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Scott Pilgrim vs The World – La trasposizione perfetta

Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright è la trasposizione dell’omonimo fumetto di Bryan Lee O’Malley (2004 – 2010).

Nonostante negli anni sia diventato un piccolo cult, al tempo fu un flop commerciale: con un budget di 85 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Se non sapete niente di Scott Pilgrim vs The World continuate a leggere.

Se siete invece i massimi esperti sul tema, cliccate qui.

Guida alla visione Scott Pilgrim vs The World

Piccola guida alla visione se non vi siete mai approcciati al mondo di Scott Pilgrim vs The World.

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

La trasposizione cinematografica non poteva essere messa in mani migliori.

Edward Wright al tempo era fresco dei primi due film della Trilogia del cornetto, in cui dimostrò di essere capace di portare in scena una regia dinamica ed originale, che calzava a pennello per il fumetto di O’Malley.

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

E la trasposizione era tanto più difficile non solo per la lunghezza del fumetto, ma soprattutto per la natura piuttosto anomala dello stesso.

E invece il risultato fu semplicemente grandioso, con un utilizzo degli effetti speciali e una messinscena sempre vincente e che non è invecchiata di un minuto, nonostante siano colmo di scene piuttosto stravaganti e chiassose.

A cura di @lav3nd3r_boy

Scott Pilgrim è uno dei più famosi esempi di opere a metà strada tra l’immaginario occidentale ed orientale.

L’autore, Brian Lee O’ Malley, fa parte di quella generazione cresciuta sia con Batman che Dragon Ball – e questo si rispecchia nel suo modo di raccontare: non sto parlando solo della scelta di qualche inquadratura o l’aspetto super deformed dei personaggi…

…ma della capacità di mischiare scene di vita quotidiana a combattimenti sopra le righe, caratteristica tipica di diversi manga di successo anche piuttosto recenti, come ad esempio lo splatter-pulp Chainsaw Man (2022).

Passano gli anni, ma il viaggio di Scott e Ramona resta comunque un’opera che non invecchia facilmente.

E questo grazie alla sua capacità di fotografare in maniera del tutto personale quel momento di passaggio tra la fine dell’università e l’inizio della vita lavorativa, tramite la narrazione di tanti piccoli aneddoti in cui ognuno si può riconoscere.

La serie tv Scott Pilgrim Takes Off non è assolutamente quello che sembra.

La produzione Netflix è stata pubblicizzata come una riproposizione in chiave animata del fumetto, quando in realtà è uno spin-off che presenta un forte legame col film del 2010 – il cast vocale è identico – e che si basa su una sorta di what if…

Ne risulta così una serie che offre molto più spazio al personaggio di Ramona, un po’ sacrificato nel basso minutaggio della trasposizione cinematografica, e che ci regala un nuovo spunto di riflessione sulla relazione con Scott.

Insomma, da vedere, ma per ultima.

Doppio

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Michael Cera è semplicemente perfetto per la parte.

Eppure l’attore non fece altro che riportare in scena il ruolo che lo rese famoso pochi anni prima – Bleeker in Juno (2007) – riuscendo però ad essere comunque incredibilmente convincente per uno Scott cinematografico che rischiava moltissimo di essere banalizzato.

Michael Cera, Mary Elizabeth Winstead e Ellen Wong in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

E invece Wright riuscì a condensare in appena novanta minuti di pellicola il dramma di un personaggio fumettistico lungo sei albi, grazie anche ad una regia particolarmente indovinata che contribuisce al senso di spaesamento del protagonista.

E infatti il taglio registico è il vero punto di forza del film.

Frenetico

Michael Cera, Mary Elizabeth Winstead e Ellen Wong in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Scott Pilgrim vs The World non è semplicemente un fumetto.

Oltre alle contaminazioni videoludiche – parte essenziale del tessuto narrativo – che si trovano per esempio nei piccoli tag che accompagnano ogni personaggio, la graphic novel è caratterizzata da un ritmo forsennato, in cui si passa violentemente e improvvisamente da una vignetta ad un’altra.

E dopo aver già dimostrato in due occasioni – sia in Shaun of the dead (2004) sia in Hot Fuzz (2007) – quanto fosse un maestro di una regia incalzante ma sempre chiarissima nella messinscena, Edward Wright era la scelta più naturale per questa insidiosa trasposizione.

In particolare, in questo caso l’autore della Trilogia del cornetto sperimenta con dei trucchi registici per dare una sorta di continuità fittizia alla narrazione, con un proto-piano-sequenza in cui i personaggi attraversano la scena e sbucano nella successiva.

E non è neanche l’elemento più vincente.

Prova

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

È estremamente raro per un’opera cinematografica riuscire a sopportare la prova del tempo quando imbottita di effetti speciali.

E se solitamente si citano capolavoro dell’effettistica come The Thing (1982), Scott Pilgrim vs the World può essere annoverata fra i migliori utilizzi di CGI del nuovo millennio: sarà per come gli effetti siano perfettamente assimilati alla scena, sarà perché sono non sono mai effettivamente eccessivi

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

…in ogni caso la resa è semplicemente magnifica e mai fuori luogo, e rende con una precisione e una credibilità sorprendente intere vignette ma senza sembrare mai pedante, anzi facendo non poche scelte narrative per condensare una storia così ampia in un minutaggio così ridotto.

E questo accade in particolare per tre personaggi.

Diverso

Mary Elizabeth Winstead in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Una delle figure più sacrificate è sicuramente Ramona.

Non avendo a disposizione abbastanza tempo per raccontarsi, spesso la Ramona Flowers cinematografica viene fraintesa come il più classico esempio di pixie girl, ovvero di personaggio femminile che vive unicamente in funzione dell’evoluzione del protagonista maschile.

Mary Elizabeth Winstead e Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

In realtà, Ramona va ben oltre quel ruolo: la graphic novel si prende diverse pagine per raccontarne il complesso dramma, il suo essere dipendente dal suo complesso passato che sembra definirla, nonostante spesso si trattasse di relazioni di brevissima durata e di poca importanza.

Wright tratteggia una Ramona Power il più possibile sfaccettata, riuscendo quantomeno ad definirne i contorni: il personaggio passa dall’essere la ragazza misteriosa e desiderabile, alla figura tormentata dal suo passato, per arrivare alla medesima conclusione della controparte fumettistica.

E forse era impossibile pretendere di più…

Ruoli

Brie Larson in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Ma il personaggio che più di tutti viene ridotto a mero ruolo è Envy.

Nel fumetto si trova un’abile costruzione emotiva che racconta più ampiamente il suo passato e il come è arrivata ad essere cattiva, portando il lettore a detestare il suo personaggio, per poi sferrare la zampata finale che invece rimette in discussione tutta la sua personalità.

Nel film invece il suo dramma è appena accennato, e si mette in scena la sua parte invece più negativa e da femme fatale, raccontandola come un nuovo ostacolo nella relazione fra Ramona e Scott, ma andando ben poco oltre a quello, anzi facendola facilmente scomparire di scena.

Jason Schwartzman in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Gideon invece è un discorso a parte.

Wright ha cercato di ammorbidire un personaggio che nel fumetto era più una presenza, un’ombra costantemente in agguato nella vita di Scott, ma che appariva effettivamente solo nel finale in cui rivelava il suo piano – ben più complesso e ben più crudele rispetto al film.

