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The Terminal – Un semplice buonismo

The Terminal (2004) di Steven Spielberg rappresenta uno dei titoli più noti della prolifica carriera di Tom Hanks, che aveva già lavorato con il regista statunitense pochi anni prima con Salvate il soldato Ryan (1998).

A fronte di un budget abbastanza importante per il tipo di film – 60 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con quasi 220 milioni di incasso.

Di cosa parla The Terminal?

Viktor Navorski è appena arrivato a New York senza saper parlare quasi una parola di inglese. Le cose si complicheranno quando la sua patria cesserà di “esistere”…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Terminal?

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Nel complesso The Terminal è un film molto piacevole ed intrattenente, che anzi per certi versi affronta temi non semplici da trattare – immigrazione, persecuzione politica, barriere linguistiche – pur qualche semplificazione e ingenuità.

Tuttavia, a mio parere la pellicola si perde leggermente nella sua seconda parte, quando tende a scadere in un buonismo in realtà piuttosto tipico della filmografia di Spielberg di questo periodo, rendendo nel complesso la storia fin troppo semplice e sentimentale nelle sue risoluzioni.

Realizzazione

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Prima di farci immergere nella trama, The Terminal dedica qualche minuto iniziale per raccontare la realtà in cui la stessa si muove.

Non un semplice aeroporto, ma una delle più importanti porte d’accesso agli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre, evento che ha cambiato per sempre la burocrazia e i controlli di sicurezza – come raccontato anche nel precedente Minority Report (2002).

Curiosamente all’inizio la pellicola privilegia un taglio comico, giocando sulle difficoltà della barriera linguistica del protagonista, che sembra totalmente inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Per questo la realizzazione è ancora più sofferta.

Quasi per caso, Viktor si trova davanti agli occhi la scoperta della distruzione della sua patria, e comincia così un tragico inseguimento di quelle immagini così poco chiare, eppure così rivelatorie riguardo la sua nuova condizione.

E così anche il suo tentativo di sfuggire da quella gabbia burocratica è del tutto inutile per un uomo senza patria, un individuo solo nel mezzo di una folla, intrappolato in un incomprensibile cul-de-sac.

Inventiva

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

La bellezza del personaggio di Viktor è la sua inventiva.

Sulle prime il protagonista infatti se la cava praticamente senza alcun aiuto esterno, prima imparando a masticare l’inglese grazie all’ingegnoso utilizzo di due versioni diverse dello stesso libro, poi con il trucco dei carrelli.

E, nonostante i diversi ostacoli lungo la strada, diventa un personaggio chiave per la vita di molti personaggi, riuscendo sia a farsi benvolere dalla classe lavoratrice, sia a sopravvivere all’ambiente ostile dell’aeroporto.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Questo aspetto diventa forse leggermente eccessivo nella seconda parte, quando il protagonista si improvvisa muratore, nonostante a mio parere la sequenza si salvi per la piacevole comicità che la pervade.

Secondo lo stesso ragionamento, mi ha convinto a tratti il rapporto con gli altri personaggi dell’aeroporto: se sulle prime, ad esempio, il favore di Viktor nei confronti di Enrique è una situazione piacevole e divertente, diventa francamente melenso quando, dopo solo pochi mesi, il personaggio si sposa con Dolores.

Diverso il discorso per il rapporto con Frank Dixon.

Nemico

Il personaggio di Stanley Tucci mi intriga e mi confonde allo stesso tempo.

Se infatti Frank Dixon è indubbiamente un personaggio negativo, superficiale e tirannico, che cerca in ogni modo di rimuovere una figura così intrusiva e ingestibile come Viktor dal suo prezioso aeroporto, anche con trucchi veramente meschini…

…allo stesso modo non mi è chiaro cosa Spielberg volesse raccontare, in quanto sarebbe forse troppo idealistico pensare che questo personaggio sia una rappresentazione piuttosto negativa dell’atteggiamento tutto statunitense nei confronti delle minoranze, specificatamente degli immigrati…

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Tuttavia, il suo contrasto con il protagonista è l’elemento più funzionante della pellicola.

Nonostante infatti Frank cerchi costantemente di domarlo, Viktor rimane fino all’ultimo un personaggio per lui di fatto incomprensibile, nonostante sia guidato da sentimenti umanitari e patriottici molto semplici ed immediati.

Mi ha particolarmente colpito la scena in cui il capo della sicurezza cerca di convincere il protagonista di non voler ritornare in patria, proprio per le condizioni terribili in cui questa versa, rimanendo sbigottito davanti all’istintiva fedeltà che Viktor dimostra verso il suo paese:

Is home. I am not afraid from my home.

È casa mia, non ho paura.
Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Ma il momento più emozionante è indubbiamente quando il protagonista diventa definitivamente paladino degli ultimi, nella scena in cui riesce a sfruttare la barriera linguistica per salvare un uomo che sta solo cercando di portare le medicine al padre malato.

La situazione si aggrava quando infine Viktor può tornare a casa, ma sceglie di non farlo per portare a termine la missione lasciatagli dal padre, quando finalmente le sue benevole azioni passate gli vengono in aiuto nella forma del supporto collettivo degli altri personaggi.

E proprio qui sta il punto.

Buonismo

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

L’unico elemento che veramente non mi ha convinto della pellicola è il suo buonismo, nello specifico nella seconda parte.

Era evidentemente necessario offrire allo spettatore un collegamento emotivo semplice ed immediato con il protagonista, così da portare ad un finale emozionante e coinvolgente, in cui Viktor riesce finalmente a dare valore all’eredità del padre.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

E se su questo elemento nel complesso posso dirmi soddisfatta, meno mi ha convinto la relazione con Amelia, sulle prime veramente piacevole, alla lunga invece eccessivamente smaccata, con anche una conclusione troncata un po’ anti-climatica.

Per certi versi lo stesso discorso si può applicare alla vicenda di Gupta Rajan, che sceglie infine di sacrificare la propria libertà personale per permettere al protagonista di realizzare il suo sogno, che però è obiettivamente meno importante…

Un semplicismo, insomma, che infine non mi ha lasciato un buon sapore in bocca…

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Il potere del cane – Storia di un uomo fragile

Il potere del cane (2021) di Jane Campion è stato uno dei protagonisti della stagione degli Oscar 2022, pur venendo sistematicamente derubato proprio in quell’occasione…

Il film ha ricevuto una distribuzione limitata nelle sale, con un incasso stimato di circa 270 mila dollari, per poi essere rilasciato direttamente su Netflix.

Di cosa parla Il potere del cane?

1925, Stati Uniti. Rose è disperata dopo la perdita del marito, dovendo gestire da sola un ristorante e con un figlio da crescere. Ma una novità sta per bussare alla sua porta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il potere del cane?

Assolutamente sì.

Purtroppo sono estremamente di parte, perché Il potere del cane è uno dei miei film preferiti in assoluto.

Jane Champion confeziona un’opera di una rara eleganza registica e di scrittura, intrecciando una trama enigmatica e complessa, eppure chiarissima da leggere una volta compresi i simboli principali interni alla narrazione.

Una riflessione ambientata in un passato molto oscuro e lontano, ma nondimeno estremamente vicino al presente per molte delle sue dinamiche, in una pellicola che, pur in maniera diversa, presenta una riflessione sulla fragilità del maschile simile a Men (2022).

Insomma, da non perdere.

Opposto

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Il primo atto è tanto oscuro quanto diretto.

Si definiscono immediatamente gli opposti – Phil e Peter – nonostante inizialmente il giovanissimo figlio di Rose appaia come personaggio di contorno: il ragazzo sulle prime sembra delicato, fragile, proprio come i fiori di carta che usa per decorare la tavola.

Tuttavia, nonostante Phil cerchi immediatamente di derubricare i suddetti fiori all’identità del personaggio – un maschile femmineo e, per questo, deplorevole – in realtà gli stessi raccontano i tentativi di cura di Peter nei confronti della madre, proprio cercando di abbellire quel mondo sporco e selvaggio in cui sono costretti a vivere.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma proprio nei fiori Phil ricerca la sua definizione.

Il suo atteggiamento al riguardo rappresenta il rapporto del personaggio con quello che considera debole – e, spesso, anche femminile: Phil si impadronisce dei fiori, passa il dito all’interno del bocciolo come se fosse una vagina e, infine, li distrugge.

Parallelamente l’uomo addita insistentemente il vero autore del centrotavola, proprio per delineare la fondamentale distanza fra i due: da una parte l’uomo forte e selvaggio – Phil – dall’altra il ragazzino effeminato e fragile – Peter.

Fragile

Benedict Cumberbatch e Jessi Plemons in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Il rapporto fra Phil e George si può leggere in due direzioni.

Phil si comporta col fratello in parte con lo stesso atteggiamento che aveva nei confronti di Peter: cerca continuamente di sminuirlo – soprattutto all’inizio lo chiama sempre fatso, grassone – ma, al contempo, anche di avvicinarlo a lui.

Innumerevoli sono infatti i tentativi di riportare la memoria – e il presente – ad un’epoca più felice, più semplice, con dei ruoli di genere molto chiari e stringenti – particolarmente spicca la battuta riguardo alla donna che non si poteva scopare se non aveva un sacchetto in testa.

Jessie Plemons in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma George non ci sta.

Il più delle volte risponde al fratello e alle sue provocazioni con un disinteressato silenzio, scegliendo piuttosto di parlargli per condurlo verso un mondo più civile e contemporaneo, con un atteggiamento piuttosto sereno, ma nondimeno ammonitore.

Anzi, George in più momenti cerca proprio apertamente di insidiare il comportamento distruttivo del fratello: proprio in quest’occasione, Phil dimostra tutta la sua fragilità, particolarmente quando non riesce poi ad essere così gradasso quando il fratello lo ammonisce, dicendogli che ha fatto piangere Rose.

Tramonto

In generale, Phil rappresenta evidentemente un mondo ormai sulla via del tramonto: il mondo dei cowboy, dell’avventura, della vita semplice e materiale, in cui la definizione del vero maschile era incredibilmente semplice ed immediata.

E infatti il suo modo di vestire è l’ultimo baluardo di quell’età d’oro perduta: il suo personaggio predilige un abbigliamento pratico, che non si orna che di pochi vezzi, la cui usura e sporcizia sottolineano ancora di più il suo lato più selvaggio e indomabile – o presunto tale.

