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The Iron Claw – La morsa di ferro

The Iron Claw (2023) di Sean Durkin, in Italia noto anche come The Warrior, è un film sportivo dedicato alla vera storia della famiglia maledetta dei Von Erich.

A fronte di un budget abbastanza piccolo – appena 15 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 45 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Iron Claw?

Stati Uniti, 1979. Fritz Von Erich è un ex campione di wrestling che cerca di portare tutta la famiglia sul ring…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Iron Claw?

Assolutamente sì.

Nonostante la storia raccontata sia veramente angosciante, Sean Durkin è riuscito a mantenere un buon equilibrio di scrittura per non scadere nel dramma smaccato, ma invece costruendo ogni evento, anche il più tragico, in maniera ben pensata.

In generale la pellicola sembra voler raccontare una realtà alternativa a quella a cui siamo abituati per questa disciplina, meno teatrale e molto più legata ad un dramma reale e insostenibile – per certi versi simile all’ottimo The Fighter (2010).

Insomma, da riscoprire.

Sogno

The Iron Claw si apre con un sogno.

Il patriarca della famiglia Von Erich vuole vivere appieno il suo momento di gloria, incarnando più la figura dello showman che dell’atleta, proprio dando spettacolo sul ring, mettendo in mostra il suo artiglio di ferro e rischiando la squalifica solo per farsi acclamare dal pubblico.

Ma fuori dal ring la storia è diversa: una famiglia da crescere, un sogno impossibile da rincorrere per diventare il campione del mondo, la star del momento, facendo da subito un passo più lungo della gamba e noleggiando una macchina da star.

Altrimenti…

Maledizione 

I figli di Von Erich sono il suo piano B.

Un terzetto di ragazzoni che incarnano tutta la spietatezza del wrestling, con i loro pettorali guizzanti, che in realtà nascondono una forte fragilità, un senso di profonda inadeguatezza che li rende sempre più relegati al palco – e solo a quello.

Tutto il resto è una maledizione.

Una maledizione che aveva già colpito il giovanissimo primogenito, portato via da una malattia improvvisa, che rende inabile alla disciplina il quasi isterico Kerry, che porta alla morte del futuro campione David e che infine porta fuori scena persino il figlio più simile a Fritz: Mike.

Ma è davvero colpa del fato infausto?

Fautore

La famiglia Von Erich è fautrice della sua stessa maledizione.

Ad eccezione della primissima morte familiare, tutti gli altri incidenti sono tutt’altro che casuali, ma bensì frutto dell’ossessione del padre, che porta i fratelli a contendersi il suo affetto, a non riuscire a vedere altro che la vittoria e a non curare sé stessi.

Infatti, ogni scelta che esce dal seminato viene subito troncata dal patriarca, in particolare l’innocente serata musicale di Mike che viene derubricata come una scelta inutile e che non può essere perseguita, proprio perché non appartiene al mondo del ring.

In particolare, Kerry è la principale vittima del disinteresse del padre, che ha il suo apice nel regalo della pistola, che il padre si rifiuta di utilizzare, che mette via in una teca quasi come ha messo da parte il suo stesso figlio, portando lo stesso ad usarla contro se stesso, non vedendo altro futuro possibile.

Ma l’alternativa esiste.

Alternativa

Kevin è l’unico che riesce a guardare oltre il ring.

Ed è anche quello che lo soffre di più.

La sua insofferenza per la situazione famigliare emerge in più occasioni: oltre alla sua preoccupazione per il benessere dei fratelli, che puntella diversi momenti della pellicola, Kevin è l’unico che sfida apertamente il padre, pur non riuscendo a tenergli testa.

Infatti, più la narrazione prosegue e la maledizione si fa sentire, più il futuro unico sopravvissuto della famiglia Von Erich vuole allontanarsi dal ring, che non riesce a vivere nelle atmosfere scintillanti del suo avversario, ma invece prima nella monotonia dell’allenamento, poi nella disperata furia del combattimento.

Ma un’alternativa è possibile.

Dopo aver seppellito l’ultimo dei fratelli, Kevin riesce a ricomporre gradualmente la sua sfera familiare, a diventare un padre presente e affettuoso, che ritrova la sua forza nei suoi figli, nella famiglia numerosa e felice che aveva sempre sognato, che riempie il vuoto che la tragedia del nome Von Erich gli aveva lasciato.

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Blade Runner 2049 – La seconda occasione

Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve è il sequel e rilancio di uno dei più grandi cult della fantascienza moderna, che però al tempo fu un grande insuccesso commerciale…

…per rivelarsi un altro flop economico – anche se un pochino meno devastante: con un budget piuttosto importante di 150 milioni di dollari, ha incassato appena 259 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Blade Runner 2049?

Trent’anni dopo gli avvenimenti del primo capitolo, i Nexus sono stati dichiarati illegali e la Tyrell è finita in bancarotta. Ma un nuovo magnate è pronto a dare nuova vita ai replicanti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner 2049?

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Dipende.

Per quanto reputi Blade Runner 2049 un’ottima avventura fantascientifica, è anche un prodotto molto poco indulgente verso il pubblico di appassionati e non: non premia i nostalgici, non vuole replicare la storia di Blade Runner (1982) e per certi versi la riscrive…

…e, al contempo, è un prodotto con una trama non immediata, con significati non complessi come quelli del capostipite, ma comunque non semplicissimi da interiorizzare, che probabilmente hanno allontanato persino un potenziale nuovo pubblico.

Però, da riscoprire.

Obbediente

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K è obbediente.

A differenza del protagonista del primo capitolo, il personaggio di Ryan Gosling agisce in tutto e per tutto come una macchina per uccidere, un docile automa che si limita a seguire le procedure standard per annientare i Nexus ribelli.

Dave Bautista in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Per questo non sembrano neanche sfiorarlo le accuse di Morton, che mostra tutto il suo disprezzo davanti all’involuzione della sua specie: da macchine pensanti e reazionarie, a meri schiavi al servizio degli umani.

Infatti, tutta la scena dell’esecuzione è quasi chirurgica, come se il protagonista seguisse pedissequamente i vari step per l’uccisione perfetta, raccontata come l’inevitabile destino per qualunque androide che si sottragga agli imperativi del suo Creatore.

Eppure, K è anche umano.

Rifugio

K e Joi vivono esistenze parallele.

Entrambi infatti sono imprigionati nei limiti del loro Essere: un limite spaziale e incorporeo per l’una, un sistema interno calibrato sul mantenere l’obbedienza assoluta al suo Creatore per l’altro.

Eppure, entrambi cercano anche di fuggire.

Ryan Gosling e Ana de Armas in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Joi lotta disperatamente per evadere l’idea con cui è stata creata, quella della concubina che rifletta i desideri del suo padrone, spaziando in diverse forme e aspetti: moglie devota, compagna, prostituta.

L’apice della sua drammaticità è il ricercare un corpo altro per finalmente riuscire a ottenere quel contatto fisico e intimo altrimenti impossibile con K, usando un altro androide come una sorta di marionetta.

K, invece, cerca un altro tipo di validazione.

Umano

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K vuole essere umano.

Un desiderio probabilmente sopito per decenni, che comincia a riemergere davanti ai primi indizi della natura altra della sua specie, capace di poter replicare l’umano in un dono che lo rende infinitamente più potente: la procreazione.

