Rogue One (2016) di Gareth Edwards è un film prequel spin-off di Star Wars.
Un progetto piuttosto ambizioso, facente parte dei piani iniziali della Disney di portare un prodotto di Star Wars all’anno – nel 2015 era uscitoIl risveglio della forza.
Galen Erso è un ex-scienziato al servizio dell’Impero, che viene scovato dalle forze imperiali per tornare a lavorare ad un certo progetto oscuro…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena vedere Rogue One?
Assolutamente sì.
Rogue One è indubbiamente il miglior prodotto concepito dopo la Trilogia Originale.
Il suo grande pregio è il riuscire a raccontare finalmente una storia diversadal solito coming of age di un membro sconosciuto della famiglia Skywalker, segretamente lo Jedi che salverà la Galassia – come è stato fatto, pur rimescolando le carte, con tutti gli altri prodotti della trilogia prequel e sequel.
Purtroppo, fa anche un po’ di tristezza vedere questo prodotto con la consapevolezza di quanto sarebbe arrivato dopo: una bellissima, ma falsa speranza della rinascita del brand…
Dove si colloca Rogue One?
Rogue One ha una collocazione molto precisa all’interno della timeline di Star Wars: si ambienta nei giorni immediatamente precedenti all’inizio di Una nuova speranza (1977).
Cominciare dal nulla
La bellezza del personaggio di Jyn è il suo percorso di maturazione.
Una ragazza già piuttosto adulta, che vive una sostanziale indifferenza, se non addirittura un antagonismo, per tutto quello che riguarda la Ribellione. E questo la porta a vivere solo per sé stessa, come una criminale qualunque.
Il cambio di passo è scatenato in particolare dal confronto con le due figure paterne che l’hanno portata al suo annullamento: Saw e il padre, Galen Erso.
Da entrambi si è sentita abbandonata e tradita, anche se per motivi diversi.
Viene così spinta ad un rincontro forzato, che però le permette di ricucire quelle ferite che l’avevano così profondamente colpita, comprendendo che invece entrambi si erano sacrificati e prodigati per la sua salvezza.
In particolare, vedendo il messaggio del padre, si riaccende in Jyn quel fuoco interiore da tempo sopito, che la fa diventare il protagonista più importante della Ribellione – senza il quale, di fatto, la vittoria contro l’Impero non sarebbe potuta avvenire.
Il buon fan service
Uno dei meriti maggiori di Rogue One è non solo il riuscire a raccontare una storia inedita, anche di andarsi a collocare perfettamente all’interno dell’universo di Star Wars.
Per quanto ci siano alcuni elementi ripescati dal canone di riferimento – il protagonista che ha un padre apparentemente malvagio, la presenza di uno Jedi, un robot a cui è affidata la linea comica del film – niente è forzato o eccessivo.
Inoltre, Gareth Edwards è riuscito ad aggiornare l’estetica della saga senza stravolgerla, ma apportando interessanti cambiamenti così che non sembrasse – come si è cercato di fare in altri film successivi – una sostanziale copia di quanto venuto prima.
Complessivamente i momenti di fanservice– se così vogliamo chiamarlo – rappresentano una porzione minuscola della pellicola, e sono comunque inseriti in maniera intelligente, con la funzione principalmente di contestualizzare la storia, più che di far emozionare i fan.
Inoltre, Rogue One racconta una storia effettivamente importante, che, invece che cambiare, arricchisce nel complesso la saga, andando a spiegare in maniera interessante e credibile un elemento che effettivamente poteva apparire forzato.
Ed è quasi ironico che abbiano usato lo stesso anche in L’ascesa di Skywalker pochi anni dopo…
Il domino
Rogue One è anche un film straziante.
È angosciante quanto dovuto vedere alla fine tutti i personaggi che muoiono.
Ma, appunto, non si poteva fare altrimenti: non si è voluto per questo film rischiare alcun tipo di forzatura, né di far sorgere domande per le quali, per ovvi motivi, non si sarebbe potuto dare una risposta.
In breve, se nessuno di questi personaggi appare nella Trilogia Originale, deve morire.
Tuttavia, l’eleganza di questo film sta non solo nel dare ad ognuno di loro una morte importante e che rimanga nella mente dello spettatore, ma anche nel saper concludere la pellicola con un aggancio al canonegeniale quanto rincuorante.
Tre anni dopo l’inizio della guerra dei Cloni, le forze separatiste rapiscono il Cancelliere Palpatine, e Obi-Wan e Anakin devono salvarlo. Ma niente è come sembra…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena Star Wars: La vendetta dei Sith?
Con mia grande sorpresa, sì.
Personalmente considero La vendetta dei Sith il film migliore della trilogia prequel, che riesce complessivamente a trattare con intelligenza la costruzione del finale della trilogia, e a ricollegarlo coerentemente con i film successivi.
Ovviamente non mancano alcune forzature e momenti di puro ed ingenuo fanservice, ma il film si salva sia per un visibile miglioramento nella recitazione di Hayden Christensen, sia per diversi momenti assolutamente iconici.
Insomma, potreste rimanerne soddisfatti.
I tre anni fondamentali
In questo capitolo conclusivo, finalmente sono riuscita ad apprezzare Anakin.
Il giovane Padawan non è più il personaggio totalmente immaturo e fortemente emotivo di Episodio II, ma uno Jedi ben più adulto e consapevole delle sue potenzialità.
Tuttavia, pur consapevole che il racconto dei tre anni fra questo film e il precedente è presente nella serie Clone Wars, durante la visione ho percepito ancora una volta un senso di vuoto.
Nonostante, infatti, come prodotto mi abbia soddisfatto, riguardandomi indietro avrei preferito una costruzione del tutto diversa della storia, che permettesse di arrivare ad un finale basato su solide fondamenta.
E questo si vede soprattutto nel punto focale della narrazione…
Una costruzione forzata?
Una critica spesso mossa nei confronti di questo film è la conversione fin troppo fulminea di Anakin al lato oscuro.
Io mi trovo in una posizione di mezzo.