La pellicola invece fa il verso al fumetto – in cui Scott pensava che Gideon fosse un produttore discografico – e lo si collega strettamente a tutta la vita del protagonista, in modo che la sua sconfitta non liberi solamente Ramona, ma anche i suoi amici.

Una riscrittura forse azzardata, ma che funziona.

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Dumbo – La favola triste

Dumbo (1941) di Ben Sharpsteen è il quarto classico Disney, distribuito per recuperare le perdite di Fantasia (1940).

In effetti, a fronte di un budget molto ridotto – meno di un milione di dollari – incassò 1,3 milioni.

Di cosa parla Dumbo?

Il nuovo arrivato del circo, il piccolo Dumbo, viene discriminato e maltrattato per le sue grandi orecchie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dumbo?

Dumbo e il topolino Timoteo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Assolutamente sì.

Anche per la durata veramente ridotta – poco più di un’ora – Dumbo è una visione piacevolissima, nonostante la storia davvero straziante in più momenti, che cerca però di smorzare la tragedia sul finale, inserendo degli intermezzi comici – o presunti tali.

Anche se fu concepito come un prodotto dal basso budget, Walt Disney non smise ancora di sorprendere con la sua animazione splendida pur nella sua semplicità, continuando sulla strada vincente di animare personaggi animali in maniera credibile e mai forzata.

Insomma, da non perdere.

Dumbo tecnica animazione

Dumbo nacque come un Roll-A-Book.

Questo prototipo di giocattolo conteneva otto disegni e poche righe di narrazione, con Dumbo accompagnato da un pettirosso piuttosto che dal topolino Timoteo, e fu portato all’attenzione di Walt Disney nel 1939.

Il progetto fu subito accolto con entusiasmo da Disney, anche se inizialmente intese il progetto come un cortometraggio: la sua natura cambiò non solo quando si capì la necessità di una maggiore lunghezza per riuscire ad adattare la storia…

…ma soprattutto per venire incontro alle perdite finanziarie di Fantasia, il cui insuccesso fu dovuto anche all’impossibilità di distribuirlo in Europa per via dell’inedita situazione bellica.

Infatti Dumbo fu un progetto low-budget: si può ben notare dalla semplicità del design dei personaggi, dagli sfondi poco dettagliati, e da un certo numero di momenti riciclati dell’animazione interna al film.

Inoltre, insieme a Biancaneve (1937), è l’unico Classico Disney con gli sfondi creati con gli acquarelli.

Anche se fu nel complesso un successo, ci furono diversi problemi nella produzione e nella distribuzione.

Anzitutto, il 29 Maggio 1941, dopo che una prima animazione approssimativa del film era stata compiuta, diversi animatori appartenenti al sindacato Screen Cartoonists Guild cominciarono uno sciopero che si concluse solo dopo cinque settimane.

Inoltre la RKO fu inizialmente molto reticente nel distribuire il film nella sua lunghezza di soli 64 minuti, chiedendo inutilmente a Disney di allungarlo o distribuirlo come cortometraggio, dovendo poi cedere e portarlo in sala nella forma proposta.

Umano

Dumbo e la signora Jumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Uno dei grandi pregi di Dumbo è la gestione dei personaggi animali.

Altre produzioni molto meno ispirate avrebbero reso gli elefanti umani in tutto per tutto, facendoli camminare su due zampe e facendogli utilizzare le altre due come normali braccia, magari anche vestendoli di abiti borghesi.

Al contrario, nel quarto Classico Disney si punta moltissimo nell’animare la parte più attiva dei pachidermi: la loro proboscide, che diventa di fatto un braccio che in maniera del tutto credibile interagisce con l’ambiente circostante, afferrando, indicando e persino aggredendo.

Dumbo e la signora Jumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Tuttavia, le dinamiche sociali sono strettamente umane.

Fin dall’inizio si svela tutta la cattiveria del gruppo delle elefantesse, che prima umiliano la Signora Jumbo già solo per il fatto di essere incinta – con un sottosenso piuttosto impegnativo – e a cui basta un elemento fuori posto – le grosse orecchie – per cominciare a bullizzare il nuovo venuto.

Piuttosto audace per una produzione di questo tipo raccontare un lato ben meno felice della realtà circense, in cui gli animali non solo erano sfruttati, ma anche lasciati liberi nelle mani degli avventori, per poi essere puniti quando solo cercavano di difendersi.

E dare il via alla scena più triste di tutte…

Solo

Il topolino Timoteo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Una volta poste le basi di una situazione ostile e immobile, viene introdotto il motore della vicenda.

Ovvero, il topolino Timoteo.

Si tratta del secondo piccolo aiutante che appare in un Classico di casa Disney, dopo l’ottima sperimentazione con il Grillo Parlante in Pinocchio (1940) e che anche in questo caso diventa elemento fondamentale per la storia, che guida il protagonista nella sua evoluzione.

Il topolino Timoteo e Dumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

È infatti opera di Timoteo lo spettacolo con protagonista Dumbo, e sempre Timoteo lo incoraggia costantemente, anche quando viene umiliato e ridotto a pagliaccio, in una condizione di evidente inferiorità, per cui neanche viene considerato un vero elefante.

Ed è a questo punto che si trova la parte più iconica e altresì più enigmatica del film.

Intermezzo

Cosa rappresenta la scena degli Elefanti Rosa?

Secondo alcuni, è un semplice virtuosismo artistico in una pellicola, che per il resto non brilla particolarmente per l’innovazione, per altri una palese introduzione dell’elemento degli stupefacenti in un prodotto per bambini – niente di strano dopo il ben più problematico Pinocchio.

Quello che è indubbio è che ci troviamo davanti all’ennesima dimostrazione della maestria animata della Disney delle origini, capace di impreziosire una storia così in piccolo con una sequenza rimasta indelebile nell’immaginario di diverse generazioni di bambini.

Tanto più che la sequenza sfoggia una tecnica che sembra un retaggio di Fantasia stessa, con un sublime incontro fra musica e animazione, quasi dialogando con lo stesso pubblico di bambini, probabilmente attonito davanti a questa strana parata di inquietanti elefanti rosa.

Scioglimento

I corvi in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Nonostante la breve lunghezza, Dumbo mostra una struttura narrativa piuttosto solida.

Dopo una robusta introduzione, i primi passi del protagonista nella sua salita e caduta precipitosa, viene lasciato adeguato spazio per sciogliere la vicenda in maniera convincente e con non pochi inciampi dello stesso protagonista lungo la strada.

L’unico labile collegamento della parte degli Elefanti Rosa è che rende possibile a Timoteo di iniziare a sospettare le doti incredibili di Dumbo – il saper volare – con il piacevole inserimento dei corvi, che sembrano un po’ fare eco ai pensieri dello spettatore.

Il topolino Timoteo e Dumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Inoltre, la canzoncina Giammai gli elefanti volar costruisce un simpatico climax verso la conclusione, con anche l’inserimento di una apparentemente innocua bugia bianca, che però sembra quasi rivoltarsi contro Timoteo proprio nel momento più sbagliato…

…ma che invece porta ad un finale completo e soddisfacente.

Ritroviamo le elefantesse che, dopo essere state punite per la loro cattiveria, sono felici sul treno del circo, con in coda la Signora Jumbo finalmente riabilitata e libera dalla prigionia, mentre guardia orgogliosa il suo bambino, diventato ormai la nuova star del circo.

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Jin-Roh – Uomini e Lupi – Sottostare al ruolo

Jin-Roh – Uomini e Lupi (1999) di Hiroyuki Okiura è un anime ucronico e di spionaggio.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato circa 100 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Jin-Roh – Uomini e Lupi?