Una scoperta devastante, che spinge K alla ricerca dell’Io – o, meglio, la validazione dell’Io – in cui tutti gli indizi lo spingono a pensare di essere un protagonista fondamentale della trama politica in atto, della rivoluzione della sua specie…

…per riscoprirsi, invece, semplice pedina.

Deckard quanto K non erano infatti altro che i pezzi su una scacchiera ideata da Tyrell e proseguita da Wallace – anche se per motivi diversi: se il Creatore voleva vedere fino a che punto la sua creatura si potesse spingere, il suo seguace vuole dare il via all’effettiva liberazione dei Replicanti.

Così K si riscopre non come un umano, come figlio indesiderato, ma come la copia dello stesso, possedendo ricordi che non gli appartengono, e vedendo frantumarsi i suoi sogni di amore ed umanità davanti ad una Joi che non era altro che un prodotto seriale programmato per soddisfarlo.

E la sua storia finisce qui.

Ma è davvero finita?

Oltre

Jared Leto in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Blade Runner 2049 è un film assai cauto.

Consapevole di non avere il successo assicurato in tasca, la sceneggiatura cerca di concentrarsi il più possibile sulla storia di K, dandogli anche un punto di arrivo, in modo da portare in scena una pellicola sostanzialmente autonoma.

Al contempo, il film si lascia aperte anche delle porte per un eventuale futuro, limitando il minutaggio del villain per forse regalargli una maggiore centralità in un eventuale secondo film, magari meno concentrato sulla riflessione del protagonista e più sulla trama politica.

Ma è davvero una perdita non avere un sequel?

Per quanto ami la regia di Villeneuve – per certi versi preferendola anche a quella di Scott in Blade Runner – già questo sequel rischiava parecchio nello snaturare il cult di partenza, che viveva soprattutto in funzione della sua riflessione di fondo.

E Blade Runner 2049 è del tutto rispettoso in questo senso, introducendo tematiche meno potenti, ma comunque interessanti, e riscrivendo solo in parte il suo predecessore, dimostrandosi così un seguito credibile…

…ma che, forse, aveva esaurito le sue potenzialità già in questa prima pellicola.

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Deadpool & Wolverine – La parata dei dimenticati

Deadpool & Wolverine (2024) di Shawn Levy è il terzo capitolo della (finora) trilogia dedicata al personaggio di Wade Wilson.

A fronte di un budget piuttosto importante – 200 milioni di dollari – ha aperto splendidamente al primo weekend: 438 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool & Wolverine?

Wade ormai è un Deadpool in pensione che ha appeso il costume al chiodo. Ma forse un’occasione per contare è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool & Wolverine?

Dipende.

Deadpool & Wolverine mi è sembrato come una grossa sbronza: sul momento appare tutto divertente e senza freni, un sogno lucido da cui non vorresti mai uscire, con un protagonista che torna più fedele a sé stesso che mai…

…ma, una volta uscita dalla sala, riflettendo sull’inconsistente passerella di personaggi, sulla trama fumosa e approssimata, e sulla costruzione non propriamente indovinata del rapporto fra il duo protagonisti, tutto è crollato come un castello di carte.

Però, se riuscite a tenere il cervello spentissimo, vi divertirete un mondo.

Dissacrare

Deadpool & Wolverine si apre con una dissacrazione.

La pellicola prende per i capelli il problema fondamentale su cui i fan si interrogavano da mesi – il Wolverine di questa pellicola è una variante? – e rende esplicitamente impossibile riportare sulla scena quel Logan la cui dipartita è entrata negli annali del genere.

Tuttavia, questa scelta nasconde un significato ulteriore.

Nonostante infatti si tratti di un film MCU, il grande protagonista della pellicola è l’ormai defunto Universo Fox, quasi come se Deadpool volesse riportare in vita una realtà ormai morta da tempo per concedergli l’ultima avventura

…con risultati discutibili.

Ma andiamo con ordine.

Crisi

Tornando all’apice della storia, Deadpool è in piena crisi di mezza età.

Dopo aver ormai abbandonato le vesti da eroe, Wade cerca di portare avanti una vita più tranquilla come venditore di auto: ma il parrucchino serve a poco nel nascondere le cicatrici – fisiche e emotive – che hanno segnato per sempre la sua vita, portandolo ad un doloroso capolinea.

Infatti dopo essere stato rifiutato negli Avengers, Wade si è ritrovato incapace di trovare il suo posto nel mondo, intrappolato in limbo in cui non può né smettere davvero di essere il mercenario chiacchierone né ritornare in quelle vesti per mancanza di un effettivo riconoscimento.

In generale, il discorso di Happy su come diventare un Avengers sembra il qualche modo un more of the same del monologo di Colosso in Deadpool 2 (2018), con la differenza che in questo caso è forse più centrato e più adatto alla figura di Deadpool.

E qui cominciano i primi problemi.

Paradox

Paradox poteva essere l’unico villain.

Molto chiara anche in questo frangente l’intenzione di voler raccontare la TVA come la Marvel stessa, che vuole distruggere immediatamente l’ex Universo Fox, e portare un Deadpool nuovo di zecca dentro al suo universo, dimenticandosi di tutto il resto.

Tuttavia, anche qui troviamo una spiegazione non esattamente limpida del piano dell’antagonista – o presunto tale – che sembra quasi più un pretesto per cominciare l’avventura di Deadpool alla ricerca di un nuovo Wolverine per salvare il suo universo.

Per il resto, il viaggio nel multiverso alla scoperta delle varianti dell’artigliato è nel complesso piuttosto piacevole, anche se molto meno memorabile di quanto potenzialmente sarebbe potuto essere, proprio una serie di inside joke che potrebbero apparire piuttosto oscuri ai non appassionati.

Ma è solo l’inizio.

Vuoto

La vera partita si gioca nel Vuoto.

Comincia fin da subito a definirsi il rapporto di forte antagonismo fra i due protagonisti, con uno dei tanti scontri piuttosto sanguinosi – per certi versi il punto forte della pellicola – con coreografie particolarmente creative e che non si risparmiano sul lato splatter.

E nel Vuoto si trova l’ultimo dei camei che ho veramente apprezzato.

Riportare in scena Chris Evans dopo Endgame (2019) era un grande azzardo, soprattutto in vista di Captain America: Brave New World (2025): si rischiava di distogliere l’attenzione da quello che dovrebbe essere il nuovo Capitano.

Quindi sulle prime ero un po’ contraddetta da questa scelta…

…e invece infine ho amato tutta la costruzione del climax tramite le parole dello stesso Deadpool, che fomenta il pubblico nell’idea di star finalmente rivedendo uno dei personaggi più iconici dell’MCU…

…che invece si rivela uno dei personaggi forse più noti dell’Universo Fox, benché parte di film da sempre molto bistrattati.

Da qui in poi, il delirio.

Sovrappopolazione

In Deadpool & Wolverine c’è spazio per tutti…

…oppure no?

Dall’arrivo alla base di Cassandra Nova comincia una parata di personaggi – di cui io a malapena so il nome, figurarsi il pubblico più inesperto – che sono solo apparentemente figure sullo sfondo, in realtà si rivelano spesso protagonisti di diverse inquadrature ammiccanti.

La stessa Cassandra è un villain fin troppo improvvisato, con un minutaggio striminzito ed una costruzione drammatica piuttosto carente, soprattutto vista la portata dei suoi poteri – motivo per cui, nello snodo narrativo fondamentale fra secondo e terzo atto, deve essere piegata a necessità di trama.