Jessie Plemons e Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Al contrario George, pur andando a cavallo e lavorando all’interno di un contesto rurale, sceglie un abbigliamento molto più elegante e borghese, più urbano, in un contesto storico in cui la modernità rampante stava sempre più strozzando il sogno del far west.

E proprio per questo sceglie di accogliere in questo mondo anche Rose, nella quale trova un’affinità di spirito, mostrandogli un’inedita gentilezza e cura, scegliendo fra l’altro di agire alle spalle del fratello, sfuggendo al suo insostenibile giudizio.

Integrazione

Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma Rose non ha la stessa forza d’animo.

La donna viene insidiata da più parti: anzitutto da Phil, che la disprezza apertamente, che la chiama cheap schemer squallida calcolatrice – e che respinge i suoi tentativi di avvicinamento, di fatto bullizzandola.

L’uomo trova infatti in questa donna così fragile la preda perfetta della sua meschinità, da cui la vedova è incapace di difendersi, in particolare nella splendida scena del pianoforte, in cui subdolamente Phil risponde alle sue note incerte con la sicura melodia del suo banjo.

Jessi Plemons e Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma, al contempo, Rose non riesce neanche ad integrarsi nel mondo del marito.

Nonostante infatti George cerchi più volte di spingerla – in maniera a tratti quasi assillante – a mostrare il meglio di sé e a diventare la moglie perfetta, Rose respinge più volte e timidamente questi tentativi, particolarmente con la già citata dinamica del pianoforte.

Al punto che, alla cena col governatore e i suoceri, nonostante sia stata tirata a lucido, appare fuori posto sia nel momento in cui servono i drink – rimanendo con in mano il vassoio come una squallida cameriera – sia quando è così insicura da non riuscire a suonare alcunché.

Apparenza

Quando Peter arriva al ranch, sembra essere la nuova preda di Phil.

In realtà fin da subito intravediamo le prime crepe in quell’apparenza del giovane introverso e fragile, in particolare per la dinamica del coniglio: sulle prime sembra che Peter lo catturi per voler far divertire la madre…

…in realtà bastano poche scene per mostrare come il vero interesse del ragazzo per quell’animale fosse di studiarne le interiora, capire cosa nasconde veramente dentro di sé, fra l’altro in maniera brutalmente asettica.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

E, proprio come il coniglio, Peter osserva Phil.

Infatti, nella sua apparente timidezza, il giovane nasconde in realtà la sua vera natura da osservatore e macchinatore: assiste prima con amarezza alla condizione ormai delirante della madre, per poi intrufolarsi nel cuore di Phil.

Così scopre le riviste pornografiche omosessuali che l’uomo nasconde, scopre il suo rifugio segreto dove veramente il personaggio si mette a nudo, l’unico luogo dove veramente può ripensare al suo rapporto indubbiamente sessuale col compianto Bronco Henry.

Questa rivelazione sembra così alterare gli equilibri.

Corda

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Per la definizione del rapporto fra Phil e Peter, la corda è l’elemento chiave.

La cima sulle prime rappresenta la minaccia subdola nei confronti del ragazzo: nel loro enigmatico dialogo, Phil sembra giocare con la sua preda, senza attaccarla direttamente, ma facendole intendere di star meditando il modo in cui eliminarla.

In realtà è lo stesso Peter che sta giocando con lui: dopo essersi reso protagonista di una piccola passerella per farsi vedere dal resto del gruppo nella sua apparente fragilità, il ragazzo si avvicina a Phil e comincia a compiacerlo in maniera particolarmente subdola.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Infatti, sulle prime gli mostra un rispetto artificioso e irreale, con un tipo di atteggiamento ossequioso del tutto estraneo ai modi rozzi di Phil, non cedendo subito alla richiesta di chiamarlo per nome, ma invece insistendo con questo cerimoniale il tanto che basta da fargli credere di essere totalmente ingenuo ed incapace.

Poi, al momento giusto, comincia invece a cedere ed accettare di chiamarlo Phil, riuscendo così a compiacerlo, facendogli credere di avergli insegnato qualcosa e di aver fatto un passo in più verso il suo mondo.

In questo senso, l’intreccio della corda rappresenta anche l’intreccio del rapporto.

Caccia

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Per comprendere il finale, sono due i momenti fondamentali.

Il primo è quando Phil e Peter vanno a fare una cavalcata insieme, e l’uomo lo coinvolge in questo gioco infantile e lugubre dello stanare il coniglio, quasi come se volesse metterlo alla prova.

Proprio in quell’occasione, Peter racconta tutto della sua personalità e delle sue intenzioni, senza che Phil se ne renda conto: prima afferra il coniglio e lo rassicura, poi, con un colpo secco, gli spezza il collo.

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Quel coniglio, con la zampa ferita, è esattamente la rappresentazione di Phil che si è ferito la mano, ma che è talmente rozzo e disattento da scegliere di non curarla adeguatamente, lasciando aperto il fianco all’attacco di Peter.

E così, nonostante il ragazzo gli dica anche esplicitamente di essere ben meno fragile di quanto sembri – sia per aver gestito da solo la morte del padre, sia ricordando le parole dello stesso genitore Phil continua superficialmente a non vedere.

Ruolo

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Peter sta ricreando il sogno di Phil.

Prima osserva attentamente l’atteggiamento dell’uomo, ne assorbe i racconti e i significati, e, soprattutto, capisce quello che nessun altro è riuscito prima a capire, a vedere: l’ombra feroce del cane sulle colline.

Un’ombra che può essere letta in due direzioni: il comportamento di Phil, che si nasconde dietro ad un’apparenza fragile e vorace, e il passato di Bronco Henry che l’uomo porta sempre con sé, ma con un significato che non vuole che nessun altro conosca.

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

E così, quando Peter riesce a vedere quell’ombra che era solo negli occhi di Phil, l’uomo diventa definitivamente la preda della sua macchinazione.

In questo senso, Peter opera per ricreare le condizioni del rapporto con Bronco, in cui prende il ruolo che un tempo era stato del giovane Phil – non a caso lo stesso gli dice che al tempo aveva la sua stessa età – mentre l’uomo diventa il compianto maestro.

Cacciatore

Da bravo cacciatore, Peter deve procurarsi un’arma.

Dall’osservazione di Phil, gli salta subito all’occhio come, nella sua disattenzione, si rifiuti di utilizzare i guanti quando tocca gli animali – si vede in particolare quando castra il toro a mani nude – una scelta particolarmente pericolosa con una profonda ferita sulla mano…

Così, dopo essersi informato sulla causa più comune della morte del bestiame – l’antrace, una malattia infettiva degli animali, che può essere anche trasmessa all’uomo – si avventura per ricercare le carcasse di uno dei bovini infetti.

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma un cacciatore deve soprattutto cogliere le occasioni.

In questo senso Rose finisce inconsapevolmente per offrire a suo figlio la chiave per la sua stessa salvezza, regalando le tanto amate pelli di Phil agli indiani, rendendo in questo modo l’uomo furioso ed isterico, e, per questo, ancora più manipolabile.

Così Peter si inserisce abilmente in questa situazione, prima ricercando il primo vero contatto fisico con Phil, poi proponendogli un’alternativa – le pelli che ha tagliato per lui – che sancisca il definitivo stringimento del loro rapporto.

Morte

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Negli ultimi momenti de Il potere del cane, la corda si arricchisce di significati.

Per Phil ormai la stessa non è più simbolo della morte di Peter, come era nelle sue intenzioni iniziali, ma piuttosto del suggello del loro rapporto, inevitabile nel momento in cui il ragazzo sembra rivelare i suoi veri sentimenti – voglio diventare come te.

Così segue una scena notturna, in cui probabilmente il loro rapporto finalmente si consuma sessualmente, con un Peter piuttosto lusinghiero e ammiccante, che distrarre Phil mentre lo stesso sta fabbricando il suo cappio.

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Infatti, una rapida inquadratura sulle mani di Phil immerse nell’acqua rivela come l’uomo stia armeggiando con delle pelli infette quando ancora la ferita della sua mano è aperta e addirittura perde sangue…

Così giorno seguente si apre con un Phil ormai totalmente sconfitto, preda della sua malattia, che veste per la prima volta abiti borghesi – gli stessi che indosserà nella sua bara – e che cerca disperatamente Peter per dargli la corda, simbolo del loro rapporto.

E così finalmente il nemico è stato sconfitto: Phil, il cane, è sottoterra, la corda è riposta sotto al letto, Rose potrà vivere una vita più serena ed integrarsi nella buona società, con un Peter che osserva felicemente dalla finestra della sua stanza la ritrovata felicità della madre.

Il potere del cane significato

Il titolo del film fa riferimento ad un passo dei Salmi:

Erue a framea animam meam et de manu canis unicam meam

Salmi, 22,20

La prima parte nella Vulgata Latina è piuttosto intuitiva: Sottrai Eruela mia animaanimam meam dalla spada a framea.

Più complessa invece la seconda parte, in particolare nel significato di unicam meam: letteralmente significa la mia unica, e può far riferimento sia all’anima – l’unica che ho – sia ad un affetto – l’unica donna, affetto, amore che ho.

Immediato invece il significato del passo fondamentale: de manu canis, ovvero dal potere mănŭs ha una marea di significati, da azione fino, appunto a potere e violenzadel cane.

Tuttavia, Jane Champion fa indubbiamente riferimento alla traduzione in inglese del passo – anche citata nel film – che prende una strada interpretativa ben precisa:

Deliver my soul from the sword; my darling from the power of the dog.

Salmi, 22,20

In questo senso quindi si intende che Peter vuole liberare my darling, ovvero la sua amata e cara madre dal potere del cane, che nella visione biblica rappresenta le pulsioni irrefrenabili dell’animo, proprie di un animale che al tempo era considerato sporco, caotico ed imprevedibile.

Quel cane è infatti proprio Phil stesso, che applica la sua forza, il suo potere prevaricatore su Rose per annientarla – e, senza l’intervento di Peter, ce l’avrebbe anche fatta – con il suo atteggiamento violento e caotico.

Ma, all’opposto, l’uomo viene sconfitto non tramite la stessa forza subdola che lui è solito applicare, ma piuttosto diventando vittima del sottile inganno psicologico di Peter, che lo rende sempre più debole e incapace di difendersi e che, infine, ne determina la morte.

