Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico La magia di Miyazaki

Nausicaä della Valle del vento – L’ambientalismo di primo pelo

Nausicaä della Valle del vento (1984) è il primo film in cui Miyazaki è sia regista che sceneggiatore, possiamo dire la sua prima avventura in autonomia, dopo essersi già affacciato al cinema con Lupin III – Il castello di Cagliostro (1979).

A fronte di un budget davvero ridotto – appena 180 di yen, circa 750 mila dollari – incassò 8 milioni in tutto il mondo (o almeno nei paesi in cui uscì). Arrivò nei cinema italiani solamente nel 2015.

Di cosa parla Nausicaä della Valle del vento?

Circa mille anni dopo una terribile guerra termonucleare che ha distrutto gran parte della Terra, il mondo è diviso in due grandi imperi e frammentato in piccole comunità autonome. Ma c’è chi ancora vuole riportare l’Umanità al suo splendore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nausicaä della Valle del vento?

Nausicaä della Valle del vento

Assolutamente sì.

Soprattutto se siete appassionati di Miyazaki, non potete assolutamente perdervi questo titolo – e lo dico io che non l’ho visto se non prima di questa recensione. Un’opera prima che però racchiude già molti temi cari al regista, che si ritroveranno anche e soprattutto in La principessa Mononoke (1997).

La tecnica artistica, nonostante sia più semplice e meno dettagliata rispetto alla sua produzione successiva, riesce comunque a raccontare mondi sorprendenti, personaggi peculiari e atmosfere fascinose. Al contempo la storia è intrigante, avvincente, e racchiude un’importante riflessione che ha davvero anticipato i tempi…

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Nausicaä della Valle del vento il pericolo è medio.

Essendo uscito nel 2015 in Italia, al tempo Cannarsi aveva già acquisito uno status piuttosto importante. Tuttavia, non era ancora all’apice della sua follia: i dialoghi appaiono abbastanza artificiosi, ma non ad un livello tale da compromettere complessivamente la godibilità del film.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La prima protagonista

Nausicaä della Valle del vento

Una peculiarità di Miyazaki è di scegliere come protagoniste, nella maggior parte delle sue opere, personaggi femminili con capacità fuori dal comune.

In questo caso il potere di Nausicaä poteva prendere delle strade molto semplici e ridondanti, trasformandola nella più classica delle Mary Sue. Ma non è nello stile del regista: al contrario le abilità della protagonista sono strettamente connesse con la tematica centrale della pellicola stessa.

Infatti Nausicaä è l’unica capace di riconnettersi con quella natura, che invece l’umanità considera solamente ostile e distruttiva, combattendo la violenza solamente con la violenza. E lo si vede fin da subito, quando riesce a placare sia l’Ohm sia il cucciolo che Yupa gli porta.

E la sua connessione è fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità stessa.

La potenza della natura

Nausicaä della Valle del vento

Come spiega la saggia anziana della Valle del Vento, ogni volta che si è cercato di distruggere il Mar Marcio, gli Ohm si sono diretti in massa verso i centri abitati, distruggendo a loro volta tutto quello che incontravano.

Agli occhi degli umani colonizzatori, quindi il Mar Marcio e i suoi abitanti sono il nemico da sconfiggere per riportare l’umanità alla gloria. Ma neanche il popolo della Valle del vento è privo di colpe: molto ingenuamente, continua a distruggere le spore che starebbero avvelenando le coltivazioni.

Ma Nausicaä capisce che la realtà è ben diversa.

Nausicaä della Valle del vento

Dopo la terrificante distruzione operata dall’uomo, la Terra, e quindi la Natura, sta solo cercando di depurarsi dall’avvelenamento e dall’inquinamento che gli è stato rovesciato addosso, e quindi, più in generale, sta tentando di purificarsi dalla presenza umana e dei suoi danni.

E allora l’unico modo per l’umanità di continuare a vivere sulla Terra è di imparare rispettarla, ma per davvero: vivere in armonia con l’ambiente, e lasciare che sia lo stesso a curarsi dei danni che gli sono stati inflitti.

E il Mar Marcio che depura la terra non è tanto diverso dalle nostre foreste che depurano l’aria che respiriamo…

Atmosfere magiche

Nausicaä della Valle del vento

Già in questa prima pellicola Miyazaki riesce a rappresentare un mondo davvero splendido.

La peculiarità di questo maestro dell’animazione è proprio il far immergere i personaggi in ambienti fascinosi e pieni zeppi di particolari, curati alla stregua di un’opera d’arte – tratto che avrà il suo picco con Il castello errante di Howl (2004).

In Nausicaä della Valle del vento si vede già in nuce questa tendenza: paesaggi e ambienti più semplici e ordinari si alternano ad ambientazioni davvero suggestive, in particolare nel caso del Mar Marcio, un luogo magico e pieno di sorprese.

Fra l’altro lo stesso mi ha ricordato le meravigliose ambientazioni del videogioco Hollow Knight (2017):

Un eccessivo didascalismo

Nausicaä della Valle del vento

L’unico elemento che non mi ha entusiasmato della pellicola è il didascalismo delle primissime scene.

Dovendo sottostare alla necessità di raccontare alcuni elementi della trama fin dall’inizio, Miyazaki si è andato ad incastrare in diversi momenti in cui la protagonista dice a voce alta delle cose che probabilmente erano solo nei suoi pensieri.

E se la pesantezza e la poca naturalezza di queste scene si sente abbastanza nella versione originale, in realtà il vero dramma è il doppiaggio di Cannarsi, che riesce come sempre a portare all’ennesima potenza ogni elemento anche solo potenzialmente negativo…

Categorie
Accadde quella notte... Avventura Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Notte degli Oscar Racconto di formazione

La forma dell’acqua – Una favola moderna

La forma dell’acqua (2017) di Guillermo del Toro è il film che rilanciò il regista presso il grande pubblico, dopo che era già profondamente apprezzato per prodotti come Il labirinto del fauno (2006).

Anche per questo, incassò piuttosto bene, a fronte di un budget piuttosto contenuto: 195 milioni di dollari in tutto il mondo per un costo di produzione di 19 milioni.

Di cosa parla La forma dell’acqua?

Baltimora, 1962, piena Guerra fredda. Elisa è una giovane donna delle pulizie, muta, che lavora in una base di ricerca scientifica. Proprio lì avverrà un incontro molto particolare…

Vale la pena di vedere La forma dell’acqua?

Sally Hawkins in una scena di La forma dell'acqua (2017) di Guillermo del Toro

Assolutamente sì.

La forma dell’acqua è un film particolarissimo, che riesce a raccontarti una favola con toni molto adulti e maturi, immersa in atmosfere incredibilmente fascinose e suggestive.

Del Toro ancora una volta dimostrò di essere capace di portare in scena storie interessanti in ambienti magici dai toni profondamente gotici e costruiti alla perfezione.

Insomma, da recuperare assolutamente.

La nuova principessa

Sally Hawkins in una scena di La forma dell'acqua (2017) di Guillermo del Toro

La forma dell’acqua è impostata secondo i canoni della favola, con una grande differenza: la protagonista.

Del Toro infatti ha messo in scena un personaggio femminile del tutto atipico. Elisa è un personaggio che avrebbe tutte le carte in regola per essere un simpatico secondario: disabile e non corrispondente ai più classici canoni di bellezza.

