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Last night in Soho – Salvare il sogno

Last night in Soho (2021) è la prima sperimentazione di Edward Wright con il genere drammatico e orrorifico.

Purtroppo, anche per via dall’annata sfortunata in cui uscì, fu un pesante flop commerciale: con un budget di 43 milioni di dollari, ne incassò appena 22 in tutto il mondo…

Di cosa parla Last night in Soho?

Ellie è un’aspirante stilista con una particolare passione per gli Anni Sessanta. E quando sembra che il suo sogno si stia per realizzare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Last night in Soho?

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Assolutamente sì.

Last night in Soho è una fantastica sperimentazione registica di Edward Wright, che riuscì nuovamente a raccogliere ancora l’eredità del suo film più iconico, Shaun of the dead (2004), e a riproporlo in un’opera veramente inedita per la sua produzione.

Infatti non solo la trama è decisamente drammatica, viaggiando fra il thriller e l’horror, ma per la prima volta il regista britannico mise al centro di una sua storia un personaggio femminile, riuscendo a portare in scena temi attualissimi e in maniera mai banale.

Insomma, da riscoprire.

Sogno

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Ellie sembra finalmente aver realizzato il suo sogno.

Nonostante i diversi ammonimenti della nonna, nonostante il passato che la tormentata, la giovane protagonista è semplicemente entusiasta di questo nuovo capitolo della sua vita, sicura che nulla potrà andare storto, tanto è vivido il suo entusiasmo e la sua immaginazione.

E invece basta mettere un piede nella città per essere già in pericolo.

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Wright dimostra una particolare empatia nel raccontare il senso di pericolo e di inquietudine che accomuna purtroppo l’esperienza ancora di molte donne: vedere potenzialmente dietro ad ogni uomo troppo espansivo un potenziale stalker – o peggio…

Ma neanche a casa può sentirsi al sicuro.

Equilibrio

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Last night in Soho gode di un particolare equilibrio nella rappresentazione dei personaggi.

Una sceneggiatura ben più banale avrebbe mostrato un contrasto netto fra i personaggi femminili e maschili: nei primi la protagonista avrebbe trovato conforto, nei secondi gli antagonisti principali della pellicola.

E invece Ellie si trova incastrata in una situazione di bullismo piuttosto tipica: una ragazza particolarmente crudele che guida il comportamento altrettanto spiacevole delle altre compagne, costringendo la protagonista a sentirsi costantemente fuori posto.

Ma che infine sceglie di cercare altrove i suoi spazi.

Illusione

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La nuova stanza è il prologo del sogno.

Ellie non scappa solamente dalle sue nuove compagne, ma da quel presente opprimente in cui non riesce a ritrovarsi, vestendo i panni di un suo alter ego ideale: una giovane donna in cerca di fortuna, che si trova sotto la protezione di un uomo fascinoso e pieno di promesse.

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Tutte le dinamiche, anche quelle più tristemente sessiste – Sandie è onorata di essere salvata dalle molestie di un altro uomo – fanno parte di un racconto dalle note fiabesche, la cui protagonista sembra un’eroina del cinema popolare.

E, per rendere la dualità della protagonista, Wright utilizza un calzante quanto psichedelico gioco di specchi, oltre all’indimenticabile sequenza del ballo in cui Ellie e Sandie si alternano fra le braccia di Jack – con anche un certo sottofondo erotico che non guasta.

Identità

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Immergendosi sempre di più nel sogno, Ellie perde progressivamente la sua identità.

Dalla scelta di cambiare colore di capelli, fino all’acquisto del costoso impermeabile vintage, la protagonista cerca prepotentemente di portare il suo sogno nella realtà, nella sua persona, quando ancora è certa che sia tutto quello che potrebbe mai desiderare.

E apparentemente in questo modo la protagonista diventa anche più sicura di sé stessa, comincia ad ottenere i primi successi come stilista, venendo elogiata per la sua inventiva e il suo pensare fuori dagli schemi.

Ma basta poco perché tutto crolli…

Climax

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La scoperta del vero destino di Sandie è devastante.

La pellicola costruisce un efficace climax narrativo in cui prima la donna viene ridotta a ballerina di sfondo di uno squallido burlesque, avendo unicamente il ruolo di oggetto sessuale per un pubblico di uomini allupati…

…e infine viene incastrata, come altre donne prima di lei, in una rete di false promesse, che la porta progressivamente a distruggersi con l’abuso di alcol e di droghe, finendo per gettare all’aria i suoi sogni nel tossico circolo della prostituzione coatta.

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Con uno splendido piano sequenza si racconta effettivamente il destino di tante donne che furono ingoiate dai loro stessi sogni, dalle false illusioni di lupi nell’ombra, che si approfittarono delle loro ingenuità per impossessarsene in maniera meschina e sistematica.

E non c’è via d’uscita.

