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Get Out – Feticizzazione

Get out (2017) è l’opera prima di Jordan Peele, cineasta attivo da pochi anni ma che ha già reso riconoscibile il suo stile e la sua, seppur breve, cinematografia.

Il film fu estremamente elogiato per la freschezza e la novità che portò al genere horror, mentre il suo secondo film, Us (2019), fu molto meno considerato. E fu una vera ingiustizia.

La pellicola fu un incredibile successo commerciale: un budget ridottissimo, di appena 4.5 milioni di dollari, portò ad un incasso di 255.

Di cosa parla Get out?

Chris è un giovane afroamericano fidanzato da pochi mesi con Rose. Pur in grande imbarazzo, accetta di andare a far visita la famiglia di solo bianchi della fidanzata. Questa scelta non si rivelerà la più indovinata…

Get out può fare per me?

Lakeith Stanfield e Geraldine Singer in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Partiamo dicendo che Get out è un horror, ma non fa di fatto paura, anche perché utilizza pochissimo i tanto abusati jump scare. Più che altro è un film che crea una profonda angoscia e inquietudine. E questo grazie all’utilizzo di una recitazione ben calibrata e una scelta dei volti piuttosto azzeccata.

È una pellicola in generale abbastanza accessibile, che diventa ancora più interessante per un pubblico coinvolto con le tematiche che Peele porta sullo schermo. Ma, prima di tutto, è un prodotto horror autoriale che porta un’interessante novità al genere.

Feticizzazione

La feticizzazione dei corpi neri è il tema politico sotterraneo del film. Un problema sentito negli Stati Uniti e che è fondamentalmente l’altra faccia del razzismo: questa idea di idealizzazione del corpo nero, corredato da una serie di stereotipi (la grandezza dei genitali, la velocità ecc.).

Stereotipi che non sono falsi di per sé, ma che assumono un significato ben diverso se applicati sistematicamente a persone che condividono nient’altro che il colore della pelle o una discendenza comune. In questo modo infatti non vi è una glorificazione del corpo, ma una deumanizzazione dello stesso.

Ed è questo quello che di fatto succede in Get Out: il corpo di Chris è messo in vendita come quello di una bestia, da un gruppo ricchi bianchi che se ne vuole impossessare per godere dei presunti benefici del corpo di un afroamericano.

Far paura senza far paura

Betty Gabriel in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Una grande capacità di Peele, che poi sprigiona tutta la sua potenza in Us, è la capacità di far paura senza far uso di tecniche abusate. Così appunto non ci sono praticamente jump scare e tutta l’inquietudine del film si basa sull’ottima recitazione corporea e facciale dei personaggi.

Particolarmente rilevanti sono Walter e Georgina, che alla fine si scopre che racchiudono le coscienze del nonno e della nonna. Ma da elogiare anche la recitazione di Allison Williams, che interpreta Rose, che è stata capace di sostenere la recitazione da brava fidanzata, per poi rivelarsi, con un solo gesto, l’invasata calcolatrice che in realtà è.

Tutto e niente

Daniel Kaluuya in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

La mia è sicuramente un’opinione impopolare, ma io considero Get out come un film per molti aspetti amatoriale, che è solo un punto di partenza per una cinematografia ben più interessante. E infatti Us mi ha stupito molto di più.

Nondimeno in questa pellicola troviamo tutti gli elementi ormai tipici di Jordan Peele: un horror che punta più sull’inquietudine che sull’orrore, un umorismo per nulla forzato, una sottotrama politica molto forte e per nulla banale.

Al tempo della visione, ebbi proprio questa idea: un buon punto di partenza, ma adesso vediamo che strada prende. E con Us sono stata ricompensata.

Insomma, per me un’ottima opera prima, ma non il capolavoro che tanti sostengono.

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Super 8 – Un film fuori dal tempo

Super 8 (2008) è un film prodotto, scritto e diretto da J.J. Abrams, autore e produttore che ha le mani un po’ ovunque quando si tratta di revival in ambito sci-fi.

Una pellicola che ebbe anche un buon successo, con 50 milioni di dollari di budget e 260 di incasso.

Di cosa parla Super 8?

1979, Joe Lamb è un quattordicenne che ha appena perso la madre in un tragico incidente e deve riallacciare i rapporti col padre. Lui e i suoi amici, mentre sono intenti a girare un film amatoriale, diventano testimoni di un tragico e misterioso incidente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super 8?

