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War for the Planet of the Apes – La fine del viaggio

War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves è l’ultimo (per ora) capitolo della saga reboot de Il pianeta delle scimmie.

Nonostante il riscontro commerciale fu buono, subì una battuta di arresto rispetto al precedente: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi 500 milioni.

Di cosa parla War for the Planet of the Apes?

Dopo il tradimento di Koba, la guerra è iniziata e Cesare dovrà prendere delle importanti decisioni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere War for the Planet of the Apes?

Cesare (Andy Serkis) in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Assolutamente sì.

War for the Planet of the Apes è un ottimo punto di arrivo per la storia di Cesare, scegliendo un nuovo taglio narrativo: il viaggio.

L’aspetto registico e interpretativo rimane sempre altissimo, con Matt Reeves e Andy Serkis che ancora una volta sono elementi imprescindibili per portare in scena un blockbuster di altissimo livello.

Un capitolo ancora più cupo e sofferto, che non vi potete perdere.

La ricerca della pace

Cesare (Andy Serkis) in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Cesare manca dalla scena per buona parte dell’incipit.

Immergendoci in atmosfere alla Apocalypse Now (1979), scopriamo questa guerra autodistruttiva e insensata, in cui gli uomini sfidano la potenza delle scimmie, rimanendo inevitabilmente sopraffatti…

E dopo una lunga sequenza, Cesare riappare nella monumentalità interpretativa di Andy Serkis, che si dimostra come l’unico che cerca veramente la pace fra le forze in gioco, nel tentativo di preservare la sua tribù…

Ma ogni tentativo è inutile quando ci si trova davanti ad un nemico imperscrutabile come il Colonnello, che non si vuole fermare, il cui motore dell’azione è un principio che non si può sradicare…

Rimanere umani

Con l’uccisione della sua famiglia, Cesare rischia di ricadere nello stesso errore di Koba.

Ormai costretto ad imbracciare armi umane, ad essere molto più umano nei comportamenti di quanto avrebbe mai voluto, sceglie la via più immediata ed istintiva: la vendetta.

Ed è una vendetta necessaria.

Ma al contempo riesce a non cadere del tutto nell’errore di Koba, a non disprezzare tutta la razza umana per l’azione di un singolo. E questo proprio grazie all’incontro con la bambina, la cui presenza inizialmente lo disturba, ma che si rivelerà necessaria…

Nova è infatti una creatura docile e pura, anzi una creatura da proteggere, che fa parte di quella schiera di deboli e oppressi che Cesare si era proposto di salvare…

Un parallelismo doloroso

Bad Ape in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Per quanto non venga detto esplicitamente, è evidente che il campo di concentramento faccia riferimento ad una pagina molto buia del Novecento…

Le scimmie, le bestie, vengono schiavizzate per portare avanti il folle piano del Colonnello, rinchiuse in recinti senza copertura, in balia dei cambiamenti del clima, senza protezione, nutriti alla peggio come maiali.

Non manca nondimeno anche una metafora cristologica nella figura del Cesare crocifisso, che si prende sulle spalle tutti i dolori del suo popolo e ne diventa il Salvatore, resistendo di fronte ad ogni forma di ingiustizia.

Eppure, proprio Cesare è considerato sacrilego…

Nascondersi

Il Colonnello rappresenta il volto più estremo dell’umanità.

Incapace di mettersi davvero davanti alle sue colpe, derubrica il suo fallimento, il suo disastro ad una punizione divina posta sopra al suo capo come sfida ultima dell’umanità per la sua salvezza.

Secondo questa concezione, l’uomo è l’unica specie che ha il diritto di vivere sulla Terra, e per questo deve essere indubbiamente destinato a salvarla, per evitare che diventi il pianeta delle scimmie.

Tuttavia, il Colonnello non si rende conto che il suo stesso tentativo di salvezza si tradurrà solo in ulteriore guerra, in ulteriore distruzione, che porterà ancora una volta l’umanità ad essere distruttrice di sé stessa.

The War for the Plane of apes Il finale

Il finale è il vero momento di riscatto di Cesare.

Arrivato al letto di morte del suo nemico mortale, è messo davanti ad una scelta: proseguire fino in fondo con la sua vendetta, oppure defilarsi per sempre da questo conflitto, non volendone essere partecipe in alcun modo.

E Cesare sceglie la seconda.

Sceglie di non essere neanche per un momento l’esecutore della distruzione dell’umanità, anche se in quel momento è stata ricercata, di non cadere così in basso nel distruggere il nemico, quando lo stesso ci riesce benissimo da solo…

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2023 Avventura Azione Cinecomic Comico Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione Sony Spider-Verse

Spider-Man: Across the Spider-Verse – Il canone tirannico

Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson è il sequel del quasi omonimo film del 2018, con protagonista Miles Morale – l’altro Spiderman.

Un film che promette molto bene al botteghino: a fronte di un budget di circa 100 milioni, ha già raddoppiato i suoi costi di produzione, con 208 milioni di incasso nel primo weekend.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Dopo più di un anno dall’incontro con lo Spider-Verse, Miles e Gwen stanno facendo i conti con i loro irrisolti problemi familiari…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Assolutamente sì.

Spider-Man: Across the Spider-Verse compie diversi ed importanti passi avanti rispetto al precedente film – che era già ottimo: una tecnica artistica che si evolve in nuove direzioni, raccontando visivamente in maniera nuova e fresca i diversi universi, retta anche da una scrittura molto più consapevole.

Infatti, questo film nasce inizialmente come un unico prodotto, ma si è scelto successivamente di dividerlo in due parti. E, a fine visione, sono sicura che di questo capitolo non avreste tolto un minuto: un’introduzione potente e robusta per una storia monumentale.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Ricominciamo da Gwen

Gwen Stacy in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spider-Man: Across the Spider-Verse ricomincia, a sorpresa, da Gwen.

Il suo personaggio è quanto essenziale, quanto poco esplorato nel precedente capitolo. In questo caso, invece, domina la scena per la primissima parte della pellicola, ri-raccontando per certi versi – ma in maniera più approfondita – il trauma personale che la definisce come Spider Woman.

E da qui si sviluppa anche il dramma del rapporto non risolto col padre, che si esplica anche in un senso di forte solitudine, di necessità di trovare un’identità e di far parte di un gruppo – ovvero la Spider Society.

Ma con una scelta che la porta – e per non poco tempo – ad abbandonare il padre stesso…

I super problemi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

La seconda parte del primo atto è invece dedicata a Miles.

Anche il giovane protagonista sta affrontando questioni non tanto dissimili da quelle di Gwen, anche se con un taglio narrativo decisamente molto più ironico – in funzione del finale, che invece raggiunge un picco drammatico non indifferente.

Ancora una volta, scopriamo Miles prima come Miles, e poi come Spiderman.

Un ragazzo che sta vivendo un momento di passaggio in realtà abbastanza tipico per il suo personaggio: pensare a che tipo di vita costruirsi oltre alla sua identità segreta, a vivere il peso di rivelare la stessa ai genitori – soprattutto al padre.

Ma anche Miles si lascia momentaneamente il problema alle spalle, per unirsi alla Spider Society.

Un villain di contorno?

Spot in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spot ha un ruolo tutto particolare.