Infatti, anche se Linsday prova a salvarla, i suoi modi così supponenti e spiacevoli – confermati anche nella sua versione presente – sono per la donna solo una conferma di come non si può fidare di questi uomini, soprattutto quelli che gli promettono soluzioni fin troppo facili…

Salvarsi

E allora è il turno di Ellie.

Sicura della sorte sfortunata del suo alter ego, la protagonista comincia a crollare su sé stessa, fino a scivolare in un incubo senza via d’uscita apparentemente per le droghe che le scivolano nel bicchiere, in realtà dando sfogo ad un turbamento con radici ben più profonde…

Wright racconta infatti l’importanza del peso di una tradizione di abusi e tradimenti che difficilmente ci si può lasciar scivolare di dosso, e che portano la protagonista a minare la sua felicità presente in nome di un passato che sembra impossibile da salvare.

Elemento che si nota particolarmente nella scena della scoperta del presunto omicidio di Sandie, portato in vita con una regia magistrale che compara indirettamente la penetrazione sessuale con la penetrazione violenta del coltello nel corpo della giovane donna.

E così Ellie vive ancora più drammaticamente l’impossibilità di certe donne, soprattutto nel passato, di potersi salvare, ma neanche di avere una rivincita almeno in un presente più consapevole e accogliente.

E invece Sandie si era già salvata.

Vendetta

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La rivelazione di Sandie non era semplice da gestire.

La sua via d’uscita è stata compiere una serie di omicidi sistematici, deturpando i volti di quegli odiosi uomini, seppellendoli sotto le sue scarpe e facendoli dimenticare da tutti, esattamente come Jack avrebbe voluto fare con lei.

Si racconta in questo modo un passato violento e impossibile da salvare, con un equilibrio di forze totalmente sbilanciato, in cui vi erano solamente due strade per la protagonista della storia: divorare o essere divorata.

E la spietatezza di Sandie si vede anche nel presente, quando non riesce neanche a fidarsi di una giovane e innocente ragazza che voleva solo salvarla, finendo per ritirarsi a morire nell’amarezza della sua stanza, del suo passato…

Infine Ellie si trova davanti ad un dilemma morale, a cui deve arrendersi: non può né salvare gli uomini vittime di Sandie, figli di una cultura usurpatrice e violenta, né il suo alter ego, che infine viene ingoiata dalle sue colpe, incoraggiando la protagonista a salvare sé stessa.

E Ellie può davvero salvarsi.

Alternativa

Ellie ha un’alternativa.

Nonostante viva in una realtà ancora pericolosa e ostile, può contare su nuove prospettive, generalmente incarnate nel personaggio di John: il ragazzo è il modello ideale del nuovo uomo, rispettoso, accogliente e premuroso.

E anche se ci troviamo in bilico su un possibile tokenism, in realtà il ragazzo è un faro di speranza essenziale all’interno di un film così profondamente drammatico, che invece accompagna la protagonista ad un finale se non positivo, comunque speranzoso.

Nonostante Sandie sia ancora una presenza, un ricordo di un passato che non può essere cancellato, nonostante realisticamente non c’è alcun passo indietro da parte di Jocasta, nonostante le visioni della madre siano ancora presenti…

…infine Ellie trova finalmente una sua identità in cui calibra il sogno del passato con il presente nella sua linea di vestiti, e riesce a guardare con un minimo più di ottimismo ad un futuro potenzialmente più promettente.

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Scott Pilgrim vs The World – La trasposizione perfetta

Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright è la trasposizione dell’omonimo fumetto di Bryan Lee O’Malley (2004 – 2010).

Nonostante negli anni sia diventato un piccolo cult, al tempo fu un flop commerciale: con un budget di 85 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Se non sapete niente di Scott Pilgrim vs The World continuate a leggere.

Se siete invece i massimi esperti sul tema, cliccate qui.

Guida alla visione Scott Pilgrim vs The World

Piccola guida alla visione se non vi siete mai approcciati al mondo di Scott Pilgrim vs The World.

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

La trasposizione cinematografica non poteva essere messa in mani migliori.

Edward Wright al tempo era fresco dei primi due film della Trilogia del cornetto, in cui dimostrò di essere capace di portare in scena una regia dinamica ed originale, che calzava a pennello per il fumetto di O’Malley.

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

E la trasposizione era tanto più difficile non solo per la lunghezza del fumetto, ma soprattutto per la natura piuttosto anomala dello stesso.

E invece il risultato fu semplicemente grandioso, con un utilizzo degli effetti speciali e una messinscena sempre vincente e che non è invecchiata di un minuto, nonostante siano colmo di scene piuttosto stravaganti e chiassose.

A cura di @lav3nd3r_boy

Scott Pilgrim è uno dei più famosi esempi di opere a metà strada tra l’immaginario occidentale ed orientale.

L’autore, Brian Lee O’ Malley, fa parte di quella generazione cresciuta sia con Batman che Dragon Ball – e questo si rispecchia nel suo modo di raccontare: non sto parlando solo della scelta di qualche inquadratura o l’aspetto super deformed dei personaggi…

…ma della capacità di mischiare scene di vita quotidiana a combattimenti sopra le righe, caratteristica tipica di diversi manga di successo anche piuttosto recenti, come ad esempio lo splatter-pulp Chainsaw Man (2022).

