Categorie
Avventura David Cronenberg Drammatico Fantascienza Film Noir Spy story Surreale

Il pasto nudo – Oltre al sogno

Il pasto nudo (1991) è uno dei film di Cronenberg più complesso e particolare, dove in parte si allontana dalla sua estetica più tipica, riuscendo al contempo ad inserire i suoi elementi iconici.

Una pellicola tratta dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, ispirato anche alle circostanze della stesura dell’opera stessa. Una pellicola molto complessa, con al centro uno dei temi cari a Cronenberg, ovvero il controllo mentale, già raccontato in Videodrome (1986).

Questo film fu un altro flop terrificante: davanti ad un budget di 17 milioni, ne incassò appena 2,6 in tutto il mondo.

Ma in questo caso basta veramente vedere il film per capire perché.

Di cosa parla Il pasto nudo?

Bill è un disinfestatore, che rimane progressivamente sempre più intossicato dal suo stesso veleno. Comincia così un viaggio fra il sogno e l’orrore, coinvolto in un intrigo spionistico internazionale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Il pasto nudo?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Dipende.

Vale indubbiamente la pena di guardarlo, ma non è detto che vi piaccia: dovete avere già di vostro la volontà di lasciarvi rapire da un contesto del tutto surreale e volutamente enigmatico, dove solo ogni tanto troverete degli sprazzi di realtà…

Preparatevi insomma ad una pellicola davvero complessa, che, come esperienza, potrei paragonare a The Lighthouse (2021).

Tuttavia, un trigger alert è dovuto: è un film legato molto agli insetti, di cui la maggior parte sono evidentemente finti. Tuttavia, ci sono un paio di scene in cui ci sono veri o sembrano tali. In generale, non è mai un bello spettacolo se siete sensibili sull’argomento…

Vi ho avvertiti.

Il contrasto della messinscena

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Il taglio registico è del tutto particolare, in primo luogo per Cronenberg, che però ha sapientemente deciso di utilizzare in scena un’estetica tipica del periodo in cui è ambientata la pellicola.

Fra l’altro calcando la mano sui colori pastello e il jazz leggero di sottofondo, rendendola una pellicola dal sapore hitchcockiano, solo più ammorbidito e surreale.

Ed è un contrasto devastante sia con quello che succede in scena, sia nelle esplosioni proprie di Cronenberg, in particolare nella sequenza agghiacciante in cui Clark Nova sbrana ferocemente la macchina da scrivere nemica.

Un taglio estetico che è riuscito paradossalmente a rendermi ancora più inquieta.

Dov’è la realtà?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Sarebbe molto semplicistico dire che il protagonista sia semplicemente preda del delirio indotto dalla droga e dal veleno, anche se questa interpretazione sarebbe suggerita dai momenti in cui sembra squarciare il velo del sogno e piombare nella realtà.

In particolare, quando la macchina da scrivere è una effettiva macchina da scrivere e quando gli amici del protagonista lo vengono a trovare e vedono che quella che tiene nel sacco non è una macchina da scrivere, ma un sacco di droghe.

Tuttavia è tanto più meraviglioso, per immergersi davvero nella pellicola, non tentare di andare a spiegare realisticamente tutti gli elementi del film, finendo per uscirne pazzi – peggio dei protagonisti. Insomma, in qualche modo questo delirio della droga ha portato Bill a vedere quello che è veramente il mondo che lo circonda.

Costruzioni perfette

In questa pellicola non vi è un uso massiccio degli effetti visivi, ma, quando questo accade, sono costruzioni drammaticamente perfette. La macchina da scrivere nella sua forma insettoide è perfettamente integrata nella scena e sembra vera, tanto più quando cade a pezzi. Altrettanto indovinato sono l’enorme insetto e l’alieno con cui Bill dialoga, anche nella sua forma di macchina da scrivere.

Un’estetica molto tipica della fantascienza Anni Settanta-Ottanta, in particolare Star Wars, ma molto meno pupazzoso.

Mentre ancora una volta trovo che anche questo film, come per Videodrome, sia difettoso per gli effetti speciali umani.

Personalmente ho trovato così poco credibile e posticcio Yves Cloquet nella forma insettoide che possiede Kiki, che la scena non mi ha trasmesso per nulla l’effetto orrorifico e di sorpresa che avrebbe dovuto provocarmi.

Cosa succede nel finale?

Il finale è ovviamente aperto alle interpretazioni, ma la mia preferita è quella secondo la quale Bill è totalmente caduto nella sua allucinazione, ma nella stessa rivive la morte della moglie. E alla fine piange perché si rende conto di quello che è effettivamente successo e della pazzia in cui è caduto.

Un momento di drammatica consapevolezza.

La vera storia di Il pasto nudo

La storia è quanto più vicina alla vera vita di William Burroughs, l’autore di Il pasto nudo, di quanto si possa pensare.

Infatti William Burroughs uccise davvero accidentalmente la moglie con lo stesso metodo, era un disinfestatore e davvero cadde nel circolo della droga, che lo portò a scrivere la sua opera, vivendo per un periodo a Tangeri, in Marocco, la cosiddetta International zone.

E la storia venne scritta dall’autore che neanche si rendeva conto di star scrivendo, vivendo per un certo periodo proprio in una sorta di città come quella del film, abitata da mostri e creature.

Categorie
2022 Avventura Azione Comico Commedia Dramma familiare Fantascienza Fantasy Film Oscar 2023

Everything everywhere all at once – Forse troppo

Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche è un film totalmente surreale, che riesce ad unire il genere fantascientifico e fantastico con il dramma familiare.

Un prodotto tanto creativo e profondo tanto, per certi versi, difettoso.

Il film è stato un successo di pubblico incredibile, sopratutto al botteghino statunitense: a fronte comunque di un budget non irrisorio di 25 milioni di dollari, è arrivato ad incassare ben 140 milioni in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Everything everywhere all at once (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh
Miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan
Migliore attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis

Migliore attrice non protagonista a Stephanie Hsu
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore colonna sonora
Miglior canzone originale

Di cosa parla Everything everywhere all at once?

Evelyn è una donna immigrata che si spacca la schiena dietro alla gestione della sua lavanderia a gettoni e della sua complicata famiglia. Un giorno viene improvvisamente contattata da un uomo che dice di venire da un altro universo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Everything everywhere all at once?

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Dipende.

Everything everywhere all at once è uno di quei classici film che spaccano il pubblico: è in effetti un prodotto particolarissimo, neanche facilissimo da seguire, ma che, se siete ben disposti, vi entrerà nel cuore.

Insomma, se state cercando un film che è un’esplosione di creatività e di pura estetica, che cerca di trasmettere dei profondi messaggi sulla vita e sulla famiglia, riuscendo anche ad essere discretamente divertente, potrebbe fare per voi.