E invece Elisa è una protagonista determinata e coraggiosa, che non ha paura di mettersi in prima linea per difendere quello che considera giusto. E, sopratutto, è una donna con un desiderio sessuale forte ed esplicito.

La componente sessuale

Sally Hawkins e Doug Jones in una scena di La forma dell'acqua (2017) di Guillermo del Toro

Quando andai a vedere il film non mi aspettavo per nulla che avrebbe toccato certi tasti – e infatti sulle prime rimasi leggermente contraddetta.

Ad una seconda visione, mi sono resa conto di quanto Del Toro sia stato capace di mettere in scena una donna realistica, che non cerca solamente una storia romantica, ma che vuole anche – e sopratutto – una relazione sessuale.

E, in più, è lei stessa che cerca questo contatto sessuale, mostrandosi nuda in più occasioni senza alcuna vergogna. E, sopratutto, mostrando un corpo femminile vero, né iper sessualizzato né castrato come spesso accade.

Il nostro cinema avrebbe bisogno di più protagoniste di questo tipo…

La costruzione del contesto

Sally Hawkins in una scena di La forma dell'acqua (2017) di Guillermo del Toro

Molto spesso quando si raccontano contesti sociali molto lontani da noi, dove l’emarginazione di molte minoranze sociali era all’ordine del giorno, è facile inciampare in un taglio narrativo pietistico e forzato.

E invece Del Toro è riuscito a mantenere una rara eleganza anche su questo aspetto.

I personaggi positivi della narrazione sono tutti degli emarginati: una persona disabile, una donna nera, un uomo omosessuale, un mostro. E come tali vengono trattati. E questo contesto è ben raccontato da pochi momenti ben posizionati e piuttosto credibili.

Fra tutti, quando Strickland dice che Dio ha l’aspetto dell’uomo, ma poi specifica più probabilmente un uomo bianco – a sottolineare la superiorità della razza bianca. Così anche lo scambio infelice fra Giles e il ragazzo della tavola calda: il giovane non solo lo rifiuta con disprezzo, ma scaccia anche in malo modo una coppia di neri.

Come è stato fatto il mostro in La forma dell’acqua

Uno degli elementi di fascino de La forma dell’acqua – e del cinema di Del Toro in generale – è la sua capacità di creare degli effetti speciali incredibili utilizzando metodi più materiali e poca CGI.

Infatti la creatura della storia non è un attore coperto da un green screen e poi rielaborato in post produzione, ma l’incredibile Doug Jones, attore feticcio del regista che già aveva lavorato con lui ne Il labirinto del fauno nei panni del Fauno e dell’Uomo pallido.

E quello che si vede in scena è stato pochissimo rifinito in seguito, ma è lo stesso attore coperto dal trucco e dal costume:

La forma dell’acqua meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar 2018 io personalmente me li ricordo soprattutto per la vittoria di Del Toro.

La bellissima reazione del regista una volta ricevuto l’Oscar mi fece definitivamente innamorare di questo autore:

Contro La forma dell’acqua c’erano tanti e diversi concorrenti di valore: fra gli altri Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) e Il filo nascosto (2017), ma alla fine il film del regista messicano ebbe la meglio, con ben tredici nomination e quattro vittorie – il più grande vincitore della serata.

Ma meritava di vincere?

La mia opinione su questa pellicola è molto positiva e quindi per me la vittoria è meritatissima. Tuttavia, fra tutti i concorrenti, forse io avrei preferito Tre Manifesti, uno dei miei film preferiti.

Categorie
Avventura Avventura Azione Azione Cinecomic Commedia nera Cult rivisti oggi DCU Drammatico Drammatico Fantascienza Fantascienza Film HBO Max Mistero Satira sociale Serie tv Thriller Watchmen

Watchmen – Trasporre un capolavoro

Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.

Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante: Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.

E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.

Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.

Perché Watchmen è un’opera fondamentale

Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.

I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.

Una paura vera, reale.

Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroi nella società statunitense.

Insomma, prodotti come The Boys e Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.

Il resto, lo lascio alla vostra lettura.

Watchmen di Snyder

Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.

Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:

L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.

Iniziare col botto

Una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.

È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.

Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.

Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.

Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…

Un casting bello a metà

Jackie Earle Haley nei panni di Rorschach in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.

Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.

Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.

A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.

Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.

Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.

Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.

E si collega anche il primo grande problema della pellicola.

Attualizzare i costumi?

Jeffrey Dean Morgan nei panni del Comico e Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.

Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.

E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.

Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.

L’eccesso

Patrick Wilson nei panni del Gufo Notturno Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).

Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.

Billy Crudup nei panni di Dr. Manhattan in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.

E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.

Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.

Il finale (e oltre)

 Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il finale mi ha non poco innervosito.

Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.

La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.

Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.

Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.

Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.

La miniserie Watchmen

Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.

E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.

Is this a requel?

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.

Come Scream 5 (2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.

E per me è un ottimo requel.

Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.

Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.

Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.

Il Dr. Manhattan.

Un dio in pigiama

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.

Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.

E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.

Il problema è il resto del tempo.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.

Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.

Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.

Un mistero stratificato

Watchmen è una serie che vive di tensioni.

Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.

Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan e Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.

A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione di non fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.

Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.

L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.

E privandolo della sua fantastica unicità.

La ridicolizzazione dei villain

Hong Chau nei panni di Lady Trieu in una scena della miniserie Watchmen

Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.

Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.

E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.

Jeremy Irons nei panni di Ozymantis in una scena della miniserie Watchmen

Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.

E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.

E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.

Come è giusto che sia.

Costumi terreni

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.

In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.

Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôle credibile.

Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.

E già solo il costume è un discorso a parte.

Una rete di riferimenti

La serie è piena di riferimenti al fumetto.

Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…

Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.

Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.

La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.

In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.

Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.

Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.

E spiegare soprattutto il perché.

Serie tv Watchmen

Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.

Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.

Anzi, li si stravolge.

Ma partiamo dai pro.

La sequenza iniziale

La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.

Il razzismo.

Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.

Quindi la serie punta su temi molto attuali.

Seventh Kavalry

Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.

E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…

In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.

Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.

I poliziotti come vigilanti

Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.

Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.

Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.

La scrittura della serie

La scrittura della serie è molto buona.

Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.

Ma non basta.

Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.

Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.

Passiamo quindi ai contro.

L’incoerenza di Laurie

Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.

Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.

Ma non è neanche quello il problema peggiore.

La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.

Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?

Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.

Questo non è Manhattan

La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.

Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.

Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.

Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.

Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.

Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.

Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.

Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.

Dr. Manahttan Watchmen serie

Questo non è il Dr. Manhattan.

Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.

E, soprattutto, non brilla.

Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.

La distruzione di Adrian

Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.

Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.

Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.

Adrian Veidt Watchmen

In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.

E ancora peggio il finale.

Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.

Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.

La scelta più abietta di tutta la serie.

Categorie
2023 Antman Avventura Azione Cinecomic Comico Drammatico Fantascienza Film MCU Nuove Uscite Film

Antman and the Wasp: Quantumania – Is this Antman?

Antman and the Wasp – Quantumania (2023) di Peyton Reed è il terzo film dedicato al personaggio di Antman – o, almeno, lo dovrebbe essere. Un prodotto che neanche si pensava di fare in prima battuta, visto lo scarso riscontro commerciale dei film dedicati a questo personaggio.