Passano gli anni, ma il viaggio di Scott e Ramona resta comunque un’opera che non invecchia facilmente.

E questo grazie alla sua capacità di fotografare in maniera del tutto personale quel momento di passaggio tra la fine dell’università e l’inizio della vita lavorativa, tramite la narrazione di tanti piccoli aneddoti in cui ognuno si può riconoscere.

La serie tv Scott Pilgrim Takes Off non è assolutamente quello che sembra.

La produzione Netflix è stata pubblicizzata come una riproposizione in chiave animata del fumetto, quando in realtà è uno spin-off che presenta un forte legame col film del 2010 – il cast vocale è identico – e che si basa su una sorta di what if…

Ne risulta così una serie che offre molto più spazio al personaggio di Ramona, un po’ sacrificato nel basso minutaggio della trasposizione cinematografica, e che ci regala un nuovo spunto di riflessione sulla relazione con Scott.

Insomma, da vedere, ma per ultima.

Doppio

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Michael Cera è semplicemente perfetto per la parte.

Eppure l’attore non fece altro che riportare in scena il ruolo che lo rese famoso pochi anni prima – Bleeker in Juno (2007) – riuscendo però ad essere comunque incredibilmente convincente per uno Scott cinematografico che rischiava moltissimo di essere banalizzato.

Michael Cera, Mary Elizabeth Winstead e Ellen Wong in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

E invece Wright riuscì a condensare in appena novanta minuti di pellicola il dramma di un personaggio fumettistico lungo sei albi, grazie anche ad una regia particolarmente indovinata che contribuisce al senso di spaesamento del protagonista.

E infatti il taglio registico è il vero punto di forza del film.

Frenetico

Michael Cera, Mary Elizabeth Winstead e Ellen Wong in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Scott Pilgrim vs The World non è semplicemente un fumetto.

Oltre alle contaminazioni videoludiche – parte essenziale del tessuto narrativo – che si trovano per esempio nei piccoli tag che accompagnano ogni personaggio, la graphic novel è caratterizzata da un ritmo forsennato, in cui si passa violentemente e improvvisamente da una vignetta ad un’altra.

E dopo aver già dimostrato in due occasioni – sia in Shaun of the dead (2004) sia in Hot Fuzz (2007) – quanto fosse un maestro di una regia incalzante ma sempre chiarissima nella messinscena, Edward Wright era la scelta più naturale per questa insidiosa trasposizione.

In particolare, in questo caso l’autore della Trilogia del cornetto sperimenta con dei trucchi registici per dare una sorta di continuità fittizia alla narrazione, con un proto-piano-sequenza in cui i personaggi attraversano la scena e sbucano nella successiva.

E non è neanche l’elemento più vincente.

Prova

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

È estremamente raro per un’opera cinematografica riuscire a sopportare la prova del tempo quando imbottita di effetti speciali.

E se solitamente si citano capolavoro dell’effettistica come The Thing (1982), Scott Pilgrim vs the World può essere annoverata fra i migliori utilizzi di CGI del nuovo millennio: sarà per come gli effetti siano perfettamente assimilati alla scena, sarà perché sono non sono mai effettivamente eccessivi

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

…in ogni caso la resa è semplicemente magnifica e mai fuori luogo, e rende con una precisione e una credibilità sorprendente intere vignette ma senza sembrare mai pedante, anzi facendo non poche scelte narrative per condensare una storia così ampia in un minutaggio così ridotto.

E questo accade in particolare per tre personaggi.

Diverso

Mary Elizabeth Winstead in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Una delle figure più sacrificate è sicuramente Ramona.

Non avendo a disposizione abbastanza tempo per raccontarsi, spesso la Ramona Flowers cinematografica viene fraintesa come il più classico esempio di pixie girl, ovvero di personaggio femminile che vive unicamente in funzione dell’evoluzione del protagonista maschile.

Mary Elizabeth Winstead e Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

In realtà, Ramona va ben oltre quel ruolo: la graphic novel si prende diverse pagine per raccontarne il complesso dramma, il suo essere dipendente dal suo complesso passato che sembra definirla, nonostante spesso si trattasse di relazioni di brevissima durata e di poca importanza.

Wright tratteggia una Ramona Power il più possibile sfaccettata, riuscendo quantomeno ad definirne i contorni: il personaggio passa dall’essere la ragazza misteriosa e desiderabile, alla figura tormentata dal suo passato, per arrivare alla medesima conclusione della controparte fumettistica.

E forse era impossibile pretendere di più…

Ruoli

Brie Larson in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Ma il personaggio che più di tutti viene ridotto a mero ruolo è Envy.

Nel fumetto si trova un’abile costruzione emotiva che racconta più ampiamente il suo passato e il come è arrivata ad essere cattiva, portando il lettore a detestare il suo personaggio, per poi sferrare la zampata finale che invece rimette in discussione tutta la sua personalità.

