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La battaglia dei sessi – Didascalico e sottile

La battaglia dei sessi (2017) è una commedia sportiva per la regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris, diventati noti un decennio prima per Little Miss Sunshine (2006).

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un pesante flop commerciale: appena 18 milioni di incasso.

Di cosa parla La battaglia dei sessi?

Billie Jean King è la campionessa mondiale di tennis femminile, che deve controvoglia cedere al bizzarro maschilismo della ex star del tennis Bobby Riggs…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La battaglia dei sessi?

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

In generale, sì.

La battaglia dei sessi è una commedia piacevole e ben diretta, che brilla soprattutto per due attori di stirpe come Emma Stone e Steve Carell, e che nel complesso inquadra bene il periodo storico di transizione degli Stati Uniti degli Anni Settanta.

Eppure, al contempo il film si perde in non poche occasioni in un didascalismo un po’ pedante e forse anche poco credibile, mettendo in bocca a personaggi di mezzo secolo prima le parole di un femminismo ben più contemporaneo e consapevole…

…riuscendo invece, in altri contesti, a risultare sottile e ben inquadrato.

Nel complesso, comunque, ve lo consiglio.

Ribellione

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La vera battaglia dei sessi comincia fin da subito.

Billie si trova bloccata in un paradosso: gli stessi uomini che l’hanno premiata come campionessa, ridimensionano invece il suo valore – e quello delle sue colleghe – dietro a scuse deboli e poco credibili – e anche facilmente contestabili, come i pochi biglietti venduti. 

Per questo, la protagonista sceglie di mettere in gioco la sua personale rivoluzione sessuale, che la fa immediatamente escludere dai principali circuiti, gettandosi a capofitto in una presa di posizione politica estremamente rischiosa – e facilmente fallibile.

Ma forse non è neanche la sua più grande minaccia…

Sottile

Emma Stone e Andrea Riseborough in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La relazione fra Billie e Maryl mi è piaciuta a tratti.

Sulle prime l’ho trovata molto convincente e ben equilibrata, grazie ad una messinscena che riesce a rendere momenti apparentemente neutri – la nuova acconciatura – effettivi frangenti di seduzione…

…con una comunicazione piuttosto sottile, fatta di sguardi e di poche parole ben scelte – come quando Maryl fa capire alla protagonista di essere con un piede in due scarpe, accettando le avances dell’uomo che la avvicina nel locale.

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Mi ha invece meno convinto col proseguire del film.

Soprattutto vedendo il finale reale della loro relazione, appare nel complesso credibile la reazione del marito di Billie, Larry, che capisce la realtà della situazione e non attacca direttamente l’amante della moglie, ma piuttosto la avverte della fragilità della sua situazione…

…prevedendo l’inevitabile rottura, che porta per molto tempo Maryl fuori scena, rilevandosi alla lunga un personaggio di troppo nella storia – già popolata di un gran numero di figure piuttosto chiassose – e ritornando solo alla fine con un espediente fin troppo cliché per i miei gusti.

Discorso quasi analogo per Margaret Court.

Altra

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Margaret Court è un personaggio di passaggio.

Il suo essere fuori posto nel nuovo torneo femminista appare chiaro fin da subito, per il suo essere accompagnata dalla famiglia di cui evidentemente non può fare a meno, di cui evidentemente tiene il timone con decisione, facendosi facilmente seguire dal marito.

Tuttavia, al contempo il suo personaggio rappresenta un simbolo molto importante nella rivoluzione sessuale: la dimostrazione che anche le donne possono essere delle grandi atlete rinomate e capaci di vincere importanti premi nei circuiti maggiori…

…anche se basta poco perché tutto si sgonfi.

Esasperazione

Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Bobby Riggs è l’esasperazione di un pensiero estremamente reale.

Mentre le donne cercano in modi diversi di affermarsi e di conquistare il loro spazio di libertà in un mondo estremamente maschile, lo stesso tentava in maniera più o meno aggressiva di rimetterle al loro posto, troppo spaventato da questo cambiamento così sconvolgente.

Tuttavia, molto spesso si tratta di discorsi che si perdono nelle loro contraddizioni, facendosi forti di un pensiero comune che aveva definito la società fino a quel momento – le donne sono troppo emotive, devono ritornare in cucina dove è il loro posto…

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

…e a cui bastava un personaggio esuberante e quasi ridicolo nel suo sessismo esasperato per riuscire a mettere un punto alla questione: le atlete non possono in nessun caso essere considerare alla pari dei loro colleghi uomini, qualunque sia la loro bravura. 

E per cui bastava, fra l’altro, l’insignificante vittoria di Bobby Riggs su Margaret Court per sentirsi ancora più legittimati a portare avanti quel pensiero così discriminante che le femministe stavano cercando di scardinare.

Per questo Billie deve intervenire.

Campo

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Billie inizialmente non vuole partecipare al circo di Bobby.

Inizialmente infatti vive la sua sfida come solamente una ridicola provocazione, che cerca appunto di ridurre ad una sola partita un concetto sociale e politico ben più ampio ed importante – forse essendo pure impaurita dall’idea di non riuscire a batterlo…

…e, così, di farlo vincere due volte. 

Ma sono i commenti post-partita a farla scendere in campo.

Osservando la vittoria di Bobby, Billie infatti non è tanto indispettita dalla sconfitta di Margaret, ma piuttosto dal valore che viene dato alla stessa, come scusa per perpetrare quel sessismo ingiustificato che lei per prima ha scelto di combattere.

E allora tocca alla protagonista far cambiare idea al pubblico.

Dualità

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Il finale de La battaglia dei sessi è agrodolce.