Nonostante tutto, il film ha incassato finora 357 milioni di dollari in tutto il mondo, prospettando un buon guadagno, che sicuramente ripagherà l’investimento di 200 milioni.

Di cosa parla Antman and the WaspQuantumania?

Dopo gli eventi di Endgame, Scott Lang sta cercando di vivere una vita normale con la sua famiglia, in particolare con la figlia adolescente. Ma la stessa ha una sorpresa in serbo per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea – ma vi sconsiglio di guardarlo, visto quanto è spoileroso:

Vale la pena di vedere Antman and the WaspQuantumania?

Paul Rudd e Evangeline Lilly in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Sì e no.

Non lo considero un film totalmente da buttare: ha molte idee buone sulla carta e un villain veramente incredibile, ma entrambi sono davvero mal sfruttati, per via di una scrittura molto carente, in particolare nei dialoghi e in certe battute al limite dell’agghiacciante – livello Thor Love & Thunder (2022) per capirci.

Un film che non sconsiglio in toto, ma che non mi sento di raccomandare se cercate un film su Antman.

Non lo è.

Un inizio brillante

Paul Rudd e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Nelle battute iniziali del film ero fiduciosa.

L’incipit sembra davvero proprio di un film di Antman, con la sua gustosa ironia e con Scott al centro della scena. E ho anche il sospetto che fosse veramente l’incipit di un film dedicato ad Antman, ma che poi risulta del tutto inutile nel contesto generale della pellicola.

Infatti, a parte questi pochi minuti iniziali, il film manca totalmente di un atto introduttivo, che lasci un po’ di respiro allo spettatore prima di immergerlo nel cuore della narrazione. Così, nel giro di neanche venti minuti, i protagonisti sono già nel Regno Quantico e già si parte immediatamente con l’azione.

E non è neanche il problema principale…

Senza sapore

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

L’idea sulla carta era quella di costruire un primo atto basato sulla minaccia incombente di Kang, spiegare il passato di Janet tramite flashback, mostrare la potenza e la malvagità del villain e poi arrivare allo scontro finale.

Nella pratica, queste idee non sono sorrette da una buona scrittura.

La maggior parte degli snodi narrativi non sono ben raccontati e appaiono poco credibili. Due su tutti: la genialità riscoperta di Cassie e del suo macchinario costruito in segreto, e sopratutto Janet che non racconta qualcosa di così fondamentale come la presenza di Kang. Senza parlare della conversione di Modok: sulla carta ha perfettamente senso, ma accade per tutti i motivi sbagliati.

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

E questo anche per i dialoghi veramente scritti male, deboli e per certi versi imbarazzanti, sopratutto quando scadono in un umorismo davvero infantile, che probabilmente potrà far divertire un pubblico molto giovane, ma che a me non ha per nulla coinvolto.

Altrettanto poco mi ha coinvolto la sottotrama dei popoli distrutti da Kang: gli viene dedicato pochissimo spazio, tanto che non abbiamo modo per conoscere i personaggi e la loro storia, a cui invece era importante dedicare la parte centrale.

In questo modo, invece, non sappiamo niente di loro e ancora meno ci interessa della loro sorte nella battaglia finale.

Parliamo di Kang

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Kang è l’elemento più forte del film.

Ma anche lui non manca di difetti.

Jonathan Majors riesce indubbiamente, con la sua presenza scenica, a raccontare un villain minaccioso e profondamente malvagio, un villain da temere. Tuttavia, la messinscena non lo premia del tutto in questo senso: viene raccontato il suo enorme ed inimmaginabile potere, ma alla fine lo stesso non viene davvero mostrato nell’effettivo.

Si temeva l’effetto Captain Marvel, per cui il personaggio sarebbe risultato troppo potente?

Comunque tutta la drammaticità e l’interesse per il personaggio mi è abbastanza scesa nel mid-credit con i vari Kang: nonostante indubbiamente l’attore si sia impegnato nel caratterizzare diversamente le sue varie versioni, il loro character design mi è sembrato veramente molto dozzinale.

Senza considerare i preoccupanti cori da stadio dei vari Kang, quasi scimmieschi…

Il ridicolo

I prodotti MCU sono sempre stati per la maggior parte caratterizzati da un umorismo piuttosto frizzante e giocoso.

Tuttavia, ultimamente, hanno smesso di farmi ridere, complice un umorismo davvero infantile e poco indovinato, che purtroppo ha cominciato a caratterizzare questi prodotti già con Thor Love & Thunder (2022) e con She Hulk (2022).

In questo film, il picco di bruttezza per me è Modok.

Il suo personaggio è veramente troppo, da ogni punto di vista: non mi ha fatto ridere sostanzialmente mai, e mi sono sentita in particolare veramente imbarazzata davanti alla sequenza dedicata alla sua morte. Ed è anche preoccupante che lo abbiano caricato della maggior parte della linea comica, quando il film ha – o dovrebbe avere – come protagonista un personaggio che si presta così ben al ruolo di comic relief.

Un rapporto buttato in faccia

Paul Rudd e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Il rapporto fra Cassie e Scott era sempre stato molto importante sia per la caratterizzazione del protagonista, sia per il coinvolgimento emotivo che portava.

Era evidente che a questo punto il loro rapporto doveva essere riscritto e raccontato in una veste nuova, in quanto Cassie è ormai un’adolescente. Tuttavia, l’inizio del loro arco narrativo doveva essere posta nell’incipit, ma, come abbiamo visto, a questa parte si lascia pochissimo spazio.

Durante il film più in generale la costruzione del loro rapporto è molto debole e vive di spunti poco esplorati. Ma, nonostante questo, il loro rapporto è continuamente sbattuto in faccia allo spettatore, in maniera alla lunga davvero fastidiosa – quasi come se la pellicola fosse consapevole della mancanza di ulteriori elementi a supporto…

Una trama per tutti

Paul Rudd, Kathryn Newton e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

A visione conclusa, mi sono resa drammaticamente conto di come questo non sia un film su Antman.

È un film su Kang.

Evidentemente Antman and the Wasp – Quantumania è stato pensato per introdurre Kang come villain della Fase Multiversale, che avrà il suo picco con Avengers: Secret Wars (2026). E, per questo, molti altri personaggi si sarebbero prestati perfettamente per questa trama e per questa ambientazione – i Guardiani e Thor, per esempio.

Quindi, con ogni evidenza questo non è un film ideato per chiudere la trilogia di Antman.

La bellezza del personaggio infatti era di essere un eroe urbano con ambientazioni molto terrene, con un taglio narrativo simpatico e giocoso. E nonostante si potessero esplorare anche ambientazioni e trame differenti, sarebbe stato bello se lo si fosse fatto avendo in mente di mettere in scena un film dedicato a questo personaggio, appunto.

E la mancanza dei personaggi secondari degli altri due film è piuttosto indicativa in questo senso…

Dove si colloca Antman and the Wasp: Quantumania?

Antman and the Wasp – Quantumania è fondamentale nel racconto complessivo dell’MCU, soprattutto della nuova fase.

Infatti introduce sul grande schermo il villain della Fase Multiversale ed è non molto successivo a Endgame (2019), quindi si ambienta probabilmente nel 2024.

È il primo film della Fase 5.