Se invece non siete propensi ad accettare un film che dà più valore al messaggio e all’estetica che alla trama di per sé, potreste genuinamente odiarlo.

Essere disastrosamente creativi…

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

La creatività e l’estetica di questo film è non solo ammirabile, ma davvero sensazionale.

Sopratutto con i diversi costumi e aspetti di Joy, riesce a sperimentare e a portare in scena veramente di tutto, con una varietà e una cura del suo personaggio che mi ha fatto veramente impazzire.

Al contempo, anche se le idee raccontate magari non sono il massimo dell’originalità, ma anzi pescano a piene mani da cult come Matrix, i registi riescono comunque a sbizzarrirsi parecchio.

Sopratutto particolarmente divertenti sono i trampolini, anche se ammetto che ho riso meno dei miei compagni in sala (e forse anche di voi), per certe battute.

Insomma, per me l’umorismo è vincente fintanto che non scade nello slapstick.

…ma dimenticarsi del resto

Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Per quanto un film possa essere incredibilmente creativo e artistico, non può dimenticarsi di avere una struttura narrativa, a meno che non voglia lanciare una corrente cinematografica che si ribella alle strutture narrative stesse (e non credo sia questo il caso).

Penso sia più probabile che questa coppia di fantasiosi ma anche talentuosi registi si sia trovata con un’ottima idea fra le mani, ma non sono stati in grado di esplicarla efficacemente in una struttura narrativa.

Infatti sembra che la trama parta in un certo senso immediatamente, senza neanche una introduzione effettiva che porti ad un secondo atto, che si espanda disordinatamente fino ad un finale che è pure efficace, ma che non arriva in maniera organica.

Non del tutto da buttare, ma un pochino più di ordine e di idee chiare avrebbe indubbiamente giovato al film.

La spirale dell’autodistruzione

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Uno dei punti fondamentali del film è il racconto di questo senso di fallimento e del volersi del tutto annullare.

Volendo andare a leggere più drammaticamente il black bagel, è possibile che si volesse raccontare in maniera anche un po’ più scanzonata la depressione e probabilmente anche il suicidio.

Joy sembra infatti volersi lasciare totalmente travolgere da questo senso di inadeguatezza e di fallimento.

È invece la madre, Evelyn, che accetta infine il suo fallimento, di essere la sua versione peggiore possibile, ma comunque di riuscire ad apprezzare la bellezza di quel poco che ha e di tutto il valore che può avere anche solo stare con suo marito, cosa che in altri universi di successo non ha.

Un finale quasi da commedia, ma ben contestualizzato e che ti scalda il cuore.

Contro il sogno americano

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Due elementi mi hanno particolarmente colpito della pellicola: la scelta della protagonista e il racconto del sogno americano.

Anzitutto, particolarmente raro vedere come protagonista di un film con elementi anche action una donna di mezza età, con anche la sua controparte di Deirdre, interpretata da un’esplosiva Jamie Lee Curtis.

Altrettanto dissacrante il fatto che la realizzazione personale della protagonista, almeno in potenza, non avvenga negli Stati Uniti, la terra promessa, ma in patria. Anzi, la scelta di immigrare negli Stati Uniti è quello che l’avrebbe portata più alla povertà e alla poca realizzazione.

Una certa novità in un panorama recente che racconta di come gli immigrati negli Stati Uniti che hanno solo da guadagnare nella nuova situazione: basta guardare Shang-chi e la leggenda dei dieci anelli (2021) e Red (2022) per capire la tendenza.

Categorie
Avventura David Cronenberg Fantascienza Film Futuristico Horror Recult Satira Sociale Thriller

Videodrome – Un sogno complottista

Videodrome (1983) è un film di David Cronenberg, fra i più famosi della sua produzione. A soli due anni dal precedente Scanners (1981), il regista portava in scena un altro film destinato a diventare un piccolo cult di genere, per il suo incontro vincente fra lo sci-fi e il body-horror.

Una produzione con un budget sempre risicatissimo (intorno ai 5 milioni), che però, a differenza del precedente, fu un pesante flop commerciale: appena 2,4 milioni di dollari d’incasso.

E i motivi non sono difficili da capire.

Di cosa parla Videodrome?

Max è a capo di Channel 83, un canale di porno e soft-porn. La sua vita sembra procedere normalmente, andando alla ricerca di programmi ancora più spinti da proporre, fra cui il misterioso Videodrome…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Videodrome?

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

È un film che indubbiamente non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, soprattutto se siete interessati alla cinematografia di Cronenberg.

Tuttavia, aspettatevi di trovarvi davanti ad un prodotto con un intreccio e dei significati ben più complessi di Scanners e molto meno immediatamente comprensibile, con tante scene enigmatiche e dal sapore surreale.

È giusto segnalare che all’interno della pellicola le scene più disturbarti non sono tanto quelle di sesso, ma quelle di tortura. Niente di troppo esplicito, ma comunque neanche digeribile da tutti.

Ma voi provateci.

E se avete dubbi sul finale, potete sempre tornare qui.

Perché Videodrome è stato un flop?

All’interno di una produzione di Cronenberg ancora con budget molto ridotti, è davvero curioso che questo film ebbe un riscontro così scarso, tanto da portarlo ad un flop.

Tuttavia, una volta visto il film, non è neanche tanto strano.

Oltre alle scene di violenza non facilmente digeribili, ci sono molte sequenze di body horror non poco disturbanti, e che sembrano tutto tranne che finte. E, come se tutto questo non bastasse, il finale è incredibilmente enigmatico.

Il tutto da un autore già conosciuto per far dei film molto sui generis, e quindi non per tutti i palati.

E, per questo, il passaparola negativo potrebbe davvero averlo affossato.

Il potere del trucco prostetico

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

Il livello degli effetti speciali di questa pellicola, che, ricordiamo è stata prodotta con pochissimo, è devastante: in tutte le scene in cui sono utilizzati, soprattutto in quelli più surreali, non ho mai avuto un momento in cui non credevo a quello che vedevo in scena.

Sembra tutto così realistico e credibile, anche in scelte più impegnative come quelle in cui Max si apre il petto e diverse volte viene penetrato, da mani e da videocassette, momenti in cui ho sentito veramente tutto il dolore del personaggio.

Per non parlare degli effetti della mano-pistola.

Tuttavia, proprio riguardo a questo, l’unico momento in cui ho fatto fatica a sospendere l’incredulità è stato quando gli si forma effettivamente la mano-pistola, dove si vede abbastanza chiaramente che (come è ovvio) non è la sua vera mano e che poi nella scena successiva, è effettivamente la mano vera:

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano che si trasforma

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano trasformata

Un ottimo protagonista

Come ero rimasta perplessa dalla recitazione e in generale dal personaggio protagonista di Scanners, sono rimasta invece piacevolmente sorpresa da James Woods in questa pellicola.