Da una parte la partita è resa in maniera puntuale e azzeccata: pur subendo qualche punto di troppo all’inizio, Billie si dimostra fino alla fine una campionessa dai nervi di ferro e anche piuttosto pugnace, capace di sconfiggere Bobby colpo dopo colpo.

Così il suo finale, dove viene incoronata vincitrice, dove finalmente il pubblico femminile sente di aver assistito ad un passo avanti fondamentale per la propria indipendenza, è estremamente soddisfacente, e segna una buona chiusura della vicenda.

D’altra parte, assistiamo al progressivo spegnersi di Bobby e dei suoi sostenitori, che gradualmente si rendono conto che non solo il loro beniamino sta venendo terribilmente sconfitto, ma che il mondo a cui si sentivano così legati ha subito il suo primo, importante scossone.

Tuttavia, nelle retrovie, nello spogliatoio dove Bobby è andato a rifugiarsi, il suo personaggio trova l’unico riscatto che per lui veramente contava: il riconquistare la moglie e rimettere insieme un matrimonio su cui, evidentemente, non aveva mai avuto il controllo.

Quindi alla fine…ha vinto lo sport?

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Challengers – Un virtuosismo vuoto

Challengers (2024) è un film sportivo con protagonista Zendaya per la regia di Luca Guadagnino.

Il film è stato un pesante insuccesso commerciale: a fronte di un budget medio di 55 milioni di dollari, ha incassato appena 94 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Challengers?

Patrick e Art sono due amici fraterni e giocatori di tennis molto promettenti. Ma una donna diventerà la loro pietra della discordia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Challengers?

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Sì, ma…

Mi rendo conto di essermi approcciata a questa pellicola con uno sguardo piuttosto critico e spietato, dovuto alle lodi sperticate che avevo sentito, che mi hanno portato a giudicare la pellicola e le sue mancanze con una maggiore severità.

Tuttavia, se lo approcerete con atteggiamento più tranquillo, pronti a farvi stupire dal grande esercizio di stile di Guadagnino (e solo quello, nella maggior parte dei casi) probabilmente rimarrete profondamente coinvolti da una vicenda sportiva che in realtà si definisce da un sottofondo erotico piuttosto incalzante.

Insomma, dipende da voi.

Esplicito

Zendaya e Mike Faist in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Nell’incipit di Challengers, la relazione fra Art e Tashi mi aveva molto convinto.

Pur non godendo di una regia particolarmente emozionante, le prime sequenze a loro dedicate lavorano molto bene di sottrazione, raccontando come il loro rapporto si sia infine andato a fossilizzare esclusivamente nella dicotomia atleta/allenatrice.

In particolare, tutta la dinamica affettiva è esclusivamente ricercata da Art, che cerca di guidare il loro rapporto altrove, ma che viene subito rimesso in riga dalla moglie, che lo mette davanti ad un aut aut: continuare a giocare, o diventare un ricco nullafacente che lei non potrà mai apprezzare.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

E qui Challengers ha il suo primo inciampo.

In quello scambio Ti amo / Lo so – più o meno consapevolmente memore di Episodio V (1980) – si nota un incomprensibile bisogno di Guadagnino di esplicitare una dinamica già perfettamente chiara, già perfettamente raccontata dalla suddetta messinscena.

Sembra una piccolezza, ma a mio parere è solo il primo indizio di un film mancante di un’idea chiara, non sempre sicuro di quello che vuole raccontare e non sempre sicuro di come lo vuole raccontare – dinamica che si nota particolarmente, come vedremo, nella regia stessa.

Origine

Zendayain una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Tralasciando il fatto che personalmente avrei preferito che il ritorno al passato fosse stato meglio preparato, anche in questo caso l’origine del rapporto fra Tashi e i due protagonisti mi ha convinto molto in certi momenti, molto di meno in altri.

Il primo approccio con Tashi assume un significato ulteriore con il procedere della vicenda, ma tutta la dinamica dei due protagonisti che rimangono letteralmente a bocca aperta davanti all’apparizione della ragazza, e che poi cercano letteralmente di inseguirla, l’ho trovata eccessivamente patetica.

Josh O'Connor e Mike Faist in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Quantomeno, nel differente approccio dei personaggi, la scrittura torna a lavorare di sottrazione, affidando alle stesse battute dei protagonisti il compito di definire le loro diverse indoli: come Patrick ha evidentemente un approccio unicamente sessuale…

…al contrario Art fin da subito – e paradossalmente, visto il suo futuro con lei – è interessato a lei solo come campionessa, e per questo cerca di far virare la conversazione sul tennis, pur sentendosi comunque scalzato da un Patrick che cerca continuamente di depotenziarlo sessualmente.

Ma non sono loro il problema.

Controllo

Zendaya, Mike Faist e Josh O'Connor in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Tashi cerca solo il controllo.

Il controllo anzitutto sulla sua vita e sulla sua carriera, non lasciandosi travolgere dai primi successi che la incoronano già come la prossima promessa del tennis, ma volendo tenersi un piano B dal punto di vista accademico.

Così, fin dal primissimo incontro sessuale, Tashi ha il completo controllo della situazione, mettendosi sempre nella posizione di essere prima pronta a ricevere, per poi passare ad una posizione dominante – sopra a Patrick o, anche meglio, osservando i due ragazzi che mettono in scena la loro sessualità repressa.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

E in entrambi i casi Tashi è la grande protagonista della scena, grazie ad una Zendaya davvero magnetica, ma non particolarmente aiutata dalla regia, che mantiene perlopiù la camera fissa e lascia che siano i personaggi a parlare – e per questo, a mio parere, depotenziando la scena stessa.

Al contempo, Tashi ha il controllo perché in almeno due momenti interrompe il rapporto.

E proprio qui c’è il punto di svolta.

