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Mad Max: Fury Road – La rinascita dell’antieroe

Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller rappresenta il rilancio della saga storica di Mad Max e il sequel spirituale di Mad Max oltre la sfera del tuono (1985).

Nonostante abbia ricevuto diversi riconoscimenti agli Oscar di quell’anno, al tempo della sua uscita fu un discreto flop commerciale: con un budget fra i 154 e 185 milioni, incassò appena 380 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Mad Max: Fury Road?

Mad Max, un anti-eroe perseguitato dal suo passato, si trova involontariamente coinvolto nei complessi giochi di potere di Immortan Joe e della sua Imperatrice, Furiosa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mad Max: Fury Road?

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Assolutamente sì.

Fury Road è un ottimo esempio di come rilanciare una saga così profondamente legata per estetica e per dinamiche al periodo storico di uscita – insomma, esattamente il contrario di Il risveglio della Forza, che fra l’altro arrivò in sala lo stesso anno…

Infatti Miller confezionò una pellicola che si ricollega in maniera semplice ma funzionale a quanto visto in precedenza, ricostruendo il suo antieroe e il suo mondo ancora una volta con una regia spettacolare e piena di sorprese.

Insomma, da non perdere.

Rinascita

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

L’incipit di Fury Road è fondamentale.

A ben trent’anni di distanza dall’ultimo capitolo della saga, era necessario per Miller dare un’infarinatura generale del suo protagonista anche alle nuove generazioni di spettatori, assolutamente all’oscuro dei film originali.

Per questo, sceglie di rimescolare un po’ le carte in tavola, riprendere alcuni spunti di Oltre la sfera del tuono – i bimbi sperduti che Max salvava – per raccontare un antieroe solitario, costantemente perseguitato dai suoi rimpianti, che ne definiscono l’iconica pazzia.

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E tanto basta.

La personalità di Max è infatti profondamente turbata, tanto che sceglie programmaticamente di non legarsi mai veramente a nessuno, proprio per i dolorosi ricordi di non essere riuscito a salvare le persone a cui più teneva.

E proprio per questo il suo personaggio funge anche da vettore per catapultare – e catapultarsi – nella rinnovata scena politica dominata da Immortan Joe – fra l’altro una vecchia conoscenza, in quanto interpretato dal compianto Hugh Keays-Byrne, il villain di Mad Max (1979).

Succube

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Non a caso, per tutto il primo atto Max è succube della situazione.

Spogliato, rasato, reso letteralmente una sacca di sangue alla mercé di uno di War Boys, il suo coinvolgimento nella preparazione della nuova corsa ci permette di gettare uno sguardo al dietro le quinte, alla precisa gerarchia della Cittadella.

Di fatto, Immortan Joe, preparato per presentarsi al pubblico con i suoi simboli distintivi, affama – o, meglio, asseta – il suo popolo mantenendo il totale monopolio sulla seconda risorsa più ricercata in questo nuovo mondo: l’acqua.

Hugh Keays-Byrne come Immortan Joe in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E il suo punto di forza è proprio la santificazione.

Immortan Joe non è un semplice dittatore, ma un personaggio che è riuscito a rendersi epico, in quanto immortale e apparentemente imbattibile, già solo andando a rimodellare il respiratore che lo tiene in vita non come un handicap, ma come una maschera feroce e temibile.

Sulla stessa linea, il villain sventa qualsiasi ipotesi di rivolta proprio modellando la sua forza militare intorno ad un mito eroico dal sapore norreno, in cui ogni soldato, anche il più inetto, può sperare di essere accolto nel Valhalla, la valle degli eroi.

Per questo Furiosa è fondamentale.

Ribellione

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

La ribellione di Furiosa viaggia su più livelli.

Di fatto, la donna vuole tornare alla sua terra d’origine, a quella terra dell’abbondanza da cui è stata rapita in giovane età e a cui ha cercato più volte di fare ritorno, fallendo anche per la sua crescente popolarità agli occhi di Immortan Joe.

Al contempo, Furiosa vuole salvare altre donne succubi, seppur in maniera diversa, della Cittadella.

Infatti, Immortan Joe tiene sotto scacco un gruppo di giovani e fertili donne con il solo obbiettivo di rimpolpare le sue file di War Boys, illudendole in una vita piena di lusso e comodità, per renderle sostanzialmente delle schiave sessuali.

E questa illusione, al pari del ricatto dell’acqua, è fortemente penetrata nelle menti di questi personaggi, tanto che in più di un’occasione una di loro ha l’istinto di tornare sui suoi passi, nella prigione dorata forse preferibile alla devastazione del mondo esterno…

E sia Furiosa che le madri sono accomunate dal loro essere indispensabili.

Non a caso, queste giovani donne sono particolarmente consapevoli del loro corpo e di come utilizzarlo a loro favore: particolarmente incisiva in questo senso la scena in cui Angharad minaccia di far saltare il bambino che porta in grembo.

Allo stesso modo, Furiosa è l’unica donna che in qualche modo Immortan Joe rispetta effettivamente, non rendendola solamente un’incubatrice o una fonte di latte materno, ma piuttosto la punta di diamante del suo esercito.

E, a questo punto, sorge una domanda fondamentale…

Centrale

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Furiosa è la vera protagonista?

Per certi versi non è l’Imperatrice ad inserirsi nella storia di Mad Max, ma piuttosto il contrario: il protagonista della saga, in maniera in realtà molto tipica, inciampa nelle trame di un altro personaggio

…e ne diventa parte fondamentale.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E la gestione in questo senso è sublime.

Una scrittura più ingenua avrebbe banalizzato il rapporto fra Max e Furiosa in una relazione amorosa, con una classica dinamica enemy to lovers – sulla falsariga di quello che succede, per certi versi, fra Nux e una delle madri in fuga.

Al contrario, il rapporto di fiducia fra i due personaggi si costruisce gradualmente, arrivando alla comune consapevolezza che entrambi stanno cercando la libertà – Max dalle catene, Furiosa dal controllo della Cittadella – diventando così compagni di fuga.

Ma se il paradiso verde non esiste…

Alternativa

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Durante il loro viaggio, i protagonisti si imbattono quasi per caso in un luogo lugubre e a cui non dedicano più di uno sguardo…

…e che invece era effettivamente la loro meta.

Infatti, il felice rincontro con le Molte Madri si frantuma immediatamente davanti alla consapevolezza che il paradiso ricercato è stato ingoiato dalla devastazione che ha ormai avvelenato ogni cosa in questo scenario desertico e mortifero…

…e porta in prima battuta Furiosa ad avere l’istinto di diventare niente come Max: un viaggiatore in fuga, senza una meta, se non il pallido ricordo di un mondo che non esiste più, in una vita definita solo da dolorosi rimorsi.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Per questo, l’intervento di Max è fondamentale.

Il protagonista sceglie di dare a Furiosa una possibilità che ormai ha negato a sé stesso: costruire con le proprie forze un angolo felice in cui vivere all’interno della depressione presente, anche dove sembra più impossibile, proprio smascherando Immortan Joe…

Ma, proprio per questo, Max non può restare: dopo aver salvato la vita a Furiosa e dopo averla messa sul trono, il nostro eroe torna a cavalcare le strade, lasciando la nuova Imperatrice con uno sguardo d’intesa estremamente eloquente:

Esisto così, in questa terra devastata: un uomo, ridotto a un unico istinto: sopravvivere.

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L’ascesa di Skywalker – La vendetta di Abrams

Star Wars – L’ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams, anche conosciuto come Episodio IX, è l’ultimo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

A fronte di un budget davvero enorme – 416 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale – poco più di 1 miliardo di dollari – ma anche la conferma del progressivo abbandono del pubblico, incassando meno del precedente.

Di cosa parla L’ascesa di Skywalker?

Il ritorno di Palpatine risveglia i più grandi timori della Ribellione, mentre Rey si appresta ad affrontare il suo destino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ascesa di Skywalker?

Rey, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

No…?