Categorie
Antman Avventura Azione Cinecomic Comico Drammatico Fantascienza Film MCU

Antman and the Wasp – Un piccolo pasticcio

Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed è il sequel di Antman (2015), che vede il ritorno del personaggio dopo il suo coinvolgimento in Civil war (2016).

Un film che incassò abbastanza bene, ma che confermò il poco interesse per questo personaggio: a fronte di un budget di circa 150 milioni di dollari, ne incassò appena 622 in tutto il mondo.

Di cosa parla Antman and the Wasp?

Due anni dopo Civil war, Scott è agli arresti domiciliari e ha apparentemente tagliato i rapporti con la famiglia Pym. Ma qualcosa di inaspettato sta per succedere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Antman and the Wasp?

Scott Lang e Hope Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

In generale, sì.

Anche se secondo me è meno riuscito rispetto al primo capitolo, rimane comunque un buon prodotto di intrattenimento.

Il principale problema è la trama molto meno lineare e molto più pasticciata, con diverse (forse troppe) storyline e diversi personaggi. E, in particolare, fa una cosa che personalmente non sopporto: inserire più nemici nello stesso film.

Ma, a parte questo, non è un prodotto che vi sconsiglio, anzi.

Una buona retcon

Janet Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

L’incipit del film riprende le fila di Antman, e in particolare lo spunto narrativo di Janet, la moglie di Hank Pym, dispersa nell’Universo Quantico.

Tuttavia, per ovvi motivi, ha dovuto in parte riraccontarla.

Anche se la storia è fondamentalmente uguale, vengono aggiunti dettagli fondamentali e, soprattutto, viene finalmente rivelato il volto del personaggio, che nel primo film era stato del tutto nascosto allo spettatore.

Un caso di una retcon fatta bene.

Ancora più vicino

Scott Lang in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Per rendere ancora più simpatico e affabile, in Antman and the Wasp Scott viene ancora caratterizzato per essere la vittima buona della situazione.

Nonostante il pubblico sappia che il protagonista è un eroe che ha combattuto per una giusta causa – la propria libertà – viene comunque punito. E oltretutto, dimostra anche di voler sottostare alla sua punizione.

E il suo essere costretto a mettersi in pericolo – e rischiare di perdere per sempre la figlia – lo rende ancora più vicino allo spettatore.

Un pasticcio di villain

Ghost in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Invece di mettere in scena una trama lineare come nel primo, questa pellicola tende a perdersi in una trama molto più dispersiva, appunto.

Di fatto, la trama di base è molto semplice: i personaggi devono arrivare da un punto ad un altro per completare una missione. Tuttavia, gli vengono continuamente messi contro degli ostacoli e degli imprevisti.

E, se questa scelta da una parte tiene continuamente alta la tensione, dall’altra alla lunga può apparire fastidiosa e ridondante. Tanto più che gli ostacoli sono rappresentati dai due antagonisti.

Sonny in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

E ce n’è almeno uno di troppo.

Se già non apprezzo le storie con due antagonisti, ancora meno le apprezzo con due personaggi così poco interessanti. Da una parte il solito villain tormentato dal suo passato, dall’altra il classico stereotipo del boss criminale.

E non fatemi cominciare sul livello della recitazione…

Sempre peggio

 Hope Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Con Antman and the Wasp siamo vicini al picco di bruttezza della gestione dei personaggi femminili della MCU, rappresentato da Captain Marvel (2019) prima e la famosa scena del girl power in Endgame (2019) dopo.

E il personaggio di Wasp, se possibile, riesce persino a peggiorare.

Hope in questa pellicola diventa definitivamente una Mary Sue, non riuscendo ad essere in nessun modo interessante o appassionante, o anche solo lontanamente un personaggio in cui identificarsi.

Un po’ di respiro

Davanti a questi evidente difetti, la pellicola riesce comunque a non risultare una visione pesante grazie alla comicità indovinata.

I momenti comici sono tanto più riusciti perché prendono in giro cliché del genere stesso: da Scott che ridicolizza i travestimenti tipici del genere – col classico cappellino e occhiali da sole – allo scambio finale con Woo.

Momenti cominci ben pensati e soprattutto ben posizionati, che lasciano respirare lo spettatore in un film che risulta molto più drammatico del precedente, ma che decide comunque di non prendersi più di tanto sul serio.

Dove si colloca Antman and the Wasp?

Rispetto al primo capitolo, Antman and the Wasp dipende molto di più dall’universo MCU.

La pellicola è infatti esplicitamente collegata a Civil war (2016), di cui è due anni successiva: si ambienta quindi nel 2018. Rispetto agli eventi successivi, è contemporaneo ad Infinity War (2018) e si conclude proprio con lo snap.

Fa parte della Fase Tre ed è – insieme a Captain Marvel (2019) – uno dei due film di intermezzo fra Infinity War e Endgame.

Categorie
Antman Avventura Azione Cinecomic Commedia Fantascienza Film Heist movie MCU

Antman – Un eroe piccolo piccolo

Antman (2015) di Peyton Reed è la origin story dell’eroe omonimo, interpretato da Paul Rudd, in forma di heist movie. Uno dei prodotti minori della Marvel, solitamente meno considerato nel panorama complessivo dell’universo MCU.

E infatti si cercò di renderlo il più importante possibile da Civil war (2016) a Endgame (2019).

Ma i risultati commerciali parlarono da soli: nonostante rientrò ampiamente nel budget (519 milioni di dollari di incasso contro 150 milioni di spesa), fu uno degli incassi minori della produzione, confrontandoli anche con altre origin story come Doctor Strange (2016) o addirittura Captain Marvel (2019).

Di cosa parla Antman?

Scott Lang è appena uscito di prigione dopo aver violato i segreti di una grande multinazionale. Mentre fa fatica a conciliare lavoro e famiglia, viene coinvolto in una rapina piuttosto inusuale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Antman?

In generale, sì.

Anche per la sua semplicità, considero Antman uno dei prodotti della Marvel meglio riusciti, che veramente ha poche sbavature e una costruzione della trama assolutamente funzionale e funzionante.

Inoltre, ha il vantaggio di poter essere guardato anche come un film a sé stante, senza dover conoscere più di tanto del resto del mondo MCU: solamente per pochi elementi si ricollega alla trama complessiva della realtà cinematografica cui appartiene.

Inoltre, è un film davvero simpatico e piacevole.

Empatizzare con l’eroe

Un elemento di forza di Antman è come costruisce il protagonista.

Scott Lang viene inizialmente presentato come un personaggio negativo: un carcerato che si picchia con gli altri detenuti. Ma già da lì comincia l’ammorbidimento: a sorpresa si scopre che quel combattimento non aveva un sottofondo antagonistico, ma quasi giocoso.

Già da qui capiamo che il nostro eroe è una persona amabile e benvoluta da tutti.

Subito dopo scopriamo un altro elemento fondamentale della sua storia: è andato in prigione, ma ci è andato per motivi del tutto nobili, ovvero insidiare una multinazionale. Fondamentalmente un elemento di ammirazione: Scott è un uomo molto intelligente, ma che non si lascia schiacciare dagli oppressori un tema molto ben voluto sopratutto in ambito statunitense.

E l’inserimento della figlia è il colpo finale.

Una perfetta checklist

Altrettanto ben fatta è la costruzione della trama.