Interesse

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Il focus dell’interesse per Tashi è variabile.

Con Patrick sulle prime sembra che l’interesse sia solamente sessuale, tanto da respingere con forza le accuse di Art riguardo la mancanza di sentimenti romantici del suo fidanzato – dando per scontato che fosse quello che la ragazza stesse cercando.

Invece, con ogni evidenza, il connubio tennis – sesso è fondamentale per Tashi, tanto da respingere il suo partner sessuale quando lo stesso le viene negato, preferendo in ogni caso lo sport rispetto all’intrattenimento sessuale – che, senza l’elemento agonistico, perde per lei totalmente di significato.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Per questo, l’incidente è quasi un’epifania.

Tralasciando il modo in cui è messo in scena – che ho trovato al limite del trash – la presenza di Art in quel momento, e l’assenza invece di Patrick è fondamentale per Tashi per realizzare quale sarà il centro delle due relazioni: con Patrick solo il sesso, con Art solo il tennis.

Per questo è così drammatico nel presente il desiderio di Art, ormai marito di Tashi, di abbandonare la carriera sportiva, avendo già da tempo spostato la sua attenzione altrove, ovvero sul piano affettivo e familiare, in cui il sesso non esiste e in cui la moglie appare più come una madre che una compagna.

E a questo punto va aperta una parentesi fondamentale.

Represso

Josh O'Connor in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Challengers, più che essere saturo di metafore sessuali, è colmo di simboli fallici.

Di fatto, Art e Patrick sono in una continua competizione sessuale, e per questo si mettono continuamente in mostra, mangiando cibi dalle forme eloquenti e sfoggiando in maniera esagerata i loro fisici statuari o con le loro enormi racchette. 

Di fatto la conquista di Tashi diventa per molti versi una sfida di potere, per decretare chi è il maschio più possente e più meritevole delle attenzioni sessuali della ragazza, che però rimane sostanzialmente esterna, più un’osservatrice che parte effettivamente attiva della vicenda.

E questo perché Tashi, come noi spettatori, ha notato l’omosessualità repressa dei due personaggi.

Infatti, tutte le dinamiche di potere dei due protagonisti possono facilmente essere ribaltate nell’ottica di un corteggiamento quasi inconsapevole fra i due – che, fra l’altro, avrebbe avuto una vita molto più soddisfacente se avessero messo da parte Tashi e si fossero concentrati sul loro rapporto.

Una dinamica che appare in maniera eclatante in occasione del loro primo rapporto con la ragazza: consapevole di essere il desiderio sessuale di entrambi, Tashi li spinge invece a mettere a nudo le loro vere pulsioni, per poi osservare compiaciuta quella che potrebbe essere la vera soluzione alla loro conflittualità…

Orgasmo

La chiusura di Challengers è quella che mi ha lasciato più dubbi.

Da una parte, ho trovato del tutto confusionario il rapporto fra Tashi e Patrick: sembra come se la ragazza si stia prostituendo – esattamente quello che criticava al suo partner – per ottenere la vittoria del marito nella sfida finale – e, di conseguenza, la sua serenità mentale.

D’altra parte, mi ha personalmente urtato questo utilizzo così poco consapevole di scelte registiche estremamente intraprendenti – come la soggettiva della pallina – che si perdono nel marasma di una messinscena invece molto più banale, non aggiungendo di fatto nulla alla scena a livello concettuale.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

D’altra parte, nel complesso ho apprezzato il finale.

L’ultimo atto della sfida fra Patrick e Art è il punto di arrivo del loro rapporto con Tashi: da una parte, finalmente i due accettano la natura sessuale del loro rapporto, impegnandosi davvero nella partita – e nel loro rapporto, finendo abbracciati…

…d’altra parte, riescono finalmente a garantire un effettivo orgasmo a Tashi, visibilmente eccitata davanti alla visione del vero tennis, del tennis come lei aveva sempre sognato – ma mai più concretizzato, per via dell’incidente – facendola esplodere in un sentito urlo di vittoria.

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Invictus – Il primo passo

Invictus (2009) di Clint Eastwood è un film sportivo e un racconto storico legato ai primi passi da Presidente del Sudafrica di Nelson Mandela.

A fronte di un budget medio – 60 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo commerciale: 122 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Invictus?

Da poco liberato di prigione e appena eletto Presidente, Mandela si trova a gestire una delicata situazione politica in maniera peculiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Invictus?

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

In generale, sì.

Anche se forse non è fra i film più incisivi della carriera di Eastwood, Invictus è un’opera comunque di valore, in cui l’elemento sportivo non è mai esasperato, ma mantenuto nei limiti della credibilità, reso di fatto strumento per approfondire il progetto di Mandela.

In questo senso il difetto forse più evidente è la questione razziale, appena accennata e risolta fin troppo velocemente, scegliendo di offrire uno scenario fin troppo ottimistico e consolatorio, soprattutto nelle sue battute finali.

Ma, nel complesso, da vedere.

Divisione

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

L’incipit di Invictus è estremamente simbolico.

Se da una parte troviamo un gruppo di ragazzini neri che si divertono a giocare, che salutano con gioia il passaggio di Mandela, dall’altra una squadra di atleti rigorosamente bianchi che invece accoglie il passaggio del futuro presidente con un sincero disappunto.

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

E, nel mezzo, appunto, Mandela.

Il suo passaggio fra queste due realtà è emblematico per anticipare il suo progetto futuro di unione e di riappacificazione fra due popoli fino a quel momento profondamente divisi – per legge e per cultura – e che finalmente hanno la possibilità di vivere da pari.

Eppure l’ostacolo sembra incolmabile.

Simbolo

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

I Springbok non sono una semplice squadra di rugby…

…ma, piuttosto, un simbolo.