L’ascesa di Skywalker è un disperato tentativo di mettere una pezza a Gli Ultimi Jedi (2017) e all’importante cambio di rotta di Rian Johnson, cercando il più possibile di annullarlo e, apparentemente, di dare al pubblico quello che vuole.

Ne risulta un film incredibilmente pasticciato, in cui i personaggi si muovono come marionette, spinti da un posto all’altro da meccanismi della trama e dalle totali inconsistenze della stessa, per un risultato veramente desolante…

Insomma, non mi prendo la responsabilità di consigliarvelo.

Cristo

Leia e Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Uno dei limiti maggiori di L’ascesa di Skywalker è il tentativo di fare due film in uno…

…e, sostanzialmente, di annullare Gli Ultimi Jedi.

Una tendenza che si vede chiaramente fin dalla primissima scena di allenamento di Rey: vengono – per motivi di minutaggio – saltati a piè pari i momenti di effettivo incontro e scontro di Rey con la Forza, mostrandocela fin da subito come una Jedi incredibilmente capace.

Ed è solo l’inizio.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Rey – ma anche Kylo – viene premiata con dei poteri veramente eccessivi – ma del tutto necessari per riuscire a portare avanti la trama – che avrebbero avuto un incredibile bisogno di essere introdotti e giustificati

Ne consegue che la protagonista non solo è capace di controllare i fulmini – tecnica incredibilmente complessa, soprattutto per un Jedi – ma di possedere anche poteri curativi al limite del cristologico, programmaticamente introdotti nella scena dell’incontro col serpente.

E non è neanche l’aspetto peggiore.

Soluzioni 

Ray, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

La trama e i personaggi vivono di deus ex machina.

Tutto il loro viaggio è puntellato da continui salvataggi e soluzioni servite su un piatto d’argento, ottenute veramente con poca fatica – Lando aveva sempre da parte il pugnale, C3-PO riesce a leggere la lingua Sith, la spia all’interno del Primo Ordine si rivela e li aiuta…

E ogni tentativo di rendere anche solo più drammatica o un minimo avvincente la loro ricerca cade inevitabilmente nel vuoto, in quanto tutti i possibili errori vengono risolti felicemente in pochissimo tempo, anche contro ogni logica.

Così Chewbacca per qualche motivo era su tutt’altra navicella, così Zorii Bliss passa dal voler uccidere Poe Dameron a regalargli la sua unica possibilità di costruirsi una nuova vita, per non parlare di come un pugnale riesce a corrisponde perfettamente alle rovine distrutte dal mare della Seconda Morte Nera…

Ma c’è un meccanismo della trama ancora più gustoso.

Presentimento

Ray e Poe in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Ogni qual volta che in L’ascesa di Skywalker non sanno come giustificare un momento della trama, si usa il presentimento.

Rey e Finn sono pieni di presentimenti e sensazioni del tutto ingiustificate, che permettono loro di prendere la scelta giusta – e il momento più alto è indubbiamente l’epifania di Finn su come distruggere la flotta di Palpatine e su quale fra le diverse navi prendere si mira.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Questa dinamica è particolarmente e tragicamente rivelatoria di un’incapacità di scrittura già presente in Il risveglio della Forza (2015), ma che in questo caso diventa ancora più evidente per il suddetto desiderio di incastrare due film in una sola pellicola.

Oltretutto, questo elemento è anche più tragico nel finale, in cui si mostra tutta l’incapacità di costruire in maniera convincente l’alleanza dell’intera Galassia con la nuova grande minaccia di un morto redivivo…

Confusione

Palpatine in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Proprio come questo film, Palpatine non sa cosa vuole fare.

Lasciando anche da parte l’assurdità della sua rinascita dopo la sua morte in Il ritorno dello Jedi (1983), questa pellicola riesce a rendere il principale antagonista della saga un personaggio inconsistente, non riuscendo a dargli un chiaro piano di azione.

Probabilmente l’idea sulla carta era di portare in scena un villain nell’ombra, che cercava di manipolare Kylo per fare in modo che gli portasse la sua erede, così da farle prendere il suo posto come nuova Imperatrice del Final Order.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Nel concreto, Palatine è totalmente confuso.

Parte dal voler – senza alcun motivo – eliminare Rey – cosa che poteva tranquillamente accadere – per poi dirle esplicitamente di ucciderlo per poterla possedere, per poi ricordarsi stupito – nonostante fosse il suo stesso piano – della Dualità della Forza.

Insomma, un villain introdotto all’ultimo dopo che Johnson aveva distrutto il vero cattivo della saga – Snoke – andando quindi a ripiegare su quello che Abrams sa fare meglio – e peggio: il fanservice esasperante.

Ombra

Ma il vero villain nell’ombra è Kylo.

Dovendo forzatamente riportare in scena Palpatine, il film finisce per mettere in ombra quello che dovrebbe essere il vero antagonista – e protagonista – di questo film, che finisce solo per rincorrere Rey e rimanere drammaticamente in secondo piano.

Un problema che si vede molto chiaramente nella scena della sua redenzione: un arco evolutivo che avrebbe dovuto svolgersi durante i tre film, ma che viene invece ridotto a pochi, patetici momenti.

Sembra insomma che basti una voce dall’etere della madre – con cui finora Kylo non aveva avuto nessun contatto – e il confronto con il fantasma del padre – oppure, secondo i produttori, il ricordo interattivo di Han Solo – per fargli cambiare idea.

E così diventa ancora più inconsistente il suo sacrificio, che ricalca quello di Anakin, per raccontare la storia di un villain vuoto e pasticciato, che non ha mai avuto un minimo di profondità…

…la stessa che manca al finale, in cui Rey si appropria di un nome che, evidentemente, non le appartiene.

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Gli Ultimi Jedi – Farò il mio Star Wars…

Star Wars – Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson, anche conosciuto come Episodio VIII, è il secondo capitolo della saga sequel.

Fin da subito si rivelò un prodotto assai divisivo: nonostante fu un grande successo commerciale – 1.3 miliardi di dollari di incasso per un budget di 300 milioni – il risultato al box office fu decisamente inferiore rispetto al precedente – e probabilmente influì sul flop del successivo Solo – A Star Wars Story (2018).

Di cosa parla Gli Ultimi Jedi?

Dopo aver ritrovato Luke Skywalker, Rey continua nella sua scoperta della Forza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Ultimi Jedi?

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Ancora una volta, dipende.

Considero questa pellicola leggermente migliore de Il risveglio della Forza (2015): a livello di gusto strettamente personale, ha un umorismo che, per quando non ci azzecchi nulla con la saga, io personalmente apprezzo, e che almeno mi ha strappato qualche risata.

Ma, soprattutto, Episodio VIII riesce a risolvere un problema del capitolo precedente: rendere un minimo più credibili gli archi narrativi dei protagonisti, pur essendo peggiore per il resto nella gestione della storia, con un eccesso ingiustificato di personaggi e situazioni che, in ultima analisi, si rivela incapace di gestire.

Ma come avventura a sé stante potrebbe anche intrattenervi.

Posizione

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Con il primo confronto fra Luke e Rey, Rian Johnson spiega chiaramente le sue intenzioni.

Ovvero, gettare dalla finestra il lavoro di Abrams.

In questo senso è veramente difficile capire quali parti della pellicola possano essere ricondotte alle poche direttive lasciate dal regista del primo film – il fanservice esasperante? Lo scheletro narrativo della storia di Finn? – ma tendenzialmente è chiaro che il nuovo regista ebbe sostanzialmente carta bianca.

E questo è un problema a tratti.

Leia Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Di fatto, Johnson fece il suo Star Wars, che, soprattutto per l’avventura di Finn e Rose, ricorda molto più Solo che qualsiasi altro film della saga – e nel senso più negativo possibile: per me, semplicemente, spesso non sembra di star vedendo una storia ambientata nella Galassia Lontana Lontana.

Tuttavia, col senno di poi, alcuni spunti erano potenzialmente interessanti.

In particolare, Rey.

Oscuro

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Rey poteva essere nessuno.

