Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham è considerato fra i film fondativi del genere slasher.
A fronte di un budget piccolissimo – mezzo milione di dollari, circa 2 milioni oggi – è stato un enorme successo commerciale:40 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 152 oggi).
Di cosa parla Venerdì 13?
1958, New Jersey. Due animatori di un campo estivo vengono brutalmente assassinati da una figura misteriosa. E quindici anni dopo l’orrore sembra pronto a ripetersi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Venerdì 13?
Dipende.
Personalmente ho trovato Venerdì 13 un film veramente tedioso, privo di mordente, niente più che una passerella di omicidi che cerca di buttare molto fumo negli occhi allo spettatore per nascondere la sua inconsistenza di fondo.
D’altra parte, se siete particolarmente fan del cinema slasher, troverete in questa pellicola tutti gli stilemi tanto amati del genere nella loro forma primigenia, che aspettavano solo di essere esasperati all’interno dei suoi sequel e nel filone in generale.
La scelta sta a voi.
Punto di vista
Uno degli pochi elementi che ho apprezzato della pellicola è l’uso della soggettiva.
Per quanto non si tratti di niente di nuovo – la tecnica era già stata ampiamente sperimentata in Halloween (1978), e pure con effetti migliori – tuttavia riesce nel tentativo di farti immergere nella storia, diventando quasi complice dell’omicidio iniziale.
E infine questa tecnica, che pure alla lunga è talmente esasperata da diventare poco credibile, nondimeno permette di far sentire l’inquietante presenza del killer in scena, in quanto la soggettiva è ormai quasi un’esclusiva del suo personaggio.
Il problema è il resto…
Scatto
Uno dei punti più bassi della pellicola è la recitazione.
Finché gli attori protagonisti devono sostenere il ruolo di adolescenti spensierati ed unicamente concentrati sul loro costante desiderio sessuale, diventando quasi indistinguibili l’uno dall’altro, tutto sommato presentano una recitazione discreta…
…ma, quando si tratta di portare in scena emozioni più complesse, di mostrare il puro terrore davanti alla morte, è come guardare una mano invisibile che schiocca le dita e li fa passare in un attimo da uno stato di tranquillità ad una paura devastante, risultando il meno credibili possibile.
Che sia cattiva direzione o cattive capacità interpretative è difficile dirlo, soprattutto visto che invece l’interpretazione dell’unica attrice di qualche valore, ovvero Betsy Palmer nei panni della terribile signora Voorhees, è in parte sporcata da un leggero overacting…
…ma, nel complesso, riesce a funzionare come rivelazione finale del film.
Ma nel frattempo…
Ritmo
Un grande problema di Venerdì 13 è il ritmo.
La storia è incredibilmente ripetitiva, non racconta sostanzialmente nulla per la maggior parte del tempo, particolarmente nel lunghissimo atto centrale, che cerca un minimo di costruire la tensione con dei piccoli indizi del pericolo in agguato – come il serpente…
…ma che infine è solamente una sequenza interminabile di personaggi trucidati in maniera sempre più creativa, a volte proprio per il loro essere promiscui – tema incredibilmente classico all’interno del genere – a volte per puro spettacolo.
E, anche se il vero motivo dell’assassino non è per nulla banale, anzi cerca, come tanti altri film simili – specificatamente Non aprite quella porta(1974), da cui sostanzialmente saccheggia il colpo di scena – di dare un ulteriore significato alla furia omicida del killer…
…ma che, alla lunga, risulta solo stancante, soprattutto considerando quantoil film sia derivativo – rubando, non per ultimo, la colonna sonora a Psycho (1960) – quanto il finale sia sorprendentemente aperto, spunto per una serie sequel che posso solo immaginare…
X (2022) di Ti West, anche noto come X: A Sexy Horror Story, è il primo capitolo della trilogia dedicata al personaggio di Maxine Min.
A fronte di un budget piccolissimo – appena 1 milione di dollari – è stato un ottimo successo commerciale:14 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla X?
Maxine è una spogliarellista che sembra coinvolta nel progetto scritto per lei: un porno in chiave autoriale. Eppure è solo lo spunto per raccontare molto altro…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere X?
Assolutamente sì.
X è uno di quei film indie che hanno un successo insperato, riuscendo a conquistare più pubblico di quello che si aspetterebbero, forti di un racconto che riesce ad evadere da un genere molto saturo di dinamiche già viste e riviste…
…e a dargli, al pari di altri ottimi prodotti come Nope(2022) e Beau ha paura(2022), un interessantissimo taglio autoriale per raccontare molto di più di quello che sembra in superfice, in questo caso toccando un tema non poco impegnativo.
Ma ve lo lascio scoprire.
Attenzione
L’incipit di X potrebbe sembrare molto banale…
…mentre in realtà ben si integra con il senso del film.
Infatti prima battuta ci troviamo davanti ad una scena del crimine piuttosto classica, in cui il regista cela dalla vista dello spettatore la maggior parte del delitto, facendocelo pregustare per il finale rivelatorio che arriverà solo in seguito.
Una tecnica quindi piuttosto semplice per riuscire ad avere l’attenzione del suo pubblico fin dall’inizio, portandolo a chiedersi per il resto della pellicola come si arriverà a questo flashforward, e quindi chi sarà il colpevole.
In realtà questa situazione nasconde ben altro.
Giovinezza
La scena immediatamente successiva racconta un altro lato della pellicola.
Assistiamo quindi ad una passerella di personaggi assolutamente invidiabiali, ancora nel pieno della loro bellezza giovanile, portatori di corpi che verranno sempre più sfacciatamente mostrati, sempre più messi a nudo…
Una presentazione che mostra il primo polo della riflessione: una giovinezza baldanzosa, che non ha paura di mostrare le sue bellezze – tanto da farlo per lavoro – e quindi perfetta per diventare la protagonista di un porno d’autore.
Ma il punto è il come vengono mostrati.
Superficie
Apparentemente X vive di una facile dicotomia fra sesso e violenza...
…ma invece il loro vero significato è ben visibile grazie al linguaggio registico: come i corpi dei protagonisti sono denudati, ma mai effettivamente eroticizzati, la violenza è piuttosto estrema, ma sempre mostrata in sottrazione.
Non a caso, assistiamo sempre stessa scena di violenza ripetuta: della carne, prima animale, e poi umana, fatta a pezzi e distrutta sotto il peso di una macchina piuttosto aggressiva che la sorpassa senza un pensiero.