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Poor Things – La femme sauvage

Poor Things (2023) rappresenta la seconda collaborazione dopo La Favorita (2018) fra Tony McNamara e Yorgos Lanthimos, regista greco ormai affermato nel panorama hollywoodiano.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 35 milioni di dollari – dopo un mese di programmazione negli Stati Uniti ha incassato appena 17 milioni…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Poor Things (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista
Miglior sceneggiatura non originale
Migliore attrice protagonista a Emma Stone
Migliore attore non protagonista a Mark Ruffalo
Miglior montaggio
Migliore fotografia
Migliore scenografia
Migliori costumi
Miglior colonna sonora
Miglior trucco e acconciatura

Di cosa parla Poor Things?

In una Londra vittoriana ucronica, Godwin Baxter è un chirurgo di grande fama, particolarmente avvezzo alla sperimentazione umana…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Poor Things?

Dipende.

Poor Things è un film incredibilmente ambizioso e squisitamente provocatorio, facilmente avvicinabile a Barbie (2023) per tematiche e dinamiche, pur con un taglio molto più maturo e sfacciato, soprattutto per l’importante presenza di nudi e di scene erotiche.

Per questo, non la considero una pellicola esattamente per tutti i palati.

In generale, il messaggio di fondo è ben raccontato, pur inciampando in certi momenti in un didascalismo quasi pedante – ma pur sempre ben contestualizzato – e in qualche sbavatura di eccessivo virtuosismo che non mi ha del tutto convinto.

Ma, se questi elementi non vi disturbano, lo potreste facilmente amare.

Nascita

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Poor Things è quasi del tutto sorretto dalla splendida recitazione vocale e corporea di Emma Stone.

Soprattutto nel primissimo atto era fondamentale rendere credibile il comportamento di Bella, una bambinona incapace di muoversi senza barcollare, con un vocabolario limitato a poche parole e un linguaggio sgrammaticato e stentato.

Particolarmente in questo senso efficace la messinscena dei suoi capricci, propri di un qualunque bambino che cerca costantemente di capire i propri limiti sociali, e che per questo si comporta in maniera quasi selvaggia pur di ottenere quello che vuole.

Willem Dafoe in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Ovvero, nel caso di Bella, la libertà.

Piccata e piuttosto graffiante la sua scoperta della sessualità – in un contesto in cui nessuno si è preoccupato di spiegargliela – fra l’altro rappresentata da un simbolo piuttosto eloquente e che ben si integra nella simbologia piuttosto intuitiva del Paradiso Terrestre prima della Caduta.

Non a caso Bella, novella Eva, si masturba per la prima volta con una mela, simbolo della Conoscenza, mentre sia il suo creatore – che lei chiama God, Dio – sia il futuro marito, Max – Adamo – cercano di limitarla e rinchiuderla all’interno di uno stringente regolamento sociale.

Scoperta

Il secondo atto è il momento della scoperta.

Del tutto ignara delle dinamiche sociali che le impedirebbero di vivere al di fuori del futuro matrimonio, Bella si sottrae all’eden di Godwin – che le concede benevolmente il libero arbitrio – e si lascia conquistare dalle tentazioni di Duncan, che le promette la tanto ricercata libertà.

In realtà, questo ingannevole casanova vorrebbe solamente approfittarsi di lei, usandola come la classica amante usa-e-getta, cercando fra l’altro fin da subito di porre un ulteriore controllo su di lei – piuttosto tipico per le figure femminili di oggi e di ieri.

Ovvero, il controllo sul cibo.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Non a caso, fra le prime esperienze che Bella si concede mentre vaga nella città, vi è il rimpinzarsi di quei dolci che Duncan gli aveva negato, finendo per utilizzare il suo amante solamente come strumento per esplorare e godere delle meraviglie dell’esperienza sessuale.

Ma al di sotto della maschera da bambina capricciosa, la protagonista è semplicemente una donna che si rifiuta sistematicamente di sottostare a qualunque tipo di norma sociale – nel sesso quanto nelle chiacchiere futili – desiderando solamente esplorare il mondo terreno ed erotico.

Per questo, Duncan cerca ancora di più di rinchiuderla.

Recinto

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Facendola entrare con l’inganno dentro ad un baule, Duncan cerca di riportare Bella in un recinto.

In realtà la crociera è il momento di maggiore esplorazione di Bella, che comincia anche il suo viaggio intellettuale, arrivando fino alla scoperta del lato più marcio di una società macchiata da un profondo e apparentemente insanabile classismo.

Tuttavia, in questa sequenza si trova anche uno dei pochi elementi che non mi hanno convinto nel film.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Per quanto evidentemente Poor Things voglia abbracciare un femminismo intersezionale e anticapitalista, fallisce nel portare una narrazione incisiva al riguardo, soprattutto considerando quanto spazio invece concede al tema dell’esplorazione sessuale.

La perdita dei soldi sembra infatti quasi un meccanismo della trama per passare all’atto successivo, ripreso solamente dai discorsi proto-socialisti in cui la protagonista si imbatte, ma che vengono affrontati in maniera molto superficiale e senza un adeguato approfondimento.

Identità

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Il penultimo atto è per certi versi quello più difettoso.

Il punto più interessante è rappresentato dalla varietà delle esperienze di Bella, che si sottrae ancora una volta alla dicotomia sociale che la vorrebbe incasellare solamente in un ruolo – o madre di famiglia o troia – scegliendo invece di utilizzare il suo corpo come fonte di guadagno – e senza alcuna vergogna.

Così il film ci mette davanti ad una delle sue più graffianti provocazioni.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Secondo Poor Things, se non vivessimo in una società così bigotta, la prostituzione – in questo caso ovviamente idealizzata – potrebbe essere lo strumento attraverso il quale le donne otterrebbero la propria libertà – sessuale e, soprattutto, economica.

Messaggio indubbiamente interessante – articolato anche nelle ulteriori rivendicazioni di Bella riguardo la scelta del partner – che però è stato forse eccessivamente diluito all’interno di un atto che a tratti sembra quasi un intermezzo non così essenziale all’economia narrativa…

Vendetta

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

L’ultimo atto è il momento della verità.

Bella si ricongiunge con la sua famiglia, soprattutto con i due goffi personaggi maschili – Godwin e Max – che si rivelano benevoli nei suoi confronti, riuscendo infine ad arrivare al matrimonio, ma finalmente con condizioni non opprimenti come quelle inizialmente pensate.

Questo momento di apparente ricongiunzione viene però interrotto dall’inizio dell’avventura definitiva della protagonista, che sceglie volontariamente di reimmergersi nel suo misterioso quanto doloroso passato, pur decisa di non farsi nuovamente sottomettere dallo stesso.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Infatti, il suo alter ego viveva il più classico dei drammi di una nobildonna dell’epoca.

Ovvero, essere intrappolata in matrimonio violento ed opprimente, con un marito crudele ed oppressivo, a cui si era trovata ancora più legata per via del parto imminente, riuscendo a salvare sé stessa solo tramite il suicidio.

La sua condizione – come quella di Bella – era ancora più aggravata dal peso della colpa che le veniva messa sulle spalle, legata prima e dopo alla sua sessualità, talmente esuberante da essere considerata sostanzialmente isterica e, per questo, da domare.

Tuttavia, lo scioglimento della vicenda sembra più che altro ideologico.

Morale

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Se fino a questo momento Bella era un personaggio sostanzialmente positivo, diventa incredibilmente grigio quando sceglie di sparare al marito ed infine di sottoporlo ad un trattamento simile a quello che lei stessa aveva subito, ma in maniera molto più crudele.

Anche se questo finale narrativamente parlando è del tutto coerente, rappresenta anche una scelta che, soprattutto nel contesto del finale in cui evidentemente il femminile è infine dominante, offre forse il fianco ad un tipo di femminismo più radicale e vendicativo che non mi sento di accogliere…

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Al riguardo, si viaggia nel periglioso terreno dell’interpretazione personale.

Se infatti da una parte si potrebbe dire che non è corretto considerare Bella come un personaggio effettivamente positivo e rappresentativo del femminile, proprio per la sua apatia e a tratti anche crudeltà…

…allo stesso modo sarebbe stato molto più intelligente inserire un elemento veramente mancante nella pellicola.

Ovvero, un’effettiva maturazione di Bella dal punto di vista relazionale, non solo attraverso la liberazione sessuale, ma anche con la presa di consapevolezza del rispetto necessario fra le parti all’interno di una relazione sana.

Invece alla fine sembra che Bella voglia più sminuire Max che riappacificarsi con lui, in un finale in cui i ruoli sembrano definiti all’interno di una gerarchia, e non di uno stato di parità…

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Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Ingmar Bergman

La fontana della vergine – L’occhio complice

La fontana della vergine (1960) rappresentò il ritorno di Ingrid Bergman all’ambientazione medievale, dopo il poco precedente Il settimo sigillo (1957).

A fronte di un budget sconosciuto, incassò 700 mila dollari nei soli Stati Uniti.

Di cosa parla La fontana della vergine?

Nel contesto della Svezia medievale, il fattore Christian Per Töre manda la giovane figlia Karin a consegnare le candele per la celebrazione della messa. Ma la strada è piena di pericoli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La fontana della vergine?

Dipende.

Per quanto La fontana della vergine sia un film splendidamente diretto e ottimamente scritto, è anche un prodotto che parla di una tematica piuttosto impegnativa – la violenza sessuale – all’interno di un mondo crudele e violento, senza lasciare nulla all’immaginazione…

Infatti, anche se la regia elegantissima di Bergman incornicia perfettamente i suoi personaggi e non scade mai nella violenza quasi pornografica di altri film con tematiche analoghe, nondimeno la profonda tragicità delle scene trasmette un’angoscia piuttosto intensa…

Insomma, vi ho avvisato.

Selvaggia

A primo impatto ne La fontana della vergine sembrano esserci due modelli femminili completamente opposti.

Il primo è Ingeri, la principale protagonista del primo atto, talmente ribelle da essere più vicina alla cultura pagana – prega Odino – che a quella cristiana – tipica invece degli altri personaggi.

Ad una visione più superficiale la sua figura appare radicalmente anarchica, sprezzante delle regole e delle buone maniere, tanto che il suo aspetto disordinato e i suoi atteggiamenti selvaggi non sembrano altro che un’estensione della sua personalità.

Ma il personaggio in realtà si definisce nella sua drammaticità.