Sicuramente la trasformazione del protagonista poteva essere costruita decisamente meglio, ma le colpe sono da attribuire principalmente ai film precedenti: nei primi due capitoli mancano basi ben più solide che raccontino non tanto il carattere turbolento di Anakin, ma il suo rapporto con Palpatine.
In La vendetta dei Sith per questo si è dovuti partire quasi da zero per costruire la loro relazione, con Darth Sidious che comincia ad avvelenare la mente di Anakin, facendo leva non tanto sulla sete di potere del protagonista, ma sulla sua paura per il destino Padmé.
Ed è anche qui il problema.
La scelta di passare al lato oscuro di Anakin è basata per la maggior parte sul salvare la donna amata, peccato che il loro rapporto sia molto più secondario in questa pellicola e non sia stato costruito così profondamente nei precedenti capitoli.
E così manca un vero coinvolgimento emotivo al riguardo…
Una maggior organicità
Finora mi era sempre mancata una buona gestione dell’elemento più iconico della saga di Star Wars, ovvero i combattimenti con le spade laser: solitamente gli stessi si perdevano all’interno del marasma della battaglia finale.
In questo caso invece sono presenti diversi duelli, ben distribuiti nel complesso della pellicola, con scene dal sapore epico e monumentale – aspetto che non sempre ho percepito nei primi due film.
Ovviamente, l’iconico duello fra Anakin e Obi-Wanè il punto più alto della pellicola.
Uno scontro in cui si percepisce davvero l’epicità e la monumentalità di questo momento storico, con l’avvincente cornice del pianeta lavico, che racconta già da solo la natura di Anakin e del lato oscuro: una potenza attraente, ma incredibilmente pericolosa.
Inoltre, per la prima volta mi è finalmente piaciuto il rapporto fra i due personaggi, che avevo invece trovato eccessivamente velenoso nei precedenti capitoli. Anche qui avrei preferito una migliore costruzione, che portasse davvero ad un doloroso momento di scontro, ma mi posso accontentare…
Trilogia prequel fanservice
Come per i precedenti capitoli, anche La vendetta dei Sith è un film schiavo del fanservice.
In questo caso però mi è sinceramente dispiaciuto vedere diversi momenti e diversi snodi narrativi che mancano di spiegazioni adeguate – o di spiegazioni in generale – lasciando diverse domande senza una risposta chiara.
Fra le tante, perché Padmé sceglie proprio quei nomi per i suoi figli? Qual è il senso dell’armatura di Anakin, così facilmente pronta all’occorrenza nel momento del bisogno?
Questioni di per sé non estremamente rilevanti, ma che sarebbero state ben più interessanti se spiegate adeguatamente…
Dieci anni dopo Episodio I, Anakin è un giovane Padawan pieno di dubbi, e che non riesce a smettere di pensare a Padmé…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Star Wars: L’attacco dei cloni?
Dipende.
Nonostante complessivamente abbia apprezzato un pochino di più questo capitolo rispetto al precedente, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca. In questo film infatti si intraprende definitivamente la via più banale e meno interessante per raccontare un personaggio essenziale come Anakin.
Tuttavia, perlomeno il film dedica uno spazio importante ad Obi-Wan, con una storyline complessivamente interessante – soprattutto nel complesso della loredi Star Wars. Non un elemento che riesce a risollevare il mio entusiasmo, ma sicuramente meglio della noia che mi ha procurato il primo capitolo…
Insomma, se volete affrontare la trilogia prequel fino in fondo, dovete passare anche di qua.
Manca un pezzo?
Cominciando L’attacco dei cloni, ho avuto un senso di vuoto.
Mi è stata sostanzialmente confermata la sensazione che Episodio I sia un prodotto sprecato, almeno per quanto riguarda la caratterizzazione del protagonista – che era l’elemento centrale nella trilogia originale.
Infatti, Anakin ci racconta tutte le sue problematiche e i suoi dilemmi solamente a parole, affrontando anche questioni piuttosto importanti – il sentirsi pronto all’essere un maestro ma non poterlo diventare, il suo sentirsi sottovalutato…
Insomma, l’idea alla base di questo capitolo centrale era di mostrare una maturazione – anche negativa – del personaggio, in particolare attraverso il tentativo di ricongiungimento tanto desiderato con la madre.
Tuttavia, neanche in questo caso a mio parere si è fatto centro: mi viene onestamente da chiedermi cosa servisse questa costruzione estremamente melodrammatica, se non a portare, ancora una volta, alla più banale caratterizzazione del personaggio come spietato e schiavo delle emozioni.
Rimango insomma dell’idea che manchi un pezzo fondamentale, che permettesse di rendere veramente tridimensionale questo importantissimo personaggio, che è stato fondamentalmente rovinato da una scrittura poco indovinata e da una recitazione molto approssimativa.
Tanto più che di fatto Anakin non è altro che un ragazzino, pieno di emozioni e incapace di canalizzarle correttamente. Ormai purtroppo con questo capitolo mi sono arresa all’idea che questa sia la strada scelta, ma non posso che soffrire la mancanza di un approccio ben più profondo e vincente…
Un amore senza basi
Per lo stesso motivo di cui sopra, la storia d’amore è monca.
Era evidente che Lucas avesse bisogno di questa relazione per giustificare quanto successo dopo, ma si è dimenticato di introdurla. Infatti, mi vengono i brividi anche solo a pensare che l’innamoramento sia sbocciato quando Anakin era ancora un bambino…
Ho percepito la volontà di Lucas di togliere questo pensiero dalla mente dello spettatore: all’inizio Padmé vede Anakin ancora come un bambino. Tuttavia, questo elemento si mette facilmente da parte davanti all’evidente insistenza del ragazzo – e nient’altro…
Al contempo, ho trovato del tutto ingiustificata la reazione della ragazza quando il futuro Darth Veder le racconta di aver sterminato un intero villaggio, anche di innocenti, evidente foreshadowingdella sua malvagità.
Un elemento chiarissimo allo spettatore, non pervenuto per Padmé…
Per fortuna c’è Obi-Wan
Ma, nonostante tutto, Episodio II mi è piaciuto più del precedente.
Oltre al fatto che la trama politica sembra molto meno fine a sé stessa e già più interessante, ho trovato anche piuttosto intrigante la storyline di Obi-Wan, con la sua caccia al mistero – e ai cloni – piena di tensione e di colpi di scena.