La storia del film segue una serie di step fondamentali e perfettamente funzionali. Dopo l’introduzione del protagonista, questo viene coinvolto nel piano della rapina e tutta la parte centrale si allena, mostrando i suoi miglioramenti e quanto sia fallibile e vicino allo spettatore.

Ma, prima dello scontro finale, il protagonista si scontra con una sorta di mini boss, ovvero Falcon. Con questa scena non solo si contestualizza il personaggio nel futuro Civil War (2016) prima e Infinity War (2018) e Endgame (2019) dopo, ma sopratutto si mostra come il suo allentamento abbia dato effettivamente dei frutti.

A questo punto lo spettatore si fida del protagonista e delle sue capacità.

E così si può arrivare al conflitto finale.

Una regia indovinata

A quasi dieci anni di distanza, ho trovato Antman ancora molto efficace sia dal punto di vista della regia che degli effetti speciali – anche più del più recente Wakanda Forever (2022).

La regia è chiara e coinvolgente anche nelle scene più dinamiche, quando l’eroe si muove in maniera fulminea negli spazi, tenendo alta la tensione e al contempo utilizzando una CGI (ancora) molto credibile.

Allo stesso modo, ho davvero apprezzato la sottile ironia di mostrare le vicende che avvengono nel microcosmo ingrandite, e come appaiono invece ridicole ad un occhio umano, sopratutto nella parte finale.

Un banale villain

Il villain di Antman è fra gli elementi più deboli della pellicola.

Tuttavia, niente di sorprendente: come aveva già visto per Black Panther (2018) e riflettendo sulla prevedibilità, è molto tipico delle pellicole supereroistiche – e dell’MCU in particolare – mettere in scena antagonisti molto banali e ridondanti, che tendenzialmente non devono oscurare la figura dell’eroe.

In questo caso il villain non è neanche uno dei peggiori, ma pensandoci a posteriori appare quasi ridicolo sia nell’aspetto che nella caratterizzazione: il volto ricorda la durezza del giovane Luthor in Smallville (2001 – 2011) e riprende gli atteggiamenti da cattivo spietato di tanti suoi simili in prodotti analoghi.

E diventa quasi esilarante quando mette in scena un certo tipo di mentalità guerrafondaia tipica di certi ambienti statunitensi…

L’insipidezza di Wasp

Sulla figura di Hope bisogna spendere due parole in più.

Un problema della Marvel per tanto tempo sono stati i personaggi femminili messi in scena: molto spesso stereotipi su gambe – ve la ricordate Black Widow agli inizi? – fino a ricadere nella figura della Mary Sue con Captain Marvel. Insomma, tendenzialmente i personaggi femminili sono secondari, insipidi e spesso persino insopportabili.

Non arriverei a dire che Hope sia una delle peggiori, tuttavia è davvero un pessimo personaggio femminile: non ha veramente niente di interessante da raccontare, è del tutto definitiva nel rapporto col padre ed è talmente fastidiosa che non si capisce cosa Scott ci veda in lei – a parte la bellezza, ovviamente.

Per fortuna che questa tendenza si sta risolvendo in tempi recenti, con personaggi come Ms. Marvel, She Hulk e Kate Bishop in Hawkeye – a prescindere dalla qualità dei prodotti.

Dove si colloca Antman?

Per quanto sia un film abbastanza indipendente, Antman ben si contestualizza nell’MCU per elementi interni alla pellicola.

Il personaggio viene introdotto in questo film, per poi essere ampiamente coinvolto nel film successivo – e maxi evento – Civil War (2016), a cui si collega direttamente, ed è una delle tre origin story – insieme a Spiderman Homecoming (2017), Doctor Strange (2016) – che introduce personaggi poi protagonisti della fine della saga del Multiverso.

È l’ultimo film della Fase 2 e si ambienta poco prima di Civil War, quindi fra il 2015 e il 2016.

Categorie
Akira Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Cult rivisti oggi Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Recult

Akira – Tutto nacque, tutto morì

Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo è uno dei più grandi cult – forse il più grande – del cinema animato nipponico. Un’opera complessa, che affronta tematiche anche abbastanza tipiche della fantascienza moderna, ma con una profondità di riflessione inarrivabile.

Con un budget abbastanza contenuto (700 milioni di yen, circa 5 milioni di dollari), incassò molto bene: 1.5 miliardi di yen, circa 50 milioni di dollari.

Di cosa parla Akira?

In un futuro ucronico, in cui la terza guerra mondiale ha distrutto Tokyo, la Neo Tokyo è nel totale degrado, dominata da bande di criminali motociclisti. Uno di questi, Tetsuo, si scontra con uno strano bambino…

Vi lascio lo splendido trailer per il 30° anniversario per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Akira?

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Assolutamente sì.

Akira è un film davvero imperdibile, e non solo per la splendida scrittura e animazione, ma soprattutto per la profonda riflessione che costruisce, che può lasciare interdetti ad una prima visione, ma che acquisisce un chiaro significato dopo un’attenta riflessione (e revisione).

Uno dei quei prodotti che non possono mancare nel proprio bagaglio cinematografico, anche se non si è mai messo piede nel cinema orientale.

Tutto nacque da una bomba

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il punto di partenza di Akira è la bomba atomica.

Infatti la primissima scena del film mostra lo scoppio di una bomba che distrusse, nell’ucronia del film, la città di Tokyo – con un parallelismo molto netto fra i drammatici eventi di Hiroshima. E così anche il punto di arrivo – o di partenza – della Terza Guerra Mondiale.

Un racconto che sembra molto lontano da noi ma che, al tempo dell’uscita della pellicola – e soprattutto del manga originale – non lo era per niente. Negli Anni Ottanta infatti la Guerra Fredda e la conseguente paura dell’Atomica – che si era visto esistere e poter essere utilizzata – era ancora molto reale.

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quindi sarebbe stato tanto improbabile immaginare un mondo in cui la bomba atomica era derivata da sperimentazioni umane – già emerse dalla drammatica pagina della storia nipponica dell’Unità 731 – e che questa avrebbe portato ad un terzo conflitto mondiale?

Di fatto, Akira non era un’ucronia, ma una realtà possibile.

Volevo rievocare un Giappone come quello in cui ero cresciuto, dopo la seconda guerra mondiale, con un governo in difficoltà, un mondo in ricostruzione, pressioni politiche esterne, un futuro incerto e una banda di ragazzini abbandonati a sé stessi, che combattono la noia correndo con le moto.

Katsuhiro Ōtomo

Il superuomo

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

E se la bomba atomica fosse l’uomo stesso?

L’atomica – nella realtà, quanto nella finzione fantascientifica – è un esempio chiarissimo di quanto la creatività umana e la sua hybris possa essere totalmente distruttiva. Per questo Akira riprende il tema classico della creazione che sfugge dal controllo del suo creatore, ma la amplia in una direzione del tutto nuova.

In questo caso, l’uomo che, tramite l’uso immorale della scienza, non riesce a controllare sé stesso.

Ed è tanto più problematico quando un potere del genere viene dato – o risvegliato, per meglio dire – ad una persona divorata dal risentimento e dal senso di inferiorità. Quasi fino all’ultimo Tetsuo si atteggia come una persona potente, inarrestabile e al di sopra di tutti gli altri – come ben testimonia il suo sedersi sul trono dello Stadio e mettersi un mantello per darsi un’aura regale.