E così anche le scene erotiche sono piuttosto banali – nonostante siano poste nei momenti clou della vicenda – ma diventano significative se consideriamo invece il montaggio e il significato di cui viene caricata la scena…
…particolarmente quella di Maxine.
Pericolo
La giovinezza è tanto bella quanto inconsapevole del pericolo.
Un concetto ben raccontato nel momento del bagno di Maxine: una scena che apparentemente non ha alcun valore narrativo, ma che in realtà è del tutto funzionale a mostrare una giovinezza inconsapevolmente minacciata.
Maxine è infatti immersa in un sogno talmente idilliaco da non rendersi conto dei due pericoli in agguato: Pearl, che la osserva da lontano – rappresentazione della tragica fine del sogno giovanile…
…e il coccodrillo, simbolo invece di una società che vive di questi idoli temporanei, che è pronta a farli suoi, a divorarli, ma anche a distruggerli e a risputarli quando non più abbastanza giovani e quindi interessanti.
Ed è proprio Pearl a mettere un punto alla riflessione.
Idolo
La prima apparizione di Pearl è già significativa.
Sotto l’occhio stranito di Maxine, l’anziana donna osserva questa nuova bellezza da lontano, sognante, con un atteggiamento che ribadirà anche quando riuscirà finalmente ad attirarla in casa, cercando di coinvolgerla in un segreto sogno erotico carico di significati.
Infatti, come infine gli altri personaggi diventano protagonisti della sua furia distruttiva in quanto rappresentanti di un sogno che non può raggiungere, Maxine è molto di più: la protagonista è di fatto un idolo di cui la donna vuole impossessarsi, anche carnalmente.
Infatti proprio mentre la osserva impegnata in una vivace scena erotica in cui, come si scoprirà poi in Pearl (2023), la donna vede la rappresentazione della se stessa del passato, uno specchio in cui vuole di nuovo riconoscersi, ma da cui viene costantemente scacciata…
…e da cui viene infine schiacciata, diventando profeta inascoltata del misero futuro che attende la protagonista.
ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?
Assolutamente sì.
Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.
L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.
Ma non per questo ve lo potete perdere.
Ostile
Roz precipita in un ambiente ostile.
Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.
Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.
E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.
E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…
Maternità
Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…
…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.
L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…
…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.
Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.
L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.
E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.
Ma, non per questo, risulta un una figura negativa.
Semplicemente, impreparata.
Imparare
La maturazione dei protagonisti è interconnessa.
L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.
E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.
Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.
Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.
Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.
Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.
Distacco
Roz e Beccolustro devono trovare il loro postonel mondo.
Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.
Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.
E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.
Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.
Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…
Unione
L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.
Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.
Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.
Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.
Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.
Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…
She’s the man (2006) di Andy Fickman è un teen movie con protagonista Amanda Bynes, ispirato all’opera shakespeariana La dodicesima notte.
A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 20 milioni di dollari – non ha avuto un grande riscontro al botteghino: circa 57 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla She’s the man?
Viola è una bravissima giocatrice di calcio, limitata da un unico fattore: essere una femmina. E per questo cercherà vie alternative per riscattarsi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere She’s the man?
Assolutamente sì.
She’s the man è uno di quei teen movie veramente da riscoprire, che riuscirono in tempi non sospetti ad aggiungere qualcosa di nuovo ad un genere che ha invece la tendenza a ripetersi, anticipando le tendenze future.
Infatti all’interno di una commedia molto leggera e spensierata, è inserita un’importante riflessione sui ruoli di genere, rimessi pesantemente in discussione, cercando il più possibile di evadere modelli e personaggi tipizzati che solitamente affollano questo tipo di film.
Insomma, da riscoprire.
Definizione
L’incipit di She’s The Man è fondamentale.
Fin da subito la protagonista è presentata come personaggio piuttosto peculiare, soprattutto in quel periodo: non la classica ragazza sfigata che deve trovare la sua identità, ma piuttosto un incontro fra diversi elementi che raramente si vedono integrati nella protagonista di un teen movie.
Ovvero, una ragazza piuttosto sicura di sé e già coinvolta in una relazione romantica – di cui tra l’altro sembra tenere le redini – e, al contempo, unmaschiaccio, in quanto più orientata verso interessi stereotipicamente maschili.
Una presentazione fondamentale per arrivare al primo punto di rottura della pellicola: non solo l’eliminazione della squadra di calcio, ma l’umiliazione di non essere considerata al pari della squadra maschile – sminuendo per estensione la stessa protagonista…
…e portando di conseguenza al distacco dal sistema e da Justin, da cui si sente ugualmente tradita.
Seminato
Sulla carta, la protagonista ha una sola alternativa possibile.
Ovvero, la proposta dalla madre, che nasconde molto goffamente il suo sollievo per la cancellazione della squadra, sperando che la figlia arrivi finalmente ad abbracciare invece un modello femminile piuttosto classico, che la protagonista sembra rigettare in toto.
Invece, il destino sembra essere dalla parte di Viola, suggerendole una strada alternativa, perfettamente apparecchiata per essere percorsa: assorbire in tutto e per tutto il modello maschile e colmare il vuoto lasciato dal fratello – altro personaggio in fuga da un modello imposto.
E già da qui la pellicola comincia un discorso piuttosto interessante…
Modello
Il modello maschile è fin da subito messo in discussione.
Come spesso questi film raccontano stereotipi femminili piuttosto ridondanti, in questo caso invece la situazione si ribalta, portando in scena una visione piuttosto ingenua e stereotipata del mondo maschile, ridotto ad uno uno stock di dinamiche incredibilmente stereotipiche.
Infatti la protagonista, nel suo allentamento per diventare un maschio credibile, cerca di imitare una serie di comportamenti che lei considera rappresentativi del mondo maschile, ma che invece via a via si riveleranno solamente la superficie di un una cultura machista unicamente dannosa.
Ma sono dei modelli fragili.
Infatti, fin dalla sua prima entrata in scena nelle nuove vesti, la protagonista risulta fuori luogo e forzata – in maniera molto ironica, visto che i primi personaggi maschili che incontra corrispondono perfettamente, almeno dal punto di vista estetico, allo stereotipo del maschio alpha.
E invece queste figure hanno molto da raccontare…
Successo
La chiave del successo di Viola è cangiante.