Inizialmente sembra veramente un villain puramente comico, il villain della settimana, che Spiderman sconfigge facilmente, per poi passare al prossimo super problema.

Ma lui stesso si ribella da questo ruolo, riuscendo invece a riscoprire i propri poteri come molto più interessanti di quanto aveva compreso finora. Purtroppo, le sue motivazioni sono molto banali: vendicarsi su Spiderman.

Per questo motivo nel terzo atto di fatto scompare, rimanendo solo come una minaccia nell’ombra, che aggrava ancora di più una situazione già di per sé assai spinosa…

Il problema del canone

Il vero nemico di Spider-Man: Across the Spider-Verse è Spiderman stesso.

Con un ottimo gioco metanarrativo, si racconta come tutti gli Spiderman, proprio per riuscire a mantenere intatto quello che volgarmente chiamiamo Spider-Verse, devono accettare e di fatto sottostare alle regole del canone.

In questo modo si giustifica come il personaggio, nelle sue varie incarnazioni cinematografiche – in particolare quelle della Sony – ripercorra bene o male le medesime tappe e affronti i medesimi problemi, pur con le dovute differenze.

Ma è questo il vero dramma.

Miguel O'Hara in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spiderman per essere tale è costretto ad affrontare anche traumi davvero sconvolgenti, che solitamente riguardano la perdita degli affetti.

Per questo il personaggio di Miguel O’Hara è così tanto grigio: avendo vissuto sulla sua pelle cosa significa davvero andare contro il canone e vivere solamente per sé stessi, lo impone giustamente (?) anche a tutti gli altri.

Ma Miles è ancora troppo giovane, troppo inesperto – ancora una volta – e non è pronto ad affrontare un nuovo trauma in così poco tempo. Un trauma che, con ogni probabilità, lo porterebbe ad una distruzione della sua identità e a chiudersi in sé stesso.

E allora cos’è più importante?

Salvare sé stessi o salvare il multiverso?

Spider-Man: Across the Spider-Verse finale spiegazione

Il finale di Spider-Man: Across the Spider-Verse è piuttosto oscuro.

Quantomeno inizialmente Gwen ottiene un finale positivo: anche se scopre che per colpa sua il padre ha lasciato il lavoro da poliziotto, in questo modo non diventa capitano della polizia, non seguendo quindi la strada del canone che l’avrebbe portato alla morte.

Invece il finale di Miles è quasi macabro.

Finalmente pronto ad affrontare i suoi genitori per rivelare la sua identità segreta, il protagonista si confida con la madre, che sembra non capire di cosa stia parlando. E, se in un primo momento la situazione sembra credibile, minuto dopo minuto la verità comincia ad emergere…

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Miles ha sbagliato universo, è finito in quello da cui deriva il ragno che l’ha morso, dove proprio per questo manca uno Spiderman. E non è neanche la cosa peggiore: Miles, perdendo il padre e non essendo morso dal ragno, è diventato un supercattivo, Prowler.

Ed è piuttosto credibile: nel primo film veniva raccontato quanto Miles fosse legato allo zio, quindi è altrettanto comprensibile che, in mancanza di un’altra strada, si sia lasciato sedurre dalla possibilità di essere super, ma dalla parte sbagliata…

Spider-Man: Across the Spider-Verse Andrew Garfield Donald Glover

Spider-Man: Across the Spider-Verse è il miglior racconto del multiverso di Spiderman portato finora al cinema.

La tecnica narrativa e artistica si arricchisce, portando nuovi e fantastici personaggi, ognuno definito da una propria estetica, peculiare e unica: dallo Spider Punk all’Avvoltoio di Età Rinascimentale.

Ma anche Gwen ha una propria identità visiva, quasi espressionista: una realtà molto sfumata, che cambia a seconda delle sue emozioni.

Un multiverso incredibilmente intelligente, che riesce anzitutto a portare un’ironia metanarrativa particolarmente indovinata:

Ma, soprattutto, sembra mettere finalmente un punto al rapporto fra live action e realtà animata nell’Universo Marvel-Sony.

Semplicemente, i personaggi in live action rimangono tali, non cambiano entrando nell’universo animato. E così il film si collega a tutti gli altri Spiderman della Sony, in maniera molto più organica rispetto a No Way Home (2021).

Ma il collegamento più importante è anche quello che potrebbe sfuggire: Donald Glover nei panni di Prowler, che molti potrebbero essersi dimenticati che è apparso – pur con un minutaggio limitato – in Spiderman: Homecoming (2016):

Quindi già al tempo sapevamo dell’esistenza di Miles Morales nell’universo live action.

Quindi è probabile che questi due mondi – animato e live action – rimangano divisi – e che altrettanto probabilmente ci sarà un Miles Morales diverso in live action (nel già annunciato film) e un sequel di No Way Home, che sembra già essere in produzione.

Così, se tutto va bene, non faranno un disastro.

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Avventura Azione Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Star Wars - Gli spin-off

Solo – A flop story

Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard è stato il secondo tentativo di portare una storia spin-off nell’universo di Star Wars al cinema, dopo Rogue One (2016). E con risultati molto diversi…

Non a caso fu un discreto flop: a fronte di un budget stimato di 275 milioni di dollari, ne incassò appena 392 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla Solo?

Il giovane Han (non ancora Solo) è imprigionato dal pianeta Corellia, sotto lo stringente controllo di Lady Proxima. Ma ha forse trovato finalmente una via di fuga…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Solo?

Chewbecca in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Sì e no.

Solo non è un prodotto che mi sento di sconsigliare in toto, ma sicuramente non ve lo raccomando se vi è piaciuto Rogue One o se siete amanti di Star Wars: semplicemente, non è un film della saga.

È un generico film di fantascienza su cui hanno appiccicato alcuni elementi di Star Wars, con una scrittura assai banale, un protagonista che purtroppo non ha un’unghia del carisma di Harrison Ford e una storia nel complesso veramente poco appassionante…

Perché Solo è stato un flop?

Il flop di Solo è secondo me la coincidenza di diversi fattori.

Anzitutto, il periodo di uscita: a differenza di Rogue One, che arrivò in un momento di rinascita del brand, il mercato cinematografico nel 2018 era ormai saturo di Star Wars, con già cinque nuovi prodotti nel giro di pochi anni.

In secondo luogo, Solo partiva molto più svantaggiato: se il precedente spin-off era uscito dopo un film accolto abbastanza positivamente dal pubblico, questa pellicola arrivò dopo Gli ultimi Jedi (2017), prodotto che ancora oggi è incredibilmente divisivo per il pubblico.

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

In ultimo, forse più indirettamente, la situazione dei personaggi della trilogia originale non era delle più rosee: sia Luke che Han erano ormai morti per il canone, e in particolare Harrison Ford si era prestato controvoglia al ritorno nel personaggio.

E se a tutto questo si aggiunge la scarsa qualità della pellicola…

Dove si colloca Solo?

Solo è ambientato esattamente dieci anni prima di Una nuova speranza (1977).

Cominciamo male

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Per molti tratti, ho avuto la sensazione che Solo volesse copiare spudoratamente Rogue One, ma senza capirne i punti di forza.