Questo attore, oltre ad avere la faccia proprio da uomo comune assolutamente credibile, riesce a reggere perfettamente la scena in tutti i momenti diversi che deve affrontare il suo personaggio, con un’ottima capacità espressiva che mi ha davvero conquistato.

Cosa succede nel finale di Videodrome?

Il finale di Videodrome è assolutamente aperto alle interpretazioni.

Quella che preferisco è pensare che Nicki in realtà non sia mai esistita, ma sia sempre stata un’allucinazione di Max (almeno per la loro relazione), che racconta il suo lato più estremo, che il protagonista cerca di sfuggire.

Alla fine, Nicki diventa nient’altro che una sorta di sua voce della coscienza: Max si trova senza poter più fare niente, ricercato per omicidi che compiuto per ordine di altri. Quindi vuole definitivamente liberarsi della vecchia carne ed entrare in questo immaginario (?) televisivo che rappresenta la sua più estrema fantasia sessuale.

E lo confermerebbe il primo epilogo, poi tolto dalla versione finale, dove Max e Nicki si trovavano nel Videodrome.

Categorie
Avventura Azione David Cronenberg Fantascienza Film Horror

Scanners – Basta poco

Scanners (1981) è uno dei più importanti film di David Cronenberg, che rappresenta l’esempio tipico della sua filmografia, con un incontro l’horror e lo sci-fi classico.

Un film fatto con poco, praticamente nulla, ma che da quel poco riesce a trarre un prodotto validissimo.

Il budget si aggira infatti intorno ai 3,5 milioni di dollari (circa 11 milioni oggi), e ne incassò 14,2 milioni. Un buon successo tutto sommato, che portò infatti alla creazione di un franchise a dieci anni di distanza, senza però il coinvolgimento di Cronenberg.

E ci sono ottime ragioni sul perché non avrebbero dovuto farlo.

Di cosa parla Scanners?

Nel 1981, nella società esistono diverse persone con capacità telepatiche, potenzialmente mortali. Il gruppo ha un capo Darryl Revok, che vuole distruggere la società che l’ha creato e contro cui si oppone Cameron Vale, un uomo inconsapevole dei suoi poteri e delle sue origini…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Scanners?

Michael Ironside in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

In generale, sì.

Forse non il miglior prodotto del regista, ma quello in cui è riuscito tanto di più a lavorare con quello che aveva, mostrando una regia molto indovinata, effetti speciali tutto sommato di ottima fattura e una storia complessivamente molto intrigante.

Aiuta anche una durata molto contenuta, che lo rende un prodotto facilmente digeribile, nonostante appaia decisamente più interessante nella prima parte, mentre sul finale diventa leggermente più lento e meno interessante.

Comunque un piccolo cult di Cronenberg da recuperare.

Il potere della regia…

Stephen Lack in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

Come detto, Scanners è un prodotto un low-budget, paragonabile ai più recenti The Lighthouse (2021) e X – A sexy horror story (2022), che ci dimostrano proprio come anche con pochissimo si possono fare prodotti di alta qualità. In questo caso basta del trucco prostetico e degli effetti da discount, che a volte sembrano quasi ridicoli, per portare in scena sequenze di grande effetto.

Particolarmente iconica è la scena dello scontro finale, in cui i due scanners hanno le vene che si gonfiano e scoppiano, si strappano pezzi di carne, con degli effetti visivi evidentemente di un’altra epoca, ma che sono comunque davvero d’impatto.

Tuttavia, l’altro caposaldo del film dovrebbero essere gli attori…

…e il problema degli attori

Michael Ironside in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

Nonostante il casting sia molto indovinato (l’eroe e l’antagonista hanno una fisionomia facciale perfetta per i loro ruoli), purtroppo l’unico attore che riesce veramente a sostenere la parte senza sembrare sciatto o ridicolo è Michael Ironside, che interpreta Darryl Revok.

Il suo personaggio è perfetto nel suo essere intrigante e profondamente malvagio.

Non si può dire lo stesso dell’attore protagonista, Stephen Lack, che interpreta Cameron: soprattutto sul finale, ha una recitazione veramente apatica, che non riesce trasmettere l’importanza delle rivelazioni e di quello che sta succedendo in scena. Il tutto aggravato dalla recitazione dell’attrice di Kim, che fra tutti è la peggiore.

E nel momento in cui tutta la credibilità della scena è rimessa nelle mani degli attori, la mancanza di credibilità degli stessi guasta certe scene.

Un eroe positivo?

In prima battuta Cameron sembrerebbe un eroe positivo, del tutto ignaro delle sue capacità, e che il Dottor Ruth sembra voler maneggiare a suo vantaggio. In realtà fin da subito, e poi per tutto il resto del film, si vedono delle ombre non indifferenti sul suo personaggio.

Anzitutto, perché utilizza con convinzione e con pochi scrupoli i suoi poteri, senza farsi veramente problemi. Anzi, a tratti sembra veramente ubriaco di tutto il potere che possiede, riuscendo alla fine a distruggere il nemico, potendo poi annunciare entusiasta, quando si è impossessato del suo corpo

We’ve won

Abbiamo vinto

Perchè i sequel di Scanners non hanno senso

Come anticipato, dal 1991 vennero prodotti due sequel, distribuiti direttamente in videocassetta, e poi due spin-off.

Non ho avuto il (dis)piacere di vedere questi prodotti, ma non ne sento neanche il bisogno, in quanto non sono opera di Cronenberg. E, soprattutto, perché l’idea stessa dei sequel di per sé non ha alcun senso.

Il film già di per sé è basato su un topos narrativo piuttosto semplice e tipico, che acquista valore perché nelle mani di un grande regista, che è stato appunto capace di tirare fuori un buon prodotto con poco. Ma allo stesso tempo il film scricchiola in alcuni punti, e basta davvero poco perché la storia stessa appaia ridicola.

Oltre a questo, il finale perde tutto il suo significato con l’idea di un sequel.

Categorie
Avventura Comico Commedia Distopico Fantascienza Film Futuristico Il primo Woody Allen Woody Allen

Il dormiglione – La distopia comica

Il dormiglione (1973) è uno dei primi film di Woody Allen, il primo in cui cercò di portare un’opera più strutturata rispetto ai film precedenti.

Fu anche la pellicola che inaugurò il duraturo sodalizio artistico (e amoroso) fra il regista e Diane Keaton, che sarà protagonista di molti altri progetti, fra cui Io e Annie (1977) e Manhattan (1979).