Agli occhi dei nativi sudafricani, infatti, il team rappresenta tutto quello che c’era prima, il doloroso ricordo dell’apartheid: non una squadra che sia il simbolo di tutto il paese, ma solamente del potere dominante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Per questo, dovrebbe essere smantellato immediatamente, con anche un cambio di nome che rappresenti la trasformazione del paese stesso, e la nascita di una nuova realtà più inclusiva – anche se, forse, non davvero per tutti…

Ma Mandela non ci sta.

Vendetta

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Proprio per il suo valore simbolico, per Mandela smantellare la squadra sarebbe contro la sua politica.

Infatti, il nuovo presidente non vuole comportarsi come gli stessi invasori che gli hanno tolto la libertà e la voce, vendicandosi direttamente verso una squadra che li rappresenta, così da schiacciarli a sua volta.

Un’impresa virtuosa, anche se…

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Il clima politico di Invictus mi ha lasciato qualche perplessità: come anticipato, il discrimine razziale è appena accennato, si notano degli attriti non indifferenti, una divisione piuttosto netta fra due parti che si guardano con ostilità…

…ma forse manca una rappresentazione davvero credibile di quale era il clima di profondo odio, difficile da sradicare, che aveva portato alle leggi così dure e discriminanti dell’apartheid – una sostanziale continuazione della colonizzazione del paese.

Forse, per una scelta politica del regista?

Scoperta

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La scelta di Mandela è apparentemente incomprensibile.

In particolare, la scoperta della storia del presidente da parte di Francois è il filo portante della trama, portando Invictus ad avere un taglio molto più politico che sportivo – tanto che, come detto, il rugby è più che altro una continuazione del progetto di Mandale.

In particolare, la visita alla cella è determinante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La visione di quel piccolo spazio vitale, in cui Mandela non poteva neanche permettersi un vero letto dove stendersi, e la consapevolezza che comunque il suo presidente non ha mai voluto rivalersi sui suoi aguzzini, rappresenta l’epifania del protagonista.

Lo stesso sceglie proprio di chiudersi per un momento dentro la cella, e da quella rinascere come da un bozzolo per diventare l’esecutore materiale del sogno di Mandela, comprendendo finalmente il vero valore della vittoria del campionato per il suo paese.

Invincibile

Ancora di più, il progetto di Mandela è un’affermazione personale.

Proprio nello scegliere di non rivalersi sui suoi nemici, di non ribaltare la situazione politica a favore solamente della sua gente, il presidente si dimostra effettivamente come invincibile, inscalfibile dal clima vendicativo che lo circonda.

E questo proprio perché non è stato piegato dalla prigionia, ma è riuscito a portare abbastanza avanti il suo progetto tanto da potersi godere la visione della sua vera vittoria: un paese unito.

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Sick of myself – Il narcisismo distruttivo

Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli è una commedia nera norvegese.

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – ha incassato appena 1,1 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Sick of myself?

Signe e Thomas sono una coppia di egocentrici che si divorano a vicenda per un pugno di attenzioni. Ma la ragazza è disposta a molto di più…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Sick of myself?

Kristine Kujath Thorp (Signe) con il cane in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

In generale, sì.

Per quanto abbia molto apprezzato questa commedia nerissima, mi rendo anche conto che non sia un’opera per tutti: nonostante nel complesso le scene non siano fisicamente troppo disturbanti, a livello psicologico la pellicola può essere veramente devastante.

Ma se sguazzate in opere di questo tipo – come Triangle of sadness (2022) – probabilmente vi piacerà moltissimo: senza mai sbilanciarsi nei toni, Sick of myself dipinge un quadro devastante quanto irresistibile di una donna vittima del suo narcisismo distruttivo.

Insomma, ve lo consiglio.

Divorarsi

Kristine Kujath Thorp (Signe) e Anders Danielsen Lie (Thomas) in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

Il rapporto fra Signe e Thomas è definito immediatamente.

Il ragazzo si sente un grande artista che sta solo cercando un riconoscimento del tutto dovuto, divorato dal suo narcisismo, che lo porta costantemente a ridurre l’importanza di Signe con la sua presenza ingombrante – rappresentata dalle infinite sedie che affollano la casa.

Questa dinamica è ben raccontata da un episodio che non sembra più che una sciocchezza – il goliardico furto del vino dal ristorante – di cui Signe diventa complice solamente a patto che il racconto di questa impresa venga modellato a suo favore.

Invece, il fidanzato la sorprende togliendola bruscamente di scena.

Kristine Kujath Thorp (Signe) e Anders Danielsen Lie (Thomas) in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

E, proprio davanti al protagonismo di Thomas, la ragazza cerca di vendicarsi.

Durante un momento fondamentale per la carriera del suo fidanzato – la prestigiosa mostra – la protagonista sceglie di rubargli totalmente la scena, fingendo di avere un attacco allergico per attirare tutta l’attenzione su di sé, facendo proprio leva sull’empatia delle altre persone.

Ma il trigger è ancora più interessante.

Scenario

Kristine Kujath Thorp (Signe) coperta di sangue in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

Per quanto probabilmente Signe sia sempre stata una narcisista, vi è un momento fondamentale che la fa scattare.

L’ingresso improvviso della donna con il collo azzannato, che gronda sangue e che le si butta fra le braccia, permette alla protagonista di diventare l’eroina della situazione, soprattutto a posteriori, quando riscrive il suo ruolo come unica salvatrice davanti all’indifferenza generale.

Kristine Kujath Thorp (Signe) selfie in ospedale in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

In questa situazione una qualunque altra persona si sarebbe presto spogliata – fisicamente quanto mentalmente – di quel trauma, non volendo attirare inutile attenzione verso sé stessa – quantomeno lavandosi il viso dal sangue.