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Assolutamente sì.

Super 8 è un film piuttosto semplice, un’avventura sci-fi per ragazzi di stampo classico, che si rifà massicciamente ai topos degli Anni Ottanta.

Sia che siate appassionati dei classici, come Stand by me (1986) e E.T. (1982), sia dei revival nostalgici come Stranger Things, non potete perdervelo.

Una costruzione da manuale

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

La costruzione della trama è davvero da manuale, nel senso migliore possibile.

Tutti gli elementi che portano al finale sono sapientemente costruiti fin dall’inizio e in maniera funzionale al finale.

Così per esempio Donny, che alla fine accompagna i ragazzi alla scuola, si è dimostrato interessato alla sorella di Charlie fin dall’inizio. E così Joe sa dove è la tana della creatura perché in precedenza è andato al cimitero a trovare la madre.

E questa costruzione così intelligente non è per niente scontata, in quanto in prodotti di ben più grandi produzioni capita spesso che, per far arrivare i personaggi ad un punto, si scelgono soluzioni forzate e poco credibili.

Allo stesso modo il mistero è un continuo crescendo, partendo da una scena improvvisa, seguendo un sentiero di briciole che ci vengono snocciolate a poco a poco.

La creatura

Secondo lo stesso principio, la creatura viene svelata secondo precise tappe e con una costruzione molto abile. Prima è un’ombra, poi una figura sfocata sullo sfondo, poi ne scopriamo la sagoma, e nel finale ne vediamo il volto.

Molto furbo fra l’altro cercare di umanizzarla, svelandone a sorpresa gli occhi piuttosto espressivi, per dare quello slancio emozionale che ci permette di empatizzare.

Soprattutto perché si cerca di raccontare un nemico che in realtà è vittima degli stessi protagonisti e che, come E.T., vuole solo tornare a casa.

Un character design fra l’altro semplice, ma d’impatto.

Semplicemente Elle Fanning

Elle Fannings in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per via anche del suo budget limitato, il film ha puntato su attori giovanissimi e fondamentalmente sconosciuti. La recitazione non è esattamente brillante, ma comunque di livello accettabile.

Fra tutti però si distingue Elle Fanning, che interpreta Alice, al tempo ancora poco conosciuta, ma che ha lavorato negli anni con autori come Woody Allen e David Fincher.

In questa pellicola troviamo una recitazione ancora acerba, ma che sa comunque destreggiarsi in diversi momenti più complessi della narrazione.

E il fatto che una scena sia basata solamente sul mettere in evidenza le sue capacità recitative è tutto un programma.

Pallidi comprimari

Riley Griffiths  in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Un difetto del film è di non riuscire a far risaltare i comprimari del protagonista.

Come per il miglior film per ragazzi Anni Ottanta, Joe è infatti circondato da un gruppetto di personaggi che gli fanno da contorno, e che sono al contempo il comic relief della pellicola.

Purtroppo, gli stessi sembrano essere dimenticati nel corso del film, al punto che si utilizzano diversi stratagemmi per lasciarne il più possibile indietro in occasione dello scontro finale.

Allo stesso modo questi personaggi per la maggior parte non hanno una caratterizzazione precisa, ma limitata a pochi elementi.

Abrams e Gioacchino: che coppia!

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per quanto magari Abrams non possa essere considerato un grande autore, la sua regia è ben più di quella di un mestierante qualunque.

In questa pellicola è innamorato dei suoi personaggi: li inquadra spesso fra il mezzo primo piano e il primo piano, facendoli avvicinare alla macchina da presa mentre guardano misteriosamente all’orizzonte.

Così anche bellissime le sequenze in cui i personaggi sono coinvolti in discussioni concitate e la macchina da presa gli gira intorno, regalando una splendida dinamicità alla scena.

La regia è inoltre impreziosita da un’ottima colonna sonora, composta dall’iconico Gioacchino, autore di colonne sonore di grande successo e valore come quella di Up (2010) e della nuova trilogia di Star Trek.

Cos’è il Super 8?

Il super 8 millimetri che dà il titolo al film è un formato cinematografico, un tipo di pellicola utilizzata proprio per il cinema amatoriale.