Ma il peggio arriva dopo.

Lasciando da parte Nicepool – forse una provocazione brontolona di Ryan Reynolds verso la Gen Z? – mi ha lasciato piuttosto perplessa la gestione dei quattro camei di punta del film: se è anche comprensibile l’inserimento di X-23, visto l’insistenza con cui parla di Logan (2017) …

…meno convincente l’importanza data a Elettra e Blade – protagonisti di film che sono al più mormorati dagli appassionati del genere – fino al dimenticatissimo Gambit, niente più che una spalla all’interno di X-Men le origini – Wolverine (2009), che invece diventa personaggio di punta in questo sgangherato team d’assalto.

E così il sovraffollamento è inevitabile.

Spazio

In Deadpool & Wolverine i personaggi devono contendersi la scena.

Una dinamica che è sicuramente l’esito dei diversi rimaneggiamenti della sceneggiatura – che ha visto non meno di cinque mani al lavoro – portando così questo gruppo di personaggi ad essere importante in un primo momento, e ad esistere solo fuori scena un attimo dopo – senza che la loro missione sia neanche così chiara…

Allo stesso modo, Deadpool deve farsi mettere fuori gioco nel confronto fra Cassandra e Wolverine proprio per dare spazio a Logan di raccontare la sua storia e di creare un rapporto col la villain – che, purtroppo, ho trovato ancora una volta molto fumoso e poco convincente.

E, da questo punto in poi, il film comincia a contraddirsi.

Che l’anello di Doctor Strange fosse un mezzo della trama per risolvere fin troppe situazioni era purtroppo chiaro fin da No Way Home (2021), ma in questo caso risulta ancora più incomprensibile visto che Cassandra parla di come abbia annientato l’ex Stregone Supremo con fin troppa leggerezza…

…e unicamente per dare un modo a Deadpool & Wolverine di chiudere il secondo atto.

Intralcio

Per non concludere il terzo atto troppo velocemente, i due protagonisti hanno bisogno di un intralcio.

E lo stesso è il punto più basso del film.

Il susseguirsi improbabile di migliaia di Deadpool sullo schermo mi ha ricordato una delle mie storie fumettistiche preferite di Enrico Faccini, La Banda Bassotti e l’incredibile Multiplicator (2013), in cui un duplicatore creava copie infinite di Paperoga nei modi in modi strambi e grotteschi.

Ma, se in quel caso era una storia ben controllata, qui il film si perde in un intermezzo veramente insensato e fuori controllo, utile solo per portare in scena l’ennesima battaglia epica, talmente fine a se stessa da essere conclusa con una scusa veramente blanda – ma del tutto funzionale al proseguimento della trama.

Infatti, in questo modo i protagonisti hanno lasciato fin troppo spazio di manovra a Cassandra, che ha cominciato a fare il bello e il cattivo tempo all’interno della TVA, portando avanti un piano, ancora una volta, molto improvvisato e non particolarmente convincente nelle sue motivazioni.

E qui nascono i miei maggiori dubbi.

Rapporto

Deadpool & Wolverine doveva essere il coronamento della storica amicizia fra Reynolds e Jackman.

Per questo ho trovato piuttosto intelligente fare cominciare i due personaggi in un aspro antagonismo, proprio per dar loro occasione di maturare e di portare nella finzione cinematografica il rapporto che li lega al di fuori dallo schermo…

…peccato che manchi qualcosa.

Tutta la costruzione emotiva del finale l’ho trovata fin troppo brusca, mancante di un solido retroterra di evoluzione del rapporto fra i due protagonisti, che porta ad un momento epico che per questo risulta insapore – e risolto con una battuta altrettanto poco convincente.

Così, se in chiusura della pellicola il quadretto familiare si è felicemente ricomposto, rimane insistentemente presente un senso di mancanza, un senso di insoddisfazione, non solo per la costruzione mancata del loro rapporto, ma proprio per un film che ti ammalia con un umorismo anche molto coinvolgente…

…ma che, per il resto, risulta infine incredibilmente dimenticabile.

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Deadpool 2 – Un film per famiglie

Deadpool 2 (2018) di David Leitch è il secondo capitolo della trilogia (?) dedicato al personaggio omonimo.

A fronte di un budget quasi raddoppiato rispetto al precedente – 110 milioni di dollari – ebbe un successo economico lievemente minore: appena 734 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool 2?

Diventato un killer internazionale, Wade Wilson cerca ancora di vivere felicemente la sua relazione con Vanessa. Ma i veri villain sono in agguato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool 2?

Sì, soprattutto se vi è piaciuto il primo.

In questo secondo capitolo Reynolds cominciò il fortunato sodalizio artistico con David Leitch, con cui collaborerà anche per Free Guy (2021) e per un piccolo cameo in Bullet Train (2022), concedendogli qui ancora più spazio di manovra.

Questa maggiore libertà artistica si andò però a scontare con un’idea di fondo che sembra in qualche modo cercare di imbrigliare il personaggio in una trama che gli sta stretta, forse con l’idea di inserirlo all’interno di futuri film degli X-Men targati Fox…

…che, di fatto, non vedremo mai.

Continuità

Deadpool sui barili di petrolio in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool 2 si pone in diretta continuità con il precedente.

Si comincia sempre dalla fine, da un Deadpool pronto a farsi saltare in aria in un appartamento devastato e su una pila di barili di benzina, ponendosi di nuovo al centro della scena con una linea comica nerissima che esaspera il concetto di supereroe inscalfibile.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi, come nel primo capitolo, si torna indietro, ad un’apparente situazione idilliaca, in cui il protagonista ha espanso la sua attività criminale al di fuori dei confini statunitensi, come in realtà tipico di ogni film action che si rispetti – e la saga di John Wick insegna.

Tuttavia, ancora una volta il sogno d’amore con Vanessa viene vanificato da un incidente casuale quanto inevitabile.

Eppure, ora non c’è un nemico da vendicare.

Solo un corpo da distruggere.

A pezzi

Deadpool X-Man in prova in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool deve essere rimesso insieme.

Ancora una volta vengono portati in scena quegli X-Men di riserva, ancora una volta gli stessi cercano – quasi metanarrativamente – di portare il protagonista dentro al loro universo, con un Wade diventa un eroe in prova con tanto di maglietta identificativa.

Ma la sua prima sfida rivela l’impossibilità del personaggio di far parte di questo universo narrativo rispettandone le regole: per quanto voglia davvero riuscire a salvare la vera vittima della situazione, Deadpool mostra chiaramente di non saperlo fare come un eroe.

Russell in prigione in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

In un altro senso, la stessa dinamica si ripete anche in prigione.

Mentre Russell cerca di diventare il protagonista attivo di un improbabile prison drama, dimenticandosi del tutto di essere un bambino senza poteri facilmente scalzabile da uno dei tanti energumeni che popolano la Prigione di Ghiaccio

…Deadpool è fin da subito contrario all’idea di farsi coinvolgere, scegliendo invece di essere del tutto passivo al suo triste destino: lasciare che il cancro lo divori, ora che persino l’ultima flebile speranza di vita dopo la morte di Vanessa gli è scoppiata in faccia a tempo zero.

Squadra

La parte centrale percorre strade piuttosto classiche…

…pur andandole a vanificare un momento dopo.