La tendenza generale di Johnson era di aprire nuovi orizzonti alla saga con protagonisti dal passato oscuro, cercando finalmente di smarcare Star Wars dalla famiglia Skywalker, per evitare che diventasse una soap opera.

In questo modo la saga avrebbe potuto aprirsi a nuovi personaggi e nuove storie, senza dover sempre ricollegare tutto in maniera forzata, finendo per minare le possibilità di una storia che altrimenti si sarebbe potuta espandere in tantissime direzioni.

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Infatti, Rey viene raccontata semplicemente come un personaggio predestinato a diventare l’altra metà della Forza, nonostante non abbia nessun effettivo legame con la famiglia di Kylo, apparente antagonista che cerca disperatamente di salvare, ricalcando la storia di Luke in Il ritorno dello Jedi (1983).

Nonostante sia sicuramente un’idea ridondante, tutto sommato nella sua esecuzione tenta quantomeno di rendere più tridimensionali i suoi protagonisti, anche con il continuo confronto fra Luke, Rey e Kylo, che lascia molto più spazio di evoluzione ai personaggi di quanto non avesse fatto Episodio VII.

Genuino

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

La gestione di Luke mi convince a metà.

Da una parte non mi dispiace l’idea di decostruire il personaggio, portandolo totalmente al suo opposto: da eroe che non si fermava davanti a nulla, a figura decaduta ed estremamente sfiduciata nei confronti del futuro della Forza e degli Jedi.

D’altra parte, capisco che questa non era – comprensibilmente – l’intenzione né di Abrams né di Mark Hamill stesso, che avrebbe voluto probabilmente raccontare il personaggio come un novello Yoda, che addestrava Rey per portarla ad essere pronta a scontrarsi con la sua nemesi.

Luke Skywalker e Leia in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

E, anche se mi dispiace vederlo tolto di scena nel giro di un film, mi convince tutto sommato il ruolo che ha nel finale, in cui gabba un Kylo così immaturo e accecato dalla frustrazione da rendersi neanche conto di star combattendo contro un fantasma.

Non forse la fine migliore, ma non sono sicura che Abrams avrebbe fatto meglio…

Discordanze

Fra Gli ultimi Jedi e L’ascesa di Skywalker (2019) c’è stato un inevitabile dialogo discordante.

Passando da film in film, i due registi presero e disfarono costantemente il lavoro dell’altro: se nel primo capitolo Kylo si mostrava per la maggior parte a volto coperto, nel sequel Johnson lo costringe a distruggere la maschera, la stessa che Abrams gli farà riparare…

…allo stesso modo Snoke, che nel primo capitolo poteva godere di una presenza scenica particolarmente minacciosa – sovrastava sempre il resto dei personaggi ed era quasi evanescente – sotto la gestione Johnson viene riportato con i piedi per terra e reso sostanzialmente sacrificabile.

E, come vedremo, questo sarà il più grande sgarbo a Abrams.

Ma il personaggio ancora una volta sacrificato è Finn.

Nel sequel vengono rimischiate le carte in tavola: il personaggio è più o meno forzatamente allontanato da Rey e fornito di un nuovo interesse amoroso, Rose, uno delle tante new entry portate alla ribalta da Johnson ed immediatamente ridotte alle retrovie poi da Abrams.

Oltretutto la sua storia sembra del tutto indipendente da quella di Rey per finalità e per taglio narrativo, deviando ancora una volta dal seminato di Abrams, costruendo una trama che viaggia ma su due strade parallele che a malapena si incontrano nel finale…

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Il risveglio della Forza – The Fast Wars Saga

Star Wars – Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams, anche chiamato Episodio VII, è il primo capitolo della cosiddetta saga sequel.

A fronte del budget più alto mai investito fino a quel momento per un film di Star Wars – ben 447 milioni di dollari – incassò 2 miliardi di dollari, posizionandosi – al tempo – al terzo posto fra i film col maggiore incasso di sempre.

Di cosa parla Il risveglio della Forza?

Diversi anni dopo Il ritorno dello Jedi, la Galassia è di nuovo sconvolta da una nuova realtà tirannica nata dalle ceneri dell’Impero: il Primo Ordine. Ma c’è ancora speranza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il risveglio della Forza?

Dipende.

La mia prima e ingenua visione di Il risveglio della Forza di ormai diversi anni fa mi lasciò complessivamente soddisfatta, anzi piacevolmente sorpresa da un prodotto da cui onestamente non mi aspettavo nulla – del tutto ignara di quello che sarebbe successo dopo…

E invece, ad una nuova visione più consapevole, mi sono resa conto che quello che consideravo l’unico capitolo davvero salvabile della nuova trilogia, è in realtà un film scritto in maniera estremamente approssimativa, che non funziona né come film di Star Wars né come film autonomo.

Ma se siete fanatici della saga al punto da emozionarvi anche per un remake così blando, probabilmente vi divertirete molto.

Introduzione

Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Come primo capitolo Il risveglio della Forza aveva principalmente il fine di introdurre i nuovi personaggi.

Eppure, è proprio su questo fronte che fallisce.

L’elemento più eclatante in questo senso è la gestione di Rey, la nuova eroina della saga, che risulta nient’altro che un contenitore vuoto, piegato alle esigenze della trama, incapace di esistere come personaggio autonomo, e incapace di anche il più blando confronto con la sua controparte: Luke.

E la mancanza di una caratterizzazione si nota particolarmente nel rapporto con BB-8.

Tutta la dinamica col piccolo droide fa evidentemente il verso all’analogo incipit di Una nuova speranza (1977), ma manca ingenuamente dello stesso respiro che definisca il rapporto fra i due personaggi, al punto che il picco drammatico – il tentativo di comprare BB-8 – risulta del tutto inefficace.

Ma Rey non è da sola…

Mancanza

John Boyega in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Se Rey tutto sommato può godere di un minimo di minutaggio introduttivo, il personaggio davvero più ingiustamente sacrificato è Finn.

Memore anche di Clone Wars, sarebbe stato potenzialmente molto interessante approfondire la storia di un clone ribelle, che però manca totalmente di un’introduzione – se non molto tardiva – portando in scena un personaggio con un arco evolutivo improvviso e, ancora una volta, inefficace.

Ma il suo personaggio ha un trattamento anche peggiore se si pensa al rapporto con Rey.

John Boyega e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Nelle intenzioni probabilmente si voleva creare un classico pattern di compagni di avventure che diventano anche innamorati, ma la gestione è stata un vero disastro – e neanche del tutto per colpa di Abrams…

L’unico momento vagamente credibile è quando si ritrovano nel finale sullo Star Destroyer, ed effettivamente Rey si dimostra decisamente riconoscente nei suoi confronti – ma perché a questo punto il film presuppone che loro abbiano già stretto un rapporto.

Ma parliamo di Han Solo.

Solo

Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

La gestione di Han Solo è quella che, nel complesso, mi ha convinto leggermente di più.

Ovviamente non per il rapporto con Rey, per cui diventa sostanzialmente una figura paterna nel giro di una fuga sul Millennium Falcon, ancora una volta negando ai personaggi il giusto respiro per sviluppare un rapporto…

…ma per la dinamica con Leia e con Kylo, per cui il film poteva contare sull’eredità di una storia d’amore iconica e su due attori di particolare valore – che comunque recitavano veramente al minimo delle loro possibilità.

Harrison Ford e Adam Driver in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Per questo, nel complesso, l’incontro fra padre e figlio funziona, e non solamente perché vediamo morire sullo schermo uno dei personaggi più amati della saga, ma perché nel complesso la dinamica è efficace e coinvolgente, grazie a due personaggi che, per diversi motivi, non sono totalmente da buttare.

Eppure, con Kylo ci provano in tutti i modi…

Eredità

Sulla carta riportare in scena sostanzialmente la storia di Anakin non era del tutto disastrosa.

Una scelta che si inserisce nell’idea di un soft reboot della trilogia classica, e che ancora una volta può contare sull’affezione del pubblico verso un personaggio estremamente rivalutato nel tempo, e che trova nelle capacità attoriali di Driver una nuova incarnazione complessivamente dignitosa.