Questo film fu anche la conferma positiva del riscontro di pubblico di Allen: a fronte di un budget di 2 milioni, incassò 18,3 milioni di dollari, proprio come il precedente Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972).

Di cosa parla Il dormiglione?

Miles Monroe si sveglia a 200 anni di distanza in un mondo totalmente cambiato, e vive la sua nuova vita fra i tentativi di ambientarsi in questa realtà alienante e la volontà di partecipare alla ribellione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il dormiglione?

Woody Allen in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

In generale, sì.

Il dormiglione è un film dal sapore distopico, ma fondamentalmente è un prodotto umoristico, con pesanti influenze del cinema muto.

Anche se la trama si presterebbe, non ci si deve tanto aspettare un film di avventura o con tinte drammatiche, ma in tutto e per tutto un’avventura comica, per certi versi simile a Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971).

Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, è un film molto simpatico e piacevole, soprattutto se ci si aspetta un tipo di comicità tipica del primo Allen, che ben si adatta al contesto fantascientifico e futuristico.

Una comicità ancora limitata

Woody Allen in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

Personalmente non apprezzo in toto la comicità della prima produzione di Woody Allen.

Mi intrattiene quando ha dei toni più surreali come in Prendi i soldi e scappa (1969), meno quando è più semplice e che mima appunto la comicità dei film muti, come il già citato in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere).

Queste piccole inserzioni ispirate proprio a quel genere di film le ho trovate leggermente ridondanti alla lunga, anche se non per questo non apprezzabili e sicuramente ben realizzate. D’altronde sono lo strumento principale con cui Allen cerca di sdrammatizzare i toni in questa pellicola, che potrebbe averne di molto più drammatici.

Devo però ammettere che ho riso di gusto sul finale quando Miles prova a sparare al naso del dittatore.

Un’esplosiva Diane Keaton

Diane Keaton in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

Come detto, questo fu il primo film del sodalizio fra Allen e Keaton. Ed è incredibile vedere due attori che sono sulla stessa lunghezza d’onda: straordinariamente espressioni, sperimentali, senza freni.

Come mi ero abituata all’esplosività del regista come attore, Diane Keaton mi ha piacevolmente sorpreso.

Anche se forse era ancora un in parte attorialmente acerba (fino a quel momento la sua interpretazione più importante era nella saga de Il Padrino), riesce perfettamente a destreggiarsi nei vari aspetti del suo personaggio.

Insomma, un ottimo inizio.

Una fantascienza minimale

La fantascienza di questo film è ancora lontana da quella più creativa e piena di prodotti successivi, come in parte Star Wars (1977) e poi di cult come Alien (1979) e Blade runner (1982).

Al contrario troviamo un’estetica meno fantasiosa e meno alienante, che non vuole raccontare un mondo tanto diverso da quello presente dello spettatore, aggiungendo solo degli elementi paradossali con un preciso effetto comico.

In generale la pellicola si diverte ad esplorare questo nuovo mondo e le sue bizzarrie, prendendosi ampio tempo anche a discapito della trama.

Categorie
2022 Drammatico Fantascienza Film Giallo Horror L'ultimo orrore di Cronenberg Nuove Uscite Film Satira Sociale

Crimes of the future – (Ri)scoprire il corpo

Crimes of the future (2022) di David Cronenberg è l’ultima pellicola del maestro dell’orrore dopo quasi dieci anni di assenza dalla sala. Ed è stato anche il mio battesimo del fuoco per la sua cinematografia, che conosco molto marginalmente e che non ho mai veramente affrontato.

E, dopo la visione, non vedo l’ora di scoprirne di più.

La pellicola si è rivelata purtroppo un incredibile flop commerciale, anche se certamente non è stata pensata per un ritorno economico consistente: ha incassato appena 3.4 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di una spesa di 35 milioni.

Di cosa parla Crimes of the future?

Cosa succederebbe se il corpo non potesse più provare dolore e l’uomo si evolvesse per essere sempre più affine ad un mondo di plastica e spazzatura?

Questo è il mondo in cui vivono Saul e Caprice, due artisti performativi che portano in scena spettacoli davvero peculiari: a Saul crescono organi anomali nel suo corpo, che vengono tatuati e poi estratti dalla sua partner durante lo spettacolo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimes of the future?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Dipende.

Partiamo col dire che Crimes of the future non è un film per nulla semplice.

La trama non è di per sé centrale, ma è al contrario un veicolo per raccontare un mondo futuristico e desolante, spoglio e senza speranza. Un mondo concentrato unicamente sul corpo e sulle sue trasformazioni, senza più paura per l’orrore e per il grottesco.

Quindi, se non vi piace particolarmente il body horror e un tipo di orrore particolarmente materiale, è probabile che questo film non faccia per voi. Come prodotto lo posso in parte paragonare a Mad Max – Fury road (2015): un film incredibile, basato molto su un orrore spettacolare e corporeo, ma in cui la trama è di fatto secondaria.

Una società perduta?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Nel film vediamo un mondo spoglio, fatto di rottami, spazzatura e degrado.

E non sembra che la cosa interessi a nessuno.

L‘intero focus è sull’uomo, sulle sue trasformazioni, in una sorta di neo-umanesimo. L’evoluzione è talmente rapida che non è neanche possibile definirla e regolarla: continuamente nel film si parla di come certe cose siano concesse, altre non ancora, e sembra sempre di agire nelle zone d’ombra della legge.

La stessa tecnologia sembra vecchia e datata, e non sembra esserci altro desiderio di quello di curare il corpo, plasmarlo a proprio piacimento, non cercando per la bellezza, ma il grottesco, che diventa in qualche modo anche erotico.

Arrivando all’estremo con la cosiddetta chirurgia da tavolino, ovvero la chirurgia improvvisata, di strada.

La corporeità

La corporeità domina ogni elemento.

Perfino la tecnologia stessa sembra essere definita tramite la corporeità, non cercando delle linee eleganti e futuristiche, ma dei macchinari che sembrano delle creature fatte di pezzi di corpo, di ossa bianche e lucide.

Il desiderio di corporeità arriva fino a fare dei concorsi di bellezza per la bellezza interiore, di fatto quella degli organi interni, a creare degli spettacoli concentrati sull’estrazione dell’organo più artistico e addirittura il desiderio erotico di vedere un’autopsia dal vivo.

E un’autopsia sul corpo di un bambino.

Kristen Stewart: c’è sempre una prima volta

Kristen Stewart in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Se avete letto la mia recensione di Spencer (2021) sapete cosa ne penso di Kristen Stewart, che qui interpreta la timida impiegata Timlin. E devo dire che è la prima volta, da quando ha cominciato a recitare, che l’ho vista veramente recitare in un ruolo.