La rinascita di Wade dovrebbe passare per la costruzione di un team alternativo, con un simpaticissimo siparietto dedicato agli iconici colloqui di ammissione, fra cui spicca l’incomprensibile coinvolgimento di Peter e la gag del ritardatario Svanitore.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Così l’inizio di una sessione di allenamento piuttosto classica, che dovrebbe portare il team a trovare la propria coesione interna, si conclude in un bagno di sangue sempre più improbabile, in cui quasi tutti i membri della X-Force vengono uccisi uno dopo l’altro.

Questa parte centrale si chiude con un combattimento non particolarmente memorabile, ma che riesce ben a raccontare il personaggio di Domino, che diventa così una figura piuttosto determinante nella trama, mettendo alla prova le sue effettive capacità fortunate.

Ma il team si deve ricomporre altrove.

Comporre

Deadpool in una scena del trailer di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

L’ultimo atto è un grande azzardo.

Già prima di Endgame (2019), Deadpool 2 sperimentava con uno degli elementi più difficili da trattare all’interno di una narrazione di qualsiasi tipo: i viaggi nel tempo e il giocare con il tessuto spazio-temporale, citando, fra l’altro, Terminator (1984) e tutte le dinamiche derivate.

Così Cable diventa un improbabile alleato della squadra di Deadpool per un obbiettivo comune: riuscire ad impedire il destino oscuro e omicida di Russell, con, ancora una volta, un combattimento non particolarmente indimenticabile, ma che si salva nelle sue battute finali.

Deadpool X-Man  in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi tutto viene riscritto.

Di fatto il sacrificio di Deadpool scatena una serie di eventi e decisioni che riescono a risolvere la situazione nel modo migliore possibile: come Cable si rende conto che un futuro felice è possibile anche senza uccidere Russell, salva Deadpool che a sua volta può risolvere gli errori passati.

Una scelta che ho trovato tuttavia fin troppo azzardata, che sicuramente rincuora dopo un finale che si prospettava fin troppo tragico, ma che potenzialmente rischia di vanificare tutta la maturazione emotiva di Deadpool fino a quel momento…

…forse ancora di più in vista di Deadpool e Wolverine (2024).

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Deadpool – Una origin story tutta sua

Deadpool (2016) di Tim Miller è il primo capitolo della trilogia (?) omonima dedicata al personaggio di Wade Wilson.

A fronte di un budget abbastanza basso per un cinecomic – circa 58 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 782 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool?

Wade Wilson è un mercenario che vive alla giornata e che, incredibilmente, trova la sua anima gemella. Ma l’amore è solo una tragedia con qualche spot commerciale…

Vi lascio il trailer per farmi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool?

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Assolutamente sì, soprattutto se, come me, siete saturi della Marvel.

Infatti, per quanto Deadpool sia un film con un Ryan Reynolds ancora col freno tirato, si pose come un’interessante alternativa in un panorama di origin story che al tempo – pur con ottime eccezioni come Homecoming (2016) – apparivano spesso blande e poco originali.

In questo senso il primo capitolo del mercenario chiacchierone era in tutto e per tutto un film per adulti – e non a caso era un rated R – colmo di battute sessuali e di una volgarità piuttosto spinta, ma mai fuori luogo, ma anzi piuttosto piacevole.

Insomma, da riscoprire.

Forward

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Forse anche consapevole di non godere di una trama particolarmente avvincente, Deadpool parte dalla fine.

Di fatto Deadpool rischia nel sacrificare il climax narrativo piuttosto classico che porta l’eroe della storia a comprendere i suoi poteri, individuare il suo antagonista e scontrarsi con lo stesso, scegliendo invece di mettersi nella sua versione finale già al centro della scena.

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

E dai titoli di testa la pellicola dà la sua prima zampata, riscrivendo gli stessi per deridere il genere di riferimento, mettendo anche le mani avanti per un prodotto che comunque – probabilmente non per volontà di Reynolds – risulta spesso molto standard e prevedibile.

Eppure lo stesso attore protagonista cerca costantemente di rianimarla con gli sfondamenti della quarta parete e con vari siparietti piuttosto fuori dagli schemi, come il disegno di Francis che Deadpool utilizza come identikit o la piccola avventura comica del tassista.

Poi, si torna indietro.

Alternativa

Ryan Reynolds e Morena Baccarin in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Nel racconto del suo passato e della relazione con Vanessa, Deadpool vuole essere il più scorretto possibile.

In un altro contesto probabilmente avremmo visto un mercenario di buon cuore che alla fine, grazie alla scoperta dei suoi poteri, decideva di cambiare vita e di passare da anti-eroe a eroe effettivo, magari riuscendo al contempo a dare una vita più dignitosa alla sua sciagurata fidanzata.

Ma questo è un film che non vuole essere né MCU né Fox…

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

…e che non segue nessuna di queste regole.

Così effettivamente il punto di partenza del protagonista non è altro che un modo per permettergli di arrivare alla sua nuova identità con già l’esperienza da assassino su commissione, che comunque non viene caricata di un’eccessiva drammaticità, ma anzi mantenuta piacevolmente comica.

Allo stesso modo, il primo scambio fra Vanessa e Wade è definito da una serie di irresistibili battute piuttosto pesanti e sicuramente non family friendly, che sono solo l’antipasto per il racconto piuttosto spinto dello sviluppo della loro relazione, con un umorismo davvero irresistibile.

Ma ogni storia d’amore ha la sua tragedia.

Svolta

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Deadpool non avrebbe dovuto essere Deadpool.

Solitamente nel genere la trama drammatica che porta alla deviazione morale è un’esclusiva dei villain, che servono molto spesso a caricarli di una maggiore tridimensionalità – con risultati altalenanti, che vanno da Thanos in Infinity war (2018) all’imbarazzo di Dar-Benn in The Marvels (2023).

Al contrario, la pellicola sceglie, pur mantenendo un buon equilibrio con il versante comico, di spogliare il più possibile Deadpool dalle vesti supereroistiche, e persino da quelle di anti-eroe, rendendolo il più possibile un personaggio con i piedi per terra.

Per questo il protagonista si fa attirare nella trappola di Francis, nella promessa di una seconda vita…

…non tanto per acquisire dei poteri, ma piuttosto per utilizzare gli stessi per sopravvivere al cancro e continuare il sogno d’amore con Vanessa, dovendo affrontare un processo che, come racconta lo stesso Deadpool, ha i toni propri del genere orrorifico.

Ma la rinascita sembra impossibile.

Senza ritorno

Deadpool ha intrapreso una strada senza ritorno.

Per quanto riesca con la sua furbizia a liberarsi dalla sua prigione, il suo aspetto mostruoso sembra un ostacolo insuperabile davanti al suo ricongiungimento con Vanessa, con una scena discretamente straziante in cui, mentre cerca di approcciarla, viene additato dai passanti.

Per questo a Deadpool rimane solamente la strada della vendetta, che si accompagna alla più classica creazione del costume, un momento sempre molto delicato di ogni origin story, ma che viene arricchito dalla dinamica piuttosto divertente della lavanderia.

A questo punto il film prende le strade più classiche della origin story, in cui l’interesse amoroso viene rapito dal villain di turno come esca per scatenare la battaglia finale – nonostante Vanessa non sia per niente una donzella da salvare, anzi.

In questo ultimo frangente Deadpool riesce un po’ a fatica ad evadere i più classici topoi del genere, proprio appesantito da una coppia di villain veramente stereotipati, ma risulta infine vincente grazie alla sua più grande provocazione.