Forse uno degli elementi più vincenti della trilogia prequel è stato infatti il riuscire ad approfondire questo personaggio – che aveva uno screentimepiuttosto limitato in Una nuova speranza e – finora – un passato assai misterioso.
Al contempo però ho poco apprezzato il continuo e costante contrasto, quasi velenoso, fra Obi-Wan e il suo Padawan: ne comprendo la funzione, ne comprendo i fini, ma mi sembra ancora una volta scegliere la via più facile e banale…
Sempre alla fine…
Come per il precedente, tutta l’azione è concentrata nel finale.
E ancora una volta mi sono trovata davanti ad un lungo ed impegnativo combattimento conclusivo, che ho trovato personalmente sempre troppo dispersivo e troppo lungo, risvegliando il mio interesse effettivamente solo negli ultimi momenti.
In particolare, con lo scontro fra Yoda e Doku.
Uno duello davvero emozionante e pieno di colpi di scena, che riporta al centro della scena uno dei miei personaggi preferiti – Yoda – che purtroppo arriva dopo una sequela combattimenti molto meno soddisfacenti, financo ridicoli pensando al comportamento di Anakin…
Candidature Oscar 2024 per Guardiani della Galassia Vol. 3(2023)
in neretto le vittorie
Migliori effetti speciali
Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 3?
Subito dopo lo Speciale di Natale, i Guardiani si trovano nella loro base, ma improvvisamente una nuova minaccia fa capolino…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 3?
In generale, sì.
Guardiani della Galassia Vol. 3 è un film fatto davvero apposta per i fan – dell’MCU, ma soprattutto del brand. Al punto che, per godere appieno della visione, è quantomai necessario vedere lo Speciale di Natale rilasciato nel 2022: la vicenda prende le mosse proprio da lì.
In generale, è un film che lavora moltissimo sul lato emotivo, con l’evidente intenzione – purtroppo per ovvi motivi – di chiudere dignitosamente tutti i personaggi, rischiando però in molti punti di forzare certe caratterizzazioni…
Ma, se siete fan dei Guardiani, ve ne innamorerete.
Il protagonista assente?
Una particolarità di Guardiani della Galassia Vol. 3 è il cambio di protagonista.
Nonostante infatti si cerchi di dare più o meno spazio a tutti, il centro emotivo non è più Star Lord, ma Rocket e il suo passato. Tuttavia, il personaggio è assente dalla scena per la maggior parte della pellicola, vivendo solamente nei flashback.
Una storia piuttosto dolorosa, che ridimensiona il personaggio e lo porta su binari meno esplorati finora, con un’inedita crudeltà che domina la scena – pur perfettamente nascosta grazie ad una tecnica registica estremamente abile.
Per quanto mi sia profondamente emozionata nel veder raccontare la sua storia – che ha toccato tutti i tasti giusti – d’altra parte un po’ mi è dispiaciuto vedere così poco in scena quel Rocket a cui ero abituata finora, uno dei miei personaggi preferiti dei Guardiani…
Ma ho comunque apprezzato che la missione della pellicola fosse il suo complesso e intricatissimo salvataggio, preferendola ad una narrazione più tipica con il villain di turno da sconfiggere – soprattutto per il collegamento emotivo che è riuscito a creare.
E a questo proposito…
Il villain nelle retrovie
Adam Warlock, interpretato dalla stella nascente Will Poulter, era stato venduto se non come il villain principale, sicuramente come una figura importante nel film.
E invece è tutto il contrario.
Un personaggio che è stato quasi sicuramente riscritto e di gran lunga ridimensionato, diventando una sorta di antagonista di contorno, con una caratterizzazione piuttosto abbozzata ed un arco evolutivo altrettanto debole.
Per quanto non avrei personalmente voluto che fosse più centrale nella scena – anzi, l’avrei direttamente eliminato – mi dispiace per l’attore, per cui questo film doveva essere probabilmente un punto di svolta per la sua carriera…
Ma parlando del vero villain…
Un villain per ogni occasione
Ho decisamente apprezzato l’Alto Evoluzionario.
Come nel precedente capitolo, Gunn ha scelto di scrivere un villain che fosse profondamente legato ad uno dei personaggi. E questo carattere così altalenante, che passa da una finta docilità ad una rabbia distruttiva, unito al suo totale disinteresse per il valore della vita, ai miei occhi l’ha avvicinato ad un altro villain importantissimo dell’MCU.
Thanos.
Anche se ovviamente l’Alto Evoluzionario non ha la medesima profondità ed importanza, presenta la stessa malvagità giustificata del villain della Saga dell’Infinito, in questo caso nel ruolo di un dio generoso quanto vendicativo. E l’ottima performance di Chukwudi Iwuji ha fatto il resto.
I secondari al centro
Dovendo dire addio per sempre ai suoi personaggi, James Gunn ha voluto dare ad ognuno un proprio arco evolutivo ed una conclusione.
L’esempio più evidente è Mantis.
Personaggio introdotto come secondario in Guardiani della Galassia Vol. 2, con un ruolo da protagonista nello speciale, Mantis ha un’evoluzione essenziale quanto brusca: viene emotivamente più approfondita, diventando al contempo anche quasi aggressiva.
Inoltre, si scopre come i suoi poteri possano essere essenziali non solo come supporto emotivo per il gruppo, ma anche all’interno degli stessi combattimenti e delle intrusioni. E da quello ne deriva il suo finale: l’inizio di un viaggio per riscoprire sé stessa.
Drax è un discorso a parte.
Il suo personaggio di per sé non ha un cambiamento significativo, anzi rimane per certi versi troppo uguale a sé stesso. Infatti, la sua comicità è fondamentalmente sempre identica: indubbiamente divertente ma, arrivati al terzo film, non ugualmente brillante come poteva apparire all’inizio…
Ma la parte importante è il suo finale: al pari di Star Lord, anche Drax capisce che è il momento di fermarsi, non essere più Il Distruttore, ma un padre per la nuova famiglia che si è creato. E, anche se è fin troppo didascalica, è comunque una conclusione che mi è parsa coerente e che ho nel complesso apprezzato.