Indubbiamente non è del tutto uscita dalla sua comfort zone della ragazza timida e impacciata, elemento che spesso accomuna i suoi personaggi, anche in prove attoriali assolutamente non pessime (ma neanche grandiose) come in Spencer, appunto.

Spero sia un primo passo nella giusta direzione.

Per ora, ha la mia attenzione.

Crimes of the future spiegazione finale

Personalmente ho trovato difficile comprendere il finale, che è definitivo praticamente dal dialogo fra Saul e il Detective Cope: non riuscendo a seguirlo, complice forse il doppiaggio poco indovinato, non sono riuscita (sul momento) a capire il resto.

Se siete anche voi nella mia situazione, siete nel posto giusto.

Nel finale il detective rivela a Cope che il Vice Department ha sostituito gli organi del bambino per evitare che si scoprisse questa realtà di evoluzione umana, che si adattava a questo ideale di nutrirsi della plastica e degli scarti industriali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Per questo le due impiegate che dovrebbero apparentemente controllare il funzionamento dei macchinari, in realtà erano in combutta con la stessa polizia. E per questo hanno ucciso il dottore (che forse ci viene fatto intendere avere la stessa mutazione di Becker) e il padre del bambino ucciso.

Alla fine Saul decide di allontanarsi dalla polizia e del suo lavoro, cominciando a nutrirsi di plastica e capendo che questo è quello che il suo corpo vuole: l’ultima inquadratura mostra un Saul molto rilassato e, finalmente, felice.

Qual è il significato di Crimes of the future?

Partendo dal fatto che il film a mio parere è del tutto godibile senza dover dare alcuna interpretazione, il significato della pellicola è in realtà abbastanza intuitivo.

Cronenberg ci vuole raccontare di un futuro desolante, ma anche possibile: un futuro in cui le guerre climatiche e la distruzione delle risorse ha portato a una realtà degradante, dove l’uomo comincerà a non potersi (o non volersi) più nutrire dei prodotti naturali, ma piuttosto di quelli artificiali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Un futuro in cui si adatterà semplicemente alla distruzione che lo circonderà, concentrandosi solo su sé stesso, in maniera quasi ossessiva.

La volontà di nutrirsi di rifiuti industriali sarebbe l’ultimo passo verso questa idea di essere un tutt’uno con l’orrore che lo circonda.

Categorie
2022 Avventura Azione Commedia Fantascienza Film Horror Jordan Peele Satira Sociale Western

Nope – L’orrore di concetto

Nope (2022) è l’ultima pellicola di Jordan Peele, cineasta diventato famoso per Get out (2015) e poi per Us (2019).

Una pellicola dove il regista statunitense compie un ulteriore passo avanti nella sua produzione, portando un prodotto più complesso, maturo ed intrigante, che si spoglia del didascalismo che aveva un po’ guastato la sua seconda pellicola.

Purtroppo il film non sta incassando moltissimo, essendo già uscito da un mese in quasi tutto il mondo: davanti ad una produzione di 68 milioni, finora ne ha incassati solo 115.

Di cosa parla Nope?

OJ è un giovane addestratore di cavalli per produzioni cinematografiche, che si trova ad affrontare un misterioso nemico che infesta i cieli delle sue praterie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nope?

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Assolutamente sì: dopo aver sperimentato con il genere horror, Peele si contamina con il genere sci-fi e western in maniera originale e assolutamente iconica.

Se siete già appassionati al cinema di Jordan Peele, non potete assolutamente perdervelo. Se avete paura di trovarvi davanti ad un horror davvero spaventoso e violento, non preoccupatevi: il film crea una tensione non da poco, con concetti non poco disturbanti, ma non mostra mai una violenza sanguinosa e spaventosa.

Un orrore più sottile, che ti entra sottopelle, ma che è di concetto e lasciato in parte all’immaginazione dello spettatore, più che veramente mostrato.

Uno dei migliori film di quest’anno finora, senza dubbio.

Cosa significa nope e altri piccoli concetti essenziali

Il senso del titolo purtroppo si perde del tutto nel doppiaggio, ma era inevitabile: nope è un modo più colloquiale di dire no, nel senso no, neanche per sogno: per citare UrbanDictionary, un no definitivo, che nega in qualunque modo quello di cui si sta parlando. Quindi, se lo vedete doppiato, ricordatevi che a volte, quando sentirete gli attori dire no, in originale dicono nope. Parola che ha un significato ben più ampio e preciso, appunto.

Sono state date non poche interpretazioni su questo titolo, ma Peele ha assicurato che voleva solo che fosse la reazione dello spettatore davanti alla pellicola.

Oltre a questo, per capire una battuta che altrimenti cadrebbe piatta, History Channel è un canale televisivo statunitense noto per trasmettere documentari pseudo scientifici e scandalistici, di fatto delle riconosciute bufale.

Infine, il nome del protagonista è OJ, omonimo di O.J. Simpson, che è stato al centro di uno dei più famosi casi di cronaca nera in ambito statunitense negli Anni Novanta.

Ora siete pronti per vedere il film. 

Raccontare il mostro

Per raccontare il mostro, Peele non poteva prendere come modello un caposaldo della cinematografia occidentale: Lo squalo (1972), pellicola che è citata continuamente.

Infatti, se si confronta la modalità di svelamento del nemico di Nope con il capolavoro di Spielberg, l’omaggio è evidente: prima mostrato in maniera sfuggevole, tanto che non si vede neanche la sua forma, poi come ombra, infine potentemente presente in scena.

Ed è incredibile come il mostro faccia paura appunto come concetto: vediamo uomini vivi all’interno del suo apparato digerente, li vediamo urlare, ma non capiamo perchè dovremmo aver paura. Ma, quando lo capiamo, è tremendamente disturbante.

A vedersi, il nemico non è un mostro pauroso, ma anzi molto enigmatico. Sembra al contempo limitato ad una bocca enorme ed a degli occhi che non possiamo vedere, ma poi appare molto più complesso e incomprensibile quando rivela tutta la sua natura sul finale.

Alzare lo sguardo

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

La tecnica registica è veramente un tocco di classe: in non poche scene Peele riesce non solo farti seguire con lo sguardo la visione dei personaggi verso il mostro, ma ti porta veramente ad alzare gli occhi verso il margine dello schermo, quindi a diventare tu stesso un protagonista della scena.

Oltre a questo le scene sono incredibilmente travolgenti per questo uso dell’inquadratura che taglia di sbieco il soggetto, lasciandolo ai margini e insistendo sul cielo dove dovrebbe apparire il mostro. Come se il regista si dimenticasse di star girando un film volesse solo riuscire a catturare questa incredibile creatura.