Infatti, l’incipit è molto simile: una sorta di prologo, a cui segue un’ellissi temporale abbastanza ampia, che purtroppo diventa totalmente irrilevante vista banalità dello sviluppo del rapporto fra Han e Qi’ra.

Ma non è finita qui.

Anche peggio è come si compone il gruppo principale della storia: sia per l’introduzione di Chewbacca, totalmente out of character, ma soprattutto con la devastante debolezza delle motivazioni che portano Tobias ad accogliere Han nella sua squadra.

Basta un così veloce scambio di battute per far passare il personaggio dal voler condannare il protagonista a morte all’includerlo in una missione così importante e pericolosa?

Il mancato interesse

Una cosa che Rogue One aveva capito molto bene è quanto sia essenziale che la storia raccontata sembri importante allo spettatore.

Se ci pensate, tutti i prodotti cinematografici di Star Wars hanno come fine ultimo qualcosa di davvero importante – solitamente la salvezza della galassia – che riesce a coinvolgere lo spettatore all’interno di una dinamica imponente e fondamentale.

Invece, perché dovrebbe importarmi della storia di Solo?

Tutta la missione non sembra altro che una side quest molto diluita, un riempimento sentito come necessario per arrivare a due ore di film e per collegare infine tutti gli elementi che caratterizzano il personaggio di Han Solo.

E non è neanche credibile.

Un film di nicchia

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Vi ricordate quando parlavamo di quanto fosse importante in Rogue One la scelta di eliminare tutti i personaggi in scena, per evitare buchi di trama incolmabili con la Trilogia Originale?

Solo non solo sbaglia in questo, ma fa gli stessi errori dei film successivi.

Andando a fare qualche ricerca, si scopre che il futuro di Q’ira dopo questa pellicola viene raccontato nell’Universo Espanso a fumetti, usciti, ovviamente, dopo La trilogia originale.

Prodotti di nicchia, per la maggior parte non conosciuti dal grande pubblico.

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

In questo modo, si dà per scontato che lo spettatore non abbia un cortocircuito mentale vedendo il personaggio sopravvivere e non apparire nei film successivi, visto che facilmente non conoscerà i fumetti.

In questo modo, come è stato per la seconda stagione di The Mandalorian, ma anche per la futura serie di Asoka, si allontana una buona fetta di pubblico, quegli stessi casual fan (come me) che hanno di solito una conoscenza limitata ai prodotti cinematografici.

E i risultati si vedono…

Star Wars?

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

E, nonostante questo, paradossalmente Solo è il film meno Star Wars che mi sia capitato di vedere in tempi recenti.

Evidentemente Ron Howard non ha la stessa eleganza e intelligenza per riuscire a rinnovare l’aspetto della saga di quella che ha dimostrato Gareth Edwards in Rogue One. Infatti, Solo presenta un’estetica molto generica, che non riesce a ricollegare visivamente la pellicola al brand, tranne per pochi elementi.

E, anche peggio, Han Solo non sembra sé stesso.

Per quanto Alden Ehrenreich si sia impegnato, non ha lo stesso carisma e iconicità di Harrison Ford, e quindi non riesce veramente a raccontare un personaggio più giovane e immaturo, portando una backstory francamente neanche così interessante, anzi…

Inutili colpi di scena

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Il finale di Solo vive di colpi di scena.

Ogni personaggio si scopre di avere un secondo, terzo, quarto obbiettivo o piano nascosto fino a questo momento, con una sequela di colpi di scena quasi nauseante, che sembra voler tenere lo spettatore con la bocca aperta per tutto il terzo atto.

Tuttavia, vuoi per la debolezza delle relazioni dei personaggi, vuoi per il poco interesse che la storia in generale mi ha suscitato, mi sono sentita veramente poco coinvolta, e più esasperata che sorpresa…

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Avventura Azione Commedia Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Racconto di formazione Star Wars - Gli spin-off

Rogue One – Una falsa speranza

Rogue One (2016) di Gareth Edwards è un film prequel spin-off di Star Wars.

Un progetto piuttosto ambizioso, facente parte dei piani iniziali della Disney di portare un prodotto di Star Wars all’anno – nel 2015 era uscito Il risveglio della forza.

E fu anche un grande successo: a fronte di un budget fra i 200 e i 265 milioni, incassò più di un miliardo in tutto il mondo.

Di cosa parla Rogue One?

Galen Erso è un ex-scienziato al servizio dell’Impero, che viene scovato dalle forze imperiali per tornare a lavorare ad un certo progetto oscuro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Rogue One?

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Assolutamente sì.

Rogue One è indubbiamente il miglior prodotto concepito dopo la Trilogia Originale.

Il suo grande pregio è il riuscire a raccontare finalmente una storia diversa dal solito coming of age di un membro sconosciuto della famiglia Skywalker, segretamente lo Jedi che salverà la Galassia – come è stato fatto, pur rimescolando le carte, con tutti gli altri prodotti della trilogia prequel e sequel.

Purtroppo, fa anche un po’ di tristezza vedere questo prodotto con la consapevolezza di quanto sarebbe arrivato dopo: una bellissima, ma falsa speranza della rinascita del brand…

Dove si colloca Rogue One?

Rogue One ha una collocazione molto precisa all’interno della timeline di Star Wars: si ambienta nei giorni immediatamente precedenti all’inizio di Una nuova speranza (1977).

Cominciare dal nulla

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

La bellezza del personaggio di Jyn è il suo percorso di maturazione.

Una ragazza già piuttosto adulta, che vive una sostanziale indifferenza, se non addirittura un antagonismo, per tutto quello che riguarda la Ribellione. E questo la porta a vivere solo per sé stessa, come una criminale qualunque.

Il cambio di passo è scatenato in particolare dal confronto con le due figure paterne che l’hanno portata al suo annullamento: Saw e il padre, Galen Erso.

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Da entrambi si è sentita abbandonata e tradita, anche se per motivi diversi.

Viene così spinta ad un rincontro forzato, che però le permette di ricucire quelle ferite che l’avevano così profondamente colpita, comprendendo che invece entrambi si erano sacrificati e prodigati per la sua salvezza.

In particolare, vedendo il messaggio del padre, si riaccende in Jyn quel fuoco interiore da tempo sopito, che la fa diventare il protagonista più importante della Ribellione – senza il quale, di fatto, la vittoria contro l’Impero non sarebbe potuta avvenire.

Il buon fan service

Carrie Fisher in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Uno dei meriti maggiori di Rogue One è non solo il riuscire a raccontare una storia inedita, anche di andarsi a collocare perfettamente all’interno dell’universo di Star Wars.

Per quanto ci siano alcuni elementi ripescati dal canone di riferimento – il protagonista che ha un padre apparentemente malvagio, la presenza di uno Jedi, un robot a cui è affidata la linea comica del film – niente è forzato o eccessivo.

Inoltre, Gareth Edwards è riuscito ad aggiornare l’estetica della saga senza stravolgerla, ma apportando interessanti cambiamenti così che non sembrasse – come si è cercato di fare in altri film successivi – una sostanziale copia di quanto venuto prima.

Darth Vader in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Complessivamente i momenti di fanservice – se così vogliamo chiamarlo – rappresentano una porzione minuscola della pellicola, e sono comunque inseriti in maniera intelligente, con la funzione principalmente di contestualizzare la storia, più che di far emozionare i fan.