Nel film invece il suo dramma è appena accennato, e si mette in scena la sua parte invece più negativa e da femme fatale, raccontandola come un nuovo ostacolo nella relazione fra Ramona e Scott, ma andando ben poco oltre a quello, anzi facendola facilmente scomparire di scena.

Jason Schwartzman in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Gideon invece è un discorso a parte.

Wright ha cercato di ammorbidire un personaggio che nel fumetto era più una presenza, un’ombra costantemente in agguato nella vita di Scott, ma che appariva effettivamente solo nel finale in cui rivelava il suo piano – ben più complesso e ben più crudele rispetto al film.

La pellicola invece fa il verso al fumetto – in cui Scott pensava che Gideon fosse un produttore discografico – e lo si collega strettamente a tutta la vita del protagonista, in modo che la sua sconfitta non liberi solamente Ramona, ma anche i suoi amici.

Una riscrittura forse azzardata, ma che funziona.

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Baby Driver – Una sgommata al ribasso

Baby Driver (2017) di Edward Wright rappresenta finora il più grande successo commerciale del regista.

Infatti, a fronte di un budget di 34 milioni di dollari, ne incassò 226 in tutto il mondo.

Di cosa parla Baby Driver?

Baby è un ragazzo con una dote incredibile: essere capace di destreggiarsi per le strade di Atlanta come un maestro della fuga.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Baby Driver?

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

In generale, sì.

Per quanto sia un prodotto che apprezzo veramente poco, Baby Driver nel complesso è un discreto film di intrattenimento, con una sceneggiatura molto abbozzata, ma complessivamente non peggiore di molte altre pellicole del genere di riferimento.

Personalmente a me dispiace vedere il grande successo di questo lungometraggio, quando lo stesso – per regia, e, soprattutto, per scrittura – è il film più debole della filmografia di Wright, che per fortuna si è ripreso col successivo progetto, Last night in Soho (2021).

Ma se questo film vi farà avvicinare alla sua produzione, sarò solo che contenta.

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Per quanto l’idea centrale della pellicola – la musica diegetica che dà il ritmo alla scena – sia apparentemente molto creativa…

…personalmente non mi ha particolarmente soddisfatto.

Purtroppo, mettendo Baby Driver a confronto con il resto della produzione di Wright, il risultato mi sembra veramente debole: le sequenze in cui il protagonista si muove a ritmo di musica, con elementi della scena che richiamano la canzone che sta ascoltando…

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

…comparate anche solo alla scena di Don’t stop me know di Shaun of the dead essere (2004), mi sembrano più il lavoro di un regista che sta cercando di imitare lo stile dell’autore della Trilogia del cornetto più che di Wright stesso.

E se l’aspetto idealmente più interessante della pellicola non mi ha convinto…

Ansel Elgort e Kevin Spacey in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Baby non lo è solo di nome.

Wright cerca di tratteggiare un protagonista estremamente positivo – anche troppo: il personaggio di Ansel Elgort sembra costruito a tavolino per intercettare il gusto del pubblico di riferimento di ragazzini – e pure riuscendoci, visti gli incassi.

Questo aspetto tuttavia si traduce in una totale mancanza di evoluzione del protagonista, che semplicemente viene coinvolto in un’organizzazione criminale contro la sua volontà, senza mettere in mai in dubbio la propria moralità, anzi.

E questa infantilizzazione è particolarmente esplicata dal costante contrasto con i personaggi negativi – che meritano un discorso a parte – e le loro azioni cattivissime, che costringono il protagonista a mettersi costantemente davanti ad immagini di morte e di violenza.

Così anche il vestiario è indicativo: colori candidi e desaturati, che ne definiscono l’aspetto ed il carattere genuino e illibato, fortemente contrastante con i costumi invece chiassosi, volgari e al limite dello stereotipato degli antagonisti.

Ma parliamo di loro.

Ansel Elgort e Jon Hamm in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Gli antagonisti di Baby Driver sono tagliati con l’accetta.

Vengono raccontati come i più classici gangster ora con un passato problematico e oscuro, con la bocca piena di parolacce, ora con l’atteggiamento da gradassi, distruttivo e spaccone, motore dell’involuzione della vicenda stessa.

Insomma, un gruppo di villain che appaiono quasi ridicoli nel loro eccesso, mai veramente raccontato in maniera comica, anzi prendendosi drammaticamente sul serio, con dialoghi e battute frutto di una scrittura estremamente stereotipata e facilona.

Ansel Elgort e Kevin Spacey in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Ma la parte peggiore è Doc.

Il personaggio di Kevin Spacey dovrebbe essere un proto-Padrino, che si distingue nettamente dal resto dei criminali per un’intelligenza indubbiamente superiore, ma non mancando della stessa spietatezza che lo porta a minacciare Baby.