Distinto

Infatti ci si aspetterebbe che Deadpool scelga infine di diventare effettivamente un eroe, abbandonando i suoi desideri di vendetta…

…mentre invece il protagonista si avvicina ancora di più allo spettatore scegliendo di piantare giustamente in fronte al suo carnefice un proiettile, con cui il film riesce chiaramente a definirsi come alternativo rispetto al resto del genere – che, a posteriori, lo ripagherà moltissimo.

Allo stesso modo ben riuscito il ricongiungimento con Vanessa, raccontato con toni mai eccessivi, ma anzi con un taglio che riesce a mantenersi sulla linea della credibilità, con una battuta finale che racconta molto bene il loro rapporto fuori dagli schemi:

After a brief adjustment period and a bunch of drinks…it’s a face I’d be happy to sit on.

Dopo un breve periodo di adattamento e un bel po’ di drink…è una faccia su cui sarei felice di sedermi.
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Moneyball – L’ingiusta vittoria

Moneyball (2011) di Bennett Miller, in Italia noto anche come L’arte di vincere, è un film sportivo che racconta la vera storia del GM Billy Beane.

A fronte di un budget abbastanza importante – 50 milioni di dollari – non è stato purtroppo un grande successo: appena 112 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Moneyball?

Billy Beane è il General Manager di una squadra di eterni perdenti, gli Oakland Athletics. Ma forse una via alternativa è possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moneyball?

Assolutamente sì.

Moneyball si pose come un’alternativa alla narrazione molto romantica del baseball e dello sport in genere, raccontando un dietro le quinte del settore molto più crudo e spietato, in cui i giocatori vengono scambiati come figurine da una squadra all’altra.

Fra l’altro, un’ottima occasione per vedere i primi tentativi di Brad Pitt di cominciare la sua seconda giovinezza artistica, evadendo i ruoli da sex symbol e scegliendo invece delle parti più drammatiche e riflessive, in cui dimostra le sue grandi capacità attoriali.

Insomma, da riscoprire.

Capolinea

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

All’inizio di Moneyball, la squadra sembra al capolinea.

Trovandosi un team sguarnito e le casse che piangono, Billy Beane comincia a percorrere le più classiche vie del recruiting, intavolando fin da subito dinamiche piuttosto calcolatrici che rappresentano il dietro le quinte del mondo sportivo.

La stessa via viene anche intrapresa dal suo team di consiglieri, che studiano le nuove promesse da portare in campo, ragionando con i soliti sistemi di intuito e di capacità di osservazione per valutare il valore e le potenzialità dei giocatori che hanno davanti.

Ma c’è un’altra via.

Scoperta

Jonah Hill in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

Quando sembra ormai essere arrivato alla fine della corsa, si aggiunge un giocatore in campo.

Basta un breve scambio con il giovane Peter Brand per scoprire un’altra, interessante faccia della questione: lasciare da parte intuito, fama e prezzi di mercato, e ridurre i potenziali giocatori a semplici dati su una tabella, da inserire in un sistema che ne valuti non tanto le capacità, ma le potenzialità dell’investimento.

Questo particolare sistema, in cui i giocatori sembrano dei cartellini ambulanti, viene testato immediatamente dal protagonista stesso, che vede confermata la convinzione che lo insegue da una vita: essere un mediocre giocatore di baseball che non avrebbe mai raggiunto il successo.

E allora è la svolta.

Sistema

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

Al fianco di Peter Brand, Billy mette in campo un sistema chirurgico.

Come il suo team gioca sul campo, così il protagonista gioca con loro nelle retrovie, mettendo in campo un sistema di offerte e di raggiri che assomiglia molto a giocare in borsa, ma in questo caso agendo su una complessa rete di amicizie e rapporti che finiscono per scontrarsi fra loro.

Di fatto Billy vive fuori dal campo – non volendo mai assistere alle partite per scaramanzia – e lontano dai suoi stessi giocatori, con cui parla in pochi momenti della pellicola – per reclutarli o per avvisarli che sono stati venduti ad un’altra squadra.

Appare così come un personaggio apatico, interessato solo al guadagno…

Consapevolezza

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

…ma, in realtà, la sua è solo paura.

La consapevolezza di non essere un bravo giocatore, e di poter quindi solo aspirare ad essere un recruiter, a vivere ai margini del campo, è stata una ferita talmente profonda da impedirgli di vivere in prima persona la realizzazione del suo progetto, proprio per il timore di fallire.

E così il vedere il suo progetto sgretolarsi davanti ai suoi occhi, vedere un incomprensibile fallimento della sua squadra nonostante il robusto streak di vittorie che ha segnato la storia del baseball, lo porta ad un crollo psicologico che si svolge nell’intimità del campo da baseball.

Ma, proprio come lo stesso Brand gli fa notare, il protagonista stava guardando dalla parte sbagliata: così sicuro del suo fallimento, Billy ha avuto occhi solamente per l’unica sconfitta, e non per la grande vittoria che ha ottenuto, non per quell’home run fenomenale che l’ha consacrato alla storia dello sport.

Eppure, comunque il protagonista non accetta la sua ricompensa

…forse non sentendosi di meritarla davvero.

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E.T. – Fra emarginati ci si capisce

E.T. (1982) di Steven Spielberg è uno dei più grandi classici del cinema per ragazzi e della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Non a caso, a fronte di un budget di appena 10,5 milioni (circa 31 oggi), incassò 619 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 1,9 miliardi oggi).

Di cosa parla E.T.?

Elliot è un ragazzino molto timido, che riuscirà a trovare un nuovo amico grazie ad un incontro inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere E.T.?

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

E.T. è un classico della fantascienza non a caso, un film fondativo per il genere, nonché un punto di riferimento per la cosiddetta fantascienza positiva – quella di Una nuova speranza (1977), per capirci.

Oltre a questo, colpisce come Spielberg riuscì a dirigere e a scrivere con rara eleganza un prodotto che entrò profondamente nel cuore dei ragazzini dell’epoca – e di tutte le generazioni successive.

Indizi

Una delle dinamiche più classiche del genere è la rivelazione progressiva della creatura.

E E.T. ci riesce magistralmente.

Spielberg dirige le prime battute della pellicola con la precisa consapevolezza di starsi inserendo in un panorama cinematografico che ormai da anni era stato per sempre cambiato dai terribile e spaventosi alieni di Alien (1979) …

…e in cui voleva portare la sua alternativa – dopo averci già ottimamente provato in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) – per cui il viaggiatore spaziale non è una minaccia, ma una curiosa creatura che vale la pena di conoscere.

Per questo l’introduzione di E.T. è funzionale a raccontare la vera natura del personaggio: non una bestia temibile che divora spietatamente un piccolo coniglietto indifeso, ma un mite erbivoro, che, con le sue lunghe dita nodose, sradica una pianta per nutrirsi.

Ma c’è ancora spazio per giocare con lo spettatore.

Parallelismo

Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Il rapporto fra E.T. e Elliot è definito indirettamente fin dalla prima apparizione del protagonista.

Infatti, in un certo senso, entrambi i personaggi vivono la stessa condizione: come l’alieno si trova in un paese sconosciuto, senza saper dove andare, lasciato indietro dai suoi compagni di viaggio, come se fosse un emarginato…

…allo stesso modo Elliot cerca per tutta la sua prima apparizione di introdursi nel circolo sociale del fratello maggiore, da cui viene spinto ad avventurarsi nelle lugubri atmosfere esterne della casa per guadagnarsi un posto al tavolo di gioco.