Inoltre, Rogue One racconta una storia effettivamente importante, che, invece che cambiare, arricchisce nel complesso la saga, andando a spiegare in maniera interessante e credibile un elemento che effettivamente poteva apparire forzato.

Ed è quasi ironico che abbiano usato lo stesso anche in L’ascesa di Skywalker pochi anni dopo…

Il domino

Forest Whitaker in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Rogue One è anche un film straziante.

È angosciante quanto dovuto vedere alla fine tutti i personaggi che muoiono.

Ma, appunto, non si poteva fare altrimenti: non si è voluto per questo film rischiare alcun tipo di forzatura, né di far sorgere domande per le quali, per ovvi motivi, non si sarebbe potuto dare una risposta.

In breve, se nessuno di questi personaggi appare nella Trilogia Originale, deve morire.

Tuttavia, l’eleganza di questo film sta non solo nel dare ad ognuno di loro una morte importante e che rimanga nella mente dello spettatore, ma anche nel saper concludere la pellicola con un aggancio al canone geniale quanto rincuorante.

Hope.

Speranza.
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Star Wars: La vendetta dei Sith – Il riscatto

Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) è il terzo capitolo della cosiddetta trilogia prequel, sempre scritto e diretto da George Lucas.

Dopo il drammatico calo di incassi del precedente capitolo, Episodio III riuscì a riconquistare parte del pubblico: con un budget di 113 milioni di dollari, ne incassò ben 868 milioni in tutto il mondo

Di cosa parla Star Wars: La vendetta dei Sith?

Tre anni dopo l’inizio della guerra dei Cloni, le forze separatiste rapiscono il Cancelliere Palpatine, e Obi-Wan e Anakin devono salvarlo. Ma niente è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena Star Wars: La vendetta dei Sith?

Yoda in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Con mia grande sorpresa, sì.

Personalmente considero La vendetta dei Sith il film migliore della trilogia prequel, che riesce complessivamente a trattare con intelligenza la costruzione del finale della trilogia, e a ricollegarlo coerentemente con i film successivi.

Ovviamente non mancano alcune forzature e momenti di puro ed ingenuo fanservice, ma il film si salva sia per un visibile miglioramento nella recitazione di Hayden Christensen, sia per diversi momenti assolutamente iconici.

Insomma, potreste rimanerne soddisfatti.

I tre anni fondamentali

Hayden Christensen e Ewan McGregor in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

In questo capitolo conclusivo, finalmente sono riuscita ad apprezzare Anakin.

Il giovane Padawan non è più il personaggio totalmente immaturo e fortemente emotivo di Episodio II, ma uno Jedi ben più adulto e consapevole delle sue potenzialità.

Tuttavia, pur consapevole che il racconto dei tre anni fra questo film e il precedente è presente nella serie Clone Wars, durante la visione ho percepito ancora una volta un senso di vuoto.

Nonostante, infatti, come prodotto mi abbia soddisfatto, riguardandomi indietro avrei preferito una costruzione del tutto diversa della storia, che permettesse di arrivare ad un finale basato su solide fondamenta.

E questo si vede soprattutto nel punto focale della narrazione…

Una costruzione forzata?

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Una critica spesso mossa nei confronti di questo film è la conversione fin troppo fulminea di Anakin al lato oscuro.

Io mi trovo in una posizione di mezzo.

Sicuramente la trasformazione del protagonista poteva essere costruita decisamente meglio, ma le colpe sono da attribuire principalmente ai film precedenti: nei primi due capitoli mancano basi ben più solide che raccontino non tanto il carattere turbolento di Anakin, ma il suo rapporto con Palpatine.

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

In La vendetta dei Sith per questo si è dovuti partire quasi da zero per costruire la loro relazione, con Darth Sidious che comincia ad avvelenare la mente di Anakin, facendo leva non tanto sulla sete di potere del protagonista, ma sulla sua paura per il destino Padmé.

Ed è anche qui il problema.

La scelta di passare al lato oscuro di Anakin è basata per la maggior parte sul salvare la donna amata, peccato che il loro rapporto sia molto più secondario in questa pellicola e non sia stato costruito così profondamente nei precedenti capitoli.

E così manca un vero coinvolgimento emotivo al riguardo…

Una maggior organicità

Hayden Christensen e Ewan McGregor in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Finora mi era sempre mancata una buona gestione dell’elemento più iconico della saga di Star Wars, ovvero i combattimenti con le spade laser: solitamente gli stessi si perdevano all’interno del marasma della battaglia finale.

In questo caso invece sono presenti diversi duelli, ben distribuiti nel complesso della pellicola, con scene dal sapore epico e monumentale – aspetto che non sempre ho percepito nei primi due film.

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Ovviamente, l’iconico duello fra Anakin e Obi-Wan è il punto più alto della pellicola.

Uno scontro in cui si percepisce davvero l’epicità e la monumentalità di questo momento storico, con l’avvincente cornice del pianeta lavico, che racconta già da solo la natura di Anakin e del lato oscuro: una potenza attraente, ma incredibilmente pericolosa.

Inoltre, per la prima volta mi è finalmente piaciuto il rapporto fra i due personaggi, che avevo invece trovato eccessivamente velenoso nei precedenti capitoli. Anche qui avrei preferito una migliore costruzione, che portasse davvero ad un doloroso momento di scontro, ma mi posso accontentare…

Trilogia prequel fanservice

Come per i precedenti capitoli, anche La vendetta dei Sith è un film schiavo del fanservice.

In questo caso però mi è sinceramente dispiaciuto vedere diversi momenti e diversi snodi narrativi che mancano di spiegazioni adeguate – o di spiegazioni in generale – lasciando diverse domande senza una risposta chiara.

Fra le tante, perché Padmé sceglie proprio quei nomi per i suoi figli? Qual è il senso dell’armatura di Anakin, così facilmente pronta all’occorrenza nel momento del bisogno?

Questioni di per sé non estremamente rilevanti, ma che sarebbero state ben più interessanti se spiegate adeguatamente…

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Avventura Azione Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Giallo Star Wars - Trilogia prequel

Star Wars: L’attacco dei cloni – Il capitolo della resa

Star Wars: L’attacco dei cloni (2002) di George Lucas è il secondo capitolo della cosiddetta trilogia prequel.

Il budget fu lo stesso del primo capitolo – 115 milioni – ma guadagnò quasi la metà: appena 645 milioni di dollari.

Di cosa parla Star Wars: L’attacco dei cloni?

Dieci anni dopo Episodio I, Anakin è un giovane Padawan pieno di dubbi, e che non riesce a smettere di pensare a Padmé…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Star Wars: L’attacco dei cloni?

Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Dipende.

Nonostante complessivamente abbia apprezzato un pochino di più questo capitolo rispetto al precedente, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca. In questo film infatti si intraprende definitivamente la via più banale e meno interessante per raccontare un personaggio essenziale come Anakin.

Tuttavia, perlomeno il film dedica uno spazio importante ad Obi-Wan, con una storyline complessivamente interessante – soprattutto nel complesso della lore di Star Wars. Non un elemento che riesce a risollevare il mio entusiasmo, ma sicuramente meglio della noia che mi ha procurato il primo capitolo…

Insomma, se volete affrontare la trilogia prequel fino in fondo, dovete passare anche di qua.