Invece, proprio questa occasione è lo spunto per Signe per continuare a tenere fissi tutti gli occhi su di sé – di Thomas quanto dei suoi amici – anche e soprattutto inventando un trauma più profondo – la possibilità che il sangue sia in parte suo – per diventare in tutto e per tutto una vittima.

Ma non basta.

Controllato

Kristine Kujath Thorp (Signe) in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

Signe desidera solo una tragedia controllata.

Per questo, diventata avida di nuove attenzioni, ingerisce una quantità spropositata del pericolosissimo farmaco russo, con il preciso intento di finire nello sfondo perfetto per la sua tragedia – l’ospedale – ma senza mettere eccessivamente a rischio la sua salute.

Infatti, tutti i sogni ad occhi aperti di Signe non comprendono mai un aggravarsi della sua malattia, ma piuttosto che la stessa diventi il punto di partenza per diventare sempre più importante e desiderata, sempre più al centro dell’attenzione di tutti – in particolare di Thomas.

Kristine Kujath Thorp (Signe) e Anders Danielsen Lie (Thomas) in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

Infatti, nel mirino delle sue fantasie vi è sempre una sorta di rivalsa, di mania del controllo.

Uno dei principali obbiettivi è anzitutto il padre assente, che in più di un’occasione Signe sogna che abbia quello che si merita: essere escluso dal funerale della sua stessa figlia quanto doversi scusare in diretta TV per essere stato un genitore inadeguato.

Ma il grande protagonista della rivalsa di Signe è Thomas: ormai incredibilmente dimentico del suo egocentrismo, il ragazzo nei sogni della sua fidanzata diventa finalmente un compagno premuroso e devoto, che anzi si prostra ai piedi di Signe per chiederle di diventare la sua musa.

Ingombrante

Anders Danielsen Lie (Thomas) in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

Anche se in maniera diversa, Thomas è egocentrico tanto quanto Signe.

La sua presenza è estremamente ingombrante, soprattutto nelle situazioni di difficoltà di Signe, che, pure se costruite ad arte dalla ragazza stessa, svelano ora una costante indifferenza – anche ricercata – nei confronti della sua fidanzata…

…ora un tentativo piuttosto disturbante di intrufolare il suo importante ego nei momenti che dovrebbero riguardare solamente Signe – come quanto porta la rivista con la sua intervista esclusiva mentre la ragazza è nel letto di ospedale.

Kristine Kujath Thorp (Signe) coperta di bende in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

Ma, ancora di più, l’ego di Thomas si manifesta quando Signe sembra avere successo.

Nei vari momenti delle interviste, il ragazzo è costantemente interessato a come la neo-acquisita notorietà della fidanzata possa mettere potenzialmente in ombra la sua, anche in maniera veramente assurda – l’improbabile collegamento fra lo sfondo della sua intervista con quella di Signe.

Eppure, paradossalmente, Thomas rimane infine il suo unico alleato: quando gli amici si permettono di non essere entusiasti della sua nuova carriera, il ragazzo li scaccia e si conferma così come unica persona su cui Signe può veramente contare.

Rifugio

Kristine Kujath Thorp (Signe) con la faccia attaccata al tavolo in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

Nella realtà, il successo non arriva mai.

In particolare, la sua scalata è ostacolata dagli effetti indesiderati dei farmaci, che Signe cerca di nascondere in maniera sempre più assurda, stressando il suo organismo al punto da crollare su sé stessa durante il suo momento di gloria – ancora una volta, creato ad arte.

Infine, Signe rimane sola.

Kristine Kujath Thorp (Signe) in una scena di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

Thomas viene arrestato, la casa si svuota, persino la sua amica giornalista non reagisce come Signe avrebbe sognato: non diventa sua alleata nel suo rilancio volto a raccontarsi nuovamente come la grande vittima della situazione, ma, al contrario, la abbandona definitivamente.

E, infine, cosa rimane?

Kristine Kujath Thorp (Signe) nella scena finale di Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli

L’ultimo rifugio di Signe è la stramba quanto deleteria comunità di cura olistica – che in prima battuta è forse persino la causa del suo decadimento fisico – in cui si era persino trovata in difficoltà davanti alle accuse di un’altra paziente sull’effettiva validità della sua presunta malattia.

Ma proprio queste parole di accusa sono infine riproposte per dare una maggiore importanza alla sua condizione, così da vivere potenzialmente per sempre immersa in questa oasi pacifica in cui può godersi la validazione che aveva sempre sognato.

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Inside out 2 – Posso essere una cattiva persona?

Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann è il sequel dell’omonimo film Pixar del 2015.

A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.

Candidature Oscar 2025 per Inside out 2 (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Inside out?

Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out 2?

Gioia e Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Assolutamente sì.

Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.

L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.

Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.

Stabilità

Riley in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.

Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.

Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.

In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.

E basta.

E proprio qui sta il punto.

Shock

Le emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Lo shock della pubertà sembra ingestibile.

Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…

Riley si sveglia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.

E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.

Emozioni

Arrivo di Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

La rappresentazione di Ansia è perfetta.

Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevrotico che prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.

Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.

Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.

Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.

Nuova

Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…

… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile

…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…

Ma non ci sono solo due Riley.

Consapevolezza

Gioia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.

Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.

Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

E per questo il finale è così importante.

Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabile per il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.

Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.

Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto del cocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.

E c’è ancora spazio per crescere.

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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

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I sogni segreti di Walter Mitty – Sognare con i piedi per terra

I sogni segreti di Walter Mitty (2013) è uno degli ultimi lavori da regista cinematografico di Ben Stiller – e anche uno dei più divisivi.

A fronte di un budget piuttosto importante – 90 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo: 188 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla I sogni segreti di Walter Mitty?