E proprio qui si sviluppano le ultime, significative, battute del primo atto.

Ritrovarsi

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

E.T. e Elliot si ritrovano.

Il loro primo approccio utilizza i toni ancora proprio dell’horror, tenendo in ombra le bizzarre quanto innocue sembianze dell’alieno, che cerca di venire in contatto col bambino con una dinamica giocosa – ma immediatamente travisata.

L’ultimo momento di questo teatrino delle incomprensioni è il primo incontro faccia a faccia fra i due: Elliot ha il compito di metterci per la prima volta davanti all’aspetto del nemico, portando ad un genuino quanto quasi comico terrore da entrambe le parti.

Gertie in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Un climax tensivo ottimamente costruito, proprio grazie all’inserimento dell’elemento chiave del cinema per ragazzi: il giovane eroe è l’unico personaggio che vede e crede alla creatura, mentre gli adulti la derubricano a pura fantasia.

Per questo Elliot si intestardisce nel voler provare la sua verità, nell’evadere il controllo della madre, eppure ricercandola quando si trova bloccato dalla paura mentre E.T. gli viene vicino con aria apparentemente minacciosa…

…e invece portando un messaggio di amicizia.

Caos

Gertie e Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

La famiglia di Elliot è un caos conveniente.

Anche qui Spielberg scrive la storia del cinema di genere riuscendo a rendere assolutamente credibile lo spazio che i giovani protagonisti – anzitutto Elliot – riescono a prendersi per sviluppare il loro rapporto con l’alieno…

…proprio raccontando una famiglia in cui il nucleo emotivo è la madre, che in un certo senso sono gli stessi figli a dover proteggere dal suo turbamento, dovuto al recente abbandono del marito, che la porta raramente ad avere il controllo della sua situazione familiare.

E.T. fra i pupazzi in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Per questo è tanto più semplice per il protagonista fingere la malattia per prendersi una giornata da dedicare ad E.T., per questo persino gli sciocchi tentativi della sorella minore, Gertie, di rivelare la presenza dell’alieno, risultano ironicamente fallimentari.

Perché Mary, semplicemente, non riesce a vedere: in più momenti ignora la verità che è sotto ai suoi occhi, da quanto E.T. è alle sue spalle a quando lo stesso si nasconde fra i pupazzi e riesce per questo perfettamente a mimetizzarsi, sfuggendo alla sua eloquente soggettiva.

Adattamento

E.T. beve la birra in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’adattamento di E.T. viaggia in due direzioni.

Da una parte, l’alieno esplora con curiosità quello che lo circonda, ed impara velocemente quella manciata di parole che gli bastano per comunicare con i suoi nuovi amici, scoprendo il meglio della cultura americana – fra i classici del western e le birre in frigo.

Allo stesso modo, E.T. sviluppa un rapporto profondissimo con Elliot, portandoli a diventare sempre più strettamente legati, fino ad arrivare al gustosissimo siparietto dell’ubriacatura dell’alieno, che influenza il bizzarro comportamento del protagonista a scuola.

E.T. legge un fumetto in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Allo stesso modo, il desiderio di E.T. di tornare a casa è ancora molto vivo.

Infatti, grazie all’esplorazione di quello che lo circonda, particolarmente di un fumetto di fantascienza con una storia simile a quella che lui sta vivendo, riesce a capire come può effettivamente comunicare col paese natale.

E il suo costruirsi un improbabile telefono che manda un messaggio di aiuto nello spazio è ancora una volta un bellissimo racconto della creatività infantile nel lavorare con quello che si ha, in cui persino dei giocattoli possono diventare strumenti essenziali.

Casa

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Alla fine del secondo atto il legame emotivo fra E.T. e Elliot raggiunge il suo picco.

Ben deciso di fargli comunicare con il suo paese natale, il protagonista si sforza nell’aiutare l’amico alieno nella bizzarra impresa, nonostante la stessa sembri ormai destinata all’inevitabile fallimento.

Eppure proprio in quel momento E.T. abbraccia l’alternativa di una nuova casa in quel mondo, in quella persona che si è effettivamente prodigata per accoglierlo ed aiutarlo, nonostante la differenza di aspetto, e a cui si è legato troppo profondamente per distaccarsi.

Ma è un sogno impossibile.

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’inizio del terzo atto è definito dallo svolgersi della tragedia di E.T.: il suo desiderio di rimanere sulla terra si scontra con l’impossibilità del suo corpo di rimanervi troppo tempo – una piccola accortezza di scrittura che offre il giusto grado di drammaticità e tridimensionalità al finale.

Così si raggiunge il picco massimo del dramma quando E.T. sceglie consapevolmente di dover lasciar andare il suo giovane amico, consapevole che altrimenti morirebbero insieme, in una scena genuinamente straziante, in cui Henry Thomas dà anche il meglio di sé come giovane attore.

Poi, un nuovo cambio di tono.

Alternanza

La finezza della scrittura di Spielberg si ritrova ancora nelle battute finali della pellicola.

Per dare una boccata di ossigeno allo spettatore, il film ritorna alla carica con un siparietto comico davvero gustoso, in cui E.T. si risveglia e comincia a ripetere ossessivamente la sua battuta iconica, rischiando di farsi scoprire.

Interessante in questo senso come la pellicola scelga di rappresentare gli adulti: mentre in molti film del genere fra i giovani eroi protagonisti e i grandi vi è un contrasto netto – come, per fare un paragone improprio, in Super 8 (2008) …

…al contrario, in E.T. gli adulti, semplicemente, non capiscono: pur mostrandoli mentre cercano di aiutare l’alieno, Spielberg ci tiene particolarmente a mettersi dalla parte dei suoi giovani spettatori, mostrando come solo loro capiscano la situazione e possano quindi risolverla.

Ne segue un’adrenalinica corsa e rincorsa dei protagonisti, pronti a tutto pur di permettere al loro amico di ritrovare la via di casa, e il cui punto di arrivo è una chiusura molto commovente, in cui E.T. promette di star per sempre al fianco di Elliot, pur trovandosi ad anni luce di distanza.

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The Fighter – L’ingiusta ombra

The Fighter (2010) di David O’Russell è un dramma familiare che racconta la vera storia del pugile Micky Ward.

A fronte di un budget di 11 milioni di dollari, è stato un ottimo successo commerciale: 129 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Fighter?

Micky, una potenziale stella del pugilato, deve vivere nell‘ingombrante ombra dello sgangherato fratello maggiore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Fighter?

Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Assolutamente sì.

Mi sento di consigliarlo in maniera così sentita perché The Fighter non è altro che un dramma familiare con un pizzico di film sportivo – proprio i due generi che più difficilmente riescono a convincermi, a meno che non si tratti di film di particolare valore.

E la pellicola di O’Russell è riuscita a conquistarmi proprio per la sua scrittura azzeccata e mai eccessiva sul lato drammatico, ma che anzi racconta una appassionante storia di presa di consapevolezza nell’aspro sfondo della provincia americana.

Insomma, da riscoprire.

Eroe

Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Dickie è un eroe?

Il suo personaggio riesce ad elevarsi dall’aridità del suo mondo proprio perché gli basta pochissimo: per un gruppo così sgangherato e senza speranza di redneck è sufficiente essersi anche di poco avvicinati alla fama per diventare delle leggende viventi.