Un protagonista indebolito?
In questo capitolo, Star Lord è un personaggio estremamente legato all’emotività.
Sia per il salvataggio di Rocket – di cui è il principale motore – sia per la relazione con Gamora. Se per certi versi la sua rappresentazione è forse troppo melensa e il suo rapporto con l’ex-compagna troppo insistente, probabilmente non si poteva fare diversamente.
Infatti, Peter aveva mostrato fin da subito un interesse per una ragazza che faticava anche solo ad accettarlo nella sua vita, con un rapporto, soprattutto sulle prime, assai antagonistico – in particolare da parte di Gamora – che si risolveva solo alla fine del secondo capitolo.
Tuttavia, ho personalmente apprezzato la conclusione.
Gunn ha scelto saggiamente di non abbassarsi alle dinamiche più tipiche da commedia romantica, con un ricongiungimento amoroso sul finale, magari costruito in maniera pure poco credibile e interessante.
Si mostra invece come Gamora ritorni ad un’altra famiglia, quella che ha ritrovato in questa realtà, e che non deve per forza di nuovo legarsi né a Quill né ai Guardiani – e trovando come loro una inaspettata nuova forma.
Ci saranno altri film sui guardiani della galassia?
All’indomani dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, la maggior parte degli attori ha chiuso le porte a future partecipazioni alla saga.
Zoe Saldana (Gamora) non ha dimostrato ulteriore interesse per l’MCU – e, essendo legata all’estremamente redditizio brand di Avatar, non ne ha francamente neanche bisogno…
Dave Bautista (Drax) ha scelto una via più drammatica per la sua carriera – recentemente come protagonista di Army of the Dead (2021) e Bussano alla porta (2022). Gli altri due personaggi – Mantis e Nebula – per quanto interessanti, non sono così tanto di richiamo da farli riapparire né in singolo né in gruppo.
Come se non bastasse, Sean Gunn, fratello del regista, non solo interpreta l’ex-ravager Kraglin, ma dà anche le movenze a Rocket – e non è da sottovalutare la sua eventuale, ma quasi scontata, assenza…
Quindi è l’ultimo film sui Guardiani?
Secondo me, per tutti i motivi di cui sopra, sì.
E questo anche perché questo brand è troppo legato alla figura di James Gunn, che nel prossimo futuro avrà decisamente molte e altre gatte da pelare…
Tuttavia, rimane la questione Star Lord – che, a quanto pare, ritornerà. Visto l’andamento di carriera di Chris Pratt, che avuto i suoi momenti più economicamente interessanti solo legandosi a grandi brand, non mi stupisce che abbia stretto un altro accordo con l’MCU.
Ma, per quali prodotti, è ancora un grande mistero…
Dove si colloca Guardiani della Galassia 3?
Come i precedenti capitoli di Guardiani della Galassia, anche il terzo film della saga è totalmente autonomo.
E, nonostante sembri che siano passati solo pochi mesi da Guardiani della Galassia(2014), il film si colloca nel 2024, quindi sia dopo Endgame (2019), sia dopo lo Speciale di Natale.
Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas – denominato retroattivamente Episodio I – è il primo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.
Diversi decenni prima di Una nuova speranza, il Maestro Jedi Qui-Gon Jinn e il suo giovane Padawan, Obi-wan Kenobi, si recano in missione diplomatica con la Federazione. Ma la negoziazione non va come si aspettano…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Star Wars: La minaccia fantasma?
Dipende.
Personalmente La minaccia fantasma è il capitolo che meno apprezzo complessivamente di tutta la saga di Star Wars – secondo forse solo aL’ascesa di Skywalker(2019). E, più in generale, non apprezzo la trilogia prequel per diversi motivi. E non è neanche il capitolo da cui consiglierei di partire ad un neofita.
In realtà, per la visione di Star Wars mi limiterei alla saga originale.
Tuttavia, se volete fare i completisti e avere una visione d’insieme almeno dell’universo cinematografico della galassia lontana lontana, guardatelo – magari potrebbe pure piacervi. Se invece non sapete niente di Star Wars, ho qui una guida pronta per voi.
Un eroe già formato
Nonostante il personaggio di Anakin sia universalmente odiato per la scarsa interpretazione di Hayden Christensen nei successivi capitoli, io vado controcorrente e vi dico che non lo sopporto già da Episodio I.
La bellezza di Luke come protagonista era proprio la sua propensione alla Forza, che però doveva essere modellata per farne un Cavaliere Jedi, così da riuscire anche a sconfiggere i suoi demoni.
Al contrario, Anakin viene raccontato subito come il prescelto e come il classico insopportabile bambino prodigio.
Mi rendo conto della necessità di introdurre il futuro antagonista della saga come dotato di incredibili poteri, raccontandone fin da subito la potenziale pericolosità, così da rendere gli spettatori affezionati quasi complici della disfatta futura.
Tuttavia, avrei preferito che non si scegliesse la strada più semplice.
Infatti, di per sé il giovanissimo Anakin non si dimostra tanto sensibile alla Forza, ma più che altro un prodigio in tutt’altro, cercando di fare una sorta di foreshadowingalle capacità che poi saranno anche proprie del figlio.
E, come se non bastasse, in questo film è quasi un secondario.
La politica al centro
Per tutta la visione della pellicola, ho avuto come la sensazione che non sapessero cosa raccontare.
Infatti, la trama gira principalmente intorno a questa intricata situazione politica, che ho personalmente trovato più noiosa che intrigante. Inoltre, è evidente che la stessa serve ad introdurre il personaggio di Palpatine e la sua ascesa al potere…
…ma anche per questo avrei preferito una gestione diversa.
Tanto più che in questo modo le vicende di Anakin diventano quasi secondarie ed accessorie, puramente introduttive. Fra l’altro inserendo una complessa costruzione narrativa che porta alla sua liberazione da schiavo, che io avrei serenamente evitato.
Ed è ancora più paradossale che la vicenda politica appaia centrale, pur essendo di fatto superflua nel grande schema della trilogia, oltre a proseguire assai lentamente e a mettere in secondo piano anche l’importantissimo personaggio di Obi-Wan.