Cos’è Akira?

Akira in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

La figura di Akira può essere letta su più livelli.

Nel contesto più materiale della pellicola, era solamente l’esperimento effettivamente riuscito della creazione di un superuomo, che poi si era rivoltato contro lo stesso creatore, distruggendo un’intera città – che sia volontariamente o involontariamente, non è dato saperlo.

A livello più astratto, Akira è un’energia vitale e primordiale dell’uomo, che lo eleva dal suo stato bestiale e lo rende capace dell’inimmaginabile. Anche se l’uomo non è riuscito fisicamente – per ora – a modificare sé stesso, è stato in grado di modellare il mondo a sua immagine e funzione, costruendo tutto quello di cui aveva bisogno.

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il passo successivo era proprio quello di rendersi pari ad un dio, capace di avere poteri sovrannaturali, ma che in qualche modo erano sempre presenti nel suo potenziale.

Ma la bellezza di Akira sta anche nel non banalizzarsi su questo concetto, ma ampliarlo mettendo in scena una distruzione che è al contempo una creazione stessa. Un dualismo che si vede bene nella scena finale, quando lo scienziato dice:

È come se stessimo assistendo alla nascita dell’Universo.

Cosa succede nel finale di Akira?

Kiyoko in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il finale di Akira si apre a diverse interpretazioni.

Quando i tre bambini si trovano in presenza di Akira si inginocchiano come alla presenza di un dio, e decidono di salvare Tetsuo dalla morte certa, mentre il suo corpo non gli risponde più e lo sta fondamentalmente distruggendo.

Tuttavia, allo stesso modo sono consapevoli che, seguendo Akira, non potranno più tornare indietro.

Secondo la mia personale interpretazione, nel finale tutti perdono la loro forma materiale e umana, riducendosi ad un forma atomica e in qualche modo rinascendo con Akira, in un modo (per il momento) incomprensibile all’essere umano.

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade Runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Giallo L'essenziale oriente

Metropolis – Riscrivere un classico

Metropolis (2001) di Rintarō è un lungometraggio animato nipponico, ispirato al classico della cinematografia omonimo del 1927.

Come la maggior parte dei prodotti di questo tipo, ebbe un costo sostanzioso (¥1.5 miliardi) e un incasso misero (¥ 100 in Giappone e 4 milioni di dollari in tutto il mondo).

Di cosa parla Metropolis?

Il giovane Kenichi e lo zio Shunsaku Ban sono sulle tracce in uno scienziato criminale, che sembra coinvolto in uno strano progetto che ha come mandante il misterioso Duke Red…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Metropolis?

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Assolutamente sì.

Oltre a racchiudere al suo interno concetti di grande interesse e profondità, Metropolis riesce anche ad essere una pellicola piacevolissima, con una costruzione intrigante e una regia piena di fascino.

Si viene infatti facilmente coinvolti in dinamiche anche piuttosto semplici, ma in una costruzione della storia e della mitologia davvero avvincenti.

Un recupero obbligato.

Vivere di contrasti

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Metropolis è una pellicola che vive di contrasti.

Lo stile di animazione è piuttosto peculiare, e sembra molto più tipico di prodotti rivolti ad un pubblico infantile – per certi versi mi hanno ricordato i disegni del classico per ragazzi Tintin.

Tuttavia, la regia e l’animazione sono in questo senso davvero sorprendenti, riuscendo a mettere in contrasto la delicatezza dei disegni dei protagonisti con la crudezza dei temi trattati.

Non mancano infatti diverse scene di morte e violenza, anche piuttosto esplicite – fra tutte la morte di Pero, con la testa spappolata per terra. E così, più in generale, la trattazione dei robot, uccisi continuamente senza pietà e trattati alla stregua di schiavi.

Un contrasto piuttosto peculiare, che non mi aspettavo.

Una regia sorprendente

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

La regia è stato l’elemento forse più sorprendente della pellicola.

Una messinscena piuttosto variegata, che gioca molto sui già detti contrasti, con un uso magistrale delle luci e della costruzione della tensione. Particolarmente avvincente sono le scene di duello, con piccoli tocchi registici che riescono a tenere per tutto il tempo col fiato sospeso.

Una regia inoltre che lascia profondamente respirare il mondo trattato, vivendo di tantissimi particolari e scene piene di vita.

Raccontare il mondo

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Quando si vuole raccontare un mondo nuovo, soprattutto se complesso e intricato, si possono percorrere diverse strade.

Metropolis sceglie una strategia simile a quella de La compagnia dell’Anello (2001): inserire piccole ma significative didascalie all’interno dei dialoghi stessi dei personaggi, che permettono allo spettatore di muoversi con facilità all’interno del mondo raccontato.

E, anche di più, costruendo molto bene la mitologia e i misteri del film, svelandoli a poco a poco allo spettatore quanto ai protagonisti stessi, che si vedono fin da subito interrogare sulle questioni principali della storia, rimanendo all’oscuro per la maggior parte della pellicola.

Il mito della Torre di Babele

Il mito della Torre di Babele è più volte citato all’interno della pellicola.

Una costruzione che si perde nella leggenda, ma che in generale – metaforicamente parlando – racconta la superbia umana nel voler sfidare i suoi limiti e gli dei in particolare.

In Metropolis questa metafora è riletta intrecciandosi col tema sempreverde della fantascienza moderna: la macchina che si rivolta – e supera – il suo creatore, in maniera anche simile a Ghost in the shell (1995).

Così il Duca Red vuole superare i limiti umani mettendo a capo della sua creazione un superumano, capace di controllare ogni arma e ogni elemento, così da poter distruggere ogni cosa, per – secondo la sua folle idea – ricreare e migliorare.

Il confronto con Metropolis (1927)

Nonostante Metropolis sia un film a sé stante, non mancano ovviamente i riferimenti all’opera originale di Fritz Lang.

Oltre alla costruzione della città simile – sempre distinta in tre livelli – in entrambe le pellicole si cita il mito di Babele, ed in entrambe un’enorme torre domina la città.

Altrettanto simile è la scena della rivolta e in generale la rappresentazione della classe più umile e dei robot trattati come schiavi: sicuramente l’ispirazione è la famosissima scena degli operai che vanno al lavoro, muovendosi quasi come automi.

In ultimo, una citazione visiva: la scena del risveglio di Tima avviene con le stesse dinamiche del risveglio della Maria-robot nel film del 1927:

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Drammatico Fantascienza Film Giallo L'essenziale oriente Surreale Thriller Uncategorized

Paprika – Il potere dell’incubo

Paprika (2006) di Satoshi Kon è l’ultimo lungometraggio animato diretto da questo visionario regista, autore di splendidi prodotti dal sapore onirico come l’indimenticabile Perfect blue (1997).

A fronte di un budget molto esiguo (300 milioni di yen, circa 2,6 milioni di dollari), incassò meno di un milione in tutto il mondo.

Niente di sorprendente, visto il tipo di prodotto.

Di cosa parla Paprika?

In un futuro non troppo lontano, il DC Mini, dispositivo che permette di vedere i propri sogni, viene rubato. E il mistero è piuttosto fitto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Paprika?

Assolutamente sì.