Giappone, 1950. Kazuki Fuse fa parte dell’ormai odiato corpo di polizia Kerberos. E una incomprensibile esitazione lo porterà fuori strada…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jin-Roh – Uomini e Lupi?

Assolutamente sì.

Jin-Roh – Uomini e Lupi è un crocevia di diversi generi, in cui dominano le dinamiche tipiche dello spy movie, pur all’interno di una più ampia riflessione che si intreccia in maniera piuttosto straziante con la favola di Cappuccetto Rosso.

Insomma, una pellicola che non si sbilancia mai in un senso né nell’altro, che lascia aperte diverse domande a cui forse solo lo spettatore è capace di trovare una risposta, all’interno di un susseguirsi di rivelazioni e colpi di scena che tengono costantemente col fiato sospeso.

Superato

Non c’è più spazio per Kerberos.

Ma neanche per il suo contrario.

La dicotomia di Cappuccetto Rosso e i Lupi, propria dell’immediato dopoguerra nipponico, si è ormai esaurita ed è considerata superata, in un Giappone che vuole guardare ad un futuro più sfumato, più concentrato sull’idea di rinascita che di distruzione interna.

Proprio qui si inserisce Kazuki, che si trova spaesato davanti all’incomprensibilità di questo presente, davanti ad una ragazzina che sembra voler abbracciare gli estremismi di questo gruppo terroristico, che conduce alla domanda fondamentale per il suo percorso riflessivo:

Perché?

Ruolo

Non c’è spazio per i perché.

Ma solo per i ruoli.

Il protagonista cerca invano una comprensione delle parti che sembrano solo imposte – Lupo e Cappuccetto – e da cui sembra impossibile evadere, nonostante tutta la società intorno agli stessi stia cercando di smantellarli.

E la sua via di fuga sembra proprio Kei Amemiya, una ragazza così simile alla sua vittima, con un comportamento fin troppo accomodante e accogliente nei suoi confronti, che sembra proporgli di sfuggire proprio agli schemi in cui è intrappolato.

Ma non è abbastanza.

Pedina

Nonostante la ragazza lo spinga costantemente a fuggire, nonostante venga continuamente interrogato sul perché abbia scelto di non uccidere direttamente la ragazza ribelle, Kazuki è semplicemente incapace di reagire, di rispondere, di sfuggire da questo limbo.

E allora i personaggi sono solo pedine.

Entrambi si riscoprono legati a doppio filo con quello schema che tanto detestano, delle pedine mosse da mani nell’ombra che giocano con la loro carne per avere il controllo sulla situazione politica, per risolverla unicamente a loro vantaggio.

Una rappresentazione che potrebbe far riferimento alla complessa situazione politica nipponica nel secondo dopoguerra, con un paese ancora più immobile e incapace di reagire ai nuovi scenari politici, impotente nella sua sofferenza, sottomesso agli impulsi esterni.

Ed è ancora più straziante quando il protagonista sembra aver finalmente la libertà di scegliere se seguire il piano di altri oppure se proteggere il suo nuovo amore, con una chiusa che mostra un cecchino nell’angolo che avrebbe in ogni caso scelto per lui…

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2023 Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2024

La zona di interesse – L’insostenibile indifferenza

La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer è una delle proposte più interessanti a tema Olocausto degli ultimi anni.

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – ha incassato 40 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per La zona d’interesse (2023)

in neretto le vittorie

Migliori film
Miglior regista
Miglior film internazionale
Migliore sonoro
Miglior sceneggiatura non originale

Di cosa parla La zona di interesse?

Polonia, Anni Quaranta. La famiglia Höß conduce una vita semplice in una località amena: Auschwitz.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La zona di interesse?

Una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Assolutamente sì.

La zona d’interesse si propone in un mercato ormai saturo sull’impegnativo tema della Shoah, e, proprio come JoJo Rabbit (2019), propone un punto di vista diverso: l’insostenibile indifferenza dei complici della tragedia.

E a fronte di prodotti in cui spesso si cannibalizza sul tema, mostrando la violenza e il dolore nella maniera più sfacciata e strappalacrime possibile, Glazer sceglie invece una regia fredda per raccontare una tragedia che per i protagonisti non era nient’altro che un sottofondo…

Insomma, davvero imperdibile.

Spettatore

Una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Una particolare finezza de La zona di interesse è il taglio registico.

Una regia molto statica, con montaggio rapido e analitico che racconta i diversi momenti della vita di questa famiglia, senza mettere quasi mai un vero protagonista in scena, ma lasciando che questo gruppo di personaggi si muova liberamente negli spazi filmici.

Christian Friedel in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Tanto più che non penetriamo mai la mente di questi individui, ma ne scopriamo i caratteri nei loro brevi dialoghi, o nei rarissimi momenti in cui gli stessi esprimono a parole i loro sentimenti, limitandosi per il resto ad essere raccontati dal contesto.

In questo modo lo spettatore diventa il testimone inconsapevole della vicenda, assorbendo così un concetto fondamentale che la pellicola suggerisce in maniera molto sottile: in circostanze diverse, avremmo potuto essere noi al loro posto.

Sottofondo

Christian Friedel e Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

La pellicola è definita dalla mancanza.

In rari e sfuggenti momenti sentiamo effettivamente e chiaramente la testimonianza sonora dello sterminio in atto, mentre per la maggior parte del tempo le urla di dolore e l’abbaiare feroce dei cani in sottofondo si mischia alle voci, alle risate e alle urla felici dei protagonisti.

In questo modo risalta in tutta la sua potenza l’insostenibile indifferenza della famiglia Höß, nello specifico di Hedwig, la padrona di casa, mentre gestisce la delicata economia domestica, mentre mostra ai suoi ospiti la bellezza di questo felice spazio vitale che è riuscita a costruirsi.

Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Il resto si definisce nei dettagli.

Scampoli di dialoghi, che coinvolgono tutti i personaggi, dalla felicità nello scovare nuovi vestiti sottratti agli ebrei, così come i loro preziosi ingegnosamente nascosti, il giocare coi denti d’oro dei bambini fino alle più serie conversazioni su come ottimizzare lo sterminio.

Così i protagonisti non vengono mai raccontati come malvagi, ma piuttosto sono ritratti nella loro serena indifferenza, mentre ridono delle loro vittime, mentre ragionano freddamente sulle dinamiche che hanno portato alla situazione attuale.

Sporco

Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

L’elemento più disturbante dei protagonisti de La zona d’interesse è la loro scala valoriale.

Libero dalla pesante eredità di prodotti che negli anni hanno banalizzato la figura del nazista, Glazer carica i suoi protagonisti non sono di una devastante indifferenza, ma anche di una serie di priorità quasi surreali.

Infatti, nel cuore dello sterminio, la più grande preoccupazione della famiglia Höß è il contatto con quegli sporchi ebrei: così l’emergenza si scatena quando per caso si scoprono immersi nelle ceneri delle loro vittime, e si impongono una pulizia quasi ossessiva…

…e la stessa riappare quando il capofamiglia, pur concedendosi ad un’ebrea, si infila nei sotterranei per ripulirsi clinicamente e sistematicamente quella parte di sé che è venuta a contatto con un essere indegno, in una scena ai limiti dello squallido.

E questo contribuisce molto di più a caratterizzarli e a contestualizzarli di quanto abbiano fatto molti decenni di cinema sul tema finora.