E, di conseguenza, tutto il resto sparisce.

Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Spariscono così le evidenti dipendenze di Dickie, sparisce il suo essere scostante e scorretto nei confronti del fratello, e scompare anche la disordinata vita criminale che il personaggio porta avanti sotto gli occhi di tutti.

E, di conseguenza, sparisce anche Mickie.

Ombra

Christian Bale e Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Mickie vive nell’ombra del fratello.

Il protagonista non può essere altro che un’estensione, la versione depotenziata del fratello campione, che sta cercando timidamente di inseguire una fama già propria di Dickie, apparendo per questo un eterno secondo.

Oltretutto, seguire il fratello – e la sua famiglia in generale – lo fa partire già in svantaggio.

Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Forti della convinzione di essere riusciti a conquistare quel briciolo di fama senza una particolare programmaticità, i parenti di Mickie continuano a spingerlo in situazioni in cui è inevitabilmente destinato a perdere…

…al punto da portarlo alla nomea di essere l’eterno perdente che diventa il pugile sacrificale per permettere ai suoi contendenti di salire di livello, proprio per la sicurezza che non potranno mai essere battuti.

Eppure, evadere il seminato è impossibile.

Intrusa

Amy Adams in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Charlene è un’intrusa.

La sua relazione con Mickie è l’occasione per il protagonista per cominciare ad aprire gli occhi, per capire quanto la sua famiglia sia inutilmente aggressiva ed ingiustamente convinta di poterlo far vincere secondo i propri metodi.

Ed è anche più grave perché la ragazza non si lascia mai mettere i piedi in testa, anzi prende la parola al posto di Mickie – in più occasioni ammutolito ed impotente – e arriva ad abbassarsi al livello della famiglia del suo fidanzato senza particolari remore. 

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Ma la soluzione non è così semplice.

Ancora fin troppo legato alla figura mitica del fratello, a Mickie serve vederlo sbattuto in prigione per il suo ennesimo piano sgangherato per scegliere finalmente di smarcarsi dai suoi consigli, e prendere una strada apparentemente più vincente.

La situazione sembra arrivare ad un capolinea con la trasmissione del documentario, che depotenzia definitivamente la leggenda di Dickie, riducendolo a mero tossichello di provincia – e che viene usato dalla ex-moglie di Mickie per svalutarlo indirettamente agli occhi della figlia.

Compromesso

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

L’ultimo atto di The Fighter è splendido.

Arrivato sul ring sicuro di poter vincere grazie alla sua nuova tecnica, Mickie raggiunge una sorta di epifania, che lo porta a rendersi conto che non potrà mai veramente vincere senza seguire i consigli fondamentali del fratello, che rimane il convitato di pietra per tutto il tempo.

E, se il suo voler avere un piede in due scarpe non viene accettato da nessuna delle due parti, a sorpresa la presa di consapevolezza di Dickie è determinante per riuscire a portare il fratello alla vittoria, per riuscire finalmente a spalleggiarlo…

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

…e mettersi così da parte.

In questo ultimo atto Dickie infatti comincia a spogliarsi di quell’eroismo di cui sia la sua comunità, sia il fratello stesso si nutriva, a mettere in discussione le sue presunte vittorie – in realtà nient’altro che biechi colpi di fortuna.

Così il leggendario fratello maggiore rimane saldo ai lati del ring, accompagna e conferma la gloria del protagonista e, durante l’intervista doppia, esce volontariamente di scena, per lasciare tutto lo spazio necessario alla vera star che merita di essere celebrata.

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RoboCop – L’alternativa insicura

RoboCop (1987) di Paul Verhoeven è il primo capitolo della fortunata quadrilogia omonima.

A fronte di un budget di 13 milioni di dollari (circa 35 oggi) è stato un grande successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 146 oggi).

Di cosa parla RoboCop?

Murphy ha appena cambiato distretto ed è pronto ad entrare in azione in una Detroit immaginaria distrutta dal crimine. Ma il suo destino si sta svolgendo nell’ombra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere RoboCop?

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Assolutamente sì.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa da questo cult della fantascienza Anni Ottanta, dal momento che mi aspettavo un prodotto molto più incolore, un classico action capace di accogliere i più diversi pubblici e diventare così un successo al botteghino.

Invece RoboCop si rivela fin da subito un film davvero graffiante, che arricchisce le più classiche dinamiche del genere con un world building non poco crudele, anzi profondamente violento – per cui gli si riesce a perdonare persino qualche inciampo narrativo lungo la strada.

Insomma, da riscoprire.

Caos

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La Detroit di RoboCop è nel caos.

In una situazione quasi post-apocalittica, che ricorda le ambientazioni di 1997: Fuga da New York (1981), in cui la criminalità è apparentemente impossibile da contrastare, gli stessi poliziotti non sono altro che carne da macello in un panorama del tutto sregolato.

Per questo appare del tutto normale che gli agenti scelgano più volte di scioperare, davanti ad un governo assolutamente incapace di offrirgli una reale alternativa che li faccia sentire al sicuro, e al contempo incalzati dall’opinione pubblica che non ne accetta le proteste.

Ma non è solo Detroit ad avere un problema.

Una scena di tv di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

I frangenti più graffianti della pellicola sono proprio quelli dedicati alla televisione: gli spettatori possono perdersi in un tubo catodico che riscrive il presente, in cui appare del tutto normale che un laser decimi un’intera comunità, in cui ogni tragedia diventa giocosa e scusabile.

Inoltre, in diversi momenti la televisione interrompe la narrazione o si pone come una grottesca alternativa alla stessa: anche nelle situazioni di più alta tensione, i personaggi non mancano mai di sedersi davanti alla tv e di ridere di programmi del tutto inutili e totalmente discostati dalla realtà.

E, allora, qual è l’alternativa?

Alternativa

L’alternativa proposta è pure più attuale se vista oggi.

Infatti, invece che cercare una soluzione più pensata che permetta agli agenti di vivere al meglio la loro professione, l’alternativa migliore sembra essere quella di sostituirli con delle macchine apparentemente invincibili, che però, quando messe alla prova, si rivelano fin troppo pericolose ed incontrollabili.

Così sembra un’idea migliore riconvertire un poliziotto morto in un ben più controllabile braccio armato, apparentemente imbattibile e del tutto sicuro, proprio perché vincolato da delle precise regole per garantire la pubblica sicurezza.

Eppure, anche RoboCop presenta un’insidia non da poco.

Illusione

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La sicurezza di RoboCop è un’illusione.

Volendo distinguersi da Dick Jones e non fare un prodotto del tutto artificiale, Bob Morton si illude di poter ingabbiare una mente umana in un corpo robotico…mentre appare del tutto chiaro dalle eloquenti soggettive di Murphy che in lui alberghi ancora una mente dormiente, che potrebbe riemergere in qualunque momento.

Ed infatti basta poco al protagonista per recuperare degli scampoli di memoria che gli permettono di capire chi è il suo vero nemico, portando ad un coinvolgimento emotivo però non del tutto efficace, in quanto il film manca di un retroterra narrativo abbastanza robusto riguardo al passato e alla personalità di Murphy.

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Ma non è l’unica illusione.

La quarta direttiva nascosta per RoboCop è una delle più interessanti zampate della pellicola, che ci racconta come affidare la sicurezza comune a dei privati presenti un indubbio prezzo da pagare: una piccola clausola di contratto che rende di fatto Dick Jones inarrestabile.