Se avete visto l’opera prima di Satoshi Kon – Perfect blue – avete un’idea del tipo di film che vi troverete davanti. In questo caso il regista gioca a carte scoperte, introducendoci in una storia che fin dalle prime battute gioca profondamente con l’elemento onirico.

Un prodotto che lavora per sottrazione, in cui è facile perdersi.

Ma che vale assolutamente la pena di scoprire.

Il doppio

Una delle maggiori tematiche di Paprika è il doppio.

La maggior parte dei personaggi in scena vivono di doppi: Paprika e Chiba, Tokita e Himuro, Konakawa e il misterioso amico del suo passato. E in qualche modo ogni personaggio si definisce tramite la sua controparte.

Anzitutto Tokita, un bambinone geniale che si sente fondamentalmente incompreso, ma che ricerca la sua controparte in Himuro, a cui assomiglia anche fisicamente. Con il suo perduto amico vorrebbe ritrovare una connessione che sembra ormai recisa, ma che lui sente ancora molto vicina.

In questo senso interessante il parallelismo fra il caos della casa di Himuro e lo stesso nella casa di Tokita: anche se con giocattoli diversi, il comportamento infantile è sempre lo stesso.

Discorso più complesso quello riguardo al Detective Konakawa.

L’uomo sembra costantemente vittima di sé stesso – come ben testimonia il sogno ricorrente in cui viene aggredito da personaggi con la sua faccia – e in qualche modo sente di aver ucciso un suo alter ego, una parte di sé, ovvero il suo vecchio amico venuto a mancare.

In realtà, prendendo consapevolezza della sua mancanza, Konakawa riesce a riabbracciare quella parte di sé e del suo passato che aveva insistentemente seppellito.

Paprika e Chiba

Ma lo sdoppiamento più profondo è quello fra Paprika e Chiba.

Paprika è una ragazza frizzante e piacevole, che si veste di colori brillanti; al contrario Chiba è una donna molto più austera e riflessiva, caratterizzata da colori più scuri e spenti. Le due sono in qualche modo una la parte dell’altra, anche se si presentano come sostanzialmente indipendenti.

E infatti molto spesso Chiba si scontra con il suo alter ego, cercando di sottometterlo, ma riuscendo a raggiungere la sua forma completa solamente quando davvero lo assorbe, lo accetta dentro di sé, diventando un essere capace di sconfiggere Tokita.

E proprio quella scena offre un ulteriore spunto.

La pluralità dell’uomo

Oltre al doppio, in Paprika si racconta la pluralità dell’individuo.

Abbastanza rivelatorio in questo senso il momento in cui Paprika entra nel famoso quadro rappresentante la sfida di Edipo, e prende le vesti della Sfinge. La Sfinge è già di per sé un essere che racchiude una pluralità – donna, leone e uccello – che ben si riassume nel famoso indovinello:

Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?

Ovvero l’uomo, all’interno delle diverse fasi della sua vita.

E infatti troviamo diversi riferimenti a questa pluralità all’interno del film, a cominciare proprio da Tokita, più volte definito un genio nel corpo di un bambino, ma in particolare nella scena sopracitata in cui Chiba accetta Paprika dentro di sé e diventa un neonato, poi una ragazza, fino a diventare una donna.

L’inviolabilità del sogno

Le motivazioni di Tokita sono meno banali di quanto potrebbero apparire.

Se apparentemente potrebbe sembrare che abbia un sogno di potenza tipico del più classico villain, in realtà a guidarlo effettivamente sono i suoi più profondi principi, che riguardano l’inviolabilità del mondo del sogno.

Come ben spiega fin dalla sua prima apparizione, il Presidente è profondamente contrario a questa volontà di onnipotenza dell’uomo, che cerca di controllare qualcosa che dovrebbe essere assolutamente incontrollabile, perché in qualche modo irrazionale.

E solo in seguito sogna di impossessarsi del potere dell’onirico.

La potenza dell’onirico

L’elemento onirico è esplosivo, strabordante, inarrestabile.

Ed è ben rappresentato dalla parata in continua espansione, in cui ogni personaggio prima o poi viene coinvolto. Una parata che non ha delle regole, che sembra avere una vita propria e che raccoglie ogni tipo di elemento fantastico, anche il più surreale e inimmaginabile.

E questo potere fa davvero gola a Tokita, che riesce progressivamente a superare la sua disabilità in vari modi – trasformando le sue gambe in radici, prendendo il possesso del corpo di Osanai e infine esplodendo nel suo massimo potenziale all’interno del sogno finale.

Chi è Paprika?

Se volessimo semplificare molto, potremmo dire che Paprika è semplicemente l’alter ego onirico di Chiba.

Ma Paprika è molto più di questo.

Come vediamo fin dall’inizio, è una figura che non vive assolutamente in funzione di Chiba – anche se forse è Chiba stessa che l’ha creata. Anzi, è un personaggio del tutto autonomo, che riesce a muoversi all’interno delle varie realtà – non solamente quelle oniriche – e in qualche modo essere sempre presente.

Possiamo semplicemente dire che è un elemento virtuale?

Non proprio.

Paprika è quasi come se fosse un’entità, che vive all’interno del sogno e si muove liberamente all’interno dello stesso, potendo trasformarsi a suo piacimento. Un elemento oltre la realtà più materiale, un fantasma inafferrabile e indefinibile.

Cosa rappresenta la bambola?

L’elemento più enigmatico del film è l’inquietante bambolina che si vede per la prima volta a casa di Himuro, che ha sul comodino anche una foto che la rappresenta.

Un personaggio che non parla mai, se non scoppiando nella risata zuccherina sul finale, quando diventa gigantesca. A livello materiale, probabilmente non è né più né meno che una bambola, che Himuro e Tokita avevano visto all’interno del parco di divertimenti abbandonato.

A livello simbolico, può essere facilmente letta come la rappresentazione del sogno stesso, il sogno delirante che trasforma degli elementi della realtà, magari anche appartenenti alla sfera infantile, in qualcosa di assurdo e mostruoso.

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Cinecomic Drammatico Fantascienza Film Futuristico Giallo L'essenziale oriente Recult

Ghost in the shell – La profondità travestita

Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii è un lungometraggio animato giapponese, uno dei più grandi cult dell’animazione orientale. Un prodotto che si cercò in seguito di riportare sullo schermo con il live action omonimo del 2017, che fu sommerso dalle critiche.

A fronte di un budget abbastanza contenuto di appena 2 milioni di dollari (330 milioni di yen), incassò comunque pochissimo (circa 10 milioni), ma divenne col tempo un cult, rientrando per così dire nelle spese grazie agli incassi dell’home video (43 milioni in tutto).

Un ringraziamento speciale a Carmelo, senza cui questa recensione non avrebbe potuto esistere.

Di cosa parla Ghost in the shell?

In un futuro lontano ma probabile, l’uomo si è sempre di più fuso con le macchine. Ma le divisioni politiche sono sempre le stesse…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ghost in the shell?

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Assolutamente sì.

Ghost in the shell è un film incredibile da ogni punto di vista.

Il reparto tecnico e artistico è di una bellezza che lascia senza fiato, sia nelle animazioni perfette, nei disegni e nel character design meravigliosamente pensato.

Inoltre, questa pellicola è di fatto una riflessione profonda e filosofica travestita da film action e cyberpunk. Una serie di concetti che magari non arriveranno immediatamente alla prima visione, ma che sono frutto di una scrittura profondamente immensa.