Da una parte, la protagonista risulta attraente agli occhi di Olivia proprio perché non rispecchia realmente il modello maschile che vorrebbe incarnare, ovvero del maschio potente, dall’emotività inscalfibile e che non può e non deve mai ammettere le sue debolezze.
Al contrario Viola, che rappresenta invece le aspettative sociali del femminile, può permettersi di mostrarsi deboli e di discutere di determinati argomenti stereotipicamente propri del genere di appartenenza, risultando nella sua diversità decisamente interessante.
Al contrario per il mondo maschile Viola risulta inizialmente solo respingente, anzi estremamente fuori luogo proprio per i suoi comportamenti eccessivi e forzati, che la riducono ad una macchietta con cui nessuno vuole avere a che fare.
E quindi infine l’unico modo per avere l’attenzione del microcosmo maschile è di mettere in scena un assurdo teatrino in cui non solo le sue amiche si prestano per interpretare le sua vecchie fiamme, ma in cui la stessa Monique diventa l’elemento di conferma per il nuovo status di dongiovanni di Viola.
Ma è solo la condizione necessaria per realizzare il suo sogno.
Traguardo
She’s the man riesce ad evitare un errore molto comune in questo tipo di film.
Ovvero, la fastidiosa tendenza a semplificare eccessivamente il percorso di maturazione della protagonista, presupponendo in un certo senso che la stessa non debba fare un particolare sforzo per raggiungere il suo obbiettivo.
In questo caso invece, per quanto Viola sia indiscutibilmente talentuosa, si deve comunque scontrare con un una realtà – il calcio maschile – in cui inizialmente non risulta vincente, venendo così relegata alle riserve.
Così la via del miglioramento si articola in una dinamica piuttosto classica: lo scambio di favori fra due personaggi – molto popolare nell’ambito enemy to lovers – in cui Viola aiuta Duke a conquistare Olivia in cambio di un allenamento intensivo.
E su questo punto c’è da fare un discorso a parte…
Interiore
Il tema della bellezza interiore non è niente di nuovo per il genere.
Solitamente però viene articolato in una narrazione piuttosto banale di competizione fra due modelli di femminilità: la mean girl superficiale ed egoista, e la ragazza sfigata e intelligente – un esempio molto classico è lo scontro fra Taylor e Laney in She’s all that.
Invece all’interno di She’s the man vengono presentati più modelli femminili possibili, e nessun personaggio viene condannato solamente per appartenere ad uno o l’altro, ma piuttosto per la propria insista natura di villain.
In questo senso, sia Monique e Olivia rappresentano due modelli di iperfemminilità…
…ma solamente la prima è un personaggio negativo, proprio perché si dimostra fin dall’inizio superficiale e arrogante, prendendo fra l’altro parte al duo maleficio con Malcom, che cerca infine di umiliare e punire la protagonista per il proprio tornaconto personale.
Aspetto
Viola non si innamora di Duke per il suo aspetto.
Solitamente in una dinamica in cui la protagonista emarginata si innamora di un ragazzo impossibile, l’attrazione in prima battuta è dovuta all’aspetto fisico, e solo in secondo luogo alla personalità effettivamente interessante dello stesso – come in Un compleanno da ricordare (1984).
Invece all’inizio Viola non è attratta da Duke, ma lo diventa nel corso della pellicola quando comincia a conoscerlo come persona, soprattutto al di là di quello stereotipo castrante che il ragazzo cerca in tutti i modi di evadere, mostrando invece il suo lato più fragile e sensibile.
Una fragilità che si può in questo senso direttamente ricollegare alla pesantezza delle aspettative sociali: come Duke sente di dover aderire ad un modello, così la sua difficoltà nell’accettarlo lo porta ad essere estremamente insicuro nell’approcciarsi alla sua ragazza dei suoi sogni.
Ma ci sono delle relazioni che semplicemente non sono fatte per esistere.
Equivoci
L’atto centrale mette in luce tutte le difficoltà relazionali.
Una classica commedia degli equivoci, che però intraprende anche nuove strade per raccontare e definire i personaggi, in particolare i due villain, Monique e Justin: entrambi dimostrano un atteggiamento possessivo e ossessivo, derivato dal loro non avere più il controllo su relazioni ormai finite.
Ed entrambi sono la miccia si risse scatenate per il medesimo motivo, che, per una volta, non sono esclusiva del maschile, ma coinvolgono nella scena immediatamente successiva anche il femminile, che si scontra nel bagno del country club.
Ma altrettanto immaturi sono anche i personaggi positivi.
Impossibilitati ad avere in breve tempo le relazioni dei loro sogni, i protagonisti ricorrono ad una serie di sotterfugi e illusioni autoindotte per ottenerli: così Viola cerca di spingere Duke lontano da Olivia e più verso sua sorella, mentre Olivia strumentalizza Duke per avere le attenzioni di Sebastian.
Ma la maturazione dei personaggi sta proprio nel comprendere i limiti di queste dinamiche – a cominciare dall’appuntamento fallimentare fra Olivia e Duke – scegliendo infine la via più diretta e semplice per mostrare il loro interesse nei confronti delle loro fiamme…
…anche se così si creano non poche incomprensioni che portano all’atto finale.
Rivelazione
L’atto finale è scatenato dall’arrivo di un elemento inaspettato.
Ovvero, il vero Sebastian che fa capolino in scena.
Così il momento dello scioglimento, solitamente dedicato al ballo scolastico, vede invece come protagonista la partita di calcio, in cui la commedia degli equivoci si scatena nella sua forma più pura, con Sebastian che prende involontariamente parte al match fondamentale per la sorella.
Un equivoco nell’equivoco che porta infine alle diverse rivelazioni, in cui i fratelli Hastings mostrano tutta la loro sfrontatezza nell’esibire l’unico elemento che sembra convincere effettivamente il pubblico del loro genere si appartenenza: i tratti sessuali primari e secondari.
Ma questo non basta per sciogliere tutti i nodi.
Le vere sfide per Viola sono ancora tutte da giocare: prima la vittoria morale nei confronti di Justin – e di tutto quello che rappresenta – non lasciandosi intimidire dalle parole di umiliazione con cui il suo ex-ragazzo cerca di farle sbagliare il gol decisivo.
E, infine, l’effettiva conquista di Duke, che accetta la lezione fondamentale del film: andare oltre le apparenze e ossessioni per avvicinarsi a persone che ci desiderano realmente per quello che siamo, e non per quello che rappresentiamo.