La sua personalità rappresenta in una certa misura un foreshadowing del destino di Karin: prima una ragazza con un aspetto ordinato e verginale, poi, a seguito della violenza, una donna disperata, scostumata e molto più simile appunto alla sua compagna.

Infatti la personalità così dirompente di Ingeri è dovuta anche e sopratutto all’esperienza traumatica che ha vissuto, di cui sente in ogni momento il peso, cercando al contempo di mettere in guardia l’ingenua Karin da un destino che però sembra inevitabile.

Ingenua

La verginità di Karin va molto oltre la sua esperienza sessuale.

La ragazza è vergine sopratutto perché non è mai stata toccata dalle brutture del mondo violento in cui vive, con un’esistenza protetta e coccolata fra le braccia dei genitori, che persino si sfidano per averne il favore.

Karin è quindi una giovane donna più simile ad una bambina, al punto da essere quasi capricciosa, totalmente ingenua davanti alle dinamiche dello stupro di Ingeri, liquidandolo con affermazioni piuttosto sempliciotte su come lei, al suo posto, sarebbe stata capace di difendersi.

Così la sua ingenuità è anche la sua rovina.

Vivendo di una totale idealizzazione del mondo esterno, Karin percepisce la colazione sul prato con i pastori come un quadretto bucolico sotto il segno della cristianità, nonostante lei sia l’unico personaggio del gruppo che rientra in questo ideale.

Al contrario, gli uomini fin da subito si muovono come bestie, addocchiandola da lontano e puntandola come dei lupi affamati, per poi cominciare ad avvicinarsi sempre di più al suo corpo, provocando così il primo vero senso di inquietudine e pericolo nella ragazza…

Ma il paesaggio è già di per sé eloquente.

Sporca

Il paesaggio alle spalle dei protagonisti dovrebbe essere semplice e pulito…

…e invece è sporco e ostile.

Karin cerca di ricreare un quadretto ideale sul prato, ma la presenza ingombrante dei rovi alle sue spalle continua a sporcare la scena, rendendola ben più drammatica, più grottesca e molto meno accogliente ed invitante di quanto lei vorrebbe.

Allo stesso modo la dinamica dello stupro e del conseguente omicidio è improvvisata e disordinata, con i due uomini, le due bestie che si gettano contemporaneamente sulla loro preda, in una scena drammaticamente realistica quando estremamente elegante nella regia.

Così il quadro della sua morte ribadisce il contrasto fra la sua figura martirica, bianca e innocente, incorniciata nel paesaggio aspro e ostile dei rovi, che in un certo senso anticipa la dinamica della vendetta del padre.

E così persino una figura apparentemente innocente come quella del bambino non basta per risolvere il contrasto: prova a cibarsi del cibo abbandonato di Karin, ma lo rigetta, e così cerca di seppellirla, ma finisce solo per sporcarla ulteriormente.

Osservatrice

La drammaticità di Ingiri è la sua impotenza.

Dopo aver già vissuto il suo dramma fuori scena, la donna, al contrario della compagna, è piuttosto consapevole dell’orrore del mondo esterno, e per questo riesce effettivamente a sottrarsi ad un’ulteriore violenza.

Ma non può evitare quella di Karin.

Pur con tutti i suoi tentativi di salvarla, la donna non riesce ad impedire alla giovane di vivere il suo stesso dramma, di cadere inconsapevole nella trappola che i pastori hanno ordito per lei, per approfittarsi della sua innocenza.

E neanche riesce ad intervenire, rimanendo per tutto il tempo impotentemente ai margini della scena, pur avendo in pugno l’arma – il sasso – con cui, pur rispondendo alla violenza con altra violenza, avrebbe almeno salvato una vita.

Vendetta

Il padre, Töre, è l’assoluto protagonista del terzo atto.

In prima battuta la pellicola racconta per lunghi tratti la sua personalità saggia e generosa, tanto da invitare alla sua tavola persino il terzetto di buzzurri, e, nonostante il bambino deturpi la stessa, accoglierlo comunque nelle cure della moglie.

La prova della violenza avvenuta avviene inconsapevolmente con un oggetto della scena – l’abito sottratto a Karin – che viene drammaticamente offerto alle braccia tremanti della madre, che lo passa immediatamente al marito, che diventerà l’autore della vendetta.

La vendetta è lenta e meditata, derivata dal contrasto interno all’animo di Töre.

Infatti, da buon cristiano, l’uomo dovrebbe abbracciare l’ideale della pietà cristiana e perdonare gli assassini e violentatori della figlia.

Invece, Töre sceglie di perseguire un rito squisitamente pagano di vendetta, prima flagellandosi – o sferzandosi, a seconda della lettura – per poi avventarsi con dolore e rimorso sui pastori che poco prima aveva accolto nella sua casa.

Un atto terribile e imperdonabile, con una furia quasi incerta, ma al contempo radicalmente selvaggia, che si abbatte persino su un innocente come il bambino, che finisce comunque per essere punito per il delitto dei suoi parenti.

Redenzione

Alla vendetta segue la redenzione, che si articola in due personaggi.

La redenzione di Töre è definita sopratutto da un suo riappacificarsi con Dio, per essere perdonato dalla violenza terribile che ha usato verso i suoi ospiti, mostrandosi incapaci di perdonarli come forse la cristianità avrebbe voluto.

Un ricongiungimento tanto più doloroso, quanto l’uomo deve accettare che il suo dio è rimasto indifferente davanti alla violenza della figlia, diventandone quasi complice, in una dinamica di profondo struggimento che ricorda molto un altro personaggio di Max von Sydon, Antonius Block in Il settimo sigillo.

La redenzione di Ingiri è invece dovuta alla sua impotenza.

La donna soffre per non essere stata capace di salvare la sua compagna, avendola osservata mentre veniva inevitabilmente violata e uccisa, mantenendo dentro il suo animo un terribile segreto che viene in prima battuta quasi assolto dall’atteggiamento benevolo di Töre.

Ma la vera redenzione proviene in qualche modo da Karin, dalla cui morte sgorga una fonte, una fontana benefica attraverso la quale la donna può depurarsi – secondo il doppio significato di kalla nel titolo Jungfrukällan, che significa sia fonte che primavera, quindi giovinezza e verginità.

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Jojo Rabbit – Una risata vi seppellirà

Jojo Rabbit (2019) è probabilmente il film più iconico e amato della filmografia di Taika Waititi.

A fronte di un budget di appena 14 milioni di dollari, fu un ottimo successo commerciale, con 90 milioni di incasso.

Di cosa parla Jojo Rabbit?

Germania, 1945. Jojo è un ragazzino di appena 10 anni che sta per entrare nella gioventù hitleriana. E il suo amico immaginario è tutto un programma…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jojo Rabbit?

Assolutamente sì.

Jojo Rabbit è stata una ventata di freschezza nella trattazione di un tema piuttosto impegnativo – l’olocausto – da parte di un regista di origine ebraica che ha scelto di rispondere forse nella maniera migliore possibile al mito di uno dei più crudeli dittatori della storia umana:

con una risata.

Così, pur senza mancare di pennellate piuttosto drammatiche, Jojo Rabbit è una splendida satira sociale che deride in maniera brillante una parentesi storica per certi tratti ancora piuttosto incomprensibile, svelandone la grottesca assurdità.

Coniglio

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Jojo è figlio del nazismo.

Una pagina bianca che è stata scritta fin dalla più tenera età da una spietata mitologia che raccoglieva gli umori disillusi di una Germania spezzata dal primo conflitto mondiale, e li orientava verso un nemico semplice, immediato, e facilmente demonizzabile.

Un’occasione anche per permettere di sfogare una certa violenza sopita, ma piuttosto spietata, che nel contesto nazista veniva anzi incoraggiata al fine di portare alla vittoria sia della razza ariana, sia, più in generale, di un intero paese bramoso di dominare finalmente il mondo.

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

In questo contesto, Jojo è una flebile speranza.

Nonostante il bambino sia stato allevato per la guerra, si atteggia solamente a parole come un fedele soldato, dicendo anzi di adorare l’idea di uccidere, ma ritrovandosi del tutto incapace alla prova dei fatti, quando non riesce a togliere la vita neanche ad un animale – figurarsi ad un altro essere umano…

E così, volendo essere reintegrato nella sua comunità, lancia in prima linea per dimostrare il suo valore, regalandosi in realtà la più grande conquista a cui un cittadino europeo poteva ambire in quel momento storico: diventare sostanzialmente un invalido, non potendo così essere ulteriore carne da macello nel campo di battaglia.

Padre

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Hitler è una figura paterna.

Nella mente di Jojo il dittatore tedesco è comico e paradossale – anche nell’aspetto, soprattutto per quegli occhioni blu – e nello stesso Jojo ritrova quel padre ormai assente da tanti anni, ma che, a differenza del suo vero genitore, lo incoraggia amorevolmente ad unirsi al club dei nazisti.

Ma la bellezza di questo Hitler immaginario è proprio il definire l’evoluzione del protagonista e la sua graduale presa di coscienza verso la verità sul nazismo, diventando gradualmente sempre più simile alla figura storia e meno al migliore amico dei sogni.

Roman Griffin Davis e Scalett Johansson in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

A questa figura si contrappone Rosie, la madre, che per nulla si integra nel modello di donna ariana sognato del nazismo, ma anzi è una donna amorevole quanto determinata, nonché profondamente ribelle, anche se quasi arresa davanti al pensiero radicale del figlio.

Infatti il suo personaggio cerca solo timidamente di far cambiare idea a Jojo, consapevole di come questo comportamento sia solo una fase dovuta al periodo storico sbagliato in cui è nato e, al contempo, alla mancanza di una figura paterna.

Adulto

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Elsa è fondamentale per la maturazione di Jojo.

La splendida sequenza introduttiva del suo personaggio in chiave horror ricalca proprio il pensiero deviato del protagonista – e di molti altri tedeschi – nei confronti di questi esseri mostruosi e sempre più incomprensibili, di cui Jojo sulle prime ha genuinamente paura.

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Tuttavia, la scelta di non denunciare la presenza della ragazza in casa sua è la prima decisione matura del protagonista, che preferisce infine proteggere la sua famiglia piuttosto che essere effettivamente fedele ad Hitler, cominciando così la sua maturazione.