Sicuramente in questo senso non aiuta la caratterizzazione di un villain che si comporta come un ragazzino ribelle, che però si rivela più interessante nella scena del primo confronto con Rey, quando Kylo cerca di penetrarle la mente, ma viene battuto al suo stesso gioco, mandando a pezzi il suo già fragile ego.

Adam Driver e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Ma, ancora una volta, Rey è il crocevia di tutti i problemi.

Probabilmente l’idea era di definire fin da subito le diverse tendenza dei personaggi, uno verso il Lato Chiaro, l’uno verso il Lato Oscuro, con anche un labile tentativo di Kylo di portare la ragazzina dalla sua parte, quando questa dimostra le sue incredibili capacità di dominare la Forza.

Ma, per l’ennesima volta, non solo manca un’adeguata costruzione di questo rapporto, ma ci sono proprio degli effetti buchi di trama: Rey sembra comprendere immediatamente e senza alcuna spiegazione il funzionamento della Forza e di come controllarla…

…riuscendo fin da questo film ad incarnare il modello della Mary Sue per eccellenza.

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Robot Carnival – Uno spaccato di anime

Robot Carnival (1987) è una raccolta di cortometraggi animati curati da nove registi e animatori giapponesi.

Al tempo venne proposto come OAV, Original Anime Video, ovvero un anime distribuito direttamente in videocassetta.

Di cosa parla Robot Carnival?

Proprio come un parco dei divertimenti, Robot Carnival raccoglie diverse ispirazioni da diversi registi con un tema comune: i robot.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robot Carnival?

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

Assolutamente sì.

È praticamente impossibile rimanere delusi con Robot Carnival: ci si trova davanti ad una tale varietà di toni, di temi e di tagli narrativi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta, con storie tutte diverse fra loro anche per stile artistico.

E se la poca presenza di dialoghi, o la loro totale assenza, potrebbe spaventare, a fine visione appare chiaro che gli stessi sarebbero stati del tutto inutili all’interno di una narrazione così ben strutturata da funzionare anche solo di musica e di suggestioni.

Rumore

Una scena di Franken's gear in Robot Carnival (1987)

Robot Carnival si apre con una collezione di rumori.

L’intro è visivamente aggressiva e sottilmente metanarrativa: sembra come se il colosso del film stesso, di questo strano parco dei divertimenti, entrasse prepotentemente in scena, distruggendo ogni cosa sul suo passaggio, anche gli indifesi spettatori.

Si passa poi ad un primo episodio semplice quanto efficace: una riproposizione moderna e robotica del classico di Mary Shelley: l’esperimento apparentemente fallimentare incorniciato dai rumori di laboratorio…

Una scena di Niwatori Otoko to Akia Kubi in Robot Carnival (1987)

…esplode in un climax ascendente per giungere a dinamiche non tanto dissimili dall’iconica scena di Frankenstein Junior (1974) ma con una ben più amara, quanto enigmatica, conclusione, in cui il successo dell’operazione sembra spezzarsi.

La stessa dinamicità si ripropone nel confusionario quanto surreale capitolo conclusivo, Niwatori Otoko to Akia Kubi, in cui un cittadino comune diventa testimone di una rivolta dei robot, che rinascono, si spezzano, cadono a pezzi in forme orrorifiche e incomprensibili.

Ma c’è spazio anche per il dialogo.

Dialogo

Una scena di Presence in Robot Carnival (1987)

Il dialogo in Robot Carnival è essenziale.

Nel terzo capitolo, Presence, lo è nel senso che è ridotto all’osso: la scena prima si anima di uno spaccato della difficoltosa vita dei robot nella società umana, per poi aprirci uno squarcio sulla vita del protagonista tramite un’intrusione nei suoi pensieri.

E questa impertinente macchina, questa creazione che sembra avere una vita propria, è anche l’unica che sembra comprendere la vera natura del suo creatore, che si è sempre privato dell’amore, vivendo una vita fra un gelido matrimonio e le sue invenzioni senza cuore.

Del tutto diversa l’atmosfera del penultimo capitolo, Strange Tales of Meiji Machine Culture: Westerner’s Invasion, in cui assistiamo ad un duello fra due enormi quanto primitive macchine, pilotate da un inventore squinternato e da una litigiosa coppia di ragazzini.

Un frangente che è l’unico veramente e propriamente comico della pellicola, con dinamiche che sembrano provenire da uno shonen degli Anni Ottanta (e non solo), e che permette allo spettatore infine di concedersi una risata.

Silenzio

Una scena di Deprive in Robot Carnival (1987)

In Robot Carnival ci sono diversi tipi di silenzi.

C’è il silenzio dei personaggi, che non hanno bisogno di alcun dialogo per raccontare la loro storia, ma che invece si avvicendano sulla scena con episodi estremamente dinamici e incalzanti, in piccole avventure a lieto fine.

È questo il caso sia di Deprive, in cui un’invasione aliena diventa lo sfondo per quella che si rivela infine una dolcissima storia d’amore con protagonista un’umana e un robot dall’aspetto cangiante, che infine la ragazzina riconosce nella sua nuova forma…

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

…sia di Starlight Angel, il mio preferito della serie, che riprende sostanzialmente le stesse dinamiche, ma in un contesto più giocoso e onirico, in cui un sofferto tradimento amoroso si risolve nella formazione di una nuova e felice coppia.

E infine il silenzio c’è il silenzio Cloud, un bozzetto a matita che si anima per raccontare di un piccolo robot che attraversa le diverse epoche terrestri, nella silenziosa quanto inevitabile vittoria e distruzione del genere umano.

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The World’s End – Stanchezza

The World’s End (2013) di Edward Wright è il terzo e conclusivo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto, dopo Shaun of the dead (2004) e Hot Fuzz (2007).

A fronte di un budget di più del doppio rispetto al precedente – 20 milioni di dollari – fu un mezzo disastro commerciale, con 46 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla The World’s End?

Gary King è un bambino troppo cresciuto che rimane ancora ancorato alle dinamiche della sua adolescenza, mentre tutti gli altri sono andati avanti senza di lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The World’s End?

Dipende.

A differenza dei suoi predecessori, The World’s End manca della brillantezza umoristica e narrativa tipica di Wright, che ebbe la sua ultima dimostrazione in Scott Pilgrim vs. the World (2010), per poi rivolgersi a pellicole più drammatiche.

Nella conclusione della trilogia troviamo un umorismo molto più caciarone, basato su dinamiche che alla lunga appaiono quasi ripetitive, e con una morale che mi ha davvero poco convinto.

Insomma, se volete concludere la trilogia, dategli una chance, ma non aspettatevi molto.

Indietro

Gary King è rimasto indietro.

Tutto il racconto introduttivo, che cerca debolmente di ricordare quello del precedente film, mostra un sogno meraviglioso della fine dell’adolescenza, il punto di arrivo di una storia di successi, che però è risultata infine monca.

Uno smacco nella memoria del protagonista, che tenta disperatamente e furbescamente di risolvere, andando a raccattare un improbabile gruppo di amici d’infanzia ormai cresciuti e con molte responsabilità sulle spalle.

Da qui parte un inevitabile e – almeno idealmente – comico contrasto.

Ma quanto può durare?

Statico

La linea comica principale della pellicola è debole.

O, almeno, lo è considerando i precedenti.

Anche gli altri due capitoli si basavano sul contrasto fra il protagonista e il mondo che lo circondava, ma erano anzitutto caratterizzati da una verve umoristica molto più originale e brillante…

…e, soprattutto, non si trattava di un contrasto statico: come in Shaun of the dead il protagonista passava dall’essere un personaggio passivo ad uno attivo e risolutore, allo stesso modo in Hot Fuzz Nicholas Angel trovava infine una nuova identità.

E in The World’s End?

Nel terzo capitolo Gary King è costantemente portato al centro della scena come elemento comico in maniera quasi esasperante, con i suoi comprimari che lo detestano apertamente e che criticano ogni suo atteggiamento.