L’esorcista (1973) di William Friedkin è un classico del cinema horror sul tema possessioni, che ha dato vita ad un franchise piuttosto longevo.
A fronte di un budget non poco importante – circa 12 milioni di dollari, circa 85 oggi – è stato un incredibile successo commerciale:193 milioni in tutto il mondo (circa 1,3 miliardi oggi).
Di cosa parla L’esorcista?
Regan è una dolcissima bambina che non farebbe male ad una mosca. Ma se dentro di te è presente un ospite indesiderato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’Esorcista?
Assolutamente sì.
Soprattutto davanti al desolante panorama cinematografico odierno sul tema, L’esorcista è riuscito a stupirmi per la sua ottima costruzione della tensione, mostrando l’involuzione della protagonista in maniera graduale e ben pensata.
Sicuramente una pellicola non leggera e che non manca di molti momenti di puro orrore ancora oggi in grado di sconvolgere profondamente lo spettatore, ma al contempo ben distribuiti all’interno delle due ore di durata.
Insomma, da riscoprire.
Pezzi
Nell’incipit, scopriamo i tre pezzi del puzzle.
Un attacco piuttosto straniante, in un misterioso panorama arabeggiante, in cui il nostro futuro esorcista viene per la prima volta in contatto con il demone, una figura ammiccante e spudorata fra il cristiano – il diavolo – e il pagano – i genitali in rilievo.
Si passa poi ad ambienti urbani più riconoscibili, in cui gli altri due protagonisti riesco appena a sfiorarsi con lo sguardo: Karras osserva pensieroso Chris, la madre di Regan, e poi si allontana senza che i due si siano scambiati neanche una parola.
E infine, la nostra futura vittima, Regan, una ragazzina così innocente e piacevole, il cui atto più grave è qualche innocuo capriccio, che mai potremmo immaginare nelle vesti mostruose, disobbedienti e sacrileghe che assumerà gradualmente nel corso del film.
Per questo, la trasformazione è ancora più inquietante.
Dualità
Due famiglie si alternano in scena.
Da una parte la dolcezza della relazione fra Regan e Chris, apparentemente turbata da un matrimonio finito male e da un padre assente, in realtà ben salda nel rapporto strettissimo fra madre e figlia, che si perdono nei loro piani per il compleanno della ragazzina.
Dall’altra, la durezza di casa Karras, elemento apparentemente scollegato da tutti il resto, in realtà fondamentale nel terzo atto: una situazione affettiva già precaria, che si spezza definitivamente con la morte fuori scena della madre…
…che ci offre anche un primo sguardo su uno spettro che perseguiterà la mente di Chris per tutto il resto della pellicola.
Ovvero, il reparto psichiatrico, un panorama desolante di donne anziane immerse in un mondo di incubi che cercano inutilmente di afferrare le vesti del povero Karras, che vuole solo ricongiungersi con la madre crudelmente legata ad un letto.
Ed è solo l’inizio.
Ignoto
Il vero incubo di Chris è l’ignoto.
La crescente preoccupazione per la situazione della figlia non nasce tanto dalla sua condizione di per sé, ma piuttosto dall’impossibilità di razionalizzarla: per quanto diverse figure apparentemente risolutive si avvicendano in scena, in realtà infine nessuna sarà capace di aiutarla.
E intanto l’isteria, l’incattivamento di Regan diventa sempre più esplosivo: un climax travolgente che comincia da un umore scostante e qualche rispostaccia – una tendenza che potrebbe anche essere derubricata ai primi momenti dell’adolescenza…
…ma che infine si concretizza in comportamenti sempre più incomprensibili, financo distruttivi: il demone non prende semplicemente possesso del corpo della bambina, ma cerca continuamente di violarlo con un sottofondo erotico veramente disturbante.
Infatti, la nutrita passerella di personaggi che si avvicenderanno al capezzale di Reagan diventeranno tutti vittime di questa di violenta così esplosiva, sia considerando la purezza di Regan, sia l’inserimento dei simboli cristiani.
E un’immagine così deturpante che non può essere che il preludio per la forma finale della possessione…
Resa
Come il suo incubo è l’ignoto, il vero dramma di Chris è l’essere l’unica a capire il vero problema della figlia.
Intrappolata in un crescendo sempre più angosciante di diagnosi, che cercano di trovare il razionale dove lo stesso non ha spazio, la donna si vede ignorata le sua grida d’aiuto, di una donna che ha visto con i suoi occhi elementi soprannaturali che quelle asettiche figure mediche non possono spiegare.
E l’aiuto viene infatti ricercato proprio in Karras, questa figura di mezzo fra il razionale – la psichiatria – e l’irrazionale – la fede – che in prima battuta cerca di mettere un freno allo slancio della madre del trovare nell’esorcismo la liberazione della figlia.
Ed infatti inizialmente combatte con grande convinzione questa idea, cercando tutte le vie possibili per contestare una presenza demoniaca ormai innegabile, ripercorrendo fra l’altro vie della razionalizzazione in precedenza già e fin troppo battute.
Ma infine persino questo uomo fra i due mondi si deve arrendere, e anzi cercare un effettivo esorcista che possa scacciare il male da casa MacNeil, portando finalmente in scena Padre Merrin, protagonista di un esorcismo che, a sorpresa, non ha nulla di spettacolare.
Infatti, più che un rito purificatore, assistiamo ad un effettivo martirio, in cui i due protagonisti vengono fisicamente consumati dall’atto depurativo, donando infine la loro stessa vita per permettere a Regan di continuare la propria.
Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips è il sequel dell’acclamato Joker (2019), con protagonisti Joaquin Phoenix e Lady Gaga.
A fronte di un budget decisamente più importante rispetto al precedente – 200 milioni di dollari – ha aperto con un primo weekend ben poco promettente:144 milioni in tutto io mondo.
Di cosa parla Joker: Folie à Deux?
Dopo i suoi multipli omicidi, Arthur è segregato nel carcere di massima sicurezza di Arkham. Ma un incontro inaspettato gli cambierà la vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Joker: Folie à Deux?
Magari no.
Che piaccia o meno, è purtroppo assolutamente evidente che Joker: Folie à Deux non fosse né previsto né voluto in prima battuta: lo dimostra anche solamente il fatto che l’incipit vanifichi completamente il finale della prima pellicola.
Quindi non stupisce di trovarsi davanti ad un film con qualche buona idea alla base, ma gestita in maniera del tutto insufficiente, con una povertà di scrittura allarmante e l’inserimento dell’elemento musical che sembra nient’altro che una passerella per Lady Gaga.