Gordy: rafforzare un concetto

La storia secondaria e parallela è quella di Jupe, traumatizzato dalla visione in gioventù della strage della scimmia Gordy. Il collegamento con la trama principale è veramente debole ed è un aspetto che a mente fredda potrebbe pure essere considerato un difetto.

Ma la scena di Gordy serve a rafforzare un concetto, ad irrobustire la sensazione di inquietudine e di pericolo della vicenda. L’animale del film è quello che l’uomo cerca di domare, ma che in realtà è un predatore, una bestia incontrollabile, che semplicemente non puoi addomesticare.

Come la creatura protagonista del film, Gordy non ha un aspetto inquietante e minaccioso, anzi era un personaggio simpatico portato all’interno di una sit-com televisiva di successo. E questa tecnica è amplificata anche dal personaggio di Haley, la ragazza che partecipava allo show insieme a Jupe, e che rivediamo fra il pubblico durante il suo spettacolo. Una figura muta e inquietante, che porta le terribili conseguenze dell’attacco.

Di nuovo, un personaggio che non aggiunge niente alla trama, ma che arricchisce la scena dell’attacco.

La non-lettura

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Ho sentito molte interpretazioni date a questa pellicola: riferimenti al mondo delle maestranze del cinema, al ruolo degli attori neri nel cinema, al COVID… Per me la bellezza di questa pellicola è la mancanza di una spiegazione chiara e l’apertura a molteplici interpretazioni.

Non avendo letto immediatamente alcun significato ulteriore, preferisco non trovarne alcuno, ma considerarlo semplicemente un ottimo film horror che gioca con generi diversi e che definisce un definitivo passo avanti per la cinematografia di questo regista.

La fantascienza credibile

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

In questa pellicola Peele non solo è riuscito a sperimentare con generi diversi, ma a portare una fantascienza che per certi versi mi ha ricordato Arrival (2016): una fantascienza credibile. In particolare si smarca dall’immaginario collettivo, alimentato da diversi film sci-fi e catastrofici dagli Anni Settanta in poi: l’idea che gli extraterrestri, se ci invadessero, sarebbero esseri molto più intelligenti di noi, capaci di dominarci.

Invece l’alieno, se così vogliamo considerarlo, di Nope è niente di più che una bestia, un animale primitivo che caccia l’uomo e che l’uomo deve cacciare per sopravvivere. Un concetto che è stato rafforzato da una scena apparentemente inutile, ma che è pregna di significato: quando i ragazzini cercano di terrorizzare OJ travestendosi da alieni.

In quel momento lo spettatore viene ricondotto su binari consueti, pensando che quelli che vede sono la minaccia del film. Invece quelle figure non sono altro che uno scherzo, un gioco con lo spettatore e con le sue aspettative. Il nemico del film, infatti, è tutta un’altra cosa.

Chi è il mostro?

Nel film non viene spiegata per nulla l’origine della creatura, ma la pellicola sembra suggerire che sia in circolazione dagli Anni Cinquanta e che per tanto tempo sia stato confuso con un disco volante. In realtà, a meno che non si voglia pensare che sia stato particolarmente attivo in quella zona perché Jupe gli offriva in pasto i cavalli per il suo spettacolo, non sembra molto credibile.

Tuttavia qui si apre la strada alle interpretazioni e all’immaginazione dello spettatore. E la scelta di lasciare questo spazio al pubblico è stata una delle più indovinate, evitando di andare ad incagliarsi in spiegazioni non del tutto soddisfacenti come in Us, appunto.

Un grande passo avanti, appunto.

Categorie
Avventura Azione Commedia Drammatico Fantascienza Film Il pianeta rosso

The Martian – La commedia del sopravvissuto

The Martian (2015) di Ridley Scott è un simpatico (e sottolineo simpatico) film di fantascienza con protagonista Matt Damon.

Un ottimo successo commerciale: 603 milioni di dollari di incasso contro un budget di 108 dollari. Anche piuttosto contenuto per una produzione del genere.

Un film che vidi con piacere a poca distanza con Interstellar (2014), di cui condivide anche parte del cast, e che mi aveva lasciato un ottimo sapore in bocca. Pensavo che fosse per l’ottima regia di Scott: niente di più sbagliato.

Di cosa parla The Martian?

Durante una missione sul Pianeta Rosso, il team di astronauti viene colpito da una tempesta e perde uno dei suoi componenti, il botanico Mark Watney. A sorpresa in realtà Mark è sopravvissuto e, mentre cerca di contattare la Terra per farsi salvare, deve trovare un modo per sopravvivere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Martian?

Matt Damon in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

Differentemente da come mi ricordavo, The Martian è un film incredibilmente accessibile. In maniera un po’ anomala per una fase di produzioni più drammatiche come appunto Interstellar, ha un inaspettato taglio comico.

Per questo vi consiglio di non guardarlo aspettandovi un film di Ridley Scott, ma piuttosto un buon film di fantascienza, maledettamente appassionante, ma con valore artistico vicino allo zero.

Niente di male in questo senso, ma se siete appassionati del regista potreste rimanerne delusi. Inoltre non ve lo consiglio se non potete sopportare quel tipo di film molto americani e costruiti a tavolino per piacere a quel tipo di pubblico, quindi con dinamiche anche molto prevedibili.

Ma, in generale, è un piacevolissimo film di genere.

La commedia del sopravvissuto

Jeff Daniels e Kristen Wiig in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

La scelta di questo titolo non è casuale: come anticipato, il film ha un taglio inaspettatamente comico-realistico in senso stretto. È una storia con un eroe comico, piacevole e naturalmente simpatico, per cui tifiamo e di cui seguiamo un’avventura che ha pochi momenti veramente drammatici.

Ed è obiettivamente una storia di cui è facile appassionarsi, perché gioca su pochi elementi vincenti e ben posizionati: un andamento fondamentalmente comico e leggero, tutto costruito intorno al personaggio di Matt Damon, puntellato di pochi ma importanti momenti drammatici che portano ad una costruzione della tensione ben bilanciata.

Senza accorgermene, alla fine della pellicola mi sono trovata nella stessa situazione del pubblico nel film che segue con passione il salvataggio di Mark: col fiato sospeso, col cuore stretto quando avviene un imprevisto, con la commozione quando finalmente Mark viene salvato.

Un eroe americano

Matt Damon in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

Il grande successo di questa pellicola a livello commerciale è anche legato a quanto sia impregnato di una forma mentis del tutto americana. Si parla infatti di un eroe molto statunitense, che si trova in una situazione di pericolo, ma non si perde mai d’animo e sopravvive solo grazie alle proprie forze. Una sorta di sogno americano traslitterato su un altro pianeta: se ti impegni, otterrai tutto quello che vuoi.