Manca un pezzo?

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Cominciando L’attacco dei cloni, ho avuto un senso di vuoto.

Mi è stata sostanzialmente confermata la sensazione che Episodio I sia un prodotto sprecato, almeno per quanto riguarda la caratterizzazione del protagonista – che era l’elemento centrale nella trilogia originale.

Infatti, Anakin ci racconta tutte le sue problematiche e i suoi dilemmi solamente a parole, affrontando anche questioni piuttosto importanti – il sentirsi pronto all’essere un maestro ma non poterlo diventare, il suo sentirsi sottovalutato…

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Insomma, l’idea alla base di questo capitolo centrale era di mostrare una maturazione – anche negativa – del personaggio, in particolare attraverso il tentativo di ricongiungimento tanto desiderato con la madre.

Tuttavia, neanche in questo caso a mio parere si è fatto centro: mi viene onestamente da chiedermi cosa servisse questa costruzione estremamente melodrammatica, se non a portare, ancora una volta, alla più banale caratterizzazione del personaggio come spietato e schiavo delle emozioni.

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Rimango insomma dell’idea che manchi un pezzo fondamentale, che permettesse di rendere veramente tridimensionale questo importantissimo personaggio, che è stato fondamentalmente rovinato da una scrittura poco indovinata e da una recitazione molto approssimativa.

Tanto più che di fatto Anakin non è altro che un ragazzino, pieno di emozioni e incapace di canalizzarle correttamente. Ormai purtroppo con questo capitolo mi sono arresa all’idea che questa sia la strada scelta, ma non posso che soffrire la mancanza di un approccio ben più profondo e vincente…

Un amore senza basi

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Per lo stesso motivo di cui sopra, la storia d’amore è monca.

Era evidente che Lucas avesse bisogno di questa relazione per giustificare quanto successo dopo, ma si è dimenticato di introdurla. Infatti, mi vengono i brividi anche solo a pensare che l’innamoramento sia sbocciato quando Anakin era ancora un bambino…

Ho percepito la volontà di Lucas di togliere questo pensiero dalla mente dello spettatore: all’inizio Padmé vede Anakin ancora come un bambino. Tuttavia, questo elemento si mette facilmente da parte davanti all’evidente insistenza del ragazzo – e nient’altro…

Al contempo, ho trovato del tutto ingiustificata la reazione della ragazza quando il futuro Darth Veder le racconta di aver sterminato un intero villaggio, anche di innocenti, evidente foreshadowing della sua malvagità.

Un elemento chiarissimo allo spettatore, non pervenuto per Padmé…

Per fortuna c’è Obi-Wan

Ewan McGregor in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Ma, nonostante tutto, Episodio II mi è piaciuto più del precedente.

Oltre al fatto che la trama politica sembra molto meno fine a sé stessa e già più interessante, ho trovato anche piuttosto intrigante la storyline di Obi-Wan, con la sua caccia al mistero – e ai cloni – piena di tensione e di colpi di scena.

Forse uno degli elementi più vincenti della trilogia prequel è stato infatti il riuscire ad approfondire questo personaggio – che aveva uno screentime piuttosto limitato in Una nuova speranza e – finora – un passato assai misterioso.

Al contempo però ho poco apprezzato il continuo e costante contrasto, quasi velenoso, fra Obi-Wan e il suo Padawan: ne comprendo la funzione, ne comprendo i fini, ma mi sembra ancora una volta scegliere la via più facile e banale…

Sempre alla fine…

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Come per il precedente, tutta l’azione è concentrata nel finale.

E ancora una volta mi sono trovata davanti ad un lungo ed impegnativo combattimento conclusivo, che ho trovato personalmente sempre troppo dispersivo e troppo lungo, risvegliando il mio interesse effettivamente solo negli ultimi momenti.

In particolare, con lo scontro fra Yoda e Doku.

Uno duello davvero emozionante e pieno di colpi di scena, che riporta al centro della scena uno dei miei personaggi preferiti – Yoda – che purtroppo arriva dopo una sequela combattimenti molto meno soddisfacenti, financo ridicoli pensando al comportamento di Anakin…

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2023 Avventura Azione Cinecomic Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Guardiani della Galassia MCU Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione

Guardiani della Galassia Vol. 3 – Farewell?

Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) è l’ultimo (?) capitolo della trilogia omonima creata e diretta da James Gunn per l’MCU.

A fronte di un budget piuttosto importante di 250 milioni di dollari, è stato il quarto maggior incasso del 2023, con 845 milioni di dollari al botteghino.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023)

in neretto le vittorie

Migliori effetti speciali

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 3?

Subito dopo lo Speciale di Natale, i Guardiani si trovano nella loro base, ma improvvisamente una nuova minaccia fa capolino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 3?

Chris Pratt in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In generale, sì.

Guardiani della Galassia Vol. 3 è un film fatto davvero apposta per i fan – dell’MCU, ma soprattutto del brand. Al punto che, per godere appieno della visione, è quantomai necessario vedere lo Speciale di Natale rilasciato nel 2022: la vicenda prende le mosse proprio da lì.

In generale, è un film che lavora moltissimo sul lato emotivo, con l’evidente intenzione – purtroppo per ovvi motivi – di chiudere dignitosamente tutti i personaggi, rischiando però in molti punti di forzare certe caratterizzazioni…

Ma, se siete fan dei Guardiani, ve ne innamorerete.

Il protagonista assente?

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Una particolarità di Guardiani della Galassia Vol. 3 è il cambio di protagonista.

Nonostante infatti si cerchi di dare più o meno spazio a tutti, il centro emotivo non è più Star Lord, ma Rocket e il suo passato. Tuttavia, il personaggio è assente dalla scena per la maggior parte della pellicola, vivendo solamente nei flashback.

Una storia piuttosto dolorosa, che ridimensiona il personaggio e lo porta su binari meno esplorati finora, con un’inedita crudeltà che domina la scena – pur perfettamente nascosta grazie ad una tecnica registica estremamente abile.

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Per quanto mi sia profondamente emozionata nel veder raccontare la sua storia – che ha toccato tutti i tasti giusti – d’altra parte un po’ mi è dispiaciuto vedere così poco in scena quel Rocket a cui ero abituata finora, uno dei miei personaggi preferiti dei Guardiani…

Ma ho comunque apprezzato che la missione della pellicola fosse il suo complesso e intricatissimo salvataggio, preferendola ad una narrazione più tipica con il villain di turno da sconfiggere – soprattutto per il collegamento emotivo che è riuscito a creare.

E a questo proposito…

Il villain nelle retrovie

Will Poulter in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Adam Warlock, interpretato dalla stella nascente Will Poulter, era stato venduto se non come il villain principale, sicuramente come una figura importante nel film.

E invece è tutto il contrario.

Un personaggio che è stato quasi sicuramente riscritto e di gran lunga ridimensionato, diventando una sorta di antagonista di contorno, con una caratterizzazione piuttosto abbozzata ed un arco evolutivo altrettanto debole.