Non un film, ma un’esperienza.

Tutto cambia…

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il mondo raccontato in Ghost in the shell è assolutamente visionario, se non anche molto probabile.

Da anni i futurologi ipotizzano un futuro neanche troppo lontano in cui l’uomo vivrà sempre più compenetrato con la tecnologia.

Ma, all’interno di mondo in cui anche una macchina può essere considerata un essere vivente, l’umanità cerca di conservare la sua identità tramite l’anima, o il ghost – o il concetto della stessa – quello scintillio di consapevolezza che distingue l’uomo dalla mera macchina.

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Un concetto su cui la pellicola si interroga continuamente, in primo luogo attraverso il personaggio di Motoko, che sente di avere un’anima, si sente umana solamente perché viene trattata come tale.

Ma la risposta al suo dilemma arriva in un certo senso tramite Project 2051: un essere senza un corpo, senza un’anima, che esiste solo virtualmente, ma che ha acquisito consapevolezza, ambendo allo status di essere vivente al pari degli uomini.

E, allora, cosa è l’uomo e cos’è la macchina?

…niente cambia

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Davanti all’immensità di questi cambiamenti e avanzamento tecnologici, l’uomo non cambia la sua natura.

Continuano le divisioni politiche in un intricato gioco di potere che mi ha ricordato per molti versi 1984 (1949) e L’uomo nell’alto castello (1962). Con la sola differenza che la tecnologia avanza più veloce dell’uomo stesso, diventando sostanzialmente incontrollabile.

Un elemento alla base di tutta la fantascienza moderna: la macchina che si rivolta contro il suo stesso creatore.

Fermarsi

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Una particolarità della pellicola è che si ferma continuamente.

Diverse manciate di secondi dedicate a soffermarsi su splendide sequenze di grande potenza visiva e artistica, impreziosite da musiche lente e sibilline che raccontano un mondo lontano, eppure così vicino alla contemporaneità.

E gli infiniti momenti in cui ci si arresta, senza una parola, ad osservare i personaggi in inquadrature che sembrano delle opere d’arte.

E una continua e intensa riflessione, che tocca tantissimi concetti e li riesce organicamente a riflettere all’interno di pellicola che si propone come action, ma che di action ha ben poco.

Riflettiamo su Ghost in the shell

All’interno della pellicola si riprendono diversi concetti filosofici di grande interesse e profondità – che ho tentato di spiegare nella mia umile ignoranza.

L’angoscia singolarizzante

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Uno dei concetti più forti della pellicola si riassume nella cosiddetta angoscia singolarizzante di Heidegger.

Un processo di consapevolezza dell’uomo di fronte al nulla, in cui prova una profonda angoscia davanti alla possibilità di un’esistenza inautentica, in cui non può emergere, ma rimanere parte di una massa indistinta.

E questo lo spinge invece verso una singolarizzazione, ovvero una ricerca di un’identità che lo distingua dagli altri

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Questo concetto ben si articola nella lunga riflessione di Motoko.

Insieme a Batou, la protagonista riflette su quanto, nonostante sia forse uno degli esseri più avanzati e con l’accesso ad un numero virtualmente illimitato di informazioni, senta comunque di non aver espresso il suo pieno potenziale e che lo stesso sia lì, a portata di mano, ma irraggiungibile.

E questo sarà possibile in certa misura fondendosi con Project 2051, e creando qualcosa di nuovo e teso verso un miglioramento e un’evoluzione davvero soddisfacente.

E parlando di evoluzione…

Il darwinismo

Mokoto e Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Tutto il monologo di Project 2051 a Motoko è un riferimento alla teoria darwinista.

All’interno della teoria di Darwin l’evoluzione umana (o di una specie in questo caso) si articola in una serie di cambiamenti, per cui il cambiamento più forte e adatto all’ambiente è quello che domina.

All’interno del suo monologo il Puppet Master racconta come il miglioramento della specie e dell’individuo segua la strada del cambiamento, ma anche del sacrificio, in cui gli elementi devono unirsi per sopravvivere e raggiungere una condizione superiore.

La via di Damasco

 Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il percorso della protagonista può anche essere associato a La via di Damasco, riguardante la conversione di San Paolo.

Prima di essere un discepolo di Cristo, il santo era un persecutore di cristiani per mano dei giudei gli ebrei della sinagoga. Un giorno una luce lo fece cadere da cavallo e l’uomo sentì la voce di Cristo, che gli chiedeva perché perseguitava lui e i cristiani.

Così avvenne la sua conversione.

Allo stesso modo Motoko, dopo aver perseguitato Project 2501, si connette alla sua coscienza e si fa convincere dalle sue parole a cambiare idea e ad abbracciare la sua visione – e la sua essenza.

Così come San Paolo accetta Cristo dentro di sé, così la protagonista accetta quello che prima pensava essere il suo nemico.

Il problema del live action di Ghost in the shell

A cura di Carmelo

Nel 2017 si cercò di produrre un live action della storia, con risultati disastrosi sotto ogni punto di vista.

Oltre alle accuse (dovute) di whitewashing – che compromisero per un certo periodo la carriera di Scarlett Johansson – il film fu un disastro di critica e pubblico.

E per ottimi motivi.

Anzitutto, le grafiche e scenografie sono pacchiane e fastidiose a livello visivo: ologrammi giganti futuristici a scopo pubblicitario – lontani anni luce da quelli di classe di Blade Runner (1982) – e luci epilettiche.

L’americanizzazione

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Ma la mancanza più grave è la voluta americanizzazione dell’anime di Masamune Shirow per renderlo fruibile al pubblico medio americano.

In questo senso, la filosofia e personalità dei personaggi sono ridotti a frasi da baci perugina, con alcuni personaggi resi delle pure macchiette che si vedono per tre minuti scarsi solo per aiutare i protagonisti.

E l’antagonista, a differenza dell’anime, è il villain stereotipato e scialbo che si trova in quasi tutti i film di fantascienza e cyberpunk.

Così la storia d’amore tra i personaggi è ridicola e scontata, con un sentimentalismo smielato fra personaggi inesistenti nel manga (con un loro perché narrativo), che ricordano la brutta versione di Io Robot (2004) con Will Smith.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Per fortuna che hanno inserito Takeshi Kitano, attore nipponico, messo lì per ricordare che il film si basa su un Manga, ovvero una forma d’arte orientale.

E cercando sempre di attirare il pubblico dei fan, è stata inserita una gran quantità di fanservice piuttosto fastidioso, che serve solamente per far godere i fan del manga – ma che a me ha dato solo fastidio.

Le scene violente, diventate iconiche nel Manga, sono state o censurate o trasformate in versione PEGI 6, risultando in una comicità involontaria.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Secondo questo stesso concetto, le logiche narrative più che ricordare Ghost in the Shell ricordano la brutta versione di Dragon Ball (in particolare la storia dei Cyborg C18 e C17).

L’importante messaggio dell’anime è ridotto ad una esaltazione dell’umanità in pieno stile qualunquista simil Adriano Celentano.

Insomma, se fosse stato un film cyberpunk generalista qualsiasi, sarebbe rimasto sulla soglia del guadabile.

Ma, avendo come titolo Ghost in the shell, non è assolutamente accettabile.