Paradiso

Christian Friedel e Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Hedwig Höß non vuole andarsene.

L’unico momento in cui davvero si scompone è quando viene minacciata di essere sottratta di quell’angolo felice di paradiso che ha creato per sé stessa e per la sua famiglia, in un luogo da cui milioni di vittime avrebbero voluto fuggire, ma che lei invece ricerca disperatamente.

E infatti questa stringente normalità è rifiutata solamente da una felice arrampicatrice sociale, quando per la prima volta viene messa davanti al conto da pagare per la sua nuova posizione: la suocera, l’unica che abbandona volontariamente questo luogo paradossale.

Christian Friedel in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Ma noi siamo davvero non indifferenti?

Nell’unica semi-soggettiva che Glazer concede a Rudolf Höss, è come se il gerarca spiasse verso il futuro, verso il nostro presente, osservando come Auschwitz sia diventata una sorta di tempio, che freddamente racchiude una testimonianza fondamentale del suo presente.

E, mostrando le inservienti che puliscono in maniera pedissequa, ma senza mostrare altresì alcun sentimento o emozione, il film parla direttamente a noi: anche se non siamo stati complici nel passato, stiamo affrontando con la giusta profondità una macchia così devastante della nostra storia?

Forse no.

La zona d’interesse bambina bianco e nero significato

La bambina che porta le mele è una scena apparentemente incomprensibile e distaccata dal resto del film.

In realtà il regista ha spiegato che le sequenze dedicate al suo personaggio hanno diversi significati: anzitutto, raccontano un frammento di speranza nell’oscurità rappresentata sia dal contesto storico, sia dai personaggi che lo popolano.

Infatti la bambina porta un elemento di nutrimento, di vita.

La mela.

Ma ha anche un valore storico.

Il personaggio della misteriosa bambina è ispirato ad una donna polacca, Alexandria, che ha raccontato di aver lavorato per la resistenza polacca durante il Nazismo quando aveva solo 12 anni, girando con la sua bicicletta per distribuire mele.

Non a caso, la casa in cui la bambina torna dopo le sue spedizioni, la bicicletta e i vestiti indossati dall’attrice sono proprio quelli di Alexandria, che è morta poche settimane dopo essersi incontrata col regista.

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Baby Driver – Una sgommata al ribasso

Baby Driver (2017) di Edward Wright rappresenta finora il più grande successo commerciale del regista.

Infatti, a fronte di un budget di 34 milioni di dollari, ne incassò 226 in tutto il mondo.

Di cosa parla Baby Driver?

Baby è un ragazzo con una dote incredibile: essere capace di destreggiarsi per le strade di Atlanta come un maestro della fuga.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Baby Driver?

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

In generale, sì.

Per quanto sia un prodotto che apprezzo veramente poco, Baby Driver nel complesso è un discreto film di intrattenimento, con una sceneggiatura molto abbozzata, ma complessivamente non peggiore di molte altre pellicole del genere di riferimento.

Personalmente a me dispiace vedere il grande successo di questo lungometraggio, quando lo stesso – per regia, e, soprattutto, per scrittura – è il film più debole della filmografia di Wright, che per fortuna si è ripreso col successivo progetto, Last night in Soho (2021).

Ma se questo film vi farà avvicinare alla sua produzione, sarò solo che contenta.

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Per quanto l’idea centrale della pellicola – la musica diegetica che dà il ritmo alla scena – sia apparentemente molto creativa…

…personalmente non mi ha particolarmente soddisfatto.

Purtroppo, mettendo Baby Driver a confronto con il resto della produzione di Wright, il risultato mi sembra veramente debole: le sequenze in cui il protagonista si muove a ritmo di musica, con elementi della scena che richiamano la canzone che sta ascoltando…

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

…comparate anche solo alla scena di Don’t stop me know di Shaun of the dead essere (2004), mi sembrano più il lavoro di un regista che sta cercando di imitare lo stile dell’autore della Trilogia del cornetto più che di Wright stesso.

E se l’aspetto idealmente più interessante della pellicola non mi ha convinto…

Ansel Elgort e Kevin Spacey in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Baby non lo è solo di nome.

Wright cerca di tratteggiare un protagonista estremamente positivo – anche troppo: il personaggio di Ansel Elgort sembra costruito a tavolino per intercettare il gusto del pubblico di riferimento di ragazzini – e pure riuscendoci, visti gli incassi.

Questo aspetto tuttavia si traduce in una totale mancanza di evoluzione del protagonista, che semplicemente viene coinvolto in un’organizzazione criminale contro la sua volontà, senza mettere in mai in dubbio la propria moralità, anzi.

E questa infantilizzazione è particolarmente esplicata dal costante contrasto con i personaggi negativi – che meritano un discorso a parte – e le loro azioni cattivissime, che costringono il protagonista a mettersi costantemente davanti ad immagini di morte e di violenza.

Così anche il vestiario è indicativo: colori candidi e desaturati, che ne definiscono l’aspetto ed il carattere genuino e illibato, fortemente contrastante con i costumi invece chiassosi, volgari e al limite dello stereotipato degli antagonisti.

Ma parliamo di loro.

Ansel Elgort e Jon Hamm in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Gli antagonisti di Baby Driver sono tagliati con l’accetta.

Vengono raccontati come i più classici gangster ora con un passato problematico e oscuro, con la bocca piena di parolacce, ora con l’atteggiamento da gradassi, distruttivo e spaccone, motore dell’involuzione della vicenda stessa.

Insomma, un gruppo di villain che appaiono quasi ridicoli nel loro eccesso, mai veramente raccontato in maniera comica, anzi prendendosi drammaticamente sul serio, con dialoghi e battute frutto di una scrittura estremamente stereotipata e facilona.

Ansel Elgort e Kevin Spacey in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Ma la parte peggiore è Doc.

Il personaggio di Kevin Spacey dovrebbe essere un proto-Padrino, che si distingue nettamente dal resto dei criminali per un’intelligenza indubbiamente superiore, ma non mancando della stessa spietatezza che lo porta a minacciare Baby.

Tuttavia, questo elemento si perde in una totale incoerenza sul finale, quando invece Doc, senza nessun motivo – se non la a quanto pare inevitabile tenerezza della giovane coppia – diventa alleato del protagonista.

Ovviamente, mancando di qualunque evoluzione in questo senso.

Ansel Elgort e Lily James in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Inizialmente pensavo di non sopportare né il personaggio di Debora né la sua relazione con Baby per il carattere completamente inconsistente del suo personaggio, protagonista di una storia d’amore nata sostanzialmente dal nulla e diventata strappalacrime nel giro di poche scene.

Mi sbagliavo.

Ansel Elgort e Lily James in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

L’elemento veramente più grave di Debra è proprio come apparentemente dovrebbe rappresentare l’alternativa morale di Baby, un sogno irrealizzabile che lo porta infine a prendersi le sue responsabilità e consegnarsi alla polizia.

Al contrario, Lily James è semplicemente l’interesse amoroso del protagonista che doveva essere inserito nella storia da contratto, ma che diventa semplicemente un’ulteriore sottolineatura dell’intoccabile bontà del personaggio.

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Fantasia – Animare la musica

Fantasia (1940) è, insieme al poco precedente Biancaneve (1937), probabilmente una delle maggiori sperimentazioni di Walt Disney.