Era così difficile una più semplice, ma efficace gestione alla Episodio IV?
Dove sono i Jedi?
La così ampia presenza della trama politica è soffocante anche per uno degli elementi più iconici della saga.
I combattimenti con le spade laser.
Se ne vedono infatti non più di due – uno molto veloce all’inizio, poi l’ampia scena dello scontro sul finale. E, se comunque il duello con Darth Maul è piuttosto spettacolare, si trova all’interno di una sequenza di combattimento davvero troppo dispersiva.
In generale, sono rimasta veramente stupita per come, per certi versi, questo film si auto saboti: se insiste – in maniera anche abbastanza patetica – su diversi momenti di puro fanservice, al contempo si dimentica di quello che rendeva questa saga così interessante…
Jar Jar Binks Star Wars
Con questa sezione voglio aprire e chiudere la questione di Jar Jar Binks.
Il suo personaggio è uno degli elementi più odiati della saga prequel – secondo solo alla recitazione di Hayden Christensen. E i motivi sono piuttosto evidenti: è un personaggio che vorrebbe essere buffo, ma che risulta solo insopportabile e fastidioso.
Un chiaro esempio di un tentativo davvero fallimentare di introdurre una spalla comica, che facesse le veci di C-3PO e R2-D2 per la saga originale. Tuttavia, ne risulta un personaggio che non ha un’unghia del fascino dei suddetti…
Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) è il sequel dell’omonimo film che fece la fortuna di James Gunn, confermata proprio da questo capitolo: dopo il licenziamento del regista per dei tweets di cattivo gusto (ma molto datati), cast e pubblico si rivoltarono contro la produzione.
Il resto è storia.
Fra l’altro un sequel che confermò l’andamento positivo del brand, con anche un aumento degli incassi: 863 milioni, contro 200 di budget – il primo ne aveva guadagnati circa un centinaio in meno.
Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 2?
Pochi mesi dopo il primo film, i Guardiani sono impegnati in una missione per i Sovereign, ma non tutto va come si immaginavano…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 2?
In generale, sì.
Assolutamente sì se avete visto ed apprezzato il primo capitolo: vedendoli per la prima volta a così poca distanza, mi sono resa conto della superiorità di Guardiani della Galassia Vol. 2 rispetto alla pellicola del 2014, indice forse anche di una maggiore maturazione e libertà del regista a seguito del successo ottenuto.
Nonostante non manchi di qualche elemento anche di forte debolezza, riesce a migliorarsi sotto molti aspetti, anzitutto per l’antagonista e per la struttura narrativa, che evade la gestione più classica di questo tipo di prodotti, come era stato invece per il precedente.
Un nuovo obbiettivo
Nel precedente film l’obbiettivo finale della pellicola era costituire il gruppo, in questo caso Gunn si è trovato davanti all’ostacolo di dover gestire un gruppo piuttosto folto di personaggi – vista anche l’introduzione di Mantis e la maggior importanza di Yondu.
E ha sperimentato una gestione dei personaggi che sarà poi la stessa di Infinity War (2018): dividerli in piccole storyline autoconclusive, per poi farli rincontrare nel finale.
L’arco narrativo più azzeccato è ovviamente quella di Yondu e Rocket, utile ad entrambi per un’interessante riflessione e conseguente maturazione: come Rocket si rende conto della sua irriverenza e incapacità di fare gruppo, Yondu sceglie di abbandonare la sua corazza burbera per rinsaldare il rapporto con Peter.
Ma qui nasce il primo problema…
Come si cambia…in fretta
A conti fatti, l’arco narrativo di Rocket e Yondu è quello meglio costruito, mentre gli altri appaiono complessivamente molto più difettosi.
Escludendo la coppia Drax e Mantis, che rappresenta semplicemente un simpatico siparietto comico, l’arco narrativo che mi ha meno convinto è quello di Peter e suo padre.
Per quanto il film si impegni moltissimo nel raccontare la diffidenza di Star Lord nei confronti di Ego, concede molto meno minutaggio al racconto dell’assuefazione di Peter verso il ritrovato genitore.
Infatti, nonostante Ego riesca a convincere sottilmente il figlio della sua visione, al contempo lo stesso si rivolta fin troppo facilmente e nettamente contro di lui, anche se il trigger è molto potente – il trauma della morte della madre – e rivela immediatamente la vera natura dell’antagonista.
Altro discorso per Nebula e Gamora.
Il loro rapporto è in realtà una costante anche nei successivi film degli Avengers, ed era già stato introdotto nello scorso capitolo. Tuttavia, il loro parziale rappacificamento mi è parso un po’ troppo veloce, e avrebbe secondo me avuto bisogno di un maggiore screentime.
Tuttavia, mi sono anche in parte ricreduta quando l’argomento viene nuovamente affrontato sul finale, con almeno un parziale ed effettivo confronto fra le due, che verrà poi meglio raccontato nei film successivi, collocato proprio nel momento di riflessione generale di tutti i personaggi.
Lo stesso problema?
Uno dei principali problemi di Guardiani della Galassia era proprio la scelta dell’antagonista.
Nel sequel Gunn compie un parziale passo avanti.
E dico parziale in quanto, anche se indubbiamente il personaggio di Ego è ben gestito, raccontando abbastanza approfonditamente la sua psicologia e le sue motivazioni, sostanzialmente le stesse si riassumono – ancora una volta – nel desiderio di conquistare il mondo.
Anche peggio se parliamo dei Sovereign, l’elemento più debole, soprattutto esteticamente, dell’intera pellicola: personaggi veramente anonimi, che potevano essere sostituiti od eliminati dalla pellicola con poche righe di sceneggiatura.
Infatti, la loro vera utilità è introdurre il villain del terzo capitolo, Adam Warlock.
La morte di Yondu è probabilmente una delle più dolorose dell’intero MCU.
Ma era di fatto inevitabile.
È evidente che in questo capitolo Gunn volesse approfondire Yondu: nonostante sia un personaggio davvero accattivante e intrigante, aveva avuto fin troppo poco spazio nel primo capitolo.