Per quanto non avrei personalmente voluto che fosse più centrale nella scena – anzi, l’avrei direttamente eliminato – mi dispiace per l’attore, per cui questo film doveva essere probabilmente un punto di svolta per la sua carriera…

Ma parlando del vero villain…

Un villain per ogni occasione

Chukwudi Iwuji  in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Ho decisamente apprezzato l’Alto Evoluzionario.

Come nel precedente capitolo, Gunn ha scelto di scrivere un villain che fosse profondamente legato ad uno dei personaggi. E questo carattere così altalenante, che passa da una finta docilità ad una rabbia distruttiva, unito al suo totale disinteresse per il valore della vita, ai miei occhi l’ha avvicinato ad un altro villain importantissimo dell’MCU.

Thanos.

Anche se ovviamente l’Alto Evoluzionario non ha la medesima profondità ed importanza, presenta la stessa malvagità giustificata del villain della Saga dell’Infinito, in questo caso nel ruolo di un dio generoso quanto vendicativo. E l’ottima performance di Chukwudi Iwuji ha fatto il resto.

I secondari al centro

Mantis in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Dovendo dire addio per sempre ai suoi personaggi, James Gunn ha voluto dare ad ognuno un proprio arco evolutivo ed una conclusione.

L’esempio più evidente è Mantis.

Personaggio introdotto come secondario in Guardiani della Galassia Vol. 2, con un ruolo da protagonista nello speciale, Mantis ha un’evoluzione essenziale quanto brusca: viene emotivamente più approfondita, diventando al contempo anche quasi aggressiva.

Inoltre, si scopre come i suoi poteri possano essere essenziali non solo come supporto emotivo per il gruppo, ma anche all’interno degli stessi combattimenti e delle intrusioni. E da quello ne deriva il suo finale: l’inizio di un viaggio per riscoprire sé stessa.

Drax in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Drax è un discorso a parte.

Il suo personaggio di per sé non ha un cambiamento significativo, anzi rimane per certi versi troppo uguale a sé stesso. Infatti, la sua comicità è fondamentalmente sempre identica: indubbiamente divertente ma, arrivati al terzo film, non ugualmente brillante come poteva apparire all’inizio…

Ma la parte importante è il suo finale: al pari di Star Lord, anche Drax capisce che è il momento di fermarsi, non essere più Il Distruttore, ma un padre per la nuova famiglia che si è creato. E, anche se è fin troppo didascalica, è comunque una conclusione che mi è parsa coerente e che ho nel complesso apprezzato.

Un protagonista indebolito?

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In questo capitolo, Star Lord è un personaggio estremamente legato all’emotività.

Sia per il salvataggio di Rocket – di cui è il principale motore – sia per la relazione con Gamora. Se per certi versi la sua rappresentazione è forse troppo melensa e il suo rapporto con l’ex-compagna troppo insistente, probabilmente non si poteva fare diversamente.

Infatti, Peter aveva mostrato fin da subito un interesse per una ragazza che faticava anche solo ad accettarlo nella sua vita, con un rapporto, soprattutto sulle prime, assai antagonistico – in particolare da parte di Gamora – che si risolveva solo alla fine del secondo capitolo.

Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Tuttavia, ho personalmente apprezzato la conclusione.

Gunn ha scelto saggiamente di non abbassarsi alle dinamiche più tipiche da commedia romantica, con un ricongiungimento amoroso sul finale, magari costruito in maniera pure poco credibile e interessante.

Si mostra invece come Gamora ritorni ad un’altra famiglia, quella che ha ritrovato in questa realtà, e che non deve per forza di nuovo legarsi né a Quill né ai Guardiani – e trovando come loro una inaspettata nuova forma.

Ci saranno altri film sui guardiani della galassia?

All’indomani dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, la maggior parte degli attori ha chiuso le porte a future partecipazioni alla saga.

Zoe Saldana (Gamora) non ha dimostrato ulteriore interesse per l’MCU – e, essendo legata all’estremamente redditizio brand di Avatar, non ne ha francamente neanche bisogno…

Dave Bautista (Drax) ha scelto una via più drammatica per la sua carriera – recentemente come protagonista di Army of the Dead (2021) e Bussano alla porta (2022). Gli altri due personaggi – Mantis e Nebula – per quanto interessanti, non sono così tanto di richiamo da farli riapparire né in singolo né in gruppo.

Come se non bastasse, Sean Gunn, fratello del regista, non solo interpreta l’ex-ravager Kraglin, ma dà anche le movenze a Rocket – e non è da sottovalutare la sua eventuale, ma quasi scontata, assenza…

Una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Quindi è l’ultimo film sui Guardiani?

Secondo me, per tutti i motivi di cui sopra, sì.

E questo anche perché questo brand è troppo legato alla figura di James Gunn, che nel prossimo futuro avrà decisamente molte e altre gatte da pelare…

Tuttavia, rimane la questione Star Lord – che, a quanto pare, ritornerà. Visto l’andamento di carriera di Chris Pratt, che avuto i suoi momenti più economicamente interessanti solo legandosi a grandi brand, non mi stupisce che abbia stretto un altro accordo con l’MCU.

Ma, per quali prodotti, è ancora un grande mistero…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 3?

Come i precedenti capitoli di Guardiani della Galassia, anche il terzo film della saga è totalmente autonomo.

E, nonostante sembri che siano passati solo pochi mesi da Guardiani della Galassia (2014), il film si colloca nel 2024, quindi sia dopo Endgame (2019), sia dopo lo Speciale di Natale.

È il secondo film della Fase Cinque.

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Star Wars - Trilogia prequel

Star Wars: La minaccia fantasma – Un tiepido inizio

Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas – denominato retroattivamente Episodio I – è il primo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

Già con questo film – come prevedibile – il budget aumentò notevolmente, e di conseguenza anche gli incassi: si portò a casa più di un miliardo di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di appena 115 milioni.

Di cosa parla Star Wars: La minaccia fantasma?

Diversi decenni prima di Una nuova speranza, il Maestro Jedi Qui-Gon Jinn e il suo giovane Padawan, Obi-wan Kenobi, si recano in missione diplomatica con la Federazione. Ma la negoziazione non va come si aspettano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Star Wars: La minaccia fantasma?

Keira Knightley in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Dipende.

Personalmente La minaccia fantasma è il capitolo che meno apprezzo complessivamente di tutta la saga di Star Wars – secondo forse solo a L’ascesa di Skywalker (2019). E, più in generale, non apprezzo la trilogia prequel per diversi motivi. E non è neanche il capitolo da cui consiglierei di partire ad un neofita.

In realtà, per la visione di Star Wars mi limiterei alla saga originale.

Tuttavia, se volete fare i completisti e avere una visione d’insieme almeno dell’universo cinematografico della galassia lontana lontana, guardatelo – magari potrebbe pure piacervi. Se invece non sapete niente di Star Wars, ho qui una guida pronta per voi.

Un eroe già formato

Liam Neeson e Jake Lloyd in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Nonostante il personaggio di Anakin sia universalmente odiato per la scarsa interpretazione di Hayden Christensen nei successivi capitoli, io vado controcorrente e vi dico che non lo sopporto già da Episodio I.

La bellezza di Luke come protagonista era proprio la sua propensione alla Forza, che però doveva essere modellata per farne un Cavaliere Jedi, così da riuscire anche a sconfiggere i suoi demoni.