Purtroppo, fu un incredibile insuccesso commerciale, rischiando di minare il futuro dell’azienda stessa: la distribuzione piuttosto sfortunata – non venne distribuito in Europa – e piuttosto dispendiosa – unicamente in costosissimi roadshow – contribuì al fallimento economico dell’operazione.

Di cosa parla Fantasia?

Sotto la guida del Maestro delle Cerimonie Deems Taylor, il film presenta una collezione di otto episodi animati accompagnati da noti pezzi di musica classica.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fantasia?

In generale, sì.

Per quanto Fantasia sia una sperimentazione veramente incredibile e da riscoprire, è altrettanto vero che non è un prodotto per tutti i palati: si tratta sostanzialmente di un concerto lungo più di due ore, in cui le storie raccontate sono piuttosto semplici e fini a sé stesse.

Quindi il mio consiglio è, se non ve la sentite di affrontare tutto insieme, di spezzettare la visione a seconda dei singoli frangenti, così da ammorbidire l’esperienza, senza comunque fargli perdere importanza.

Fantasia Produzione

Fantasia nacque per rilanciare Topolino.

Il personaggio iconico di Walt Disney stava progressivamente perdendo terreno rispetto ai comprimari – Paperino e Pippo – e per questo si scelse di rilanciarlo tramite il corto L’Apprendista stregone, con anche un redesign sostanziale.

Tuttavia in poco tempo le spese di produzione lievitarono talmente tanto che apparve chiaro che quel cortometraggio da solo non era sufficiente per rientrare nelle spese, e che era necessario costruirci qualcosa intorno.

Così nacque l’idea di Fantasia.

Ma non era niente di nuovo per Walt Disney: già con le Silly Symphonies, a partire dal 1929, aveva sperimentato questa commistione fra musica e animazione.

Ma in questo caso voleva fare qualcosa di più speciale: produrre cortometraggi dove la pura fantasia si rivela… l’azione controllata da un motivo musicale ha grande fascino nel regno dell’irrealtà.

Nel 1937 Walt Disney riuscì ad ottenere i diritti per i pezzi musicali, coinvolgendo Leopold Stokowski, direttore dell’Orchestra di Filadelfia dal 1912, che addirittura si propose di collaborare a costo zero.

La produzione coinvolse più di mille artisti e tecnici, per dare vita a più di cinquecento personaggi e per colorare la pellicola scena per scena, in modo che i colori di una sola ripresa si armonizzassero con l’insieme.

Anche in questo caso furono utilizzati dei modelli in argilla per aiutare gli animatori ad avere un’idea di tutti gli angoli dei personaggi da animare.

Non-Narrativo

Una scena di Fantasia (1940)

I cortometraggi di Fantasia si possono volgarmente suddividere in due categorie:

narrativi e non-narrativi.

I segmenti non-narrativi sono quelli che più propriamente abbracciano l’idea del portare in vita il concerto tramite l’animazione, in particolare con i primi due episodi della serie.

L'orchestra di Fantasia (1940)

Si passa dalle note di Bach animate con le lunghe ombre dell’orchestra che si scompongono in linee e geometrie astratte, che seguono il prezioso andamento della Toccata e fuga, e che cominciano il passaggio dalla realtà alla fantasia…

…per introdurre il trionfo naturale sulle note de Lo Schiaccianoci, in cui la natura si rianima e sembra come danzare leggera seguendo la melodia, con uno degli accostamenti più vincenti fra musica e immagine animata dell’intero lungometraggio.

La danza delle Ore di Fantasia (1940)

Ma, fra narrativo e non-narrativo, c’è anche la via di mezzo.

Emblematica in questo senso la Danza delle Ore: una sorta di balletto comico, in cui le ballerine vengono sostituite da animali antropomorfi tipici della produzione Disney, portando in scena uno dei frangenti più iconici della pellicola – nonché uno dei miei preferiti.

Lo stesso in un certo senso si può dire della sequenza conclusiva: dalle atmosfere quasi orrorifiche de Una notte sul Monte Calvo, il lungometraggio si chiude sulle note più maestose e intime dell’indimenticabile Ave Maria di Schubert.

Intermezzo

La colonna sonora di Fantasia (1940)

Lo scambio con la colonna sonora è forse il segmento che mi ha più sorpreso.

Proprio come per uno spettacolo teatrale – e in effetti ha senso nella forma di distribuzione roadshow – nella metà del lungometraggio viene inserito un intermezzo, che si apre con la colonna sonora in persona che viene invitata sul palco.

Il momento in cui queste linee vengono animate e in un certo senso umanizzate sotto la guida esperta di Deems Taylor è una testimonianza incredibile della creatività e fantasia che definì la Disney nei suoi primi anni di storia.

Narrativo

L'apprendista stregone di Fantasia (1940)

Parlando di segmenti narrativi, ovviamente si parla de L’apprendista stregone.

Il corto rappresenta inevitabilmente il cuore della pellicola, ed è quello che più strettamente può essere considerato narrativo: racconta una piccola storia di un giovane Topolino in vesti nuove di zecca, mentre pasticcia con la magia.

E il collegamento con lo spettacolo stesso è evidente quando, nei suoi sogni, il protagonista è come se dirigesse un’orchestra, per poi trovarsi catapultato in un incubo creato dalle sue stesse mani, che solo il suo Maestro, come un novello Mosè, può risolvere.

I centauri di Fantasia (1940)

In ultimo anche se in chiave minore, indimenticabile è sia la sequenza della nascita dei primi esseri viventi sulle note de La sagra della primavera, con anche un avvincente scontro fra i dominatori della preistoria…

…sia la più dolce Pastorale di Beethoven, uno spaccato di mitologia greca e romana in cui si alternano sulla scena le rampanti figure divine che sconvolgono gli equilibri terrestri e lo sbocciare degli amori fra i mitici centauri.

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Robot Carnival – Uno spaccato di anime

Robot Carnival (1987) è una raccolta di cortometraggi animati curati da nove registi e animatori giapponesi.

Al tempo venne proposto come OAV, Original Anime Video, ovvero un anime distribuito direttamente in videocassetta.

Di cosa parla Robot Carnival?

Proprio come un parco dei divertimenti, Robot Carnival raccoglie diverse ispirazioni da diversi registi con un tema comune: i robot.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robot Carnival?

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

Assolutamente sì.

È praticamente impossibile rimanere delusi con Robot Carnival: ci si trova davanti ad una tale varietà di toni, di temi e di tagli narrativi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta, con storie tutte diverse fra loro anche per stile artistico.

E se la poca presenza di dialoghi, o la loro totale assenza, potrebbe spaventare, a fine visione appare chiaro che gli stessi sarebbero stati del tutto inutili all’interno di una narrazione così ben strutturata da funzionare anche solo di musica e di suggestioni.

Rumore

Una scena di Franken's gear in Robot Carnival (1987)

Robot Carnival si apre con una collezione di rumori.

L’intro è visivamente aggressiva e sottilmente metanarrativa: sembra come se il colosso del film stesso, di questo strano parco dei divertimenti, entrasse prepotentemente in scena, distruggendo ogni cosa sul suo passaggio, anche gli indifesi spettatori.

Si passa poi ad un primo episodio semplice quanto efficace: una riproposizione moderna e robotica del classico di Mary Shelley: l’esperimento apparentemente fallimentare incorniciato dai rumori di laboratorio…

Una scena di Niwatori Otoko to Akia Kubi in Robot Carnival (1987)

…esplode in un climax ascendente per giungere a dinamiche non tanto dissimili dall’iconica scena di Frankenstein Junior (1974) ma con una ben più amara, quanto enigmatica, conclusione, in cui il successo dell’operazione sembra spezzarsi.