Infatti si può notare come Mark non sia presentato come un personaggio particolarmente intelligente, ma, piuttosto, molto creativo e instancabile. E, di nuovo, un protagonista naturalmente simpatico e che il popolo statunitense e così anche il pubblico in sala ama fin dalla prima scena.

Perché, per quanto Mark parla di cose complesse e reali, accompagna lo spettatore, anche guardandolo dritto negli occhi grazie ad un ottimo escamotage narrativo. E così il coinvolgimento è assicurato.

Bellezza, non arte

Come detto, non ricordandomi il tipo di regia del film, davo per scontato che fosse un elemento di grande valore della pellicola. Niente di più sbagliato, appunto: la regia è piuttosto nella media, niente che ti aspetteresti da un autore come Scott.

Non mancano certo le riprese aeree sicuramente belle da vedere, ma nel complesso non si può parlare più che di una regia buona, ma quasi alcuni guizzo degno di nota.

Aguzza la vista!

Nel film sono presenti moltissimi attori più o meno noti, noti soprattutto per serie tv, di grande successo.

Oltre a Jessica Chastain e Matt Damon, visti poco tempo prima in Interstellar, Chiwetel Ejiofor, che qui interpreta Venkat, è famoso sopratutto per essere il protagonista di 12 anni schiavo (2013) ed è recentemente apparso in Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) nei panni di Modor.

L’indimenticabile Sean Bean, che qui interpreta il ribelle Mitch, ma che è famoso sopratutto per essere stato Ned Stark in Game of thrones e Boromir ne Il signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello (2001).

Abbiamo poi tre attori dell’MCU: Sebastian Stan, che qui interpreta Chris, uno della squadra di Mark, e che è famoso sopratutto per aver interpretato il Soldato d’inverno nella saga di Captain America, e che abbiamo visto recentemente anche in Pam & Tommy nei panni di Tommy Lee. Poi Michael Peña, uno degli attori comici più irresistibili della saga di Antaman, dove interpreta Luis, uno degli amici di Scott. In questo caso è Rick, uno della squadra di scienziati capitanata da un terzo attore dell’MCU, Benedict Wong, lo Stregone Supremo di Doctor Strange.

Annie è Kristen Wig, attrice associata sopratutto a prodotti di scarso valore e successo come il cosiddetto Gosthbusters al femminile (2016) e il recente Wonder Woman 1984 (2020), dove interpretava Cheetah. Poi Jeff Daniels, che qui interpreta il capo della NASA, famoso sopratutto per essere il protagonista della serie The Newsroom. Infine Nick Mohammed, che ricorderete sicuramente come Nathan della serie Ted Lasso.

Categorie
Avventura Azione Cinema sotto le stelle Cult rivisti oggi Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film

Interstellar – La monumentalità guastata

Interstellar (2014) di Christopher Nolan è uno dei più ambiziosi progetti in ambito fantascientifico degli ultimi anni.

Non a caso è stato un grande successo commerciale: 703 milioni di dollari di incasso contro un budget di 165. Ed è infatti uno dei film più citati ed apprezzati del regista.

Di cosa parla Interstellar?

In una Terra al limite del collasso, l’ingegnere Joseph Cooper viene inaspettatamente coinvolto in una missione spaziale per salvare l’umanità. Questo però significherà abbandonare i figli per un numero indefinito di anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Interstellar è un film imperdibile

Matthew McConaughey, Timotheè Chalamet e Mackenzie Foy in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Assolutamente sì.

Come detto, Interstellar è una delle produzioni più ambiziose degli ultimi anni, un film che si propone di portare il racconto dei viaggi nello spazio ad un altro livello. Paradossalmente, la storia di per sé è davvero semplice, ma viene arricchita da una serie di concetti scientifici e pseudo-fantascientifici non poco complessi.

Un film davvero monumentale, sia nell’estetica sia nella sua durata, assolutamente necessaria per raccontare un’avventura così importante e ricca di colpi di scena e concetti importantissimi.

Insomma, non potete assolutamente perdervelo.

E se alla fine sarete più confusi che altro, potete tornare qui e vedere la risposta a (spero) tutte le vostre domande.

Perché ho amato Interstellar

La bellezza (e bruttezza paradossalmente) di Interstellar è la sua complessità. E si tratta di una complessità voluta perché Nolan ama profondamente essere complesso, come Tenet (2020) ha ben dimostrato.

Tuttavia, a differenza di Tenet, la complessità è quasi dovuta per rendere credibile un’avventura così monumentale. Soprattutto perché basata su varie teorie scientifiche (come la Teoria della Relatività) e pseudo-scientifiche (il Wormhole), che sono la colonna portante della narrazione.

Matt Damon in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Al contempo Interstellar è una storia molto umana: i personaggi sono profondamente guidati dalle loro passioni e dai loro sentimenti. Ed è anche un tema del film: il Dr. Mann racconta proprio come l’uomo sia spesso guidato dell’interesse egoistico verso gli affetti vicini a lui e incapace di pensare sul lungo periodo.

Ma paradossalmente il dramma di Mann è anch’esso totalmente egoistico: sapendo di poter essere salvato solamente portando dei dati incoraggianti, li falsifica. Allo stesso modo inizialmente Cooper pensa principalmente a tornare dalla propria famiglia, Amelia a ricongiungersi con il suo amato.

E così gli stessi personaggi sono incredibilmente fallibili, e sono infiniti i drammi che devono affrontare e i complessi morali cui sono continuamente messi davanti. Ma sono comunque ricompensati da un finale positivo e fondamentalmente consolatorio.

Cosa non sopporto di Interstellar

Ci sono due elementi che poco sopporto di Interstellar: il facile dramma e la povertà di spiegazione.

Per me il dramma fra Cooper e Murph poteva essere facilmente evitato se questo avesse spiegato letteralmente alla figlia che stava andando a salvare il mondo. Ed era anche più giusto nei confronti di una bambina neanche tanto piccola, che avrebbe probabilmente meglio sopportato l’angoscia del mondo (evidentemente) al collasso piuttosto che l’abbandono del padre.

Allo stesso modo avrei preferito che le spiegazioni nel film fossero più ricche e chiare, e non volutamente nebulose. Insomma, non sopporto quando vengono lasciati così tanti punti di domanda, e non per dare spazio alle teorie, ma per volontà proprio di non dare spiegazioni (e a volte incapacità, anche se non in questo caso).

Tutto quello che non hai capito di Interstellar

Come funziona il tempo?

Per come è rappresentato il tempo in Interstellar, valgono due concetti fondamentali: il loop e la Teoria della Relatività. Il primo è il più semplice da capire: tutto il film è un loop in cui il Cooper del futuro influenza le azioni di Murph e di se stesso del passato.