Al contrario, Anakin viene raccontato subito come il prescelto e come il classico insopportabile bambino prodigio.

Liam Neeson e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Mi rendo conto della necessità di introdurre il futuro antagonista della saga come dotato di incredibili poteri, raccontandone fin da subito la potenziale pericolosità, così da rendere gli spettatori affezionati quasi complici della disfatta futura.

Tuttavia, avrei preferito che non si scegliesse la strada più semplice.

Infatti, di per sé il giovanissimo Anakin non si dimostra tanto sensibile alla Forza, ma più che altro un prodigio in tutt’altro, cercando di fare una sorta di foreshadowing alle capacità che poi saranno anche proprie del figlio.

E, come se non bastasse, in questo film è quasi un secondario.

La politica al centro

Keira Knightley e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Per tutta la visione della pellicola, ho avuto come la sensazione che non sapessero cosa raccontare.

Infatti, la trama gira principalmente intorno a questa intricata situazione politica, che ho personalmente trovato più noiosa che intrigante. Inoltre, è evidente che la stessa serve ad introdurre il personaggio di Palpatine e la sua ascesa al potere…

…ma anche per questo avrei preferito una gestione diversa.

Yoda in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Tanto più che in questo modo le vicende di Anakin diventano quasi secondarie ed accessorie, puramente introduttive. Fra l’altro inserendo una complessa costruzione narrativa che porta alla sua liberazione da schiavo, che io avrei serenamente evitato.

Ed è ancora più paradossale che la vicenda politica appaia centrale, pur essendo di fatto superflua nel grande schema della trilogia, oltre a proseguire assai lentamente e a mettere in secondo piano anche l’importantissimo personaggio di Obi-Wan.

Era così difficile una più semplice, ma efficace gestione alla Episodio IV?

Dove sono i Jedi?

Natalie Portman, Liam Neeson, Ewan McGregor e Jake Lloyd in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

La così ampia presenza della trama politica è soffocante anche per uno degli elementi più iconici della saga.

I combattimenti con le spade laser.

Se ne vedono infatti non più di due – uno molto veloce all’inizio, poi l’ampia scena dello scontro sul finale. E, se comunque il duello con Darth Maul è piuttosto spettacolare, si trova all’interno di una sequenza di combattimento davvero troppo dispersiva.

In generale, sono rimasta veramente stupita per come, per certi versi, questo film si auto saboti: se insiste – in maniera anche abbastanza patetica – su diversi momenti di puro fanservice, al contempo si dimentica di quello che rendeva questa saga così interessante…

Jar Jar Binks Star Wars

Con questa sezione voglio aprire e chiudere la questione di Jar Jar Binks.

Il suo personaggio è uno degli elementi più odiati della saga prequel secondo solo alla recitazione di Hayden Christensen. E i motivi sono piuttosto evidenti: è un personaggio che vorrebbe essere buffo, ma che risulta solo insopportabile e fastidioso.

Un chiaro esempio di un tentativo davvero fallimentare di introdurre una spalla comica, che facesse le veci di C-3PO e R2-D2 per la saga originale. Tuttavia, ne risulta un personaggio che non ha un’unghia del fascino dei suddetti…

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Avventura Azione Cinecomic Commedia Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Guardiani della Galassia MCU

Guardiani della Galassia Vol. 2 – Il film della maturazione

Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) è il sequel dell’omonimo film che fece la fortuna di James Gunn, confermata proprio da questo capitolo: dopo il licenziamento del regista per dei tweets di cattivo gusto (ma molto datati), cast e pubblico si rivoltarono contro la produzione.

Il resto è storia.

Fra l’altro un sequel che confermò l’andamento positivo del brand, con anche un aumento degli incassi: 863 milioni, contro 200 di budget – il primo ne aveva guadagnati circa un centinaio in meno.

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 2?

Pochi mesi dopo il primo film, i Guardiani sono impegnati in una missione per i Sovereign, ma non tutto va come si immaginavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 2?

Michael Rooker e Sean Gunn in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

In generale, sì.

Assolutamente sì se avete visto ed apprezzato il primo capitolo: vedendoli per la prima volta a così poca distanza, mi sono resa conto della superiorità di Guardiani della Galassia Vol. 2 rispetto alla pellicola del 2014, indice forse anche di una maggiore maturazione e libertà del regista a seguito del successo ottenuto.

Nonostante non manchi di qualche elemento anche di forte debolezza, riesce a migliorarsi sotto molti aspetti, anzitutto per l’antagonista e per la struttura narrativa, che evade la gestione più classica di questo tipo di prodotti, come era stato invece per il precedente.

Un nuovo obbiettivo

Michael Rooker e Rocket Raccon in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Nel precedente film l’obbiettivo finale della pellicola era costituire il gruppo, in questo caso Gunn si è trovato davanti all’ostacolo di dover gestire un gruppo piuttosto folto di personaggi – vista anche l’introduzione di Mantis e la maggior importanza di Yondu.

E ha sperimentato una gestione dei personaggi che sarà poi la stessa di Infinity War (2018): dividerli in piccole storyline autoconclusive, per poi farli rincontrare nel finale.

L’arco narrativo più azzeccato è ovviamente quella di Yondu e Rocket, utile ad entrambi per un’interessante riflessione e conseguente maturazione: come Rocket si rende conto della sua irriverenza e incapacità di fare gruppo, Yondu sceglie di abbandonare la sua corazza burbera per rinsaldare il rapporto con Peter.

Ma qui nasce il primo problema…

Come si cambia…in fretta

Rocket Raccon e Groot in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

A conti fatti, l’arco narrativo di Rocket e Yondu è quello meglio costruito, mentre gli altri appaiono complessivamente molto più difettosi.

Escludendo la coppia Drax e Mantis, che rappresenta semplicemente un simpatico siparietto comico, l’arco narrativo che mi ha meno convinto è quello di Peter e suo padre.

Per quanto il film si impegni moltissimo nel raccontare la diffidenza di Star Lord nei confronti di Ego, concede molto meno minutaggio al racconto dell’assuefazione di Peter verso il ritrovato genitore.

Infatti, nonostante Ego riesca a convincere sottilmente il figlio della sua visione, al contempo lo stesso si rivolta fin troppo facilmente e nettamente contro di lui, anche se il trigger è molto potente – il trauma della morte della madre – e rivela immediatamente la vera natura dell’antagonista.

Karen Gillan in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Altro discorso per Nebula e Gamora.

Il loro rapporto è in realtà una costante anche nei successivi film degli Avengers, ed era già stato introdotto nello scorso capitolo. Tuttavia, il loro parziale rappacificamento mi è parso un po’ troppo veloce, e avrebbe secondo me avuto bisogno di un maggiore screentime.

Tuttavia, mi sono anche in parte ricreduta quando l’argomento viene nuovamente affrontato sul finale, con almeno un parziale ed effettivo confronto fra le due, che verrà poi meglio raccontato nei film successivi, collocato proprio nel momento di riflessione generale di tutti i personaggi.

Lo stesso problema?

Pom Klementieff, Dave Bautista, Chris Pratt, Kurt Russell e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Uno dei principali problemi di Guardiani della Galassia era proprio la scelta dell’antagonista.

Nel sequel Gunn compie un parziale passo avanti.

