnare il modello della Mary Sue per eccellenza.