Walter Mitty è un impiegato di una rivista di fotogiornalismo, ed ha una particolarità: sognare costantemente ad occhi aperti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare I sogni segreti di Walter Mitty?

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati.

Dopo aver conquistato il pubblico prima con Zoolander (2001) e poi con Tropic Thunder (2008), I sogni segreti di Walter Mitty rappresentò la svolta di Ben Stiller come regista verso il genere drammatico – e questa idea potrebbe lasciarvi spiazzati.

Tuttavia, se accoglierete benevolente questa sua nuova narrativa, ne potrete rimanere facilmente incantati: Stiller gioca molto con il genere drammatico, riuscendo a portare in scena una storia apparentemente molto prevedibile, arricchendola invece con un taglio molto credibile e coi piedi per terra.

Insomma, da non perdere.

Sogno

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Mitty è un sognatore…

…in un mondo ostile.

Non riuscendo neanche a chiedere un appuntamento alla donna dei suoi sogni, trovandosi nel mezzo di un ridimensionamento totale dell’azienda per cui ha dato la vita, Mitty si trova bloccato in un drammatico limbo...

…che può sfuggire solo tramite il sogno.

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Un sogno che non rappresenta necessariamente una rivincita, ma più in generale uno scenario in cui, finalmente, il suo personaggio diventa estremamente attivo, in cui è finalmente il protagonista, l’eroe improbabile di una vita su cui, invece, non sembra di avere alcun controllo.

Eppure, nel mondo reale sembra destinato a rimanere solo sullo sfondo.

Sfondo

Ben Stiller e Adam Scott in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Mitty vive nelle retrovie.

Nonostante svolga un lavoro di primaria importanza, senza il quale la stessa rivista non sarebbe possibile, la sua figura è profondamente sottovalutata, considerata niente più che uno strumento per finalizzare la chiusura dell’azienda.

Anzi, Mitty è considerato proprio uno strambo, uno sfogo per i suoi colleghi quanto per Ted Hendricks, che lo deride a più riprese per il suo essere sempre sulle nuvole – al contempo, lasciandosi in più momenti gabbare da Mitty in maniera sempre più improbabile.

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Per questo, l’intervento di Sean è fondamentale per più motivi.

Anzitutto, perché permette a Mitty finalmente di relazionarsi faccia a faccia con Cheryl, intrecciando una relazione che, se nel suo sogno poteva sbocciare solo se il protagonista avesse assunto sembianze altre, in realtà riesce a concretizzarsi grazie al progressivo apprezzamento della donna per le doti nascoste di Mitty.

Allo stesso modo, il mistero della foto è la scusa per Mitty per – finalmente!partire per quell’avventura che finora aveva solamente sognato, che sembra costantemente metterlo alla prova, al contempo concretizzando delle fantasie che sulla carta parevano improbabili.

E proprio qui sta il gioco del film.

Sogno…

Per il primo atto, I sogni segreti di Walter Mitty ci abitua ad un’improvvisa escalation dei sogni del protagonista, che partono da situazioni in generale credibili, per poi andarsi a perdere in dinamiche sempre più improbabili – e proprie dei peggiori B-movie.

Proprio per questo, la sua partenza improvvisa alla caccia della foto impossibile sembra l’inizio di una di queste fantasie, anche per via dell’intrusione di elementi di familiarità che sembrano propri del sogno – la torta della madre, il ristorante dell’infanzia…

…ma anche di dinamiche spiccatamente fantasiose – come la serenata di Cheryl che convince Mitty a salire sull’aereo – che potrebbero persino fare credere allo spettatore di trovarsi in una sorta di fantasia nella fantasia di inceptioniana memoria – ma che invece si frantumano davanti agli innegabili elementi di realtà.

Infatti, proprio qui è la chiave di lettura fondamentale del film.

…e realtà

Ben Stillere Sean Penn in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

L’avventura di Mitty è costantemente riportata con i piedi per terra.

In questa apparentemente fantasia, vengono a più riprese inseriti elementi di disturbo, che suggeriscono sempre più insistentemente che l’avventura è (quasi) del tutto reale: così Mitty cade dalla bicicletta rubata, viene attaccato da uno squalo e sbaglia totalmente il salto dall’elicottero.

Si crea così un’indimenticabile alternanza di toni e di dinamiche, in cui progressivamente la fantasia di Mitty si spegne perché, in qualche modo, non più necessaria: l’avventura della vita reale, finalmente, diventa appagante e concreta.

E proprio in questa dinamica si trova una particolare finezza di scrittura.

Stiller sceglie consapevolmente di non caricare il film di momenti eclatanti, non volendo rendere i momenti chiave della pellicola smaccatamente a favore dell’emozione facile del pubblico, ma, al contrario, li vuole raccontare come altrettanto importanti e preziosi proprio grazie alla lezione fondamentale di Sean.

Sean Penn in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Una figura tanto eroica che racconta come l’emozione più raccolta, vissuta senza un filtro nel mezzo, sia ancora più folgorante…

…e che, più di tutti i suoi soggetti della sua incredibile carriera, il suo preferito è sempre stato questo piccolo e timido sognatore che viveva dietro le quinte, che si riscopre infine protagonista di una realtà che sembrava averlo lasciato indietro.

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Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Film sportivo La domenica cinematografica

Rush – Cosa sei disposto a perdere?

Rush (2013) di Ron Howard è un film a tema sportivo dedicato alla in(amicizia) fra due leggende della Formula 1: Niki Lauda e James Hunt.

A fronte di un budget medio per questo tipo di produzione – 38 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale: 95 milioni di dollari in tutto il mondo.

Cosa parla Rush?