E, in aggiunta, King non cambia mai – ed è una grande mancanza: se fino adesso Wright ci aveva abituato ad evoluzioni graduali ed organiche, in questo caso l’apice del personaggio è nella sua rivelazione finale, che però non determina un cambiamento.

Anzi…

Inverso

Il mondo si adegua a Gary King.

E vive una sorta di involuzione.

Gli alieni conquistatori cercano di imporre sulla Terra un miglioramento consistente, così che la stessa possa diventare un pianeta papabile per far parte di un’organizzazione intergalattica, e non rimanere l’anello debole della catena.

Una presenza significativa per l’umanità, che ha potuto ispirarsi a questa cosiddetta Rete per progredire nel suo avanzamento tecnologico, pur dovendo inconsapevolmente sacrificare molte persone in funzione di robot.

E qui si trova l’altra debolezza della pellicola.

Per quanto le morali del resto della trilogia fossero fondamentale piccole e intime, nondimeno erano di valore.

Nel caso di The World’s End invece assistiamo ad una risoluzione abbastanza discutibile, in cui Gary King sembra disposto a sacrificare secoli di avanzamento tecnologico in funzione di un proprio capriccio personale.

Infatti, infine il protagonista sembra l’unico ad aver guadagnato dal nuovo status delle cose, diventando il leader di un gruppo di Vuoti, andando così a realizzare il suo sogno adolescenziale di gloria e di riconoscimento sociale.

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Shaun of the Dead – Un mostruoso immobilismo

Shaun of the Dead (2004), noto in Italia col nome di La notte dei morti dementi, è il primo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright.

A fronte di un budget molto contenuto – 6 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo al botteghino, con 30 milioni di incasso.

Di cosa parla Shaun of the dead?

Shaun è un quasi trentenne che sembra essersi intrappolato in una vita ripetitiva da cui non riesce ad uscire. Ma qualcosa cambierà per sempre il suo modo di pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shaun of the Dead?

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Assolutamente sì.

Shaun of the dead è un’elegantissima parodia del cult di George Romero, Dawn of the dead (1978), riuscendo a riscrivere la satira del maestro dell’orrore ad un livello più piccolo, in un intimo e umoristico coming of age.

E, uscendo in un periodo in cui spadroneggiava lo spoof movie di scarsissimo valore alla Scary Movie, Edward Wright riuscì ad imporsi con il primo capitolo di un piccolo cult cinematografico che riuscì a rimanere nel tempo.

Insomma, è ora di cominciare la Trilogia del Cornetto!

Immobile

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è immobile.

La prima scena racconta come Shaun si trovi in uno stallo, in cui tutti i personaggi sembrano incastrati: nonostante il protagonista abbia una relazione pluriennale con Liz, nonostante sia ormai già un adulto con una vita autonoma…

…comunque la sua esistenza ruota attorno a poche, stringenti abitudini, in cui sembra essersi auto-confinato senza possibilità di uscita, al punto da non essere neanche capace di portare il suo fidanzamento al livello successivo – o anche solo a liberarsi dell’ingombrante presenza di Ed.

Ma anche il resto del mondo è immobile.

gli zombie in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Una rapida carrellata ci mostra un ventaglio di situazioni piuttosto comuni – il supermercato, l’attesa dell’autobus… – i cui protagonisti sembrano intrappolati in una routine rigida e ripetitiva, di cui non sembrano neanche consapevoli.

Un accenno che fa il verso in maniera piuttosto intelligente a Dawn of the dead, in cui gli zombie rappresentano proprio la spersonalizzazione di una società votata solo al consumismo, che si rifugia in dei non luoghi apparentemente accoglienti e confortevoli.

Proprio come il Winchester.

Indifferente

Bill Nighy in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è anche indifferente.

Nonostante intorno a lui diverse situazioni già raccontino la tragedia che sta per avverarsi, per la maggior parte del tempo – proprio come sarà per il protagonista di Scott Pilgrim vs The World (2010) – Shaun è totalmente ignaro…

…oppure, anche quando minimamente se ne accorge, si lascia facilmente distrarre da un nuovo stimolo, dall’apparizione di un nuovo personaggio, non riuscendo realmente a star concentrato sul momento, o a capire verso cosa veramente dovrebbe orientare le sue attenzioni.

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Infatti, sono gli stessi personaggi che devono continuamente ricordargli quello che deve fare, nonostante per il protagonista siano molto spesso, per l’appunto, degli impegni di nessuna importanza.

Ma la mancanza di uno di questi – l’appuntamento con Liz – si risolve in effetti nel primo vero cambiamento della vita del protagonista – la rottura – proprio quando Shaun dimostra, ancora una volta, di non sapersi adattare alle nuove situazioni.

Regressione

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Ma la rottura non porta ad un miglioramento.

Al contrario, sfocia in un’ulteriore regressione.

Shaun si fa coinvolgere ancora di più da Ed nella sua stasi di immobilismo e gioventù senza limiti, e, nonostante i suoi timidi tentativi di rimettersi in piedi – banalmente, scriverlo sulla lavagnetta del frigo – sembra che poco nella pratica si concretizzi.

Tanto più che, il giorno dopo, Shaun è ancora una volta del tutto inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno, nella sua ingenua passeggiata verso il supermercato, con gli zombie che hanno già invaso le strade…

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Eppure, è proprio questa l’occasione per cambiare.

Shaun e Ed ignorano deliberatamente gli ammonimenti del governo di rimanere chiusi in casa, e scelgono invece prima di combattere direttamente gli zombie – anche con un piglio molto giocoso e ironico – e quindi di mettersi, per la prima volta, in prima linea.

Eppure, anche in questa occasione sembra che Shaun percorra sempre i soliti pattern: il suo piano, per quanto intraprendente, prevede di ritornare in luoghi noti e familiari, rimettere idealmente e facilmente insieme la propria vita come se nulla fosse cambiato...

Ma ormai non è più possibile.

Scoperta

L’ultimo atto è il momento della scoperta.

Come Shaun programmava di salvare e, in qualche modo, di riappropriarsi di un amore materno univoco, si trova invece ancora una volta l’ingombrante presenza del patrigno, nonostante in questo caso ci sia un motivo effettivo per volersene liberare…

E invece questa è proprio l’occasione in cui Phil confessa al figliastro quei sentimenti che da soli riescono a risolvere il loro rapporto burrascoso, in cui l’uomo voleva solamente il bene di Shaun, che lo accetta come effettiva figura paterna solo quando ormai è troppo tardi.

Ma è anche l’atto in cui Shaun si riscopre.

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Se all’inizio era solo un personaggio incolore incapace di fare anche il minimo passo avanti nella sua vita, con il progredire della storia Shaun diventa sempre più abile nel gestire una situazione di estremo pericolo, prima riuscendo a sconfiggere fisicamente gli zombie…

…poi diventando autore della messinscena per integrarsi all’interno della nuova comunità di zombie senza farsi scoprire – ricordando alla lontana il finale di Terrore dallo spazio profondo (1978) – per riuscire così effettivamente a raggiungere l’ambito pub.

Ed è proprio qui che tutto va contro ai piani originali.

Cambiamento

Nonostante niente vada come sperato, Shaun al Winchester si riscopre ancora di più un leader, capace, nonostante i diversi tentativi di David di screditarlo, come l’unico capace effettivamente di portare il gruppo al sicuro e di allontanare il pericolo.

E, anche quando il piano non va ancora una volta come sperato, ormai è tutto diverso: se lo Shaun di un tempo avrebbe gestito in maniera ancora peggiore la situazione, lo Shaun del presente è l’unico che riesce a non farsi mordere.

Simon Pegg e Nick Frost nel finale di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

E infine, cosa è cambiato?

Una breve ellissi temporale racconta come il mondo non sia finito con la presunta apocalisse zombie, ma che invece gli stessi siano diventati un oggetto di intrattenimento perfettamente integrato nel mondo umano.