E il suo approfondimento è anche finalizzato a farci comprendere meglio il significato della sua morte, essenziale per il personaggio di Quill: il protagonista dice definitivamente addio la figura paterna e scende a patti con un trauma che l’aveva accompagnato per tutta la vita, anche se nella maniera più tragica…
Dove si colloca Guardiani della Galassia 2?
Come il primo capitolo, Guardiani della Galassia Vol. 2 è un film altrettanto autonomo, tanto da essere ambientato appena un paio di mesi dopo la pellicola del 2014.
Non a caso le diverse post-credit – ben cinque! – non si collegano in alcun modo agli altri film dell’MCU, ma servono ad approfondire alcuni aspetti della pellicola stessa, ad inserire alcune gag per smorzare la tragicità del finale, nonché ad introdurre il villain del terzo capitolo.
La pellicola è fra i primi tre film dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.
Guardiani della galassia (2014) è il primo capitolo della trilogia omonima diretta da James Gunn – quando era ancora un regista di nicchia – nonché il film di introduzione di questo gruppo di personaggi.
Un prodotto che ottenne, a sorpresa viste le premesse, un buon successo – e non solo commerciale: con un budget di circa 232 milioni, ne incassò 733.
Di cosa parla Guardiani della Galassia?
Peter Quill, aka Star Lord, è un criminale spaziale che cerca di mettere le mani sul preziosissimo Orb, senza però saperne il vero valore…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Guardiani della Galassia?
In generale, sì.
Soprattutto se non siete particolarmente appassionati di cinecomic e siete dei casual watcherdell’MCU: a differenza di altre pellicole della Marvel, Guardiani della Galassia è un film così tanto a sé stante che non ci sono neanche delle post-creditche lo collegano agli altri prodotti del franchise.
Infatti, più che un film di supereroi, è un’avventura fantascientifica caratterizzata da una comicità anche piuttosto piacevole rispetto ad altri prodottiMCU, ma che pecca nei soliti problemi di questi film: struttura narrativa ripetitiva e villain insipido.
Tuttavia, come prodotto di intrattenimento, ve lo consiglio molto.
Creare un gruppo
Una delle sfide più ardue era il saper creare un gruppo che fosse effettivamente unito e credibile.
Per quanto ci sia qualche debolezza narrativa – anche piuttosto prevedibile – il film riesce complessivamente bene in questo senso, utilizzando due elementi particolarmente vincenti: costruzione di un solido background ed assegnazione di un obiettivo personale ad ogni componente del gruppo.
Il primo elemento sembra molto scontato, ma non lo è per niente: basta pensare a prodotti con finalità analoghe come Suicide squad (2016), quasi comico da questo punto di vista, che allestisce una squadra di personaggi bidimensionali e che non hanno alcun motivo per fare gruppo.
Al contrario, anche e soprattutto attraverso i dialoghi, Guardiani della Galassia riesce a rendere tutti i personaggi abbastanza tridimensionali e a fornire ad ognuno di loro un proprio personale e credibile motivo di fare gruppo con gli altri protagonisti.
Come elemento bonus ai fini della credibilità, i conflitti fra i personaggi non vengono risolti fino in fondo, anzi si ritrovano anche nei film successivi.
Ed è piuttosto indicativo in questo senso che il rapporto fra Gamora e Star Lord non venga concluso alla fine di questo capitolo – e neanche propriamente nel successivo, in realtà.
Tuttavia, qui sorgono i primi problemi.
Tornare all’essenziale
Per i primi due atti del film la narrazione scorre in maniera piuttosto credibile ed interessante, e anche abbastanza anomala per un prodotto di questo tipo, non venendo mai meno all’identità dei personaggi stessi.
Poi, col terzo atto, questo elemento si indebolisce.
Il primo scontro con l’antagonista porta, come sempre, alla sconfitta degli eroi, che devono mettere da parte i propri principi per salvare il mondo, quindi seguendo binari più sicuri e consolidati del genere di riferimento.
Tuttavia, come scelta stona un poco con l’identità dei protagonisti stessi.
Ma non manca comunque una costruzione abbastanza piacevole e una conclusione non del tutto scontata, che apre anche le porte anche al sequel in maniera piuttosto coerente – indice di una progettualità presente fin da questo primo capitolo.
Il solito problema
Un altro problema evidente della pellicola – e in realtà della maggior parte dei prodotti MCU – è la bidimensionalità dell’antagonista, Ronan l’Accusatore. E non è di sicuro un caso che lo stesso sia legato proprio allo snodo narrativo meno efficace della pellicola, di cui sopra.
E personalmente un po’ mi dispiace: si vede che Gunn ha comunque cercato di costruire un minimo di trama politica per contestualizzare il villain, così da non renderlo semplicemente un nemico spinto dal desiderio di conquistare il mondo.
Tuttavia, è una strategia che purtroppo non funziona fino in fondo.
E mi dispiace anche per Lee Pace, attore che io ho sempre apprezzato, sia come l’elfo altezzoso in La desolazione di Smaug(2013), sia in quel ruolo veramente indovinato per le sue capacità di Fratello Giorno nella serie tv Fondazione(2021- …).
E questo è anche il motivo per cui Guardiani della Galassia è il mio secondo film MCU preferito, dopo a SpidermanHomecoming…
Gamora Guardiani della Galassia
Il personaggio di Gamora purtroppo fu un personaggio scritto nel periodo peggiore dell’MCU per i personaggi femminili, che dovevano essere o delle insopportabili Mary Sue, possibilmente anche acide, oppure ipersessualizzate come Black Widow in Iron Man 2 (2010).
Tuttavia, bisogna ammettere che quantomeno in questo caso entrambi i personaggi femminili sono ottimamente contestualizzati nella storia e nella loro caratterizzazione – qui e anche – e soprattutto – nei successivi prodotti.
Dove si colloca Guardiani della Galassia?
Come detto, Guardiani della Galassia è un film molto autonomo, ma dovrebbe indicativamente collocarsi nel 2014 durante Captain America – Civil War (2016) – e così anche il sequel.
Nausicaä della Valle del vento (1984) è il primo film in cui Miyazaki è sia regista che sceneggiatore, possiamo dire la sua prima avventura in autonomia, dopo essersi già affacciato al cinema con Lupin III – Il castello di Cagliostro (1979).