Tuttavia, questo elemento si perde in una totale incoerenza sul finale, quando invece Doc, senza nessun motivo – se non la a quanto pare inevitabile tenerezza della giovane coppia – diventa alleato del protagonista.

Ovviamente, mancando di qualunque evoluzione in questo senso.

Ansel Elgort e Lily James in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Inizialmente pensavo di non sopportare né il personaggio di Debora né la sua relazione con Baby per il carattere completamente inconsistente del suo personaggio, protagonista di una storia d’amore nata sostanzialmente dal nulla e diventata strappalacrime nel giro di poche scene.

Mi sbagliavo.

Ansel Elgort e Lily James in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

L’elemento veramente più grave di Debra è proprio come apparentemente dovrebbe rappresentare l’alternativa morale di Baby, un sogno irrealizzabile che lo porta infine a prendersi le sue responsabilità e consegnarsi alla polizia.

Al contrario, Lily James è semplicemente l’interesse amoroso del protagonista che doveva essere inserito nella storia da contratto, ma che diventa semplicemente un’ulteriore sottolineatura dell’intoccabile bontà del personaggio.

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The World’s End – Stanchezza

The World’s End (2013) di Edward Wright è il terzo e conclusivo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto, dopo Shaun of the dead (2004) e Hot Fuzz (2007).

A fronte di un budget di più del doppio rispetto al precedente – 20 milioni di dollari – fu un mezzo disastro commerciale, con 46 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla The World’s End?

Gary King è un bambino troppo cresciuto che rimane ancora ancorato alle dinamiche della sua adolescenza, mentre tutti gli altri sono andati avanti senza di lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The World’s End?

Dipende.

A differenza dei suoi predecessori, The World’s End manca della brillantezza umoristica e narrativa tipica di Wright, che ebbe la sua ultima dimostrazione in Scott Pilgrim vs. the World (2010), per poi rivolgersi a pellicole più drammatiche.

Nella conclusione della trilogia troviamo un umorismo molto più caciarone, basato su dinamiche che alla lunga appaiono quasi ripetitive, e con una morale che mi ha davvero poco convinto.

Insomma, se volete concludere la trilogia, dategli una chance, ma non aspettatevi molto.

Indietro

Gary King è rimasto indietro.

Tutto il racconto introduttivo, che cerca debolmente di ricordare quello del precedente film, mostra un sogno meraviglioso della fine dell’adolescenza, il punto di arrivo di una storia di successi, che però è risultata infine monca.

Uno smacco nella memoria del protagonista, che tenta disperatamente e furbescamente di risolvere, andando a raccattare un improbabile gruppo di amici d’infanzia ormai cresciuti e con molte responsabilità sulle spalle.

Da qui parte un inevitabile e – almeno idealmente – comico contrasto.

Ma quanto può durare?

Statico

La linea comica principale della pellicola è debole.

O, almeno, lo è considerando i precedenti.

Anche gli altri due capitoli si basavano sul contrasto fra il protagonista e il mondo che lo circondava, ma erano anzitutto caratterizzati da una verve umoristica molto più originale e brillante…

…e, soprattutto, non si trattava di un contrasto statico: come in Shaun of the dead il protagonista passava dall’essere un personaggio passivo ad uno attivo e risolutore, allo stesso modo in Hot Fuzz Nicholas Angel trovava infine una nuova identità.

E in The World’s End?

Nel terzo capitolo Gary King è costantemente portato al centro della scena come elemento comico in maniera quasi esasperante, con i suoi comprimari che lo detestano apertamente e che criticano ogni suo atteggiamento.

E, in aggiunta, King non cambia mai – ed è una grande mancanza: se fino adesso Wright ci aveva abituato ad evoluzioni graduali ed organiche, in questo caso l’apice del personaggio è nella sua rivelazione finale, che però non determina un cambiamento.

Anzi…

Inverso

Il mondo si adegua a Gary King.

E vive una sorta di involuzione.

Gli alieni conquistatori cercano di imporre sulla Terra un miglioramento consistente, così che la stessa possa diventare un pianeta papabile per far parte di un’organizzazione intergalattica, e non rimanere l’anello debole della catena.

Una presenza significativa per l’umanità, che ha potuto ispirarsi a questa cosiddetta Rete per progredire nel suo avanzamento tecnologico, pur dovendo inconsapevolmente sacrificare molte persone in funzione di robot.

E qui si trova l’altra debolezza della pellicola.

Per quanto le morali del resto della trilogia fossero fondamentale piccole e intime, nondimeno erano di valore.

Nel caso di The World’s End invece assistiamo ad una risoluzione abbastanza discutibile, in cui Gary King sembra disposto a sacrificare secoli di avanzamento tecnologico in funzione di un proprio capriccio personale.

Infatti, infine il protagonista sembra l’unico ad aver guadagnato dal nuovo status delle cose, diventando il leader di un gruppo di Vuoti, andando così a realizzare il suo sogno adolescenziale di gloria e di riconoscimento sociale.