Però, sentitevi liberi di farvi la vostra idea.
Ma io non sarò complice della vostra visione.
Annullamento
Joker: Folie à Deux riesce ad essere incoerente fin dalla sua prima scena.
Dopo un corto animato che dovrebbe anticipare il tema della pellicola – ma che ci riesce molto limitatamente – ci immergiamo immediatamente nelle lugubri atmosfere di Arkham, con una costruzione scenica che vuole farci desiderare vedere l’apparizione di Arthur Fleck, in un’ottima occasione per distinguerlo dallo squallore degli altri detenuti…
…e invece, risultando in un momento finalizzato acaricare il più possibile la scena di un pietismo che personalmente ho trovato davvero insopportabile – già presente comunque nella prima pellicola, ma in quel caso in maniera ben più contestualizzata e interessante.
Invece in questo primo frangente Arthur non sembra altro che un cane bastonato – non a caso, molti sono i riferimenti alla figura canina – dalle barzellette alla scena in cui viene legato ad un palo – andando così ad annullare l’importante punto di arrivo del precedente film.
Una scelta che, per quanto non mi convinca in principio, poteva essere salvata da un’adeguata contestualizzazione, che risulta invece del tutto mancante: sappiamo solo che Arthur si è spento e ha ripudiato il personaggio di Joker – e le gioie che gli aveva regalato.
Ma ci sono figure anche più fumose…
Identità
Chi è Harley Quinn?
È veramente spiacevole notare come, scena dopo scena, il personaggio di Lady Gaga riveli sempre di più la sua inconsistenza, finendo per essere nient’altro che un intermezzo musicale del tutto scommesso, un motore della trama totalmente pretestuoso e forzato.
Infatti, nonostante il film cerchi di giustificare il suo personaggio e le sue intenzioni, nulla è realmente spiegato: dovremmo credere che Lee si sia fatta internare apposta per conoscere Joker, così ossessionata dalla sua figura e dalla sua storia da volerne prendere parte…
…ma tutto ciò è raccontato solamente a parole, senza che le azioni in scena abbiano un minimo di credibilità che possa giustificare come il suo personaggio entri ed esca da Arkham a suo piacimento – stesso luogo, ricordiamolo, in cui vige il pugno di ferro.
In generale, Lee dovrebbe rappresentare la voce di quella folla che, alla fine di Joker, vedevamo acclamare il personaggio nel suo momento di massima follia – la stessa che, per il resto, è sostanzialmente assente dalla scena – ma senza inserire neanche un significativo disegno politico che la renda di qualche interesse.
Ma la sua inconsistenza ha radici ben più profonde…
Negazione
Joker: Folie à Deux è l’apoteosi della negazione del personaggio.
Volendo maliziosamente leggere fra le righe, il percorso del protagonista può essere letto come un racconto del malcelato sentimento del regista: dopo l’inaspettato successo della prima pellicola, Phillips è tornato alla regia evidentemente controvoglia e privo di idee.
Così, come Joker è costantemente trascinato nel ruolo, come nei suoi sogni musicali appare nelle sue fattezze più classiche – e, per quanto mi riguarda, desiderabili – del personaggio fumettistico, infine entra in scena come un villain da operetta, rappresentando la massima esasperazione del personaggio.
Ovvero, un mero pagliaccio.
E in questo contesto è anche più doloroso vedere un personaggio del genere prendere parte a momenti musicali così mal integrati nella storia da sembrare degli inserimenti fatti solamente perché andavano fatti, mancanti di qualunque riflessione in merito.
Infatti sarebbe veramente bastato pochissimo, sarebbe bastato mostrare la dicotomia fra il sogno musicale e la realtà, sarebbe bastato mostrare la totale dissociazione mentale di Arthur – come, d’altronde, era stato fatto nel primo film – financo la ridicolaggine delle sue azioni.
Invece, tranne la breve ma quantomeno funzionante scena della fuga, il tutto si perde in una pochezza devastante…
Fuga
Il Joker di Todd Phillips non ha un futuro.
E non vuole averlo.
Nel finale della pellicola Arthur è bruscamente riportato a quella realtà che l’aveva in prima battuta spento, subendo indicibili violenze da parte delle guardie che vogliono nuovamente rimetterlo al suo posto, preparandosi così per il patibolo.
Così il momento della difesa si trasforma il momento della confessione, della negazione del Joker – riuscendo in ultimo ad evitare l’angosciante opzione della personalità multipla – ancora più sottolineata dalla sua fuga da uno dei suoi tanti ammiratori che lo vogliono costringere ad un ruolo da cui vuole solo fuggire.
E invece, negando ulteriormente lo splendido finale del primo film in cui Joker abbracciava questa malata connessione fra follia e amore, vedendo infrangere i sogni insieme alla sua (immaginaria?) Harley Quinn, Arthur torna nuovamente a spegnersi.
E allora forse la morte in scena è la morte che il Joker di Philips infligge a se stesso per mano di un altro – vero? – pagliaccio sadico, risultandoincapace di soddisfare chiunque…
Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper è un cult del genere horror slasher, considerato fondativo per il genere.
A fronte di un budget minuscolo – appena 140 mila dollari, circa 800 mila oggi – fu un enorme successo commerciale:30 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Non aprite quella porta?
Cinque ragazzi si fermano per una sosta in una vecchia casa abbandonata. Ma il proprietario di casa non fra i più accoglienti…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Non aprite quella porta?
Sì, ma…
Per quanto probabilmente sul pubblico odierno non avrà lo stesso impatto che al tempo dell’uscita, nondimeno Non aprite quella porta è una pellicola che lascia molto poco all’immaginazione, portando in scena una violenza crudele, caotica…
…capace di stregare lo spettatore grazie anche ad una regia veramente tagliente e splendidamente sperimentale, che lavora ottimamente con il poco a disposizione per restituire atmosfere lugubri fin dalla primissima scena.
Insomma, da vedere.
Presentazione
La presentazione di Non aprite quella porta potrebbe apparire quantomeno bizzarra vista oggi…
…ma al tempo era fondamentale.
Uscendo nei primissimi anni del successo del genere slasher, in un certo senso il film doveva preparare psicologicamente lo spettatore a quello cui stava andando incontro, in quanto lo stesso non era abituato né a questo tipo di narrazione né a questo livello di violenza.