A fronte di un budget davvero ridotto – appena 180 di yen, circa 750 mila dollari – incassò 8 milioni in tutto il mondo (o almeno nei paesi in cui uscì). Arrivò nei cinema italiani solamente nel 2015.
Di cosa parla Nausicaä della Valle del vento?
Circa mille anni dopo una terribile guerra termonucleare che ha distrutto gran parte della Terra, il mondo è diviso in due grandi imperi e frammentato in piccole comunità autonome. Ma c’è chi ancora vuole riportare l’Umanità al suo splendore…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Nausicaä della Valle del vento?
Assolutamente sì.
Soprattutto se siete appassionati di Miyazaki, non potete assolutamente perdervi questo titolo – e lo dico io che non l’ho visto se non prima di questa recensione. Un’opera prima che però racchiude già molti temi cari al regista, che si ritroveranno anche e soprattutto in La principessa Mononoke(1997).
La tecnica artistica, nonostante sia più semplice e meno dettagliata rispetto alla sua produzione successiva, riesce comunque a raccontare mondi sorprendenti, personaggi peculiari e atmosfere fascinose. Al contempo la storia è intrigante, avvincente, e racchiude un’importante riflessione che ha davvero anticipato i tempi…
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Nausicaä della Valle del vento il pericolo è medio.
Essendo uscito nel 2015 in Italia, al tempo Cannarsi aveva già acquisito uno status piuttosto importante. Tuttavia, non era ancora all’apice della sua follia: i dialoghi appaiono abbastanza artificiosi, ma non ad un livello tale da compromettere complessivamente la godibilità del film.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
La prima protagonista
Una peculiarità di Miyazaki è di scegliere come protagoniste, nella maggior parte delle sue opere, personaggi femminili con capacità fuori dal comune.
In questo caso il potere di Nausicaä poteva prendere delle strade molto semplici e ridondanti, trasformandola nella più classica delle Mary Sue. Ma non è nello stile del regista: al contrario le abilità della protagonista sono strettamente connesse con la tematica centrale della pellicola stessa.
Infatti Nausicaä è l’unica capace di riconnettersi con quella natura, che invece l’umanità considera solamente ostile e distruttiva, combattendo la violenza solamente con la violenza. E lo si vede fin da subito, quando riesce a placare sia l’Ohm sia il cucciolo che Yupa gli porta.
E la sua connessione è fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità stessa.
La potenza della natura
Come spiega la saggia anziana della Valle del Vento, ogni volta che si è cercato di distruggere il Mar Marcio, gli Ohm si sono diretti in massa verso i centri abitati, distruggendo a loro volta tutto quello che incontravano.
Agli occhi degli umani colonizzatori, quindi il Mar Marcio e i suoi abitanti sono il nemico da sconfiggere per riportare l’umanità alla gloria. Ma neanche il popolo della Valle del vento è privo di colpe: molto ingenuamente, continua a distruggere le spore che starebbero avvelenando le coltivazioni.
Ma Nausicaä capisce che la realtà è ben diversa.
Dopo la terrificante distruzione operata dall’uomo, la Terra, e quindi la Natura, sta solo cercando di depurarsi dall’avvelenamento e dall’inquinamento che gli è stato rovesciato addosso, e quindi, più in generale, sta tentando di purificarsi dalla presenza umana e dei suoi danni.
E allora l’unico modo per l’umanità di continuare a vivere sulla Terra è di imparare rispettarla, ma per davvero: vivere in armonia con l’ambiente, e lasciare che sia lo stesso a curarsi dei danni che gli sono stati inflitti.
E il Mar Marcio che depura la terra non è tanto diverso dalle nostre foreste che depurano l’aria che respiriamo…
Atmosfere magiche
Già in questa prima pellicola Miyazaki riesce a rappresentare un mondo davvero splendido.
La peculiarità di questo maestro dell’animazione è proprio il far immergere i personaggi in ambienti fascinosi e pieni zeppi di particolari, curati alla stregua di un’opera d’arte – tratto che avrà il suo picco con Il castello errante di Howl(2004).
In Nausicaä della Valle del vento si vede già in nuce questa tendenza: paesaggi e ambienti più semplici e ordinari si alternano ad ambientazioni davvero suggestive, in particolare nel caso del Mar Marcio, un luogo magico e pieno di sorprese.
Fra l’altro lo stesso mi ha ricordato le meravigliose ambientazioni del videogioco Hollow Knight (2017):
Un eccessivo didascalismo
L’unico elemento che non mi ha entusiasmato della pellicola è il didascalismo delle primissime scene.
Dovendo sottostare alla necessità di raccontare alcuni elementi della trama fin dall’inizio, Miyazaki si è andato ad incastrare in diversi momenti in cui la protagonista dice a voce alta delle cose che probabilmente erano solo nei suoi pensieri.
E se la pesantezza e la poca naturalezza di queste scene si sente abbastanza nella versione originale, in realtà il vero dramma è il doppiaggiodi Cannarsi, che riesce come sempre a portare all’ennesima potenza ogni elemento anche solo potenzialmente negativo…
La forma dell’acqua (2017) di Guillermo del Toro è il film che rilanciò il regista presso il grande pubblico, dopo che era già profondamente apprezzato per prodotti come Il labirinto del fauno (2006).
Anche per questo, incassò piuttosto bene, a fronte di un budget piuttosto contenuto: 195 milioni di dollari in tutto il mondo per un costo di produzione di 19 milioni.
Di cosa parla La forma dell’acqua?
Baltimora, 1962, piena Guerra fredda. Elisa è una giovane donna delle pulizie, muta, che lavora in una base di ricerca scientifica. Proprio lì avverrà un incontro molto particolare…
Vale la pena di vedere La forma dell’acqua?
Assolutamente sì.
La forma dell’acqua è un film particolarissimo, che riesce a raccontarti una favola con toni molto adulti e maturi, immersa in atmosfere incredibilmente fascinose e suggestive.
Del Toro ancora una volta dimostrò di essere capace di portare in scena storie interessanti in ambienti magici dai toni profondamente gotici e costruiti alla perfezione.
Insomma, da recuperare assolutamente.
La nuova principessa
La forma dell’acqua è impostata secondo i canoni della favola, con una grande differenza: la protagonista.