La stessa dinamicità si ripropone nel confusionario quanto surreale capitolo conclusivo, Niwatori Otoko to Akia Kubi, in cui un cittadino comune diventa testimone di una rivolta dei robot, che rinascono, si spezzano, cadono a pezzi in forme orrorifiche e incomprensibili.

Ma c’è spazio anche per il dialogo.

Dialogo

Una scena di Presence in Robot Carnival (1987)

Il dialogo in Robot Carnival è essenziale.

Nel terzo capitolo, Presence, lo è nel senso che è ridotto all’osso: la scena prima si anima di uno spaccato della difficoltosa vita dei robot nella società umana, per poi aprirci uno squarcio sulla vita del protagonista tramite un’intrusione nei suoi pensieri.

E questa impertinente macchina, questa creazione che sembra avere una vita propria, è anche l’unica che sembra comprendere la vera natura del suo creatore, che si è sempre privato dell’amore, vivendo una vita fra un gelido matrimonio e le sue invenzioni senza cuore.

Del tutto diversa l’atmosfera del penultimo capitolo, Strange Tales of Meiji Machine Culture: Westerner’s Invasion, in cui assistiamo ad un duello fra due enormi quanto primitive macchine, pilotate da un inventore squinternato e da una litigiosa coppia di ragazzini.

Un frangente che è l’unico veramente e propriamente comico della pellicola, con dinamiche che sembrano provenire da uno shonen degli Anni Ottanta (e non solo), e che permette allo spettatore infine di concedersi una risata.

Silenzio

Una scena di Deprive in Robot Carnival (1987)

In Robot Carnival ci sono diversi tipi di silenzi.

C’è il silenzio dei personaggi, che non hanno bisogno di alcun dialogo per raccontare la loro storia, ma che invece si avvicendano sulla scena con episodi estremamente dinamici e incalzanti, in piccole avventure a lieto fine.

È questo il caso sia di Deprive, in cui un’invasione aliena diventa lo sfondo per quella che si rivela infine una dolcissima storia d’amore con protagonista un’umana e un robot dall’aspetto cangiante, che infine la ragazzina riconosce nella sua nuova forma…

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

…sia di Starlight Angel, il mio preferito della serie, che riprende sostanzialmente le stesse dinamiche, ma in un contesto più giocoso e onirico, in cui un sofferto tradimento amoroso si risolve nella formazione di una nuova e felice coppia.

E infine il silenzio c’è il silenzio Cloud, un bozzetto a matita che si anima per raccontare di un piccolo robot che attraversa le diverse epoche terrestri, nella silenziosa quanto inevitabile vittoria e distruzione del genere umano.

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The World’s End – Stanchezza

The World’s End (2013) di Edward Wright è il terzo e conclusivo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto, dopo Shaun of the dead (2004) e Hot Fuzz (2007).

A fronte di un budget di più del doppio rispetto al precedente – 20 milioni di dollari – fu un mezzo disastro commerciale, con 46 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla The World’s End?

Gary King è un bambino troppo cresciuto che rimane ancora ancorato alle dinamiche della sua adolescenza, mentre tutti gli altri sono andati avanti senza di lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The World’s End?

Dipende.

A differenza dei suoi predecessori, The World’s End manca della brillantezza umoristica e narrativa tipica di Wright, che ebbe la sua ultima dimostrazione in Scott Pilgrim vs. the World (2010), per poi rivolgersi a pellicole più drammatiche.

Nella conclusione della trilogia troviamo un umorismo molto più caciarone, basato su dinamiche che alla lunga appaiono quasi ripetitive, e con una morale che mi ha davvero poco convinto.

Insomma, se volete concludere la trilogia, dategli una chance, ma non aspettatevi molto.

Indietro

Gary King è rimasto indietro.

Tutto il racconto introduttivo, che cerca debolmente di ricordare quello del precedente film, mostra un sogno meraviglioso della fine dell’adolescenza, il punto di arrivo di una storia di successi, che però è risultata infine monca.

Uno smacco nella memoria del protagonista, che tenta disperatamente e furbescamente di risolvere, andando a raccattare un improbabile gruppo di amici d’infanzia ormai cresciuti e con molte responsabilità sulle spalle.

Da qui parte un inevitabile e – almeno idealmente – comico contrasto.

Ma quanto può durare?

Statico

La linea comica principale della pellicola è debole.

O, almeno, lo è considerando i precedenti.

Anche gli altri due capitoli si basavano sul contrasto fra il protagonista e il mondo che lo circondava, ma erano anzitutto caratterizzati da una verve umoristica molto più originale e brillante…

…e, soprattutto, non si trattava di un contrasto statico: come in Shaun of the dead il protagonista passava dall’essere un personaggio passivo ad uno attivo e risolutore, allo stesso modo in Hot Fuzz Nicholas Angel trovava infine una nuova identità.

E in The World’s End?

Nel terzo capitolo Gary King è costantemente portato al centro della scena come elemento comico in maniera quasi esasperante, con i suoi comprimari che lo detestano apertamente e che criticano ogni suo atteggiamento.

E, in aggiunta, King non cambia mai – ed è una grande mancanza: se fino adesso Wright ci aveva abituato ad evoluzioni graduali ed organiche, in questo caso l’apice del personaggio è nella sua rivelazione finale, che però non determina un cambiamento.

Anzi…

Inverso

Il mondo si adegua a Gary King.

E vive una sorta di involuzione.

Gli alieni conquistatori cercano di imporre sulla Terra un miglioramento consistente, così che la stessa possa diventare un pianeta papabile per far parte di un’organizzazione intergalattica, e non rimanere l’anello debole della catena.

Una presenza significativa per l’umanità, che ha potuto ispirarsi a questa cosiddetta Rete per progredire nel suo avanzamento tecnologico, pur dovendo inconsapevolmente sacrificare molte persone in funzione di robot.

E qui si trova l’altra debolezza della pellicola.

Per quanto le morali del resto della trilogia fossero fondamentale piccole e intime, nondimeno erano di valore.

Nel caso di The World’s End invece assistiamo ad una risoluzione abbastanza discutibile, in cui Gary King sembra disposto a sacrificare secoli di avanzamento tecnologico in funzione di un proprio capriccio personale.

Infatti, infine il protagonista sembra l’unico ad aver guadagnato dal nuovo status delle cose, diventando il leader di un gruppo di Vuoti, andando così a realizzare il suo sogno adolescenziale di gloria e di riconoscimento sociale.

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Pinocchio – Brutalmente educativo

Pinocchio (1940) è il secondo classico Disney basato sul romanzo per ragazzi di Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio (1881 – 1883).

Nonostante fosse uscito poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 2,6 milioni di dollari, incassò 38 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Pinocchio?

Walt Disney prende le mosse dal classico di Collodi per raccontare sofferte quanto educative avventure di Pinocchio.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pinocchio?

Pinocchio e il Grillo Parlante in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Assolutamente sì.

Rispetto a Biancaneve (1937), Pinocchio si distingue per un impianto narrativo più solido, una collezione di avventure dal forte sapore educativo, che non manca comunque di una componente quasi orrorifica.

Infatti, riscrivendo il protagonista in una veste più positiva ed ingenua, le sfortune di Pinocchio hanno un impatto molto più potente, volendo mostrare le insidie del mondo e il come riuscire ad evitarle affidandosi alle giuste figure adulte.