E la bellezza è anche nel saper lavorare con il poco che si ha.
Non potendo mostrare più di tanto, l’incipit lavora ingegnosamente nel definire anche visivamente il taglio del film, con una regia particolarmente ispirata che mostra un cadavere deturpato che appare e scompare, e che impreziosisce la scena con rumori di fondo di qualcuno che sta lavorando…
…chiudendo infine questo crudelissimo incipit con la voce fuori campo di una radio che racconta il contesto della pellicola, di una comunità già allertata per la presenza di un pazzo che ha deturpato delle tombe per un misterioso quanto agghiacciante fine.
Ed è una voce fondamentale…
Ingenuità
I semi della tragedia sono piantati fin da subito.
L’introduzione del gruppo protagonista avviene con il sottofondo di questo inquieto notiziario, la cui voce si attenua gradualmente fino a quasi scomparire sullo sfondo, proprio a raccontare la totale inconsapevolezza dei protagonisti – la stessa che li porterà alla loro già annunciata morte.
Una inconsapevolezza ribadita nelle scene immediatamente successive, dalla visita alla tomba integra del nonno – una magra rassicurazione – fino all’arrivo alla casa, dove sono presenti tutti gli indizi del panorama di morte che dominerà i due atti successivi…
…ma di cui, ancora una volta sono del tutto inconsapevoli.
Finché…
Irruzione
Per quanto la tensione sia ben preparata, l’entrata in scena di Faccia di Cuoio è sconvolgente.
Una porta si apre improvvisamente, e un personaggio dall’aspetto più mostruoso che umano sferra un feroce colpo in testa alla sua prima vittima, e serra un attimo dopo la porta davanti a sé, ma lasciandola in realtà ben aperta per la sua prossima vittima…
Parte così una passerella degli orrori, in cui uno ad uno i protagonisti vengono catturati, massacrati, fatti a pezzi in maniere anche piuttosto creative, fra cui spicca sicuramente l’iconica sequenza della ragazza appesa al gancio del macellaio.
L’umano così diventa bestia, carne da macello…
…e cibo da servire in tavola.
Svelare
L’ultimo atto svela la vera natura di Non aprite quella porta.
Quello che si pensava essere un mostro temibile ma isolato, si rivela invece parte di un’affiatata famiglia di cannibali, al punto che Faccia di cuoio è forse anche il meno pauroso del gruppo, apparendo solo come una bestia selvaggia, ma senza una particolare programmaticità.
E l’ultimo momento del delitto sembra questa deliziosa cena in famiglia, un racconto splendidamente satirico sulla mostruosità insita nell’apparente perfezione della famiglia americana (e repubblicana) degli Anni Settanta, dove gli autori di atti indicibili durante la Guerra del Vietnam si andavano a rifugiare.
Una realtà con radici profonde nel tempo –da cui la presenza del nonno – e che non può essere eradicata: per quanto la disordinata fuga di Sally la metta in salvo dalle grinfie della famiglia Sawyer, tanto da farla infine esplodere in un’isterica risata, la stessa nasconde l’amara consapevolezza di un mostro non ancora sconfitto…
Joker (2019) di Todd Phillips è stato fra i più grandi fenomeni cinematografici del decennio, che al tempo diede nuovo lustro al genere cinecomic.
A fronte di un budget piuttosto ridotto per un film del genere – circa 60 milioni di dollari – è stato un incredibile successo commerciale: oltre un miliardo di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla Joker?
Arthur Fleck è un emarginato sociale che vive in una città devastata dal crimine e dalla povertà. Eppure forse potrà diventare inaspettatamente un paladino degli ultimi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Joker?
In generale, sì.
Per quanto apprezzi anche molto questa pellicola, ci tengo ad andarci un po’ più con i piedi di piombo nel consigliarvela: preso a sé, è un ottimo film drammatico, pur forse non così profondo come vorrebbe essere, e a tratti fin troppo patetico nella narrazione…
…ma, se si fa il confronto con la figura del Joker fumettistico e cinematografico, Joker potrebbe apparire per certi versi pretestuoso, financo fastidioso, soprattutto se siete particolarmente appassionati dell’universo DC.
Ma vi consiglio comunque di dargli una possibilità.
Realtà
Arthur vive fra sogno e realtà.
La sintesi della sua condizione è fin da subito esplicitata: forzando un enorme sorriso sul suo volto, il protagonista lo stressa al punto da spremere una singola lacrima che deturpa il suo volto da pagliaccio, e così svela la tragicità del suo personaggio.
Infatti se nella scena successiva, pur con un travestimento posticcio e quasi ridicolo, Arthur salta e balla in mezzo alla strada per attirare nuovi clienti, diventa immediatamente vittima dei crudeli dispetti di un gruppo di ragazzi che gli rubano il cartello e lo assaliscono in un vicolo.
Questo contrasto prosegue anche nel racconto del disturbo del protagonista, che in più momenti non può fare a meno di scoppiare in una risata isterica e incontrollabile, nonostante la stessa per nulla rappresenti il suo struggimento interiore.
Insomma, Arthur è costretto ad una realtà ostile e distruttiva, ad una guerra fra poveri senza fine istigata da una classe sociale di ricchi che non fanno altro che guardare dall’alto al basso questo gruppo di vergognosi pezzenti.
E infatti l’amore è possibile solo nel sogno…
Sogno
Il sogno è il rifugio di Arthur.
La prima felice allucinazione ha come protagonista Murray Franklin, figura scintillante che emerge da quella scatola magica, veicolo di una realtà lontana e felice, in cui effettivamente il protagonista potrebbe trovare la figura paterna tanto ricercata.
E la televisione è anche motivo di illusione per la madre, che sogna l’aiuto di Thomas Wayne, filantropo e figura politica di primo piano, che sarà capace di risolvere tutti loro problemi e salvarli dalla loro condizione di assoluta miseria.
E, più si prosegue, più i sogni diventano vividi.
Dopo mesi di preparazione e di una precisissima annotazione dei punti forti degli altri stand up comedian, Arthur è pronto finalmente a salire sul palco e farsi amare da quella pubblico che sembra effettivamente entusiasta della sua performance…
…all’interno del quale trova anche la dolce Sophie, vicina di casa con cui Arthur sembra subito avere un’intesa, e che lo supporta affettuosamente sia per il suo spettacolo, sia nell’affrontare la malattia della madre.