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Hot Fuzz – L’omicidio quotidiano

Hot Fuzz (2007) è il secondo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright, in questo caso parodia del genere action poliziesco.

A fronte di un budget di appena 8 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 80 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Hot Fuzz?

Nicholas Angel è il miglior poliziotto di Londra. E, proprio per questo, viene trasferito ad una apparentemente monotona cittadina di campagna…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hot Fuzz?

Assolutamente sì.

Personalmente apprezzo Hot Fuzz anche di più dello già splendido Shaun of the dead (2004): pur nel suo surrealismo, questo secondo capitolo racconta delle dinamiche grottescamente reali e proprie di comunità grette e chiuse in sé stesse.

Particolarmente brillante riportare in scena gli stessi attori, ma con dei ruoli diversi, in particolare un Simon Pegg in massima forma, che segue un percorso del tutto opposto rispetto al suo precedente personaggio, dimostrando la sua grande versatilità attoriale.

Insomma, da non perdere.

Inverso 

Angel sulle prime appare artificioso e irreale.

Ma è del tutto voluto.

Wright prende le mosse dai più classici incipit del cinema del genere che parodizza – l’action e il poliziesco – raccontando fin da subito un personaggio che appare invincibile, il potenziale protagonista di un’avventura adrenalinica…

…in realtà accogliendoci con un aggancio piuttosto frenetico che ci accompagna al cambio di scenario forzato, con una splendida sequenza dal sapore agrodolce, in cui tutti sembrano essersi coalizzati contro il nostro sfortunato protagonista.

In questo senso, Simon Pegg prende un percorso inverso rispetto a Dawn of the dead.

Infatti, se nel precedente capitolo il protagonista era immobile al punto che gli altri personaggi cercavano di spronarlo a smuoversi, in questo caso si tratta invece di un personaggio fin troppo attivo – e che, per questo, viene castigato.

Contrasto

Angel viene forzato in una realtà ostile e aliena.

Infatti è impossibile per un personaggio così scaltro e costantemente all’erta come il protagonista, con un senso di giustizia e dell’ordine ferreo ed imprescindibile, integrarsi in un contesto basato sul piegare le regole al fine della conservazione della comunità.

Non a caso, basta una serata al pub di paese per portare dietro le sbarre metà della gioventù locale, azione del tutto inutile in una situazione politica talmente precaria che basta una notte perché tutto lo sforzo venga vanificato…

Ma il contrasto sta anche nella stessa identità di Angel.

Il suo personaggio sembra veramente uscito dall’action più becero, ma è anche come se fosse stato prosciugato di tutto il possibile divertimento e fascino che deriverebbe dal genere, risultando in un uomo definito solo dalle regole e dalla rigida disciplina.

Non a caso, un primo punto di arrivo della sua evoluzione è l’accettare di aprirsi all’esperienza dell’avventura più esageratamente adrenalinica, con la visione di due classici del genere: Bad Boys II (2003) e Point Break (1991).

Per questo, la crescita dei due protagonisti è reciproca.

Superficie

Il mantenimento dell’ordine cittadino è basato totalmente sull’apparenza.

E Danny ne è la principale vittima.

La sua storia familiare racconta proprio come questo ragazzino orfano di madre sia rimasto sotto il rigido controllo paterno, forte del lutto incolmabile appena subito, per poi farsi totalmente abbindolare dalla narrazione di cui Frank Butterman è il principale artefice.

Per questo, Angel è la sua guida.

Seguendo il suo mantra di ferro per cui sta sempre succedendo qualcosa, il protagonista porta l’attenzione su dei comportamenti apparentemente innocui, ma che in realtà, come si scoprirà nel finale, nascondono molto di più.

Una rigidezza che deve ancora di più scontrarsi con l’ottusità della polizia e della comunità in generale, che sembra incapace di comprendere – ma anche solo di notare – quello che sta sostanzialmente accadendo sotto i loro occhi.

Ma anche Angel pecca di superficialità.

Ovvio

La soluzione al mistero sembra già scritta.

Ogni indizio punta sull’ambigua figura di Simon Skinner, che fin dalla sua prima apparizione sembra raccontarsi come il principale artefice della lunga serie di incidenti che avvengono nella città.

E la motivazione non potrebbe che essere che la più classica trama politica, in cui un importante membro della comunità trama alle spalle della stessa per potersi arricchire, operando delle eliminazioni sistematiche senza aver paura di essere scoperto.

Ma è troppo ovvio.

Wright raccoglie la più classica dinamica del genere – il colpevole più ovvio non è mai il vero colpevole – e la riscrive in una soluzione del mistero surreale e parossistica, che però racconta al contempo anche una realtà più credibile di quanto si potrebbe pensare.

Di fatto la setta segreta che tira le fila della città nell’ombra non è altro che l’esasperazione di una tendenza molto tipica delle realtà provinciali di dimostrarsi incredibilmente gelose e insofferenti per ogni elemento estraneo che possa turbare il quieto vivere.

E questa risoluzione non può richiedere che un eroe.