E dico parziale in quanto, anche se indubbiamente il personaggio di Ego è ben gestito, raccontando abbastanza approfonditamente la sua psicologia e le sue motivazioni, sostanzialmente le stesse si riassumono – ancora una volta – nel desiderio di conquistare il mondo.

Anche peggio se parliamo dei Sovereign, l’elemento più debole, soprattutto esteticamente, dell’intera pellicola: personaggi veramente anonimi, che potevano essere sostituiti od eliminati dalla pellicola con poche righe di sceneggiatura.

Infatti, la loro vera utilità è introdurre il villain del terzo capitolo, Adam Warlock.

La morte di Yondu è probabilmente una delle più dolorose dell’intero MCU.

Ma era di fatto inevitabile.

È evidente che in questo capitolo Gunn volesse approfondire Yondu: nonostante sia un personaggio davvero accattivante e intrigante, aveva avuto fin troppo poco spazio nel primo capitolo.

E il suo approfondimento è anche finalizzato a farci comprendere meglio il significato della sua morte, essenziale per il personaggio di Quill: il protagonista dice definitivamente addio la figura paterna e scende a patti con un trauma che l’aveva accompagnato per tutta la vita, anche se nella maniera più tragica…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 2?

Come il primo capitolo, Guardiani della Galassia Vol. 2 è un film altrettanto autonomo, tanto da essere ambientato appena un paio di mesi dopo la pellicola del 2014.

Non a caso le diverse post-creditben cinque! – non si collegano in alcun modo agli altri film dell’MCU, ma servono ad approfondire alcuni aspetti della pellicola stessa, ad inserire alcune gag per smorzare la tragicità del finale, nonché ad introdurre il villain del terzo capitolo.

La pellicola è fra i primi tre film dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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Guardiani della Galassia – Un film indipendente

Guardiani della galassia (2014) è il primo capitolo della trilogia omonima diretta da James Gunn – quando era ancora un regista di nicchia – nonché il film di introduzione di questo gruppo di personaggi.

Un prodotto che ottenne, a sorpresa viste le premesse, un buon successo – e non solo commerciale: con un budget di circa 232 milioni, ne incassò 733.

Di cosa parla Guardiani della Galassia?

Peter Quill, aka Star Lord, è un criminale spaziale che cerca di mettere le mani sul preziosissimo Orb, senza però saperne il vero valore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Guardiani della Galassia?

Chris Pratt e Dave Bautista in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

In generale, sì.

Soprattutto se non siete particolarmente appassionati di cinecomic e siete dei casual watcher dell’MCU: a differenza di altre pellicole della Marvel, Guardiani della Galassia è un film così tanto a sé stante che non ci sono neanche delle post-credit che lo collegano agli altri prodotti del franchise.

Infatti, più che un film di supereroi, è un’avventura fantascientifica caratterizzata da una comicità anche piuttosto piacevole rispetto ad altri prodotti MCU, ma che pecca nei soliti problemi di questi film: struttura narrativa ripetitiva e villain insipido.

Tuttavia, come prodotto di intrattenimento, ve lo consiglio molto.

Creare un gruppo

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Una delle sfide più ardue era il saper creare un gruppo che fosse effettivamente unito e credibile.

Per quanto ci sia qualche debolezza narrativa – anche piuttosto prevedibile – il film riesce complessivamente bene in questo senso, utilizzando due elementi particolarmente vincenti: costruzione di un solido background ed assegnazione di un obiettivo personale ad ogni componente del gruppo.

Il primo elemento sembra molto scontato, ma non lo è per niente: basta pensare a prodotti con finalità analoghe come Suicide squad (2016), quasi comico da questo punto di vista, che allestisce una squadra di personaggi bidimensionali e che non hanno alcun motivo per fare gruppo.

Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista e Vin Diesel in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Al contrario, anche e soprattutto attraverso i dialoghi, Guardiani della Galassia riesce a rendere tutti i personaggi abbastanza tridimensionali e a fornire ad ognuno di loro un proprio personale e credibile motivo di fare gruppo con gli altri protagonisti.

Come elemento bonus ai fini della credibilità, i conflitti fra i personaggi non vengono risolti fino in fondo, anzi si ritrovano anche nei film successivi.

Ed è piuttosto indicativo in questo senso che il rapporto fra Gamora e Star Lord non venga concluso alla fine di questo capitolo – e neanche propriamente nel successivo, in realtà.

Tuttavia, qui sorgono i primi problemi.

Tornare all’essenziale

Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista e Vin Diesel in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Per i primi due atti del film la narrazione scorre in maniera piuttosto credibile ed interessante, e anche abbastanza anomala per un prodotto di questo tipo, non venendo mai meno all’identità dei personaggi stessi.

Poi, col terzo atto, questo elemento si indebolisce.

Il primo scontro con l’antagonista porta, come sempre, alla sconfitta degli eroi, che devono mettere da parte i propri principi per salvare il mondo, quindi seguendo binari più sicuri e consolidati del genere di riferimento.

Tuttavia, come scelta stona un poco con l’identità dei protagonisti stessi.

Ma non manca comunque una costruzione abbastanza piacevole e una conclusione non del tutto scontata, che apre anche le porte anche al sequel in maniera piuttosto coerente – indice di una progettualità presente fin da questo primo capitolo.

Il solito problema

Lee Pace e Karen Gillan in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Un altro problema evidente della pellicola – e in realtà della maggior parte dei prodotti MCU – è la bidimensionalità dell’antagonista, Ronan l’Accusatore. E non è di sicuro un caso che lo stesso sia legato proprio allo snodo narrativo meno efficace della pellicola, di cui sopra.

E personalmente un po’ mi dispiace: si vede che Gunn ha comunque cercato di costruire un minimo di trama politica per contestualizzare il villain, così da non renderlo semplicemente un nemico spinto dal desiderio di conquistare il mondo.

Lee Pace in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Tuttavia, è una strategia che purtroppo non funziona fino in fondo.

E mi dispiace anche per Lee Pace, attore che io ho sempre apprezzato, sia come l’elfo altezzoso in La desolazione di Smaug (2013), sia in quel ruolo veramente indovinato per le sue capacità di Fratello Giorno nella serie tv Fondazione (2021- …).

E questo è anche il motivo per cui Guardiani della Galassia è il mio secondo film MCU preferito, dopo a Spiderman Homecoming…

Gamora Guardiani della Galassia

Il personaggio di Gamora purtroppo fu un personaggio scritto nel periodo peggiore dell’MCU per i personaggi femminili, che dovevano essere o delle insopportabili Mary Sue, possibilmente anche acide, oppure ipersessualizzate come Black Widow in Iron Man 2 (2010).

E ovviamente il picco è stato Captain Marvel (2019).

E Nebula non è da meno.

Tuttavia, bisogna ammettere che quantomeno in questo caso entrambi i personaggi femminili sono ottimamente contestualizzati nella storia e nella loro caratterizzazione – qui e anche – e soprattutto – nei successivi prodotti.

Dove si colloca Guardiani della Galassia?

Come detto, Guardiani della Galassia è un film molto autonomo, ma dovrebbe indicativamente collocarsi nel 2014 durante Captain America – Civil War (2016) – e così anche il sequel.

Si trova a circa a metà della Fase 2.