Oltre a questo, il tempo è assolutamente relativo: il tempo è una dimensione che è da noi considerata lineare, ma in realtà non lo è. E, per questo, cambiando prospettiva e ambiente, il tempo ci appare scorrere in maniera differente.

Chi sono loro?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

I personaggi vengono aiutati dell’umanità del futuro, capace di vivere in cinque dimensioni e di permettere all’uomo del passato di viaggiare attraverso il wormhole da loro creato per raggiungere i nuovi pianeti abitabili.

Cos’è il wormhole?

Il wormhole di cui si parla nel film è una teoria scientifica che prevede il collegamento fra due luoghi anche molto distanti nello spazio. In questo caso appunto permette ai protagonisti di raggiungere in un tempo accettabile una nuova galassia con pianeti abitabili.

Cosa succede nel finale?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Cooper attraversa il buco nero e si trova in uno spazio artificiale, il tesseract (o tesseratto) dove il tempo diventa una dimensione materiale. Così tutti i momenti di Murph sono visibili materialmente e Cooper può intervenire e mandare dei messaggi alla figlia.

Così le manda tramite il codice morse dei dati quantistici contenuti all’interno del buco nero che le permettono di avere le conoscenze matematiche per costruire le tecnologie con cui poter viaggiare attraverso il wormhole e raggiungere altri pianeti abitabili.

Categorie
Avventura Azione Cinema sotto le stelle Drammatico Fantascienza Film

Arrival – Una fantascienza diversa

Arrival (2016) di Denis Villeneuve è un film fantascientifico di genere invasione aliena. Un momento importante nella cinematografia del regista, con cui riuscì finalmente, e ancor prima di Dune, a farsi conoscere dal grande pubblico.

La pellicola fu infatti un grande successo commerciale: 203 milioni di incasso contro un budget di 47. Un ottimo investimento su un ottimo regista.

Di cosa parla Arrival?

Dodici astronavi aliene atterrano in diversi luoghi della Terra. La linguista Louise viene coinvolta nel cercare di venire a contatto e comprendere le intenzioni di questi potenziali invasori, in uno scacchiere internazionale piuttosto bollente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Arrival è un film imperdibile

Jeremy Renner e Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Assolutamente sì.

Arrival è uno di quei film che non puoi non recuperare, in particolare se ti è piaciuto Dune (2021). Villeneuve è stato capace di spogliare il genere sia della retorica americanocentrica sia del tipo narrazione piatta e ripetitiva che vediamo in molti film di questo tipo.

Al contrario ha portato una pellicola riflessiva, con un taglio potentemente credibile e una morale molto interessante. Insomma, è stato capace di prendere una storia apparentemente semplice e impreziosirla con una tecnica registica di altissimo livello.

Una fantascienza credibile

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Un elemento di grande valore della pellicola è la sua credibilità, per nulla scontata per questo tipo di film.

Solitamente, infatti, ci si trova davanti a prodotti di largo consumo che vengono inutilmente esagerati e che si appiattiscono in topoi ripetitivi. Così l’eroe per caso, il padre di famiglia che deve salvare la figlia o la famiglia, e via dicendo.

In questo caso invece troviamo un racconto credibile fin dalle prime battute: inizia come un qualunque film catastrofico (simile a quella schifezza di Birdbox, che ha avuto lo stesso sceneggiatore), ma a sorpresa non parte con l’azione come ci si potrebbe aspettare.

Vediamo invece l’inizio della narrazione in cui la protagonista è un personaggio passivo, quasi indifferente agli eventi. Diverse sequenze in cui resta inerme davanti alla televisione, a veder raccontati eventi su cui non può intervenire.

E fin da subito, per una volta, la vicenda non coinvolge solamente gli Stati Uniti, ma anche il resto del mondo. D’altronde Villeneuve è canadese e quindi non imbevuto di questo tipo di egocentrismo tutto statunitense.

E infatti la potenza militare più minacciosa non sono gli Stati Uniti, ma la Cina.

Come sarebbero gli alieni

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Molto spesso per semplificare la narrazione, sia in prodotti cinematografici che fumettistici, si utilizzano diversi escamotage per fare in modo che gli alieni possano parlare la nostra lingua. E che al contempo abbiano delle sembianze per noi comprensibili.

Nessuna delle due cose in Arrival: il modo di comunicare degli alieni è del tutto incomprensibile per noi e così nel loro aspetto non troviamo elementi riconoscibili. Non hanno la bocca né gli occhi, per esempio. E realisticamente è molto più credibile che, se incontrassimo gli alieni, sarebbero più come quelli di Arrival che come quelli dell’immaginario collettivo.

L’incomunicabilità

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Il punto centrale della pellicola è l’incapacità degli umani di comunicare con la specie aliena.

E infatti, per la complessità dello studio di Louise, si è scelto di non raccontarlo in maniera estensiva, ma di portare un’ellissi narrativa che mostra poi i protagonisti in una fase più avanzata dei loro studi. In questo modo si è evitato di semplificare un discorso davvero complesso.

E alla fine Louise riesce a comprendere la loro lingua e così anche il loro modo di pensare, così avendo una visione circolare del tempo. Infatti il film si basa su una teoria per cui, imparando una lingua nuova, se ne assorbe anche il modo di pensare dei parlanti.

Così la protagonista, comprendendo il linguaggio circolare degli alieni, riesce ad assorbire la loro capacità di conoscenza totale del tempo.

Una morale divisiva?

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

La morale del film è tutt’altro che scontata.

Se sapessimo che la nostra vita potesse andare verso un evento drammatico, pur regalandoci degli splendidi momenti nel mentre, sceglieremmo comunque di viverli?

Louise, in un modo forse egoista, decide di vivere quel poco di felicità che la vita le potrebbe concedere, una piccola parentesi che poi probabilmente la porterà al punto di partenza in cui la vediamo all’inizio del film. Ma, per una donna così svuotata dalla vita come la vediamo all’inizio, è stato un regalo a cui non poteva dire di no.

Perché il finale di Arrival non mi ha convinto del tutto

Per quanto il finale non sia per nulla pessimo, anzi ben integrato nel contesto della pellicola, mi ha poco convinto perché l’ho trovato troppo idealizzato e ingenuamente ottimista.

Basta quindi una frase per far tornare sui suoi passi un generale così agguerrito?

È molto bello da immaginare così, ma è poco credibile.

E la credibilità è il punto di forza della pellicola…

Cosa dice Louise al generale?

La frase che Louise dice al generale Shang in mandarino significa

In the war there are no heroes, only widows.

In guerra non ci sono eroi, ma solo vedove.