Ma il risveglio è vicino…
Bilico
Nel secondo atto, Arthur si trova in bilico.
Da una parte vive immerso in un sogno meraviglioso, dove tutto sembra andare splendidamente bene, dall’altra è costantemente tormentato da un elemento di disturbo, che sguscia fuori quando meno se lo aspetta:
la pistola.
La pistola è un simbolo con un significato molto potente: rappresenta sostanzialmente lo strumento con cui Arthur può liberarsi dal suo asfissiante presente, con cui può reagire ai colpi che la vita gli continua ad infliggere, diventando finalmente un personaggio attivo.
Non a caso, il suo primo omicidio inizialmente non racchiude alcun ulteriore significato, se non un tentativo di difendersi dall’ennesima aggressione, ma poi si trasforma gradualmente in una sorta di rivalsa che Arthur non può fare a meno di prendersi.
E, infine, è tutto quello che gli rimane.
Risveglio
La via verso il terzo atto è definita dal risveglio.
La vita sembra sfuggire dal controllo di Arthur: il lavoro viene ancora una volta ingiustamente perso, la presunta compagna si rivela invece solamente una proiezione della sua immaginazione, e il protagonista si scopre infine nuovamente e inevitabilmente solo.
Ma lo smacco più importante, lo schiaffo più potente è l’apparizione nel programma del suo beniamino, che però non va come si aspettava: Murray lo umilia in diretta TV, dimostrandosi nient’altro che l’ennesimo personaggio potente che si sente superiore ad uno stramboide come lui
Ma la delusione che definisce il tracollo del personaggio è proprio il confronto con Thomas Wayne, che fin da subito lo tratta come uno spostato, la solita sanguisuga che non vuole fare altro che approfittarsi della sua ricchezza…
…rivelandogli, fra l’altro, la più devastante verità sul suo passato: non solo Arthur non è suo figlio, ma non è neanche figlio di quella che pensava fosse sua madre, nient’altro che un’altra spostata preda di una delirante illusione.
A questo punto, due strade sono possibili.
Miccia
Arthur è una potenziale miccia.
Il protagonista sembra ormai aver intrapreso la strada della distruzione, tranciando l’ultimo cordone ombelicale che lo legava alla sua vecchia vita – la madre – e riscrivendo la sua figura, accettandone finalmente la dicotomia fra tragedia e commedia.
Così l’ultimo atto della sua vita sembra inevitabile: uscire di scena col botto, con una battuta che strapperà l’applauso di un pubblico che, infine, acclamerà la sua spettacolare morte in diretta TV.
Invece, Arthur sceglie infine la reazione.
Sedendosi accanto a Murray, il protagonista capisce che, scegliendo di togliersi la vita, accetterebbe quello che gli altri hanno scelto lui, arrendendosi definitivamente alle ingiustizie di figure come Murray e Wayne – e tutto quello che rappresentano.
Così infine Joker sceglie di distruggere quel simbolo odioso, e diventa la coronazione di una rivoluzione che era già cominciata per lui – ma senza di lui – ricevendo finalmente l’acclamazione del pubblico…
…mentre si disegna sul volto un emblematico sorriso di sangue.
Janette è reduce da un matrimonio fallimentare che sembrava garantirle una vita di alto livello. Ma sarà capace di fare i conti con questo orrido presente?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Blue Jasmine?
Assolutamente sì.
Blue Jasmine è per me una delle più interessanti sperimentazioni di Woody Allen: un sottile equilibrio fra dramma e commedia con risvolti quasi grotteschi, per raccontare una storia amarissima, pur senza toccare la tragicità di Match Point (2005).
Una pellicola fra l’altro che deve moltissimo alla splendida interpretazione di Cate Blanchett, capace di portare in scena con grande maestria un personaggio così fragile e complesso, tormentato dalle sue contraddizioni ed illusioni.
Insomma, da vedere.
Introduzione
Jasmine si racconta da sola.
Dopo aver sperimentato con le introduzioni fuori scena in Hollywood Ending (2002) e Scoop (2006), in questo caso Allen ribalta la situazione e affida la presentazione della protagonista alla protagonista stessa, in una situazione apparentemente normale – uno scambio di chiacchiere durante un viaggio aereo…
…che però diventa sempre più asfissiante minuto dopo minuto, portando alla tristissima scoperta che Jasmine stava semplicemente parlando da sola, in uno dei tanti momenti in cui sentiva il bisogno di snocciolare gli eventi del suo passato.
In generale, Jasmine manca di un contatto con il presente.
Contraddizioni
Jasmine vive di contraddizioni.
Così sicura della sua vita altolocata, per anni la protagonista ha scelto più o meno consapevolmente di essere del tutto cieca davanti alla realtà: i continui tradimenti del marito – noti a tutti tranne che a lei – e così anche i suoi affari criminali…
…entrambi potenziali fattori della distruzione del suo status.
Così anche nel presente Jasmine sembra del tutto sconnessa dalla realtà della sua recente povertà – come ben si comprende dallo scambio con la sorella, che le chiede stupita se abbia viaggiato in prima classe, nonostante le sue attuali condizioni economiche.
La stessa tendenza si nota anche in come parla del suo futuro: considerando il lavoro di receptionist del tutto indegno per la sua persona, Jasmine sogna di concludere i suoi studi e di rilanciarsi come professionista, nonostante non abbia le risorse per sostenersi nel frattempo…
Ma la sorella non sembra stare meglio…
Confronto
Ginger vive del confronto con Jasmine.
Vedendo la sorella come una vincente, inevitabilmente considera se stessa come una perdente, andandosi ad incastrare in relazioni evidentemente infelici, in particolare con il buzzurro Chili, che alla prima occasione le mostra la sua vera natura…
Ma neanche per lei non sembra esserci via d’uscita.
La breve ed intensa relazione con Alan sembra finalmente l’alternativa vincente alla sua turbolenta situazione sentimentale, ma si rivela infine solo l’ennesimo capolinea, che porta infine Ginger a convincersi nuovamente di non essere degna di avere relazioni appaganti – e, per questo, a tornare con Chili.
Ma c’è chi sta peggio…
Disconnessione
L’ultimo atto di Blue Jasmine definisce la totale disconnessione della protagonista dalla realtà.
Quando sembra finalmente aver trovato un’alternativa al suo triste presente – ovvero una copia della sua relazione precedente – Jasmine sceglie di nascondere i lati più vergognosi del suo passato, come a voler ridurre il tutto ad una insignificante parentesi da dimenticare.