Così i primi contatti pacifici fra Jojo e Elsa sono i numerosi e divertenti scambi riguardo alla vera natura del popolo ebraico, in occasione dei quali il protagonista cerca di sembrare adulto e severo, facendosi in realtà facilmente deridere dalla ragazza e dal suo assurdo racconto.

Sorella

Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Rosie cerca in più momenti di trasmettere al figlio sentimenti più gentili e estranei alla propaganda nazista…

…a cui Jojo in realtà arriva in autonomia.

La dinamica intorno alla dispettosa lettera di rottura di Nathan è infatti solo l’ulteriore dimostrazione di quanto questo ragazzino sia un animo gentile e ancora non veramente corrotto, proprio dimostrando di pentirsi immediatamente per aver ferito persino un’ebrea come Elsa.

Così fra i due comincia ad intrecciarsi una sorta di gioco delle parti, prima con le finte lettere di Nathan – con cui indirettamente Jojo esprime i suoi sentimenti per la ragazza – poi con Elsa che prende progressivamente il posto della sorella perduta.

Il picco drammatico in questo senso è la splendida scena dell’ispezione a sorpresa della Gestapo, che alterna momenti genuinamente comici – la gag del Hail Hitler! – a sequenze di profonda tensione, soprattutto quando, con grande coraggio, Elsa si traveste da ragazza ariana per non farsi scoprire.

Ma questa scena è soprattutto rivelatoria per un altro personaggio.

Alleato

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Lo strambo Capitano Klenzendorf è il più grande alleato di Jojo.

L’uomo, al pari della madre, è un emarginato nascosto all’interno del nazismo, un personaggio che svela progressivamente la sua vera identità tramite una serie di indizi sempre più importanti, apparendo infine del tutto lontano dalla figura del militare indottrinato che pareva inizialmente.

La pellicola fa infatti intendere che in realtà il capitano sia un personaggio queer, e che abbia con ogni probabilità una relazione con il fidato Freddy Finkel – non a caso, i due sono quasi sempre in scena. insieme.

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Ma, soprattutto, l’uomo è alleato di Jojo perché cerca costantemente di proteggerlo.

La bici di Rosie che si porta dietro quando arriva durante l’ispezione, insieme alla raccomandazione al bambino di restare a casa, ci racconta in maniera piuttosto eloquente come non solo il capitano fosse stato testimone dell’impiccagione della madre di Jojo, ma come probabilmente sapesse anche di Elsa.

Ma ancora più importante è il momento in cui il suo personaggio salva Jojo dalla sicura morte, in un momento di isteria di fine guerra in cui gli Alleati – rappresentati sorprendentemente in maniera non troppo benevolente – avrebbero giustiziato persino un bambino solo perché indossava i simboli del nemico.

Nemico

Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Negli ultimi momenti della pellicola Jojo è disperso.

Per questo si concede un’ulteriore cattiveria nei confronti di Elsa.

Infatti, dopo la tragedia della morte della madre – nella toccante quanto brillantemente diretta scena delle scarpe – il protagonista vive un’ulteriore angoscia: la possibilità che ora, finita la guerra e la persecuzione antisemita, persino Elsa, la sua neoacquisita sorella maggiore, lo lasci solo.

Jojo quindi si perde in un vagare disperato fra le rovine, accompagnato da una graduale consapevolezza della vacuità del nazismo e della guerra stessa…

…a partire da quella splendida uniforme di carta che rappresentava il successo dell’amico Yorki, ma che invece alla fine, proprio come i giovani soldati che tornano abbattuti dalla trincea, racconta tutta la fragilità e la vacuità della propaganda bellica.

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Infine, la scoperta della morte del suo mito rappresenta la definitiva presa di coscienza di Jojo, che vede finalmente Hitler per quello che veramente era – un fanatico dittatore – e di cui decide finalmente di liberarsi con una puntuale defenestrazione.

La chiusura del film racconta infine quanto il protagonista sia cambiato in così poco tempo, accettando l’altro grande insegnamento della madre: il ballo che celebra la ritrovata libertà e lo sguardo verso un futuro più promettente.

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Minority Report – La sicura illusione

Minority Report (2002) rappresenta la prima prolifica collaborazione fra Steven Spielberg e Tom Cruise, che al tempo ancora si destreggiava fra i maggiori autori hollywoodiani.

A fronte di un budget abbastanza importante – 102 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale, con 358 milioni di incasso.

Di cosa parla Minority Report?

2054, Washington. John Anderson è a capo del cosiddetto programma Precrime, che dovrebbe predire i delitti prima che avvengano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Minority Report?

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Minority Report è un incredibile thriller fantascientifico che riesce a sorprendere grazie ad una costruzione del mistero e della tensione semplicemente perfetta, pur non puntando particolarmente sulle classiche dinamiche da action adrenalinico che hanno reso famoso il suo attore protagonista.

Piuttosto l’intreccio del mistero e i continui colpi di scena bastano da sé per rendere questa pellicola un piccolo gioiello della fantascienza dei primi Anni Duemila.

Insomma, da riscoprire.

Preparazione

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Anche se la primissima sequenza potrebbe apparire pedante, in realtà è del tutto necessaria ai fini della narrazione.

Infatti, la pellicola lascia ampio spazio per la trattazione di un caso tipo, in modo che per gli eventi successivi lo spettatore abbia ben chiare le coordinate del mondo in cui la vicenda si muove, proprio in prospettiva di una ulteriore complicazione della stessa.

La soluzione proposta dal Precrime è assolutamente avveniristica, sembra anzi la ricetta vincente per la risoluzione del dilagante problema della criminalità negli Stati Uniti, andando proprio a fare leva su un dibattito ancora piuttosto attuale.

Samantha Morton in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Ovvero, la sicurezza collettiva a discapito della privacy del singolo.

Una situazione pure più pressante all’indomani dell’11 settembre, in cui la caccia alla potenziale minaccia nazionale era all’ordine del giorno, che in Minority Report viene riletta in chiave fantascientifica…

…ma risulta abbastanza facile nel futuro prossimo immaginare al posto dei Precog dei computer particolarmente abili.

Scricchiolio

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

La sconvolgente scoperta di essere un futuro killer è il primo scricchiolio di un sistema apparentemente perfetto.

La previsione di per sé è infatti vanificata dalla presenza della stessa, in quanto – come si vede anche chiaramente nella pellicola – già solamente cercare di prevedere un evento futuro porta ad influire sullo stesso, vanificando così la veridicità della predizione.

In particolare, il paradosso del Precrime è fin da subito sottolineato da Danny Witwer: la previsione presuppone l’annullamento del libero arbitrio, della possibilità che la persona ci ripensi, andando a punirla per un crimine che, di fatto, non ha mai commesso.

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Il problema risulta particolarmente evidente quando Iris Hineman, la creatrice del sistema di previsione, rivela al protagonista che i Precog sono frutto di esperimenti umani che si sono risolti nel terzetto presente, che si regge però tutto sul personaggio di Agatha.

In questo modo si vanifica la spiegazione di Wally, il curatore dei Precog, che cerca di convincere il seccante agente del Dipartimento di Giustizia che le sue creature non sono umane – quindi non possono sbagliare – cercando di farle apparire come macchine.

O, ancora meglio, come oracoli.

Occhio

Una volta che la dottoressa gli ha affidato la sua missione per liberarsi dal suo infausto destino, John comincia immediatamente a sentire il peso della sua identità, in particolare dei suoi occhi, elemento imprescindibile per l’identificazione di una persona in Minority Report.

Così Spielberg raccoglie l’ossessione propria di Philip Dick, autore dell’opera ispiratrice della pellicola, ovvero quella del progresso unitamente positivo e negativo, secondo una visione per cui le nuove tecnologie donano all’uomo il progresso, ma anche la sua perpetua disfatta.

Per questo il protagonista è costretto a rimuovere l’elemento più distintivo della sua identità.

Samantha Morton in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Gli occhi.

La pericolosa e dolorosissima operazione gli permette infatti di sottrarsi al feroce intervento dei ragni, macchine del tutto legittimate a terrorizzare ed immobilizzare chiunque serva, intrufolandosi in una serie di scenette familiari che raccontano proprio la penetrazione invasiva dell’occhio giudicante del Governo.

Un’operazione che funge da appendice al tema di fondo della pellicola stessa, ovvero una prospettiva di sempre maggiore rinuncia alla propria incolumità e privacy per favorire il bene comune, secondo una dinamica già in realtà presente nella società odierna.

Edipo

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

La corsa del protagonista è dettata da una ossessiva quando ingenua illusione.

La presenza di un Minority Report, appunto.

Cercando di svelare il neo principale del Precrime, in realtà John arriva a comprendere la debolezza di fondo di tutta l’operazione, che nel suo stesso tentativo di negare la possibilità del libero arbitrio, si dimostra invece fallibile e manipolabile.

In questo senso appare piuttosto ovvio il parallelismo con il mito di Edipo, a cui l’oracolo aveva predetto un destino tremendo, che l’eroe tragico, proprio per la mancanza di alcune conoscenze fondamentali, aveva infine realizzato.

E il destino sembra avere la meglio su entrambi i protagonisti, i quali, pur cercando di sottrarsi a quello che sembra ormai scritto, inevitabilmente lo realizzano: Edipo uccide il padre e giace con la madre, mentre John, pur scegliendo di appellarsi alla propria volontà, finisce comunque per uccidere Leo Crow e per essere arrestato.

E infine, non sembra esserci un’alternativa.

Alternativa

Lamar è la chiave per il fallimento del Precrime.

Tramite la sua macchinazione, viene rivelata la fallibilità dei Precog, dovuta non tanto alle abilità degli stessi, ma soprattutto al filtro dell’occhio umano che inevitabilmente si pone fra la previsione e la risoluzione del crimine: un occhio, come abbiamo visto, facilmente manipolabile.

Infatti, Lamar Burgess ha cercato di proteggere la sua creazione proprio andandosi ad inserire nelle pieghe del sistema, nei suoi punti deboli, riuscendo così a creare un delitto costruito ad arte che potesse eliminare l’unico ostacolo che si poneva fra lui e il successo del Precrime.

Così nell’atto finale Lara, avendo ormai assistito allo svelamento dell’inganno del Precrime, proprio per via della fallibilità umana del suo stesso direttore, diventa agente attivo per lo scioglimento della vicenda, realizzando l’altra profezia indiretta che aveva ricevuto il marito:

In un mondo di ciechi, l’uomo con un solo occhio è ricco.