E così anche Shaun ha trovato finalmente il suo equilibrio: non un cambio radicale, ma una vita tranquilla e un po’ più variegata con Liz, mantenendo comunque viva l’amicizia con Ed, ora confinato al giardino nella sua nuova versione zombie.

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Dune – Parte due – La centrale monunentalitá

Dune – Parte due (2024) di Denis Villeneuve è il sequel di Dune (2021) e il secondo capitolo di una probabile trilogia di film tratta dai romanzi cult di Frank Herbert.

A fronte di un budget di 190 milioni di dollari – quindi poco superiore al primo – ha aperto molto bene al botteghino, con 180 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Dune – Parte due?

Dopo essere stato accettato dai Fremen, Paul Atreides deve scegliere il suo destino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune – Parte due?

Assolutamente sì.

Ma…

Dune – Parte due è un film monumentale, con una regia talmente elegante e precisa da poter essere paragonata ad altri grandi cult della fantascienza, con una resa visiva forse persino superiore al primo capitolo.

I difetti imputabili alla pellicola sono, a mio parere, veramente pochi, circoscritti ad una sceneggiatura in alcuni punti troppo affrettata, nonostante offra allo spettatore tutti gli elementi per comprendere la storia.

Gli altri difetti che potreste trovare riguardano la natura stessa dell’opera, che è inevitabilmente molto compassata nei ritmi, molto complessa nei concetti, nonostante la trama di fondo sia in realtà molto lineare.

Fremen

Paul vuole solo essere un Fremen.

Per due interi atti il protagonista si ribella al destino che gli è stato imposto, in maniera per lunghi tratti anche molto più violenta rispetto al primo film, andando a sfidare i piani non solo delle Bene Gesserit, ma soprattutto di sua madre.

Proprio per questo atteggiamento riesce infine a conquistare Chani, personaggio – al pari della sua controparte letteraria – davvero testardo ed insipido, molto legato alle sue origini e allergico al fanatismo religioso che serpeggia nel suo popolo.

La relazione fra i due personaggi l’ho decisamente più apprezzata rispetto al romanzo: Villeneuve ha voluto renderla molto più affettuosa e partecipata, caricandola di ulteriori significati, che danno maggior valore all’importanza della scelta finale di Paul.

La prova definitiva – cavalcare un verme, e persino un verme davvero grosso – corona questo piccolo arco evolutivo del protagonista, impreziosito da una regia impeccabile e profondamente coinvolgente.

Ma è un momento che rappresenta molto di più.

Ruolo

La gestione di Jessica è per me la meglio riuscita.

Il suo punto di partenza è la ribellione alle Bene Gesserit, pur incerta ed influenzata da una forte venerazione nei confronti delle stesse, e il cui momento di passaggio è l’accogliere all’interno del suo corpo e della sua mente le memorie di generazioni di Madri Superiori…

…e della sua stessa figlia.

La sua involuzione è definita anche dal suo cambio di aspetto.

Jessica prima si spoglia della sua identità di concubina del Duca Leto, si lascia inghiottire dal deserto, e rinasce come Madre Superiora, sempre più definita da un aspetto sontuoso e minaccioso – dai tatuaggi eloquenti al vestiario sempre più identitario.

La donna, insomma, intraprende anticipatamente il percorso che lo stesso figlio dovrà affrontare, sopportando il peso di una conoscenza così ampia che un tempo sarebbe stata possibile solo per una macchina, ma che in Dune – Parte due è nelle mani di pochi, potentissimi individui.

E il suo comportamento conferma le accuse del suo stesso figlio.

Nonostante per certi versi il destino di Paul sia definito e definibile, non si sarebbe mai avverato senza l’intervento di Jessica, senza la sua spinta anche piuttosto aggressiva, che arriva infine a costringere Chani a prendere parte al processo.

Un processo che deve prendere forma, nonostante le angoscianti prospettive di miseria e di distruzione di cui, non a caso, Jessica è l’assoluta protagonista, perseguendo il grande piano delle Bene Gesserit di prendere parte a svolgimenti secolari ed essere sempre vicine al potere.

Fanatismo

Le Bene Gesserit si nutrono del fanatismo che loro stesse hanno creato.

In questo senso Stilgar rappresenta proprio il frutto di questa operazione, andando a ricercare nei felici tentativi di Paul di integrarsi nel suo popolo tutti i segnali del compimento del suo destino come Lisan al Gaib, con reazioni a tratti persino ilari.

Così il capo dei Fremen riesce ad alimentare quella religiosità più prettamente popolare, diventando un vettore per il piano stesso delle Bene Gesserit, che vivono in una realtà troppo lontana e distaccata dal presente per intervenirvi così direttamente.

Ma Stilgar è anche un avvertimento per Paul: in questo personaggio il protagonista intravede il fanatismo a cui andrebbe incontro se si immergesse nelle misteriose terre meridionali di Dune, dove, scegliendo i giusti gesti, le giuste parole, sarebbe incoronato come Messia.

E l’opposizione è debole…

Piccolo

Gli Harkonnen sono minuscoli.

Infatti, quello che potrebbe sembrare un difetto – il poco spessore di questi villain – è in realtà totalmente funzionale a raccontarne la piccolezza, nella loro stupida rincorsa al potere e al guadagno immediato.

Così Rabban è solo l’anello più debole del piano della casata: convinto di poter stanare i Fremen nel loro stesso pianeta, chiamandoli ratti, infine fugge come un coniglio davanti alla loro evidente superiorità numerica e strategica.

Per questo, gli Harkonnen hanno bisogno di un nuovo campione.

E questo dovrebbe essere Feyd-Rautha, personaggio che ha vissuto coccolato all’interno di un’arena costruita apposta per farlo vincere, con persino dei combattenti messi ai lati per impedire che il Na-Barone venga messo in difficoltà o anche solo ferito…

Per questo, il Barone sceglie di metterlo alla prova, e il più giovane nipote Harkonnen dimostra, a differenza del cugino, di saper non solo essere crudele e aggressivo, ma anche capace di affrontare gli imprevisti.

Ma anche Feyd-Rautha è una pedina.

Per quanto possa essere raccontato come intelligente e astuto, in realtà basta una qualunque Bene Gesserit per insidiarlo, per farlo perdere dentro la sua stessa casa, per requisire il suo seme e tenerlo in serbo come piano alternativo.

Un personaggio insomma funzionale a raccontare come il destino di Paul dipenda tutto da lui stesso, e di come le Bene Gesserit siano unicamente interessate ad essere dalla parte giusta della storia – quella con il potere.

Trasformazione

Paul infine accetta la sua trasformazione.

Il suo cambio di passo così repentino è per me l’unico difetto davvero imputabile al film, che avrebbe dovuto investire maggiormente nello spiegare la trasformazione del protagonista, nonostante ci siano tutti gli elementi che, a mente fredda, la rendono chiara.

Semplicemente, Paul finalmente accede ad una comprensione onnicomprensiva della storia, vede chiaramente i futuri possibili e capisce che l’unico modo per riuscire a salvare Arrakis è comportarsi come i suoi nemici.

Così, diventa tutto quello che Chani odiava.

Paul si impone nel consiglio dei Fremen e ne ribalta le regole, mettendo in grande sfoggio i suoi neo acquisiti poteri, che gli permettono di avere un controllo sul presente e soprattutto sul futuro, cominciando così la sua vertiginosa scalata al potere.

Insomma, il protagonista prende infine in maniera significativa in mano il suo destino, comincia ad utilizzare quelle armi che aveva ignorato per lungo tempo, dopo che da più parti gli era stato quasi urlato in faccia quanto potenzialmente potessero essere fruttuose.

Ma non è finita.

Nonostante Paul sembri ormai il dominatore incontrastato di Arrakis, in realtà deve sottostare al rituale del duello per sottomettere definitivamente l’Imperatore e, soprattutto, per riportare dalla sua parte le dubbiose Bene Gesserit.