Eroe

Per risolvere la situazione, Angel non può solo essere un poliziotto.

Deve diventare un eroe.

E questa trasformazione avviene proprio grazie a Danny, che costantemente lo forza per far coincidere la sua idea di lavoro di poliziotto con l’immaginario del tipo di film che Hot Fuzz stesso parodizza…

finché non convince anche Angel a farne parte.

Un cambiamento fondamentale che avviene proprio quando finalmente il protagonista sceglie non solo di aprirsi con Danny, ma anche di lasciarsi guidare verso una visione del mondo e della loro professione più avvincente e meno rigida.

In questo modo, Angel può riscoprirsi l’eroe della storia, che salva la città in maniera piuttosto rocambolesca, rispondendo ad una violenza davvero al limite dell’assurdo con un eroismo ancora più esagerato.

Cosa ci insegna Hot Fuzz?

La morale di Hot Fuzz è sottile quanto gratificante.

Nel finale Angel decide di rimanere a Gloucestershire proprio perché capisce che la bellezza del suo lavoro se la può creare lui stesso, vivendo ogni giorno come una piccola avventura piena di sorprese.

Ad un livello più generale, Wright ci invita a riscoprire la bellezza di quella quotidianità che ci sembra così monotona, proprio con l’idea che anche da poco possano nascere storie incredibili…

…proprio come da poco budget possono nascere piccoli cult indimenticabili.

Hot Fuzz ketchup

Nella gestione della violenza si racchiude la poetica stessa di Hot Fuzz.

Nonostante si tratti di una commedia, il film non si risparmia di mostrare diversi momenti apertamente splatter di cui i più eclatanti sono sicuramente la morte di Tim Messenger e il dolorosissimo incidente di Skinner.

Allo stesso modo, Wright si diverte moltissimo a giocare sulla finzione.

Oltre alla apparentemente cruentissima scena in cui Danny si infilza l’occhio, indimenticabile la scena in cui Cartwright vuole vendicare la morte del compagno quando questo è solo coperto di salsa al pomodoro.

Splendide gag che raccontano la sublime ironia del film, che riesce a stupire nella sua combinazione fra la violenza più scioccante e l’ironia più surreale.

Hot Fuzz Zombie

Hot Fuzz racchiude dei simpaticissimi rimandi al precedente Shaun of the dead.

Anzitutto, quando Angel cerca di spiegare a Danny come qualcosa sta sempre succedendo intorno a loro, fa il verso alla scena del pub nel precedente film in cui gli stessi attori fantasticano sulle vere identità degli avventori.

Allo stesso modo, Nick Frost prende il posto di Simon Pegg nella scena delle staccionate.

Se infatti nel primo film Shaun millantava di saper saltare perfettamente di giardino in giardino, ma alla fine cadeva al primo ostacolo, in questo caso tocca a Danny distruggere l’eroismo del momento.

Infine, piccoli riferimenti agli zombie si vedono nei vari scambi fra Skinner e Angel all’interno del supermercato, in cui il protagonista addita i sottomessi del direttore e questi si comportano in maniera molto simile a degli zombie senza cervello…

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Shaun of the Dead – Un mostruoso immobilismo

Shaun of the Dead (2004), noto in Italia col nome di La notte dei morti dementi, è il primo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright.

A fronte di un budget molto contenuto – 6 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo al botteghino, con 30 milioni di incasso.

Di cosa parla Shaun of the dead?

Shaun è un quasi trentenne che sembra essersi intrappolato in una vita ripetitiva da cui non riesce ad uscire. Ma qualcosa cambierà per sempre il suo modo di pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shaun of the Dead?

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Assolutamente sì.

Shaun of the dead è un’elegantissima parodia del cult di George Romero, Dawn of the dead (1978), riuscendo a riscrivere la satira del maestro dell’orrore ad un livello più piccolo, in un intimo e umoristico coming of age.

E, uscendo in un periodo in cui spadroneggiava lo spoof movie di scarsissimo valore alla Scary Movie, Edward Wright riuscì ad imporsi con il primo capitolo di un piccolo cult cinematografico che riuscì a rimanere nel tempo.

Insomma, è ora di cominciare la Trilogia del Cornetto!

Immobile

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è immobile.

La prima scena racconta come Shaun si trovi in uno stallo, in cui tutti i personaggi sembrano incastrati: nonostante il protagonista abbia una relazione pluriennale con Liz, nonostante sia ormai già un adulto con una vita autonoma…

…comunque la sua esistenza ruota attorno a poche, stringenti abitudini, in cui sembra essersi auto-confinato senza possibilità di uscita, al punto da non essere neanche capace di portare il suo fidanzamento al livello successivo – o anche solo a liberarsi dell’ingombrante presenza di Ed.

Ma anche il resto del mondo è immobile.

gli zombie in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Una rapida carrellata ci mostra un ventaglio di situazioni piuttosto comuni – il supermercato, l’attesa dell’autobus… – i cui protagonisti sembrano intrappolati in una routine rigida e ripetitiva, di cui non sembrano neanche consapevoli.