Ed infine è proprio Lamar a smentire ancora più platealmente la fallibilità del progetto, scegliendo infine di non essere l’assassino di John, ma piuttosto di sé stesso, portando ad una chiusura del film ben più speranzosa del romanzo di partenza, ma che forse appare come un’ipotesi fin troppo ottimista per il futuro che ci attende…

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Il posto delle fragole – La vacuità dell’esistenza

Il posto delle fragole (1957) è uno dei film più importanti della filmografia di Ingmar Bergman: oltre ad ottenere numerosi riconoscimenti – fra cui l’Orso d’oro alla Berlinale – la pellicola influenzò diversi autori successivi, fra cui Woody Allen in Crimini e misfatti (1989)

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto contenuto – incassò 60 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il posto delle fragole?

Isak è un vecchio dottore che sta per essere premiato per la sua prolifica carriera. Nel viaggio in macchina ripensa alla sua vita e al suo sconcertante egoismo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il posto delle fragole?

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio come per il poco precedente Il settimo sigillo (1957), anche in Il posto delle fragole Bergman imbastisce una profonda riflessione sulla morte, sia tramite i pensieri del protagonista, sia all’interno del mondo del sogno, pur tramite un simbolismo piuttosto immediato.

Non manca anche in questo caso una buona dose di ironia ed autoironia, per ammorbidire i toni di una narrazione piuttosto angosciante ed esistenziale, che trova il suo sfogo più felice nella rappresentazione speranzosa del mondo familiare.

Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre, ma che ero io in tutto e per tutto

I. Bergman

Solitudine

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni.

Queste parole sono fra quelle più significative del breve monologo che apre la pellicola, in cui esplicitamente – e in maniera sorprendentemente neanche pedante – il protagonista racconta sé stesso e la consapevolezza della freddezza della sua esistenza.

In modo simile a Antonius Block ne Il settimo sigillo, Isak deve affrontare il pensiero della morte imminente, in una scena onirica che racconta già moltissimo sui sentimenti del personaggio e sulla sua condizione attuale.

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Con questo incubo Isak viene messo per la prima volta davanti all’angosciosa consapevolezza di star vivendo la sua vita passivamente, in un mondo vuoto, popolato solo da un fantoccio e un orologio senza lancette – che poi rappresenterà l’eredità verso il figlio – e in cui lui, di fatto, è già morto.

Questo turbamento iniziale non muta sulle prime il comportamento del protagonista, anche se lo spinge a vivere più attivamente la propria vita, a diventarne il conducente: scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in aereo, Isak diventa improvvisamente alla guida della sua esistenza…

…e non più solo un osservatore.

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Il primo momento del viaggio è ancora più rivelatorio della personalità del protagonista, con il velenoso quanto amaramente ironico scambio con Marianne, che in un certo senso imputa al suocero il fallimento del proprio matrimonio, proprio per aver trasmesso al figlio il suo medesimo nichilismo.

Ancora di più, Marianne vanifica la maschera dietro a cui Isak nasconde il suo egoismo, beandosi dei suoi successi professionali che lo fanno apparire quasi come un filantropo, ma che non possono ingannare quelle che dovrebbero essere le persone veramente significative della sua vita.

Non puoi ingannarci.

Radici

La prima tappa è anche il primo momento in cui il presente del protagonista si intreccia col suo passato.

Isak infatti cerca di riconnettersi alle sue radici, da cui il senso del titolo, Il posto delle fragole, che nella simbologia svedese rappresenta sia la primavera della vita – la giovinezza – sia, più in generale, le radici della propria esistenza.

In questo quadretto bucolico Isak ci introduce ad un ricordo sempre più angoscioso, in cui sente sostanzialmente di aver perso l’occasione di conquistare l’amore della sua vita, andandosi piuttosto ad incastrare in un matrimonio avvelenato e infelice.

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Questo ricordo lo turba al punto da portarsi inconsapevolmente con sé il passato stesso, rappresentato dal divertito triangolo amoroso fra la giovane ragazza con le sembianze di Sara e i due giovani che la accompagnano, rappresentanti del protagonista stesso e il cugino Sigfrid in giovane età.

Mentre il viaggio prosegue, Isak si ritrova sempre più travolto dall’ottimismo e dall’affetto crescente soprattutto della ragazza, che ha ancora davanti a sé una vita tutta da scrivere, in particolare dal punto di vista relazionale.

Spettatore

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

L’incidente è rivelatorio del lato più disperato del suo passato.

Il rapporto con la moglie.

Nell’incontro con coppia con cui il gruppo quasi si scontra, Isak diventa per la prima volta spettatore della tragedia che era stata il suo matrimonio, fatto di dispetti e rimbeccamenti crudeli, che l’hanno portato proprio alla condizione di profonda solitudine e chiusura in sé stesso.

Davanti allo sgradevole litigio dei due, persino Isak infatti si sente a disagio, e sceglie per questo di farli scendere dalla macchina, in un certo senso allontanando dalla sua vita il comportamento egoista e spiacevole che ha avuto fino a questo momento…

…rappresentato proprio dall’orologio senza lancette che la madre vorrebbe regalare ad Evald.

Questa angoscia si traduce nel secondo incubo, in cui Isak si trova dall’altra parte, ovvero come studente piuttosto che come dottore formato e rinomato, mentre cerca di inseguire quel frammento di ricordo di Sarah che gli ha annunciato la sua morte e il prossimo matrimonio con Sigfrid.

In questo surreale esame Isak si trova davanti alle sue colpe più tragiche, raccontate proprio da quella moglie morta, ma così sorprendentemente viva nella sua memoria, fino ad essere condannato alla solitudine del presente senza possibilità di salvarsi, se non da sé stesso.

L’esaminatore infatti, davanti alla richiesta di clemenza del protagonista, sentenzia:

Non lo chieda a me. Non è compito mio.

Eredità

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio quando Isak perde il controllo della vettura, diventa effettivamente attivo nella sua vita.

L’epifania conclusiva è infatti rappresentata dal racconto di Marianne, che gli mostra quanto pesantemente il suo comportamento abbia influito sulla vita del figlio, il quale, pur ancora giovane, è già freddo, arido e profondamente cinico, soprattutto nel non voler costruire una famiglia con la donna.

Il protagonista vede però ancora una possibilità di salvezza per la coppia e una vita migliore per il figlio, in cui non debba né operare la sua stessa chirurgica operazione di tagliare i ponti con ogni affetto, né negarsi le gioie di un matrimonio il cui successo è tutto nelle sue mani.

Arrivato alla fine della giornata – e della sua vita – Isak riesce finalmente a ricongiungersi con il suo passato e il suo presente, prima venendo salutato affettuosamente dalla frizzante ragazza con le sembianze di Sara, che, proprio come l’amata di cui porta l’aspetto, si congeda per sempre da lui, pur promettendo di continuare ad amarlo.

Allo stesso modo, Isak riesce ad abbandonarsi in un sonno felice dopo che infine il figlio gli rivela di voler risanare i rapporti con Marianne, e mentre ripensa al modello felice di matrimonio – quello dei suoi genitori – che forse potrà finalmente rivedere anche in Evald.

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Salvate il soldato Ryan – La guerra delle lacrime

Salvate il soldato Ryan (1998) è una delle opere più note della filmografia di Steven Spielberg, che gli valse il secondo Oscar per la regia.

A fronte di un budget medio – 70 milioni di dollari – fu un grandissimo successo commerciale, con 481 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Salvate il soldato Ryan?

La pellicola è una riscrittura piuttosto fantasiosa della vera storia dei Fratelli Niland, concentrandosi sul salvataggio dell’ultimo fratello rimasto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Salvate il soldato Ryan?

Dipende.

A me personalmente questa pellicola ha profondamente infastidito, in quanto è ubriaca di una mentalità tutta statunitense – la guerra degli eroi, l’idea di star combattendo per liberare il mondo… – che non posso sopportare.

Come se non bastasse, il film manca di una qualsiasi riflessione sul tema.

E, dal momento che in quegli anni uscirono ripensamenti splendidi come La sottile linea rossa (1998) e Vittime di guerra (1989), per quanto mi riguarda è una mancanza difficilmente perdonabile.

Ma se cercate un classico film statunitense sulla guerra, è il prodotto per voi.

Sensazionalismo

La sequenza di combattimento iniziale vorrebbe essere incredibilmente scioccante…

…e per me non è nient’altro che questo.

Questa narrazione così dolorosa e intensa non mi è parsa altro che la rappresentazione di una costante della pellicola: il continuo tentativo di sconvolgere e, soprattutto, di strappare la lacrima facile allo spettatore, sviscerando il più possibile il dolore dei personaggi.

Tuttavia, cos’altro posso trarre da suddetta sequenza?

Un incipit che manca totalmente di un retroterra riflessivo, addirittura di una qualunque introduzione dei personaggi che mi faccia empatizzare con loro, rendendoli delle mere vittime di un bagno di sangue in cui lo spettatore statunitense vede i suoi ragazzi sacrificarsi per la patria comune.

E, anche senza andare a scomodare la ben più efficace scena analoga de La sottile linea rossa, anche solo ricordando il più semplice Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022), io in questa scena vedo solamente dei giovani pieni di sogni resi carne da macello per il primo capitolo della virtuosa liberazione del mondo statunitense.

Famiglia

La famiglia è il nucleo emotivo di Salvate il soldato Ryan.

Il senso stesso della storia – ricordiamolo, del tutto inventata – è quello di conservare una famiglia americana che altrimenti sarebbe del tutto distrutta dalla guerra, come una sorta di favore che lo stato concede ad una madre che ha già sacrificato tre figli sull’altare della libertà.

Di fatto la pellicola ingentilisce una legge effettivamente esistente, la Sole Survivor Policy, promulgata a seguito della disastrosa vicenda dei Fratelli Sullivan, e a cui il cappellano Francis Sampson si appellò per far rimpatriare l’ultimo dei fratelli Niland – il soldato James Francis Ryan nel film.

Così il film regala smaccatamente al governo statunitense un merito immeritato, inventandosi una storia poco credibile, unicamente per portare avanti l’idea della bontà dell’operazione bellica, tanto da rendere il Generale Marshall un padre generoso che riporta alla madre l’ultimo dei figli che è riuscito a non mandare al macello.