Pinocchio tecnica animazione

Pinocchio non doveva essere un film.

La storia venne proposta a Disney a più riprese e da diverse persone, inizialmente neanche come un lungometraggio, che cominciò a prendere forma solamente nel 1937.

Il punto di svolta fu la lettura di Walt Disney di una versione tradotta dell’opera di Collodi, che gli permise di innamorarsi della storia e di abbracciare finalmente il progetto, che inizialmente doveva essere il terzo classico Disney.

Invece, per via dei problemi produttivi di Bambi (1942), la produzione venne anticipata.

Ma ci volle un intero anno prima che i lavori partissero.

La prima versione del film fu incredibilmente ostica, per via della difficoltà degli argomenti e della natura della storia, che presentava un protagonista abbastanza negativo e pochi momenti di comicità.

La prima stesura fu presa e cestinata da Walt Disney, facendo ricominciare la produzione da zero.

Estetica Pinocchio

L’estetica fu profondamente contaminata.

Nonostante Pinocchio sia ambientato in Italia, gli spazi e i vestiti dei personaggi ricordano più la Baviera, con anche elementi più moderni e propri della cultura statunitense, come la sala da biliardo nel Paese dei Balocchi.

Il reparto produttivo si sbizzarrì nella creazione di elementi da cui prendere spunto, con centinaia di oggetti di scena fra marionette, orologi e miniature dei personaggi, per la prima volta nella storia della Disney.

Fra le prime idee scartate, la più importante fu il character design di Pinocchio: nato come una marionetta pagliaccesca, per volontà dello stesso Disney la sua identità traslò progressivamente sempre di più verso una immagine umana e accessibile.

Così fu anche più umanizzata la figura del Grillo, il primo personaggio Disney aiutante e guida del protagonista.

Il grillo risulta infine non tanto un insetto, ma più un piccolo omino cortese e un po’ dongiovanni, messo sempre alla prova per la sua piccola statura davanti a personaggi negativi giganteschi e minacciosi.

Ancora una volta per le animazioni ci si affidò a malincuore al rotoscopio, ma in maniera differente rispetto a Biancaneve.

Infatti, l e scene in live action non vennero semplicemente ricalcate per la pellicola animata, ma decisamente ampliate per dare maggiore dinamicità e realismo ai personaggi.

Per la voce di Pinocchio si scelse il giovanissimo cantante Dickie Jones, mentre il Grillo prese la voce di Cliff Edwards, e la Fata Turchina fu fatta sul modello di Evelyn Venable, anche modella per il logo della Columbia Pictures.

Intuibile

Se si confronta col Pinocchio di Collodi, ma anche con la riproposizione in stop-motion di Guillermo del Toro, il personaggio di Geppetto è molto meno caratterizzato: non sappiamo molto sul suo carattere né sulla sua storia.

Possiamo solo intuirlo dal contesto e dalle parole della Fata Turchina: Geppetto è un uomo buono che ha fatto tanto bene agli altri, probabilmente tramite le sue creazioni, e che vive senza figli, ma con due pimpanti animali da compagnia.

Pinocchio e Geppetto in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

In questo modo, proprio come il Principe Azzurro, Geppetto è un personaggio con una funzione molto stringente: rappresentare la figura genitoriale buona ma anche apprensiva, che più che guidare, cerca di proteggere Pinocchio dal farsi del male da solo.

E proprio sta qui il punto della storia.

Ingenuo

Pinocchio e il Grillo Parlante in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Paradossalmente, il Classico Disney è per certi versi più educativo del romanzo di Collodi.

Infatti, come vedremo in coda, il personaggio originale era molto più cattivo e dispettoso, quindi rappresentava in maniera molto semplice ed immediata la sorte sfortunata di un bambino disobbediente, che infine veniva premiato per aver invece imboccato la retta via.

Al contrario, il Pinocchio disneiano è un bambino qualunque, preda della sua stessa ingenuità che lo porta a lasciarsi adescare dalla prima proposta allettante, dal primo adulto di cui si fida ciecamente, diventando così preda delle peggiori macchinazioni.

Pinocchio e la Volpe in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Insomma, Walt Disney sembra voler ammonire i bambini del suo tempo di dare fede alle parole dei propri genitori ed educatori, perché dette solamente per il loro bene, e invece di guardarsi dalle proposte di successo facile e fin troppo allettante.

Altrimenti le conseguenze sono terribili…

Animale

Postiglione in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Pinocchio è quasi orrorifico.

Il protagonista viene infatti non solo ripetutamente privato della sua libertà, ma proprio anche della sua stessa umanità: già piuttosto raccapricciante l’idea di diventare un fenomeno da baraccone chiuso in una gabbia da Mangiafuoco…

…ma ancora più devastante è la disavventura del Paese di Balocchi.

Postiglione e un asino in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Agli occhi dello spettatore odierno tutta la situazione appare davvero brutale, fin dalle eloquenti conseguenze di Pinocchio che si fa provocare da Lucignolo, aspirando il sigaro in maniera esagerata.

Ma l’apice dello sconvolgimento è la scoperta della vera natura del luogo e del piano del Postiglione, che rapisce i bambini per trasformarli in asini da mandare a lavorare – e a morire – nelle miniere di sale.

E al riguardo salta all’occhio un elemento ancora più agghiacciante…

Minaccia

Il Gatto e la Volpe in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

La maggior parte delle storie Disney sono a lieto fine.

E un aspetto fondamentale delle conclusioni è la sconfitta dell’antagonista, proprio con un’idea del bene che sconfigge il male, nel caso dei cattivi Disney con delle morti o degli annientamenti spesso non per azione dei protagonisti, ma per una sorta di autodistruzione.

In Pinocchio questo elemento è drammaticamente mancante.

Pinocchio e Il Grillo in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Che sia voluto o meno, per quanto la conclusione sia positiva, le varie minacce che hanno insidiato il protagonista durante le sue disavventure sono ancora presenti in agguato, e Pinocchio potrebbe ricaderci in ogni momento se non starà abbastanza attento.

E se la furba Volpe è riuscita ad ingannarlo per ben due volte di fila, cosa impedisce alla stessa o ad altri antagonisti di imbrogliarlo nuovamente?

Maturazione

La maturazione di Pinocchio è fondamentale.

Con un classico deus ex machina, la Fata Turchina offre al protagonista l’occasione per riscattarsi, dal momento che le sue ingenuità hanno influenzato anche la drammatica sorte di Geppetto, il personaggio che meno di meriterebbe una morte così tragica e sfortunata.

Così l’insegnamento finale è anche più importante: Pinocchio si ingegna, passa dall’essere un personaggio passivo e guidata da altri – il Grillo e la Fata – a figura invece attiva e risolutiva, trovando la Balena e riuscendo a salvare sia sé stesso che Geppetto.

Ed è per questo che infine viene premiato.

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Hot Fuzz – L’omicidio quotidiano

Hot Fuzz (2007) è il secondo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright, in questo caso parodia del genere action poliziesco.

A fronte di un budget di appena 8 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 80 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Hot Fuzz?

Nicholas Angel è il miglior poliziotto di Londra. E, proprio per questo, viene trasferito ad una apparentemente monotona cittadina di campagna…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hot Fuzz?

Assolutamente sì.

Personalmente apprezzo Hot Fuzz anche di più dello già splendido Shaun of the dead (2004): pur nel suo surrealismo, questo secondo capitolo racconta delle dinamiche grottescamente reali e proprie di comunità grette e chiuse in sé stesse.