Un accenno che fa il verso in maniera piuttosto intelligente a Dawn of the dead, in cui gli zombie rappresentano proprio la spersonalizzazione di una società votata solo al consumismo, che si rifugia in dei non luoghi apparentemente accoglienti e confortevoli.

Proprio come il Winchester.

Indifferente

Bill Nighy in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è anche indifferente.

Nonostante intorno a lui diverse situazioni già raccontino la tragedia che sta per avverarsi, per la maggior parte del tempo – proprio come sarà per il protagonista di Scott Pilgrim vs The World (2010) – Shaun è totalmente ignaro…

…oppure, anche quando minimamente se ne accorge, si lascia facilmente distrarre da un nuovo stimolo, dall’apparizione di un nuovo personaggio, non riuscendo realmente a star concentrato sul momento, o a capire verso cosa veramente dovrebbe orientare le sue attenzioni.

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Infatti, sono gli stessi personaggi che devono continuamente ricordargli quello che deve fare, nonostante per il protagonista siano molto spesso, per l’appunto, degli impegni di nessuna importanza.

Ma la mancanza di uno di questi – l’appuntamento con Liz – si risolve in effetti nel primo vero cambiamento della vita del protagonista – la rottura – proprio quando Shaun dimostra, ancora una volta, di non sapersi adattare alle nuove situazioni.

Regressione

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Ma la rottura non porta ad un miglioramento.

Al contrario, sfocia in un’ulteriore regressione.

Shaun si fa coinvolgere ancora di più da Ed nella sua stasi di immobilismo e gioventù senza limiti, e, nonostante i suoi timidi tentativi di rimettersi in piedi – banalmente, scriverlo sulla lavagnetta del frigo – sembra che poco nella pratica si concretizzi.

Tanto più che, il giorno dopo, Shaun è ancora una volta del tutto inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno, nella sua ingenua passeggiata verso il supermercato, con gli zombie che hanno già invaso le strade…

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Eppure, è proprio questa l’occasione per cambiare.

Shaun e Ed ignorano deliberatamente gli ammonimenti del governo di rimanere chiusi in casa, e scelgono invece prima di combattere direttamente gli zombie – anche con un piglio molto giocoso e ironico – e quindi di mettersi, per la prima volta, in prima linea.

Eppure, anche in questa occasione sembra che Shaun percorra sempre i soliti pattern: il suo piano, per quanto intraprendente, prevede di ritornare in luoghi noti e familiari, rimettere idealmente e facilmente insieme la propria vita come se nulla fosse cambiato...

Ma ormai non è più possibile.

Scoperta

L’ultimo atto è il momento della scoperta.

Come Shaun programmava di salvare e, in qualche modo, di riappropriarsi di un amore materno univoco, si trova invece ancora una volta l’ingombrante presenza del patrigno, nonostante in questo caso ci sia un motivo effettivo per volersene liberare…

E invece questa è proprio l’occasione in cui Phil confessa al figliastro quei sentimenti che da soli riescono a risolvere il loro rapporto burrascoso, in cui l’uomo voleva solamente il bene di Shaun, che lo accetta come effettiva figura paterna solo quando ormai è troppo tardi.

Ma è anche l’atto in cui Shaun si riscopre.

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Se all’inizio era solo un personaggio incolore incapace di fare anche il minimo passo avanti nella sua vita, con il progredire della storia Shaun diventa sempre più abile nel gestire una situazione di estremo pericolo, prima riuscendo a sconfiggere fisicamente gli zombie…

…poi diventando autore della messinscena per integrarsi all’interno della nuova comunità di zombie senza farsi scoprire – ricordando alla lontana il finale di Terrore dallo spazio profondo (1978) – per riuscire così effettivamente a raggiungere l’ambito pub.

Ed è proprio qui che tutto va contro ai piani originali.

Cambiamento

Nonostante niente vada come sperato, Shaun al Winchester si riscopre ancora di più un leader, capace, nonostante i diversi tentativi di David di screditarlo, come l’unico capace effettivamente di portare il gruppo al sicuro e di allontanare il pericolo.

E, anche quando il piano non va ancora una volta come sperato, ormai è tutto diverso: se lo Shaun di un tempo avrebbe gestito in maniera ancora peggiore la situazione, lo Shaun del presente è l’unico che riesce a non farsi mordere.

Simon Pegg e Nick Frost nel finale di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

E infine, cosa è cambiato?

Una breve ellissi temporale racconta come il mondo non sia finito con la presunta apocalisse zombie, ma che invece gli stessi siano diventati un oggetto di intrattenimento perfettamente integrato nel mondo umano.

E così anche Shaun ha trovato finalmente il suo equilibrio: non un cambio radicale, ma una vita tranquilla e un po’ più variegata con Liz, mantenendo comunque viva l’amicizia con Ed, ora confinato al giardino nella sua nuova versione zombie.