La famiglia è anche presente nella scena in cui i soldati salvano una bambina dal campo di guerra, momento che ha ben poco significato nell’economia narrativa del film, ma che serve ad aggiungere un ulteriore elemento di emotività in una scena che già di per sé vorrebbe essere piuttosto toccante.

Oltretutto, la madre è richiamata in più momenti della pellicola nelle ultime parole dei vari soldati caduti in combattimento, volendoli proprio rendere il più possibile i figli del pubblico stesso…

… ma mancando ancora una volta di una seria riflessione riguardo alle dinamiche del fronte e dei giovani ingannati da una propaganda pensata unicamente per motivi politici.

E non è neanche la parte peggiore.

Merito

L’elemento a mio parere più genuinamente agghiacciante è il concetto del merito.

Il capitano Miller afferma chiaramente che il salvataggio di Ryan è il suo modo per meritarsi di tornare a casa, come a dire che, senza un sacrificio che determini il valore del singolo, questo non si meriti effettivamente di uscire da questo incubo, questo impegno che si è preso verso la propria patria benevola e verso il mondo intero.

In questa specifica circostanza storica – a differenza degli eventi bellici successivi – risulta in effetti incredibilmente semplice prendersi dei meriti per aver salvato il mondo, soprattutto giocandosi la carta sempreverde della lotta contro il nazismo

…nonostante ridurre le intenzioni statunitensi solamente a quello – soprattutto avendo in mente il come hanno concluso la guerra – è incredibilmente naif.

Così vediamo i soldati venire progressivamente macellati, con una pellicola che tocca solo superficialmente il concetto di umanità che, in determinate circostanze, gli permette di evitare di ammazzare altri uomini solo perché con una divisa di un altro colore, senza mostrare mai l’effettivo dramma del fronte e senza di fatto mai rifletterci con onestà.

E, allo stesso modo, il Capitano Miller è solo l’ultima vittima che muore per Ryan, il quale, in un senso più generale, può essere letto come gli Stati Uniti stessi osservano pensosi i loro morti, chiedendosi infine nelle lacrime, se la loro morte è servita a qualcosa, se si sono meritati questa tragedia umana e se hanno vissuto una vita onesta e che meritava di essere salvata.

Lascio a voi la risposta.

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The Last Duel – La verità

The Last Duel (2021) di Ridley Scott è un dramma storico ambientato nel XIV sec., basato sulla vera storia dell’ultimo Duello di Dio.

A fronte di un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – è stato un flop clamoroso al botteghino: appena 30 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla The Last Duel?

Francia, XIV sec. Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono amici e compagni d’armi. Ma una serie di stravolgimenti politici e relazionali metteranno a dura prova il loro rapporto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Last Duel?

Jodie Comer in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

The Last Duel è una delle opere più ambiziose di Ridley Scott, che riesce a portare in scena con precisione e realismo vicende piuttosto lontane, ma per molti versi anche incredibilmente vicine…

Infatti, il tema centrale è la violenza sessuale e, più in generale, una comparazione più o meno indiretta fra le più classiche dinamiche sessiste che si intersecano nella trattazione del tema, ieri come oggi.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Jean The Last Duel

Jean vorrebbe in tutti modi essere l’eroe della storia.

La sua ferocia e intraprendenza viene raccontata fin dalle primissime battute della sua sezione, quando cede all’istinto di vendetta nei confronti del nemico, cadendo così nella sua trappola e perdendo clamorosamente la battaglia.

Nonostante questo, non perde mai la sua boria e supponenza, prima di tutto nei confronti di Robert de Thibouville – il padre di Marguerite – noto traditore della sua patria, rifiutandosi in prima battuta di stringergli la mano e portargli il dovuto rispetto.

Matt Damon e Adam Driver in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Ma la borsa vale più dell’onore.

Sull’orlo della disgrazia economica, Jean accetta persino di sposare la figlia di un fedifrago, pur di sanare le sue esigue ricchezze, anche solo per riuscire a pagare i nuovi debiti emersi per via suo nuovo padrone, il conte Pierre.

Dal matrimonio in poi comincia una corsa spericolata per ristabilire la sua immagine, del tutto vanificata dalla sua perpetua paranoia e della sua scarsa intelligenza e maturità, che lo rendono accecato dalla rabbia ed incapace di muoversi nella mutata scena politica.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

La sua furia è alimentata da due fattori.

Il primo – il più evidente – è la malcelata invidia nei confronti del compagno d’armi e amico Jacques Le Gris, i cui meriti derivano esclusivamente dalla sua capacità di entrare in maniera proficua nelle grazie di Pierre, sfruttando più il potere della penna che della spada.

In questo modo, tuttavia, Jacques rende sempre più isterico Jean, che sente come se l’ex compagno d’armi gli stesse sottraendo sistematicamente i simboli che lo renderebbero un cavaliere onorevole – dai possedimenti alla moglie.

Jean Marguerite The Last Duel

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Il rapporto con Marguerite è l’aspetto su cui più Jean inganna sé stesso e lo spettatore.

Se infatti nella sua visione si racconta come un marito piacente ed affettuoso, che si preoccupa costantemente della felicità della moglie, e che anzi diventa il maggiore artefice della punizione nei confronti di Jacques…

…in realtà nel terzo atto scopriamo come Jean avesse sempre trattato la donna con sufficienza, scegliendola solo per il suo valore economico e per la possibilità di ottenere un erede, la maggior parte delle volte aggredendola ed umiliandola.

Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Appare in questo senso piuttosto chiaro che il duello con Jacques non abbia niente a che fare con Marguerite.

Ancora una volta, Jean utilizza la moglie unicamente come vettore per i suoi scopi – vendicarsi dei diversi torti subiti dall’ex-amico – al punto che, quando ha infine vinto il duello, è lo stesso re che deve ricordargli della presenza della moglie e del perché – almeno in teoria – ha combattuto.

Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Insomma, Marguerite non era altro che un bene prezioso da ottenere e conservare con cura, come racconta molto bene il foreshadowing della violenza sessuale, con il cavallo bianco che viene aggredito dallo stallone nero senza che Jean possa farci nulla…

La stessa cavalla, dopo essere stata aggredita, verrà messa sottochiave.

Esattamente come Marguerite.


Jacques The Last Duel

La verità di Jacques è quella che più si avvicina alla verità effettiva.

Nonostante ovviamente le sue sequenze siano filtrate dal suo punto di vista, appare quantomai credibile che il rapporto con Jean si sia guastato non per sua volontà: come detto, l’uomo ha raccolto semplicemente i frutti della sua abilità intellettuale.

Viene infatti mostrato chiaramente come Jacques sia molto di più di un bruto cavaliere, ma anche un intellettuale – non a caso fa parte anche di un ordine clericale minore – capace di sistemare i conti di Pierre e di leggere in latino.

Ben Affleck in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Così, come Jean ha una relazione distruttiva con il conte, Jacques ne ha invece una costruttiva.

Appena vede l’occasione per mettersi in mostra agli occhi del suo nuovo padrone – soprattutto dopo i fallimenti bellici e dopo le continue difese nei confronti di Jean – Jacques si propone con ardore e veemenza come salvatore dei conti di Pierre.

In questo modo, questo dotto cavaliere riesce a salire con una velocità vertiginosa la scala sociale, diventare così il protetto del conte e poter avere – almeno apparentemente – tutto quello che desidera: il denaro e, soprattutto, le donne.

Adam Driver Ridley Scott

Adam Driver in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Ma, se la colpa di Jean è la testardaggine e la boria, Jacques è da parte sua ubriaco di una concezione amorosa del tutto deviata.

Infatti, la sua cultura lo rende vittima della tradizione trobadorica – ormai al tramonto – e di quella concezione amorosa tardo-medievale basata principalmente su una visione romantica e idilliaca delle relazioni con le donne.

Oltretutto Jacques si trova immerso in un mondo del tutto ingannevole – quello della corte di Pierre – in cui può avere accesso a tutte le donne che desidera, in particolare all’interno del gioco erotico che le rende solo lievemente restie all’essere violentate.

Jodie Comer in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Queste due tendenze si incrociano nella figura di Marguerite.

Da quei pochi e sparuti incontri e sorrisi della donna, Jacques costruisce un complesso castello mentale in cui assume il ruolo di liberatore amoroso della donna, quando questa si è limitata ad essere semplicemente gentile nei suoi confronti.

Così, il disperato tentativo di Marguerite di sfuggire dalle sue attenzioni nella sua visione è ammorbidito e reinserito all’interno della suddetta dinamica erotica – l’unica che Jacques concepisce – rendendo la donna solo educatamente restia ad unirsi a lui.

Per questo, Jacques non capirà mai le sue colpe.


Marguerite The Last Duel

La sezione di Marguerite ci rivela molto più di quanto ci aspetteremmo.

Marguerite è una giovane moglie all’apparenza piuttosto mansueta, ma che in realtà cova dentro di sé un certo tipo di ribellione sopita, che emerge proprio quando si sente chiaramente usata come oggetto – sessuale o di scambio.

Così, anche se non detto, la protagonista aveva altre aspettative nei riguardi del suo matrimonio: quando il padre e il futuro marito discutono sulla dote – riducendo la donna a mera quota economica – il suo sguardo guizza alla statua della Madonna – l’emblema della femminilità e del matrimonio.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Così, la relazione sessuale con Jean fa sbocciare diversi dubbi.

Viziata dalle promesse di una sicura piccola morte – l’orgasmo – Marguerite si trova più volte insoddisfatta degli intercorsi con il marito, ma del tutto incapace di concretizzare questo pensiero, proprio per mancanza di termini di paragone.

Allo stesso modo, il desiderio di maternità continua per molto tempo ad essere un miraggio lontano, forse dettato non tanto dal desiderio di avere un figlio, ma più che altro di ottenere l’unico simbolo che le darebbe valore come donna all’interno della società in cui vive.

Marguerite Ridley Scott

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Infatti, il suo vero riscatto è quello intellettuale.

In assenza del marito, Marguerite riesce a riprendere in mano la caotica situazione economica della tenuta proprio grazie al suo intelletto – con un parallelismo puntuale fra la sua vicenda e quella di Jacques.

Così la donna si rivela piuttosto abile nel gestire la sua tenuta, proprio dove il marito ha dimostrato più volte di fallire. Ma serve a poco: agli occhi di tutti gli uomini è ridotta al mero ruolo di moglie e madre, e nient’altro.