Del Toro infatti ha messo in scena un personaggio femminile del tutto atipico. Elisa è un personaggio che avrebbe tutte le carte in regola per essere un simpatico secondario: disabile e non corrispondente ai più classici canoni di bellezza.
E invece Elisa è una protagonista determinata e coraggiosa, che non ha paura di mettersi in prima linea per difendere quello che considera giusto. E, sopratutto, è una donna con un desiderio sessualeforte ed esplicito.
La componente sessuale
Quando andai a vedere il film non mi aspettavo per nulla che avrebbe toccato certi tasti – e infatti sulle prime rimasi leggermente contraddetta.
Ad una seconda visione, mi sono resa conto di quanto Del Toro sia stato capace di mettere in scena una donna realistica, che non cerca solamente una storia romantica, ma che vuole anche – e sopratutto – una relazione sessuale.
E, in più, è lei stessa che cerca questo contatto sessuale, mostrandosi nuda in più occasioni senza alcuna vergogna. E, sopratutto, mostrando un corpo femminile vero, né iper sessualizzato né castrato come spesso accade.
Il nostro cinema avrebbe bisogno di più protagoniste di questo tipo…
La costruzione del contesto
Molto spesso quando si raccontano contesti sociali molto lontani da noi, dove l’emarginazione di molte minoranze sociali era all’ordine del giorno, è facile inciampare in un taglio narrativo pietistico e forzato.
E invece Del Toro è riuscito a mantenere una rara eleganza anche su questo aspetto.
I personaggi positivi della narrazione sono tutti degli emarginati: una persona disabile, una donna nera, un uomo omosessuale, un mostro. E come tali vengono trattati. E questo contesto è ben raccontato da pochi momenti ben posizionati e piuttosto credibili.
Fra tutti, quando Strickland dice che Dio ha l’aspetto dell’uomo, ma poi specifica più probabilmente un uomo bianco – a sottolineare la superiorità della razza bianca. Così anche lo scambio infelice fra Giles e il ragazzo della tavola calda: il giovane non solo lo rifiuta con disprezzo, ma scaccia anche in malo modo una coppia di neri.
Come è stato fatto il mostro in La forma dell’acqua
Uno degli elementi di fascino de La forma dell’acqua – e del cinema di Del Toro in generale – è la sua capacità di creare degli effetti speciali incredibili utilizzando metodi più materiali e poca CGI.
Infatti la creatura della storia non è un attore coperto da un green screen e poi rielaborato in post produzione, ma l’incredibile Doug Jones, attore feticcio del regista che già aveva lavorato con lui ne Il labirinto del fauno nei panni del Fauno e dell’Uomo pallido.
E quello che si vede in scena è stato pochissimo rifinito in seguito, ma è lo stesso attore coperto dal trucco e dal costume:
La forma dell’acqua meritava di vincere l’Oscar?
Gli Oscar 2018 io personalmente me li ricordo soprattutto per la vittoria di Del Toro.
La bellissima reazione del regista una volta ricevuto l’Oscar mi fece definitivamente innamorare di questo autore:
Contro La forma dell’acqua c’erano tanti e diversi concorrenti di valore: fra gli altriTre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) e Il filo nascosto (2017), ma alla fine il film del regista messicano ebbe la meglio, con ben tredici nomination e quattro vittorie – il più grande vincitore della serata.
Ma meritava di vincere?
La mia opinione su questa pellicola è molto positiva e quindi per me la vittoria è meritatissima. Tuttavia, fra tutti i concorrenti, forse io avrei preferito Tre Manifesti, uno dei miei film preferiti.
Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.
Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante:Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.
E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.
Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.
Perché Watchmen è un’opera fondamentale
Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.
I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.
Una paura vera, reale.
Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroinella società statunitense.
Insomma, prodotti come The Boyse Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.
Il resto, lo lascio alla vostra lettura.
Watchmen di Snyder
Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.
Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:
L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.
Iniziare col botto
Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.
È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.
Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.
Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.
Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…
Un casting bello a metà
Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.
Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.
Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.
A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.
Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.
Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.
Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.
E si collega anche il primo grande problema della pellicola.
Attualizzare i costumi?
Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.
Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.
E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.
Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.
L’eccesso
Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).
Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.
In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.
E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.
Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.
Il finale (e oltre)
Il finale mi ha non poco innervosito.
Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.
La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.
Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.
Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.
Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.
La miniserie Watchmen
Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.
E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.
Is this a requel?
Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.
Come Scream 5(2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.
E per me è un ottimo requel.
Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.
Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.
Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.
Il Dr. Manhattan.
Un dio in pigiama
Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.
Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.
E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.
Il problema è il resto del tempo.
Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.
Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.
Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.
Un mistero stratificato
Watchmen è una serie che vive di tensioni.
Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.
Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.
Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.
A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione dinon fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.
Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.
L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.
E privandolo della sua fantastica unicità.
La ridicolizzazione dei villain
Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.
Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.
E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.
Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.
E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.
E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.
Come è giusto che sia.
Costumi terreni
Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.
In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.
Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôlecredibile.
Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.
E già solo il costume è un discorso a parte.
Una rete di riferimenti
La serie è piena di riferimenti al fumetto.
Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…
Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.
Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.
La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.
In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.
Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.
Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.
E spiegare soprattutto il perché.
Serie tv Watchmen
Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.
Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.
Anzi, li si stravolge.
Ma partiamo dai pro.
La sequenza iniziale
La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.
Il razzismo.
Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.
Quindi la serie punta su temi molto attuali.
Seventh Kavalry
Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.
E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…
In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.
Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.
I poliziotti come vigilanti
Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.
Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.
Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.
La scrittura della serie
La scrittura della serie è molto buona.
Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.
Ma non basta.
Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.
Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.
Passiamo quindi ai contro.
L’incoerenza di Laurie
Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.
Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.
Ma non è neanche quello il problema peggiore.
La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.
Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?
Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.
Questo non è Manhattan
La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.
Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.
Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.
Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.
Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.
Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.
Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.
Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.
Dr. Manahttan Watchmen serie
Questo non è il Dr. Manhattan.
Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.
E, soprattutto, non brilla.
Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.
La distruzione di Adrian
Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.
Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.
Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.
Adrian Veidt Watchmen
In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.
E ancora peggio il finale.
Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.
Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.