Particolarmente brillante riportare in scena gli stessi attori, ma con dei ruoli diversi, in particolare un Simon Pegg in massima forma, che segue un percorso del tutto opposto rispetto al suo precedente personaggio, dimostrando la sua grande versatilità attoriale.

Insomma, da non perdere.

Inverso 

Angel sulle prime appare artificioso e irreale.

Ma è del tutto voluto.

Wright prende le mosse dai più classici incipit del cinema del genere che parodizza – l’action e il poliziesco – raccontando fin da subito un personaggio che appare invincibile, il potenziale protagonista di un’avventura adrenalinica…

…in realtà accogliendoci con un aggancio piuttosto frenetico che ci accompagna al cambio di scenario forzato, con una splendida sequenza dal sapore agrodolce, in cui tutti sembrano essersi coalizzati contro il nostro sfortunato protagonista.

In questo senso, Simon Pegg prende un percorso inverso rispetto a Dawn of the dead.

Infatti, se nel precedente capitolo il protagonista era immobile al punto che gli altri personaggi cercavano di spronarlo a smuoversi, in questo caso si tratta invece di un personaggio fin troppo attivo – e che, per questo, viene castigato.

Contrasto

Angel viene forzato in una realtà ostile e aliena.

Infatti è impossibile per un personaggio così scaltro e costantemente all’erta come il protagonista, con un senso di giustizia e dell’ordine ferreo ed imprescindibile, integrarsi in un contesto basato sul piegare le regole al fine della conservazione della comunità.

Non a caso, basta una serata al pub di paese per portare dietro le sbarre metà della gioventù locale, azione del tutto inutile in una situazione politica talmente precaria che basta una notte perché tutto lo sforzo venga vanificato…

Ma il contrasto sta anche nella stessa identità di Angel.

Il suo personaggio sembra veramente uscito dall’action più becero, ma è anche come se fosse stato prosciugato di tutto il possibile divertimento e fascino che deriverebbe dal genere, risultando in un uomo definito solo dalle regole e dalla rigida disciplina.

Non a caso, un primo punto di arrivo della sua evoluzione è l’accettare di aprirsi all’esperienza dell’avventura più esageratamente adrenalinica, con la visione di due classici del genere: Bad Boys II (2003) e Point Break (1991).

Per questo, la crescita dei due protagonisti è reciproca.

Superficie

Il mantenimento dell’ordine cittadino è basato totalmente sull’apparenza.

E Danny ne è la principale vittima.

La sua storia familiare racconta proprio come questo ragazzino orfano di madre sia rimasto sotto il rigido controllo paterno, forte del lutto incolmabile appena subito, per poi farsi totalmente abbindolare dalla narrazione di cui Frank Butterman è il principale artefice.

Per questo, Angel è la sua guida.

Seguendo il suo mantra di ferro per cui sta sempre succedendo qualcosa, il protagonista porta l’attenzione su dei comportamenti apparentemente innocui, ma che in realtà, come si scoprirà nel finale, nascondono molto di più.

Una rigidezza che deve ancora di più scontrarsi con l’ottusità della polizia e della comunità in generale, che sembra incapace di comprendere – ma anche solo di notare – quello che sta sostanzialmente accadendo sotto i loro occhi.

Ma anche Angel pecca di superficialità.

Ovvio

La soluzione al mistero sembra già scritta.

Ogni indizio punta sull’ambigua figura di Simon Skinner, che fin dalla sua prima apparizione sembra raccontarsi come il principale artefice della lunga serie di incidenti che avvengono nella città.

E la motivazione non potrebbe che essere che la più classica trama politica, in cui un importante membro della comunità trama alle spalle della stessa per potersi arricchire, operando delle eliminazioni sistematiche senza aver paura di essere scoperto.

Ma è troppo ovvio.

Wright raccoglie la più classica dinamica del genere – il colpevole più ovvio non è mai il vero colpevole – e la riscrive in una soluzione del mistero surreale e parossistica, che però racconta al contempo anche una realtà più credibile di quanto si potrebbe pensare.

Di fatto la setta segreta che tira le fila della città nell’ombra non è altro che l’esasperazione di una tendenza molto tipica delle realtà provinciali di dimostrarsi incredibilmente gelose e insofferenti per ogni elemento estraneo che possa turbare il quieto vivere.

E questa risoluzione non può richiedere che un eroe.

Eroe

Per risolvere la situazione, Angel non può solo essere un poliziotto.

Deve diventare un eroe.

E questa trasformazione avviene proprio grazie a Danny, che costantemente lo forza per far coincidere la sua idea di lavoro di poliziotto con l’immaginario del tipo di film che Hot Fuzz stesso parodizza…

finché non convince anche Angel a farne parte.

Un cambiamento fondamentale che avviene proprio quando finalmente il protagonista sceglie non solo di aprirsi con Danny, ma anche di lasciarsi guidare verso una visione del mondo e della loro professione più avvincente e meno rigida.

In questo modo, Angel può riscoprirsi l’eroe della storia, che salva la città in maniera piuttosto rocambolesca, rispondendo ad una violenza davvero al limite dell’assurdo con un eroismo ancora più esagerato.

Cosa ci insegna Hot Fuzz?

La morale di Hot Fuzz è sottile quanto gratificante.

Nel finale Angel decide di rimanere a Gloucestershire proprio perché capisce che la bellezza del suo lavoro se la può creare lui stesso, vivendo ogni giorno come una piccola avventura piena di sorprese.

Ad un livello più generale, Wright ci invita a riscoprire la bellezza di quella quotidianità che ci sembra così monotona, proprio con l’idea che anche da poco possano nascere storie incredibili…

…proprio come da poco budget possono nascere piccoli cult indimenticabili.

Hot Fuzz ketchup

Nella gestione della violenza si racchiude la poetica stessa di Hot Fuzz.

Nonostante si tratti di una commedia, il film non si risparmia di mostrare diversi momenti apertamente splatter di cui i più eclatanti sono sicuramente la morte di Tim Messenger e il dolorosissimo incidente di Skinner.

Allo stesso modo, Wright si diverte moltissimo a giocare sulla finzione.

Oltre alla apparentemente cruentissima scena in cui Danny si infilza l’occhio, indimenticabile la scena in cui Cartwright vuole vendicare la morte del compagno quando questo è solo coperto di salsa al pomodoro.

Splendide gag che raccontano la sublime ironia del film, che riesce a stupire nella sua combinazione fra la violenza più scioccante e l’ironia più surreale.

Hot Fuzz Zombie

Hot Fuzz racchiude dei simpaticissimi rimandi al precedente Shaun of the dead.

Anzitutto, quando Angel cerca di spiegare a Danny come qualcosa sta sempre succedendo intorno a loro, fa il verso alla scena del pub nel precedente film in cui gli stessi attori fantasticano sulle vere identità degli avventori.

Allo stesso modo, Nick Frost prende il posto di Simon Pegg nella scena delle staccionate.

Se infatti nel primo film Shaun millantava di saper saltare perfettamente di giardino in giardino, ma alla fine cadeva al primo ostacolo, in questo caso tocca a Danny distruggere l’eroismo del momento.

Infine, piccoli riferimenti agli zombie si vedono nei vari scambi fra Skinner e Angel all’interno del supermercato, in cui il protagonista addita i sottomessi del direttore e questi si comportano in maniera molto simile a degli zombie senza cervello…