Marguerite Ridley Scott

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

La relazione con Jacques è piuttosto problematica.

Sarebbe stato molto più semplice per Marguerite raccontare in maniera netta il suo rapporto con il cavaliere, se non avesse avuto dei pensieri intrusivi al riguardo: indubbiamente la donna trova Jacques attraente, forse prova anche una certa attrattiva nei suoi confronti…

Ed infatti tutti questi dubbi le vengono rivoltati contro – in una dinamica drammaticamente attuale – in fase processuale, mettendo pure in dubbio il fatto che non abbia un minimo goduto durante la sua violenza sessuale.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Tuttavia, il suo personaggio è incredibilmente coi piedi per terra.

Tutti i dubbi riguardo a Jacques scompaiono nel momento in cui l’uomo penetra la sua casa con l’inganno, la carica di sentimenti e aspettative che la donna aveva solo lontanamente sfiorato, e, infine, la prende con la forza in una sequenza genuinamente straziante.

E la sua vendetta nei confronti di Jacques non è un tentativo di cercare una rivalsa sociale, ma piuttosto dettata dal desiderio di avere quel minimo di riscatto in una società che cerca invece costantemente di schiacciarla.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Eppure, la stessa Marguerite si dimostra restia a portare avanti la sua denuncia quando scopre che in questo modo la sua vita sarà ancora una volta in mano a quegli stessi uomini che hanno costantemente cercato di violarla, col rischio di essere duramente punita.

Infatti, la vera vittoria di Marguerite non è il trionfo del marito – quella è un successo proprio unicamente di Jean – ma piuttosto il riuscire infine a liberarsi della presenza castrante dell’uomo, e così ritagliarsi una vita tutto sommato felice e, finalmente, libera.

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Avventura Comico Commedia nera Dramma storico Drammatico Fantastico Film Horror Il settimo sigillo

Il settimo sigillo – Dio, dove sei?

Il settimo sigillo (1957) è l’opera più famosa e celebrata della prolifica produzione di Ingmar Bergman.

A fronte di un budget risicatissimo persino per l’epoca – appena 150 mila dollari, circa 1,7 milioni oggi – ebbe nel complesso un buon riscontro al botteghino300 mila dollari – per essere poi considerato negli anni un capolavoro della storia del cinema.

Di cosa parla Il settimo sigillo?

Antonius Block è un cavaliere che ha appena fatto ritorno dalle Crociate, ritrovandosi in una patria devastata dalla peste e della superstizione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il settimo sigillo?

Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Il settimo sigillo non solo è una delle trattazioni e riflessioni più interessanti sul tema della morte e della ricerca di Dio, ma è anche un’opera capace di creare un bozzetto preciso – e per lunghi tratti persino comico – dell’Europa del XIV sec.

Una pellicola in cui momenti profondamente riflessivi e malinconici si alternano a sequenze più profondamente ironiche, con una comicità che gioca col grottesco e la mentalità dilagante di quel periodo.

Insomma, non ve la potete perdere.

Omen

Bengt Ekerot in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

La sequenza di apertura de Il settimo sigillo è il primo omen.

I due personaggi sono stesi sulla spiaggia, e appaiono già morti… o forse lo sono davvero, perché proprio a quel punto la morte si approccia per la prima volta ad Antonius, invitandolo a seguirla.

La reazione del protagonista rivela al contempo la sua superbia e la sua disperazione.

Bengt Ekerot e Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Infatti, Antonius, dopo un decennio passato a perseguire una causa divina, è ancora più scettico sulla presenza di Dio, e ne ricerca disperatamente i segnali, la mano benevola che lo accompagni serenamente verso quella morte che non è pronto ad accettare.

Per questo sceglie di sfidare il destino, illudendosi di poter piegare perfino il triste mietitore ai suoi trucchi, di poterla tenere a bada il tempo che serve per ricongiungersi con il divino e liberarsi da quel turbamento costante e apparentemente irrisolvibile.

La presentazione dei due protagonisti si chiude con altri segnali – reali quanto immaginari – della Morte sempre in agguato, in cui la pellicola sparge i primi semi della sua deliziosa quanto macabra ironia.

Così Jöns, dopo aver blaterato per lungo tempo su visioni quasi apocalittiche – cavalli che si divorano l’un l’altro, quattro soli in cielo… – vede in faccia la morte, ed esorcizza l’incontro con un dialogo brillante quanto rivelatorio:

In questo senso lo scudiero dimostra di aver compreso pienamente verso quale mondo si stanno dirigendo: una realtà devastata dalla Peste Nera, un mondo dove ci sono più morti che vivi…

Natività

Con il cambio di scena, assistiamo alla prima visione.

Il settimo sigillo racconta abilmente questa dinamica fondamentale nell’Europa Medievale – la stessa che, in altro modo, porterà alla scrittura della Divina Commedia – e ne chiarisce anche la doppia natura:

una visione, maligna o benigna, poteva portare ad una benedizione quanto una condanna della Chiesa.

Nils Poppe e Bibi Andersson in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Questa prima visione – la Madonna con bambino – introduce l’altro polo della riflessione interna al film, contenuta da qui in poi nella figura di Mia: la natività, connessa anche alla dolcezza del paesaggio bucolico, contrapposta alla miseria e alla morte.

I personaggi legati al teatro sono anche vettori della sottotrama più spiccatamente comica: il tradimento della moglie del fabbro con Skat, che si toglierà dall’impiccio fingendo di morire – e poi morendo effettivamente – in una classica novella che potrebbe essere uscita dal Decameron.

La parte teatrale è anche il momento più prettamente metanarrativo: Jöns suggerisce al fabbro le parole da dire per duellare con l’attore, per poi anticipare le argomentazioni della donna per riconquistare il marito e farsi perdonare per il torto commesso.

D’altronde, inganno e maschere sono elementi onnipresenti nella pellicola.

Alternativa

Gunnar Björnstrand in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Inconsapevolmente, Antonius ha al suo fianco l’alternativa alla sua disperazione.

Ovvero, Jöns.

Lo scudiero è una maschera tipica del teatro classico – il servo furbo – anche più tridimensionale e tratteggiata in maniera quasi paradossale: come Jöns è sostanzialmente un nichilista e un disilluso – disprezza espressamente sia le Crociate quanto Dio…

…quasi anarchico – dice di ridere in faccia al suo padrone – è anche il personaggio più positivo della pellicola.

Gunnar Björnstrand in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Lo scudiero infatti aiuta le due donne vittime – prima la sua futura serva che rischiava di essere violentata, poi la strega a cui offre dell’acqua – proponendosi persino di uccidere tutti i soldati pur di liberare la futura martire

Lo stesso è anche il principale protagonista della linea comica della pellicola, col suo umorismo anche piuttosto cupo e piccato.

Inganno

Al contrario Antonius, che si crede l’eroe della storia, è in realtà vittima di un continuo turbamento che non riuscirà mai a risolvere.

Proprio nella sua disperata ricerca di Dio, si rifugia in una chiesa, specificatamente in un confessionale, per rivelare la sua profonda angoscia nel non riuscire più a vedere Dio nella sua realtà terrena…

…dove trova solo miseria, inganno e distruzione, ammettendo anche il suo pensiero di fondo, che è la chiave fondamentale per leggere la pellicola:

Abbiamo creato un idolo dalla nostra paura e l’abbiamo chiamato Dio.

Secondo questa interpretazione piuttosto lucida e disillusa, Dio non è altro che un tentativo di dare forma ad una paura – quella della morte – e così di riuscire anche ad esorcizzarla…

…anche tramite atti estremamente violenti sia su sé stessi – l’autodafé – e sugli altri – l’uccisione della presunta strega che si unisce con il maligno.

Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Non è un caso che, mentre Antonius confessa queste cose credendo di parlare con un emissario di Dio, stia venendo in realtà ulteriormente ingannato, ritrovandosi a conversare con l’unico dialogante realmente presente, e che lo spinge costantemente verso questa ritrovata disillusione…

Insomma, l’unico dio è la Morte.

Salvezza

La vita terrena è definita da una costante dicotomia.

L’aspetto più disperato, più estenuante anche per la ricerca di Antonius, è assistere alla degradante processione degli auto flagellanti, che cercano in ogni modo di scacciare la morte e il maligno da sé stessi

…ma riuscendo solo ad istigare una paura e un’ossessione ancora maggiore nella comunità, che vede in loro l’apparizione di Dio.

Max von Sydow e Bengt Ekerot in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

L’altro lato dell’esistenza terrena è la vita piccola ma soddisfacente, i semplici momenti di felicità e condivisione: così Antonius diventa ospite dei due attori, godendosi la compagnia e il cibo, e sapendo di poter conservare dentro di sé questo ricordo rasserenante.

Questa pace terrena, così semplice, ma anche così potenzialmente raggiungibile, è infatti la stessa che gli permette, almeno per un momento, di allontanarsi dalla partita a scacchi con la Morte – e quindi dall’angoscia che lo opprime – e affrontare poi la prossima mossa con una ritrovata felicità.

Morte

Max von Sydow una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Ma la morte è inevitabile.

Prima di arrivare definitivamente al suo castello, Antonius si imbatte nuovamente nella martire, a cui chiede consiglio per finalmente riuscire a vedere un segno divino – o diabolico – ma infine arrendendosi davanti alla sua totale cecità…

…inciampando ancora una volta nel suo cammino nell’unica presenza onnipresente: la morte.

L’ultima partita a scacchi è quella decisiva: come Antonius si sentiva prima sicuro di aver messo in scacco la sua lugubre compagna, invece in poche mosse viene sconfitto.

È l’occasione della seconda visione di Jof, che vede quella partita del destino, e per questo capisce che è il momento di allontanarsi, per non prendere parte a quella che sarà l’ultima e fondamentale visione: la macabra danza della Morte che conduce all’aldilà.

Invece Antonius, pure ora che ha perso contro la Morte, cerca comunque di rifugiarsi nel suo castello, e in ultimo cerca un conforto in un Dio che continua a non rispondergli, mentre gli astanti tengono lo sguardo fisso sulla Morte

…in particolare la donna che Jöns salvato, che cade in ginocchio in lacrime, proprio come davanti alla processione…

Ma la chiusura de Il settimo sigillo ci rassicura mostrandoci una morte che è ancora lontana, vincolata alla visione scherzosamente messa da parte da Mia, mentre si allontana all’orizzonte con il suo carro carico di vita…