E, in ogni caso, la conclusione non è una conclusione: è solo l’inizio di una Guerra Santa disastrosa, dello spezzarsi del rapporto con Chani, puntando lo sguardo ad un probabile terzo capitolo in cui l’unico antagonista di Paul sarà lui stesso…

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Dune – Il prologo necessario

Dune (2021) di Denis Villeneuve è il primo capitolo della probabile trilogia di film tratti dal ciclo di romanzi cult di Frank Herbert.

Anche per via di una distribuzione criminale – negli Stati Uniti uscì allo stesso tempo al cinema e sul servizio streaming della Warner Bros – non fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 165 milioni di dollari, ne incassò appena 433 in tutto il mondo.

Di cosa parla Dune?

Paul è il primogenito della famiglia Atreides, che viene resa improvvisamente il vassallo dell’Impero nel prezioso pianeta Arrakis, anche detto Dune…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune?

Timothée Chalamet e Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Assolutamente sì.

Denis Villeneuve è riuscito dove persino David Lynch ha fallito: portare in scena un ciclo fantascientifico che già dal primo romanzo risulta estremamente complesso da rendere – per la mitologia, i significati e il taglio narrativo.

In questo senso, la scelta piuttosto ardita di rendere il primo film una sorta di capitolo introduttivo non solo è intelligente, ma assolutamente necessaria: prima di arrivare ai punti caldi della storia, è essenziale che il pubblico abbia una conoscenza robusta del mondo di Dune.

In ogni caso, non ve lo potete perdere.

Mitologia

Zendaya in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

La gestione della mitologia in Dune è impeccabile.

La sequenza introduttiva getta le basi fondamentali per la comprensione del complesso panorama politico, creando un climax narrativo sulla dualità di Arrakis: nelle parole di Chani Dune è un luogo splendido, incontaminato…

…ma è anche una fonte di inesauribile ricchezza, che ha portato al pugno di ferro della terribile famiglia Harkonnen, la cui dipartita non porta nessun sollievo al popolo dei Fremen, che invece già si chiedono chi sarà il loro prossimo oppressore.

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Un’introduzione che si ricollega perfettamente al protagonista…

…e in ben due modi diversi.

Come infatti Chani è la ragazza misteriosa – che rimane senza nome fino sostanzialmente alla conclusione della pellicola – protagonista degli strani sogni di Paul, che sembrano anticipare un futuro ora sereno, ora profondamente drammatico…

…sia nei piccoli inserti esplicativi di vari elementi della mitologia, essenziali per la comprensione del film e inseriti come parte della formazione del protagonista, profondamente interessato a capirne di più della sua nuova casa.

Piccolo

Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Dune viaggia a due velocità.

All’inizio il fulcro della storia sembra la piccola storia di gelosia politica che ha come protagonista il Duca Leto, un personaggio più volte definito come sacrificabile e poco importante nel grande schema delle cose.

Non è un caso che Leto sia l’unico raccontato come smaccatamente positivo, consapevole dell’inganno in atto, ma deciso a portare fino in fondo la sua missione, volendo distinguersi dal crudele cugino Harkonnen.

Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

A differenza infatti dei precedenti oppressori, Leto cerca un dialogo con i Fremen.

Mandando in avanscoperta il suo migliore guerriero – Duncan – accettando tutte le stranezze del popolo – come quando Stilgar sputa davanti ai suoi occhi – e accogliendo tutte le condizioni che gli indigeni gli impongono.

Questa suo tentativo di essere conciliante si dimostra infine fallimentare all’interno di un panorama politico dominato dall’inganno e dalla violenza, in cui la morte di Leto diventa sia lo sfogo della gelosia dell’Imperatore, sia la spinta necessaria per il concretizzarsi del destino di Paul.

Crudele

Stellan Skarsgård in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Il Barone Harkonnen è un villain incredibile.

Il film è riuscito perfettamente ad inquadrare un personaggio profondamente – a tratti quasi inutilmente – crudele, con la sua presenza imponente e terrorizzante, sempre intento ad intessere una trama di inganni e crudeltà, finalizzata unicamente al guadagno.

Particolarmente elegante ammorbidire un personaggio davvero impresentabile al cinema, ma nondimeno inserire indizi del suo terribile carattere: diciamo solo che i ragazzini che appaiono come servitori, in realtà lo servono soprattutto in altro modo…

Stellan Skarsgård in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

In generale, il Barone incarna il senso di Dune.

Il mondo di Herbert è basato sull’inganno nell’ombra, la trama politica nascosta – di cui Vladimir Harkonnen è lo splendido protagonista – in cui l’attacco diretto, l’azione ne è solo l’ultimo capitolo – ed infatti i momenti dedicati alla stessa sono pochissimi.

Eppure, persino questo villain appare minuscolo nel grande schema narrativo: pure se per motivi totalmente diversi, anche il Barone è concentrato unicamente sul guadagno immediato, sul potere politico presente…

Dominio

Infatti, il vero potere è nelle mani delle Bene Gesserit.

Questa congrega centenaria di donne è riuscita a spingere oltre ogni limite le potenzialità dell’umanità, destinata a sostituire la macchina: secondo la religione dominante, le tecnologie sono ridotte all’osso, e l’umano stesso deve diventare un computer vivente.

In questa ottica, la preziosa spezia che per gli Harkonnen e l’Impero è solo una fonte di guadagno, per le Bene Gesserit è invece uno strumento che permette loro di costruire un piano spalmato su arco temporale di secoli, se non millenni.

Rebecca Ferguson in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

In questo schema, Jessica è solo una pedina.

Una pedina che, però, ha scelto di fare di testa sua.

La donna ha cercato di imporsi nello stringente piano della sua sorellanza, sfidando il potere delle Madri per intrecciare la sua linea di sangue con Leto e far nascere una figura mitologica dai tanti nomi – Kwisatz Haderach, Lisan al Gaib – che sarà protagonista dell’ambigua sorte di Dune.

Ma, soprattutto, Jessica ha scelto di sfidare il potere delle Bene Gesserit, formando un maschio ai poteri propri di una religione esclusivamente femminile, ponendo le basi per un destino ancora oscuro ed imprevedibile.

Imposto

Zendaya e Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Per questo, il destino di Paul è imposto.

Al riguardo, è stato piuttosto intelligente da parte del film inserire un elemento estraneo alla narrativa di Herbert: nel romanzo il protagonista accettava quasi passivamente, e con estrema freddezza, la sorte che era stata scelta per lui, come se fosse qualcosa di inevitabile.

Al contrario, nella pellicola Paul è costantemente tormentato da omen, visivi e vocali, che gettano i semi per la comprensione del suo fondamentale ruolo nella storia di Dune, che il personaggio vive ora con angoscia, ora con una genuina disperazione.

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Ma la vera evoluzione di Paul è uscire dal controllo della madre.

Per assumere il suo ruolo, il protagonista deve effettivamente immergersi nella realtà di Arrakis, basata sull’idea di adattamento, non l’imposizione: i Fremen sopravvivo su Dune perché hanno imparato a conviverci, a muoversi imitando i naturali movimenti del deserto…

…al contrario degli oppressori che si sono susseguiti, i quali, nella loro corsa al guadagno e al profitto, si sono lasciati in più momenti divorare dai veri dominatori di Arrakis, ovvero i Vermi della Sabbia, attirati proprio dai segnali di mutamento dell’ambiente.

Per questo, Paul deve imparare a farne parte.

Inizio

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Il destino di Paul è incerto.

Più viene a contatto con il deserto, e quindi con la spezia, più il protagonista si rende conto che la sua vittoria passa attraverso il lasciarsi guidare dagli istinti, intendere gli stimoli che lo circondano…

…e non pensare che gli avvenimenti futuri siano già stati matematicamente decisi, ma piuttosto viverli come ancora del tutto definibili dalle sue azioni e delle sue scelte – in particolare, la scelta di diventare personaggio attivo della storia.

Infatti, Paul riesce a diventare effettivamente protagonista del suo destino quando sceglie di farsi ingoiare da Dune: immersi nella terribile bufera di sabbia che avrebbe ucciso chiunque, il protagonista capisce che non deve forzare la sua presenza in quell’ambiente…

…ma piuttosto lasciare che la sua navicella si immerga nel pianeta, ascoltandolo e così capendo quale direzione prendere per arrivare alla prima tappa del suo viaggio predestinato: l’incontro con i Fremen.