Partendo come dei sostanziali sconosciuti di circuiti minori, James Hunt e Niki Lauda seguono strade diverse per raggiungere i campionati più importanti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rush?

Assolutamente sì.

Rush è considerato fra i più fulgidi esempi di film sportivo, fondamentalmente per due motivi: anzitutto la regia particolarmente indovinata, ben ritmata, che riesce a orchestrare una messinscena di ampio respiro e particolarmente coinvolgente…

…e, soprattutto, una morale di fondo per nulla banale, ma che permette di gettare una luce diversa sia sulla storia specifica dei due protagonisti, sia in generale sulla realtà tutta particolare delle corse in auto, in cui la gloria quanto la morte sono dietro l’angolo.

Origine

L’origine del mito è minuscola.

Infatti, i protagonisti nascono come stelle locali e prendono strade del tutto diverse per scalare il successo.

James Hunt è il più classico eroe americano, che basa il suo crescente successo semplicemente sul suo talento per la corsa, in prima battuta non volendosi sporcare col degli squallidi sponsor.

Al contrario, Niki Lauda parte sostanzialmente come un perdente, e si spiana la strada verso la Formula 1 nelle retrovie, facendosi forte delle sue capacità non tanto come pilota, ma piuttosto come ingegnere, capace di portare in pista la macchina destinata a vincere.

Eppure, la loro rivalità si basa sul nulla.

Soldi, soldi, soldi

La Formula 1 è, prima di tutto, soldi.

Per quanto James Hunt si lamenti dell’ingresso comprato del rivale nella Formula 1, in realtà ben presto si rende conto di quanto sia fondamentale avere alle spalle un patrimonio – e degli sponsor – capaci di assicurare effettivamente un posto in pista.

Per questo, nonostante i primi sfavillanti successi, questi non bastano per scalzare la posizione di assoluto primo piano di Lauda…

…dovuta anche alla fama più benigna che lo accompagna, mentre Hunt è perseguitato dalla nomea di bad boy che ha effettivamente molto successo con le donne, ma invece molto meno con gli investitori.

Ma non è finita.

Vittoria

La sete di vittoria di Hunt non ha limiti.

Vivendo la costante umiliazione di eterno secondo – persino quando dovrebbe essere al primo posto – in occasione della pericolosissima gara in Germania, Hunt si dimostra ancora più spericolato, ancora più sfrontato nel voler inseguire il successo.

E proprio per colpa di questa sua avventatezza, Lauda finisce vittima dell’incidente che segnerà la sua carriera in maniera davvero incisiva, rimanendo impotentemente confinato ad un letto di ospedale mentre guarda Hunt che gli sfila la vittoria di mano, impunito.

Ma il suo rientro in pista è forse più fondamentale per Hunt.

Colpa

Hunt sente il peso della colpa.

E la colpa è duplice.

Anche se non direttamente, Lauda libera apparentemente Hunt dalla sua colpa di averlo messo in pericolo per la sua sfacciataggine, ma lo carica di una responsabilità nuova: con le sue sfavillanti vittorie, James ha convinto il suo eterno rivale a tornare in pista troppo presto.

Tormentato da sentimenti contrastanti, Hunt diventa incredibile il difensore della dignità del suo nemico, andando a punire con la forza il giornalista che si è permesso di infangare la sua professionalità attaccandolo sul suo aspetto.

Allo stesso modo, Lauda sceglie di prendersi la sua colpa.

Calato in una situazione analoga a quella che ha portato al suo doloroso incidente, Lauda infine capisce che non vale la pena di correre questo ulteriore rischio, forse di rischiare la propria stessa vita, e si prende la responsabilità di scegliere di ritirarsi.

Ma, allora, cosa rimane?

Eredità

La regia di ampio respiro di Rush ci permette di calarci in prima persona nella gara e nei dettagli del dietro le quinte: Ron Howard sperimenta con una messinscena frammentata, costruita su piccoli momenti, dettagli, passando da diverse inquadrature…

…che non si focalizzano, come avrebbe fatto un regista meno ispirato, sulle soggettive dei piloti, ma ci portano anche in mezzo al pubblico, fra i meccanici, nei particolari delle mani che giocano sui comandi dell’auto.

Quindi la vittoria di James Hunt è anche un po’ nostra: un momento di riscatto per un personaggio che ha voluto, come spiega lo stesso Lauda, dimostrare al mondo il suo valore, di essere al pari del suo nemico-amico.

E, se più amaramente Lauda sprona l’altro a non appendere i guanti al chiodo, in realtà forse è proprio così che Hunt ha compreso la sua lezione: non spingersi più in là di quello che serve…

…e concludere la sua carriera (e vita) da campione.

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Inside out – Il diritto all’infelicità

Inside out (2015) di Pete Docter è uno dei film Pixar che negli anni sono più entrati nei cuori degli spettatori.

Non a caso, alla sua uscita, con un budget di 175 milioni di dollari, incassò quasi 900 milioni in tutti il mondo.

Di cosa parla Inside out?

Riley è una ragazzina di 11 anni con una vita molto felice. Eppure qualcosa di strano sta succedendo nella sua testa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out?

Gioia, Tristezza, Disgusto e Rabbia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Assolutamente sì.

Inside out è uno dei migliori prodotti Pixar usciti dopo la piccola parentesi di produzioni meno indovinate fra il 2011 e il 2013, tornando ai grandi fasti dei primi, indimenticabili film, portando in scena un piccolo cult molto popolare ancora oggi.

E, soprattutto, la pellicola riesce nell’equilibrare la narrazione per renderla accessibile ad un pubblico infantile – in particolare, con i vari accenni comici – ma ampliando la platea per raccontare una storia incredibilmente trasversale.

Origine

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

All’inizio c’era solo Gioia.