Ma basta un incontro sbagliato, una scheggia impazzita per mandare tutto a gambe all’aria: e se la prima volta l’autrice della sua distruzione era stata lei stessa, in questo caso è una delle vittime delle malefatte dell’ex-marito a farla tornare al punto di partenza.
Ma Jasmine non lo può accettare.
La protagonista ritorna dalla sorella con grande arroganza, rimanendo ancorata ad un sogno ormai dissolto, per poi regredire ulteriormente all’ennesimo dialogo con il marito defunto, a cui rinfaccia di essere stata fin da subito consapevole della sua infedeltà, ma di aver consapevolmente fatto finta di nulla…
10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger è un cult del genere teen movie Anni Novanta, ma che ha avuto la sua fortuna soprattutto nel decennio successivo.
A fronte di un budget medio per questo tipo di prodotti – fra i 13 e i 16 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla 10 cose che odio di te?
Un ardito piano per conquistare una ragazza porterà due caratteri apparentemente inconciliabili ad incontrarsi in maniera inaspettata…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere 10 cose che odio di te?
Dipende.
10 cose che odio di te è forse il titolo più debole del genere trattato finora: pur riprendendo un canovaccio narrativo piuttosto standard, la pellicola prova a dargli un maggiore spessore riflessivo, lasciando però tutto in una tristissima superficie.
Infatti, nonostante fosse potenzialmente un film che superava di diverse lunghezze il contemporaneo She’s all that (1999), finisce per perdersi in se stesso, risultando un prodotto con poco mordente, che segue una serie di step preimpostati senza riuscire ad aggiungere molto.
Però è un classico, quindi se volete farvi una cultura…
Diversa
L’introduzione della protagonista è uno dei pochi aspetti che mi ha veramente convinto della pellicola.
Un’ampia sezione introduttiva accompagna lo spettatore all’interno della storia, mostrando in prima battuta un gruppo piuttosto standard di ragazzine che si godono il ritmo pimpante di One week dei Barenaked Ladies…
…per poi venire brutalmente interrotte dalla classica Bad Reputation di Joan Jett, con una breve carrellata che non solo ci mostra la protagonista, ma che ci racconta già moltissimo dellasua personalità programmaticamente alternativa rispetto alle altre ragazze.
Così, anche l’introduzione degli altri due protagonisti è piuttosto esplicativa.
I personaggi sono subito raccontati come immersi in un ambiente ostile ed incontrollato, in cui gli adulti sono spesso del tutto incolori e assenti – in particolare Ms. Perky, più interessata al suo racconto erotico che agli studenti che dovrebbe aiutare…
– …e in cui un adolescente può o gettarsi nella gabbia dei leoni senza protezioni – come il disorientato Cameron – o rispondere in maniera insubordinata e creandosi una reputazione quasi leggendaria – come Patrick, fin da subito individuabile come l’alter ego della protagonista.
E l’ambiente è davvero opprimente.
Competizione
Il clima della Padua High School è colorito quanto competitivo.
Tramite il racconto di Michael, veniamo accompagnati alla scoperta di un panorama con non pochi spunti interessanti – come i finti rapper neri e i cowboy – anche se non abbastanza esplorati come si meriterebbero – una dinamica ripresa e migliorata successivamente da Mean Girls (2006).
Ne emerge quindi un ambiente estremamente classista, in cui è fin troppo facile farsi escludere da un gruppo – come succede appunto al nostro cicerone – e in cui ragazzi più popolari sono talmente tanto influenti anche solo un loro saluto può diventare merce di scambio.
Questo bizzarro quadretto viene chiuso dall’introduzione degli ultimi personaggi di rilievo: il viscido Joey Donner, che fin dalla sua prima apparizione racconta il suo obbiettivo, ovvero conquistare l’impossibile Bianca giusto per divertimento…
…e, appunto, la più giovane delle sorelle Stratford, graziosa quanto ingenua, e per questo facile preda delle maliziose attenzioni del top guy della situazione.
Ma la via è irta di ostacoli…
Divieti
Walter Stratford è l’altro lato del mondo adulto.
Ormai abituato a vedere ogni giorno ragazzine che diventano madri troppo presto, e ancora ferito dall’abbandono della moglie, il suo personaggio cerca di comandare le sue figlie a bacchetta, nonostante siano entrambe molto meno ingenue di quanto pensi.
La situazione diventa sempre più paradossale nel raccontare una serie di limitazioni quasi da presa in giro: sicuro che Kat non avrà mai relazioni in vita sua, il padre mette come assurda condizione alla vita relazionale della figlia minore che la maggiore abbia un effettivo appuntamento.
Da qui parte l’intricato piano alle spalle della protagonista, che ha fra i punti di arrivo la confessione del padre, che ammette che i divieti derivino da una sua profonda insicurezza nel diventare solo spettatore della vita delle sue figlie, che invece vuole sempre più tenere legate a sé.
Uno dei tanti temi, purtroppo, lasciati a se stessi.
Ma il vero problema è altrove.
Relazione
Ogni racconto enemy to lovers di questo periodo segue una serie di step precisi.
Il confronto va ancora una volta a She’s all that, molto simile nelle sue dinamiche, ma che riesce molto meglio e in maniera molto più credibile – pur con tutti i suoi limiti – a raccontare lo sbocciare dell’amore fra i protagonisti e la parallela maturazione degli stessi.
Al contrario, forse anche per le capacità non eccellenti dell’attrice protagonista, l’intrecciarsi del rapporto con Patrick appare molto macchinoso, e del tutto incapace di integrare la loro relazione con un’esplorazione interessante dei caratteri dei personaggi.
Infatti, se almeno Kat gode di un momento di importante – quanto incolore – confessione sul perché è così scontrosa – interessantissimo spunto, ma lasciato a se stesso – il racconto della vera natura del personaggio di Heath Ledger è incredibilmente dispersivo e poco incisivo.
E si salva solo leggermente la poliedricità di questo interprete immortale, per quanto qui ancora acerbo.
E mi ha lasciato ancora più amareggiata la povertà di scrittura a fronte della ben più interessante maturazione di Bianca, che, per una volta, non ha bisogno di essere salvata dal personaggio maschile, ma arriva alla sua presa di consapevolezza in sostanziale autonomia.
Ma, ancora una volta, sono spunti che si perdono come lacrime nella pioggia…