Ma anche in questo caso, è un evento ambiguo.

Infatti, quando finalmente Paul si trova davanti sia a Chani sia, soprattutto, a quello che dovrebbe essere il suo futuro alleato – il Fremen Jamis – capisce che il futuro è ancora tutto da scrivere.

Per questo accetta infine l’inevitabile morte dell’uomo che gli si è opposto, non forza la relazione con la misteriosa ragazza, ma piuttosto accetta di entrare a far parte dei nativi, muovendo i primi passi verso questo nuovo inizio.

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Ready Player One – È solo un gioco?

Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, benché non sia stato forse l’incredibile successo economico che ci si aspettava, è diventato in poco tempo un piccolo cult.

Infatti, a fronte di un budget di 175 milioni di dollari, ha incassato appena 600 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Ready Player One?

Terra, 2045. Wade vive in un mondo che da decenni ha una sola ossessione: OASIS, un gioco multigiocatore il cui solo limite è la fantasia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ready Player One?

L'avatar di Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Ready Player One è uno spettacolo per gli occhi, uno dei migliori progetti artistici ad alto budget degli ultimi anni, fra l’altro diretto con grande precisione ed eleganza da un regista del calibro Spielberg, che omaggia una pop culture che lui stesso ha contribuito a formare.

Tuttavia, il grande problema di questo film è la sua ossessione nel voler sminuire il mondo dei videogiochi e della realtà digitale, insistendo su come le stesse siano esperienze irreali e per questo poco significative, utilizzando fra l’altro motivazioni piuttosto triviali…

Insomma, da vedere, ma preparati.

Finzione

L'avatar di Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il mondo di OASIS è spettacolare.

La sequenza iniziale – così come quella finale – è uno dei migliori esempi di utilizzo consapevole della CGI, impreziosito da una regia attenta e precisissima, riuscendo a portare in scena una sequenza piuttosto affollata e apparentemente confusionaria in maniera chiara e comprensibile.

E bastano poche righe di sceneggiatura per raccontare le informazioni essenziali del mondo in cui la storia si muove, senza andarsi a perdere in una mitologia troppo complessa, ma invece introducendo gradualmente i diversi elementi in gioco.

L'avatar di Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In particolare, davvero indovinata la rappresentazione della morte degli avatar all’interno del gioco, con un’esplosione non solo di monetine, ma, come si vede nel finale, anche di tutti gli oggetti accumulati negli anni dal giocatore.

Ancora più incredibile è il character design semplicemente splendido dei diversi personaggi, che riescono a ricalcare l’aspetto reale degli attori con degli avatar che già da soli rappresentano uno splendido omaggio alla cultura pop.

E non è finita qui.

Quest

Il Fondatore in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il film sarebbe già stato perfetto per la sua fantastica resa del mondo di gioco.

Ma la trama è persino impreziosita da un mistero intrigante ed avvincente, che si sviluppa all’interno di una quest piuttosto classica, ma che racconta la genuina passione degli autori per il tema fondante della pellicola.

Personalmente la mia tappa preferita è la prima: pur nella sua semplicità, mi colpisce sempre per la brillantezza della quest e della sua risoluzione, che riesce a ricalcare una sequenza già splendida – la corsa – ma riproponendola in una veste nuova e per nulla scontata.

Non meno splendidamente realizzata la seconda quest, dedicata a una rilettura di Shining (1980), che utilizza l’escamotage del personaggio ignorante sulla materia per riproporre in una veste nuova alcuni degli elementi più iconici del film.

Così l’ultima tappa è uno splendido omaggio ad uno degli elementi a tratti più avvincenti dell’esperienza videoludica: scovare gli easter egg nascosti, la cui scoperta è talvolta effettivamente più intrigante della banale vittoria contro il boss di turno.

Ma Ready Player One vive di omaggi.

Omaggio

Il gigante di ferro in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In Ready Player One si contano quasi 140 citazioni.

Da Il gigante di ferro (1999) a Animal House (1978), da colossi del mondo videoludico – almeno al tempo – come Overwatch e Mario Kart fino a cult imprescindibili come Gremlins (1984) e Akira (1988), il film è un enorme omaggio alla cultura pop.

Ed è un omaggio che, nonostante l’affollamento di citazioni, non appare mai forzato o eccessivo, ma perfettamente integrato all’interno della narrazione, con elementi ora centrali alla scena, ora sapientemente relegati nelle sue retrovie.

E non è cosa da poco.

E proprio per questo un dubbio mi sale…

Gioco…

Wade e Halliday in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

È solo un gioco?

Davanti ad una costruzione così articolata, all’omaggio per nulla scontato, anzi quasi alla celebrazione della cultura pop e videoludica, mi ha sempre stranito quanto Ready Player One sembri odiare il mondo che porta in scena.

O, almeno, se non odiare, quantomeno profondamente sminuire, insistendo su un’idea veramente vetusta per cui i videogiochi – e il mondo virtuale in genere – siano un’esperienza irreale, che deve rimanere confinata al semplice passatempo.

Insomma, all’esperienza videoludica prima maniera.

Discorso che avrei potuto accettare forse negli Anni Ottanta e Novanta, ma che oggi quanto nel 2018, in una realtà così variegata e in continua ascesa, con alcuni titoli videoludici che rivaleggiano col cinema stesso, mi sembra un’idea davvero superficiale e superata.

Per questo mi disturbano profondamente gli ultimi due atti, in cui si cerca di sottolineare quasi ossessivamente la differenza fra realtà e finzione, come se un nome da noi creato online non ci potesse definire, come se i rapporti del protagonista non fosse già profondi ed importanti anche prima di incontrare nella realtà i suoi amici…

Villain

Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Secondo questo concetto, il villain è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Il suo ruolo è definire in maniera netta la differenza fra un mondo videoludico – e digitale – passato e quasi privo di interessi economici, e una realtà futura – e in qualche modo ormai presente – ingoiata dalla pubblicità e guidata unicamente dal profitto.

In questo modo, il film rimane su un piano veramente semplice e ingenuo, non presupponendo neanche la possibilità di una serena via di mezzo, fra l’azienda assassina che crea campi di concentramento e un mondo digitale senza regole.

Allo stesso modo, la storyline dedicata alla sconfitta del villain l’ho trovata poco interessante, in quanto basata su schemi narrativi piuttosto classici, provenienti proprio dai tanto sospirati Anni Ottanta-Novanta, risultando però così l’elemento meno indovinato del film.

Tanto più che la storia di Sorrento, anche nella sua semplicità, non ha il coraggio di compiere il passo decisivo verso una riflessione più profonda riguardo alla penetrazione delle aziende all’interno del mondo dell’intrattenimento.

Ed è un’importante mancanza.

Realtà?

Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

La visione nostalgica di Ready Player One l’avrei anche potuta accettare se avesse fatto un passo in più verso una riflessione più sentita e contemporanea, invece che ridurre il tutto ad uno stereotipo piuttosto superato del nerd senza una vita sociale.

Infatti, se nel finale il film mi avesse raccontato che la sospensione settimanale dell’accesso ad OASIS fosse finalizzata a ricreare la comunità, a ricostruire le città distrutte, a smuovere il governo verso investimenti lungimiranti, sarebbe stato anche uno spunto riflessivo interessante…

Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

…invece la messinscena e la sceneggiatura sembrano ridurre il tutto al protagonista che diventa più sessualmente intraprendente, andando a sanare la colpa di James Halliday, con una eloquente chiusura della pellicola su Wade e Samantha che si baciano appassionatamente.

Insomma, due protagonisti sono infine concentrati solo sulla loro piccola realtà, ma del tutto ignari di tante persone intorno a loro che potrebbero per i più svariati motivi – distanze fisiche incolmabili, disabilità… – non poter sentire per due giorni i loro più cari affetti…

…non potersi svagare da una realtà magari irrimediabilmente angosciante.