Il suo personaggio rappresenta l’emozione dominante fin dall’inizio della storia, che combatte e tiene a bada gli altri sentimenti, che appaiono per lo più negativi ed incontrollabili – e che, per questo, necessitano di una guida che sappia mettere un freno ai loro slanci.

In particolare, Tristezza viene costantemente messa da parte, considerata un’influenza unicamente negativa che deve il più possibile essere tenuta fuori dal bilancio giornaliero di Riley e dalla sua vita idilliaca.

Eppure, proprio qui sta il problema.

La ragazzina ha una personalità piacevole e frizzante, derivata dai suoi Ricordi Base,  esclusivamente gioiosi, e non ha sostanzialmente nulla di cui lamentarsi: una famiglia accogliente e supportiva, amicizie fraterne e solide, una vita sostanzialmente felice…

…che in un attimo viene stravolta da un brusco cambio di scenario, in cui Riley tenta con tutte le sue forze di vedere il lato positivo, ma che, fra il dormire in una stanza spoglia, la pizza con gli odiati broccoli e l’ansia per la nuova scuola, sembra davvero impossibile.

Ma Riley è costretta ad essere felice.

Deriva

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Quando Gioia sembra ormai costretta a farsi da parte in una giornata disastrosa, la madre interviene in un modo apparentemente molto positivo, in realtà assolutamente disastroso per il benessere emotivo della protagonista:

si congratula con lei per riuscire ad essere felice, nonostante tutto.

Così Riley si trova sostanzialmente costretta a nascondere le sue vere e complesse emozioni, e, appena messa al centro dell’attenzione con una delle sue più grandi paure – essere chiamata dalla maestra – crolla totalmente su sé stessa.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, anche se Tristezza è stata programmaticamente messa da parte, non riesce a trattenersi dall’intrufolarsi in questa delicata situazione, andando ad inquinare quei ricordi felici che hanno definito la personalità di Riley fino a questo momento…

…e a creare così un ricordo fondamentale del tutto infelice.

Ma questo è solo l’inizio di una grande e fondamentale avventura.

Percorso

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Il viaggio di Tristezza e Gioia funziona in due direzioni.

Da una parte, mostra l’intricato quanto spesso divertente dietro le quinte della testa di Riley, che ricorda in qualche modo i fasti di Esplorando il corpo umano (1987 – 88) in cui la mente della protagonista è una piccola fabbrica con le sue diverse sezioni e regole.

Dall’altra, racconta ancora più esplicitamente il rapporto fra le due emozioni, in condizione di totale antagonismo, dovuto anche ad una sostanziale superficialità di Gioia, che ha sempre considerato in maniera esclusivamente negativa Tristezza.

E proprio per questa non la ascolta.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, Gioia si intestardisce verso una conclusione dell’avventura semplice e positiva, non riuscendo ad accettare il crollare progressivo dei capisaldi della personalità di Riley – in particolare, la famiglia – e rimanendo sostanzialmente indifferente ai consigli di Tristezza.

Una tendenza che si nota molto chiaramente quando, nonostante gli avvertimenti della sua compagna di viaggio, Gioia sceglie di seguire Bing Bong nella sua disastrosa scorciatoia, e così anche quando si intestardisce che l’unico modo per svegliare Riley sia con immagini gioiose e assurde, invece che con la più semplice paura.

In senso più generale, Gioia non capisce l’oblio.

Oblio

Gioia, Tristezza, e Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La memoria è fondamentale quanto l’oblio.

Vivendo in un momento di passaggio, è del tutto normale per Riley dimenticarsi di alcuni ricordi inutili – come nozioni puramente scolastiche – o lasciarsi alle spalle elementi fin troppo legati alla sfera infantile – come il castello delle principesse…

…o lo stesso Bing Bong.

Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

L’amico immaginario di Riley è privilegiato da Gioia perché legato ad una fase della vita della ragazzina più semplice ed immediata, definita da emozioni chiare e divise a compartimenti stagni.

E, soprattutto, Bing Bong è legato ad emozioni del tutto positive.

E proprio Bing Bong è una delle vittime dell’autodistruzione disastrosa – quando necessaria – dei capisaldi della sua personalità di Riley, ormai in balia di istinti immediati ed emozioni esplosive ed incontrollabili.

Insomma, per Riley è ora di crescere.

Crescere

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La crescita è equilibrio e varietà.

Possiamo notare che la mente della madre di Riley l’emozione di punta sia la Tristezza, nonostante la donna si dimostri in più momenti propositiva ed accogliente, per nulla quindi dominata da un unico sentimento, ma capace di mantenere solido un equilibrio emotivo fondamentale per l’essere adulti.

Proprio per questo Gioia, che in un primo momento aveva cercato di mettere da parte Tristezza, capisce come questo sentimento sia in realtà presente anche nei momenti che pensava fossero esclusivamente felici, e come sia anzi necessario per plasmare la personalità della protagonista.

Per questo infine Riley si sente rinata, torna dalla sua famiglia e accetta finalmente che i suoi ricordi positivi le trasmettano invece una forte malinconia, capendo al contempo come gli stessi possano essere anche l’occasione per ripartire come una persona diversa e più consapevole.

Così la sua mente è ora aperta a nuove reazioni ed emozioni, a ricordi non più definiti da un unico sentimento, ma resi significativi perché nati dall’unione di più di questi, sia positivi che negativi, per definire una nuova, variegata personalità.

E ora manca solo la pubertà.

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2024 Avventura Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Giallo Grottesco Humor Nero La musa Nuove Uscite Film Surreale Yorgos Lanthimos

Kinds of Kindness – Le maschere della dipendenza

Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).

Di cosa parla Kinds of Kindness?

Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?

Assolutamente sì.

Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.

Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).

Insomma, arrivare preparati.