Così, nonostante la simpatica trovata sul finale di licenziarlo sul posto e di poterlo quindi mettere nel mirino del protagonista, rimane comunque un’angoscia di fondo nel pensare che in realtà questo sotterfugio potrebbe ancora essere messo in atto in qualunque momento…

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Dallas Buyers Club – Una vita che non posso vivere

Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée è un film drammatico basato sulla vera storia di Ron Woodroof.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 5 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 55 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Dallas Buyers Club?

Texas, 1985. Ron è un rude texano che vive fra scommesse, dipendenze e sesso occasionale. Ma una visita imprevista in ospedale gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dallas Buyers Club?

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Assolutamente sì.

Dallas Buyers Club è uno splendido spaccato – per certi versi anche molto attuale – della vergogna sociale che nacque intorno all’HIV e alla comunità queer negli Anni Ottanta, e al contempo anche della poca incisività di un sistema sanitario basato – ancora oggi – su un mero giro di affari.

Fra l’altro, un film tanto più imperdibile per la coppia esplosiva di Matthew McConaughey e Jared Leto: l’uno nel momento di rinascita artistica appena prima di True Detective (2014), l’altro in uno degli ultimi ruoli significativi prima di sporcarsi le mani col cinema di serie B.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Origine

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ron è definito dal suo ambiente.

Visto che l’HIV non è altro che un affare dei froci (faggot), né Ron né i suoi degni compari si devono preoccupare nel loro essere coinvolti in un sesso occasionale e disordinato, che si svolge nel dietro le quinte della massima espressione del machismo – il rodeo.

Allo stesso modo, il loro utilizzo di droghe e di siringhe condivise racconta la totale impreparazione degli Stati Uniti davanti alla nuova minaccia sanitaria, incapace di creare la giusta comunicazione che metta in guardia persino le persone non queer dai rischi a cui potevano andare incontro.

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Una situazione che determina anche la totale casualità della diagnosi, che avviene per tutt’altro motivo, per un semplice incidente sul lavoro, che però porta i dottori ad alzare qualche dovuto sopracciglio davanti alla stranezza degli esami del protagonista.

E per questo Ron parte da una negazione…consapevole.

Negazione

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

La negazione di Ron è estremamente violenta.

Del tutto convinto del pensiero comune – l’HIV ce l’hanno solo i ricchioni – il protagonista vive la sua diagnosi sulle prime più come un’accusa alla sua sessualità e al suo stile di vita – anche prevedendo il tipo di esclusione sociale che seguirà…

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Così il protagonista si confida con uno dei suoi compari per avere conferma dell’impossibilità della sua diagnosi, sicuramente derivata da un mischiare il suo sangue da vero uomo con quello di qualche esemplare umano di minor valore.

Eppure questa sua confidenza, seguita dalla sua consapevolezza involontaria che lo porta a non voler intrattenersi con le donne quella sera, lo rendono nel giro di una notte un reietto sociale, il protagonista di tutta la tragica vergogna di essere in realtà un omosessuale.

Ma non esiste un’alternativa.

Solo

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ron deve fare da solo.

Dalla Buyers Club racconta perfettamente la situazione ancora molto attuale degli ospedali negli Stati Uniti, in cui un giro di soldi abbastanza importante permette di prendere i vergognosi pazienti dell’HIV e renderli dei topi da laboratorio.

Davanti all’impossibilità della certezza della cura, davanti alla prospettiva di una morte sicura in meno di un mese, Ron comincia a procurarsi sottobanco questo farmaco miracoloso, finendo così solo per intossicarsi e per distruggere più o meno inconsapevolmente il suo corpo.

E, anche in questo caso, la salvezza è del tutto casuale.

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Dopo essere nuovamente rimesso su un letto d’ospedale senza nessuna prospettiva di vita, il protagonista sorpassa il confine e comincia ad assumere una nuova, pericolosa consapevolezza grazie ad un altro emarginato: un dottore radiato dall’albo che deve curare in clandestinità.

Fuori dal giro d’affari dell’AZT, questa medicina miracolosa si rivela infatti un killer del sistema immunitario, che agisce molto più alla cieca di quanto dovrebbe – mentre la rinascita di Ron è dovuta a ben altro…

E allora comincia la lotta.

Ombra

La lotta di Ron avviene nell’ombra.

Consapevole dell’impossibilità di vendere quelle medicine che potrebbero davvero salvare delle vite, il protagonista riesce ad agire nelle zone d’ombra, a creare un club farmaceutico in cui si paga solo il costo d’ingresso, e poi si riceve in omaggio le effettive medicine.

Comincia così una lotta senza quartiere, in cui Ron è costantemente vessato dal governo, che gli continua a sfilare da sotto le mani il suo prodotto potenzialmente salvifico, nonché la sua possibilità di portare avanti una ricerca indipendente.

Eppure il protagonista non si arrende mai, non si fa mai veramente sottomettere da un sistema che non è mai stato al suo fianco, ma che anzi ha voluto impedirgli di rivaleggiare con case farmaceutiche ben più ricche e potenti – e quindi le uniche che hanno diritto di parola.

E, per una volta, non è solo.

Alleato

Ron ha al suo fianco degli improbabili alleati.

Da una parte la dottoressa Eve, interpretata da una Jennifer Garner che purtroppo scompare davanti a due attori di così grande talento, ma che porta in scena un personaggio assolutamente necessario per riequilibrare le parti in gioco.

Il suo personaggio infatti assume una graduale consapevolezza al pari di Ron, pur rimanendo per molto tempo instancabilmente legata all’idea che tutto quello che succede al di fuori dell’ospedale è fin troppo pericoloso – nonostante lei stessa mostri dei dubbi fin da subito sul AZT.

Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ma, ancora più importante, Ron ha al suo fianco Rayon.

Da buon texano machista, sulle prime il protagonista è sostanzialmente disgustato da questo strambo personaggio, che per lui non è altro che un orribile travestito da cui non vuole neanche lasciarsi toccare…ma che infine sceglie come suo braccio destro.

E il loro rapporto effettivamente si dimostra fino alla fine estremamente ostile, ma sempre meno per l’identità sessuale del personaggio, ma invece per il continuo pungolare dello straordinario Jared Leto – per esempio, quando inquina la parete del porno di Ron con le sue fotografie.

Eppure, la sua morte è fondamentale.

Vittoria

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

La crescita di Ron è sorprendente.

La sua lotta comincia come una battaglia per la propria salvezza, contro un sistema ingiusto, parallelamente riuscendo anche a lucrarci sopra, e rimanendo ancora per molto tempo insofferente alla presenza di Rayon.

Eppure, durante la pellicola il protagonista cambia profondamente se stesso, evade da quel mondo piccolo e meschino del machismo texano e si avventura nel più fragile ruolo del rivoluzionario…

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

…persino difensore degli ultimi, che costringe il suo ex-compare a stringere la mano a quel disgustoso travestito, a cui infine si lega al tal punto emotivamente che, quando infine scompare dalla sua vita, il protagonista abbandona persino i sogni di guadagno e lascia entrare chiunque nel suo club.

Forse Ron Woodroof non è riuscito infine a salvarsi, ma è riuscito a combattere per avere quel tanto di vita che gli bastava per minare la credibilità di un governo classista, per vivere una vita dignitosa, morendo da uomo libero – e non ucciso da quello stesso sistema che millantava di salvarlo.