Ed è infatti quello che i protagonisti utilizzano per girare il loro film.

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Eternal Sunshine of The Spotless Mind – Saper dimenticare

Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004), per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman, fu sicuramente uno dei punti più alti della carriera di Jim Carrey.

Per la seconda volta l’attore si mise sotto l’egida di un abile autore, sprigionando tutte le sue capacità recitative.

Il film è noto in Italia anche per l’orribile traduzione del titolo, ovvero Se mi lasci ti cancello e fu un discreto successo: 74 milioni di incasso contro 20 milioni di budget.

Di cosa parla Eternal Sunshine of The Spotless Mind

Joel e Clementine sembrano una coppia molto affiatata, con un amore scoppiato all’improvviso e imprevedibilmente, ma che li porta ad una lunga e importante relazione. Le cose si complicano quando Clementine decide di fare una scelta assolutamente castrante alle spalle del suo fidanzato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Eternal Sunshine of The Spotless Mind?

Jim Carrey e Kate Winslet in una scena di The Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004) per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman

In generale, sì.

Partiamo col dire che Eternal Sunshine of The Spotless Mind non è un film semplice.

Ha una struttura per nulla lineare, nella quale è difficile orientarsi, soprattutto all’inizio. Oltre a questo, nonostante non sia una commedia romantica in senso stretto, ne eredita le dinamiche. Così, se non riuscirete ad essere coinvolti con il rapporto dei protagonisti, sarà difficile appassionarvi.

Per me questo è stato il principale problema, di cui parlerò meglio nella parte spoiler. Tuttavia, se siete riusciti a digerire un film come I’m Thinking of Ending Things (2020) e Essere John Malkovich (1999) di Kaufman e se, più in generale, riuscite ad appassionarvi alle commedie romantiche, è un film che può fare per voi.

Joel

Joel è di fatto la vera vittima di questo film.

Una persona molto chiusa in sé stessa, che riesce con difficoltà a gestire le situazioni, soprattutto quello sentimentali. Cerca di rincorrere Clementine nella sua follia, ma continua a fallire costantemente. E, infine, perde.

E per me perde doppiamente: vive nei sogni di Clementine, nella versione che aveva nella sua testa e nei suoi ricordi, cerca di rimetterla insieme e nuovamente si ributta nella relazione con Clementine e con tutte le sue trappole.

Carrey riesce a portare sullo schermo un personaggio fallibile, in contrasto con sé stesso, che riesce a lasciarsi andare in alcuni momenti comici tipici dello stile dell’attore, ma mantenendo una recitazione drammatica assolutamente credibile e toccante per tutta la pellicola.

Clementine

Ho personalmente odiato il suo personaggio fin dall’inizio.

E questo lo posso dire con tranquillità perché nella maniera più evidente il film non vuole farti odiare questo personaggio, al contrario. La figura della donna apparentemente artistica e imprevedibile, ma che proprio per questo fa immancabilmente innamorare il protagonista.

Un personaggio in cui molte ragazze, soprattutto nel periodo in cui uscì il film, potevano rivedersi. Non è di per sé deprecabile, ma condannabile per il tipo di trattamento giustificatorio della pellicola. Soprattutto perché il suo comportamento, che è anche il motore del film, non è assolutamente giustificabile.

Ma non penso di aver mai visto Kate Winslet così tanto in parte: per quanto non mi sia piaciuto il suo personaggio, penso che abbia regalato una performance di grande valore, forse la migliore della sua carriera.

Una morale discutibile

Jim Carrey e Kate Winslet in una scena di The Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004) per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman

Eternal Sunshine of The Spotless Mind è aperto a più interpretazioni possibili.

Io ho trovato una morale di fondo piuttosto discutibile, che tende a giustificare la relazione fra Joel e Clementine e a farla passare come un amore impossibile ma tremendamente romantico.

Il film è vincente da questo punto di vista fintanto che lo spettatore riesce ad essere coinvolto con la storia dei suoi protagonisti.

Potrei criticare la scarsa originalità di come è trattata la loro relazione, con dinamiche tipiche delle commedie romantiche, tuttavia è più giusto ammettere che la loro storia non mi ha appassionato perché non mi appassiona il genere.

E, di conseguenza, mi è venuto da razionalizzarla. Soprattutto se si vuole leggere la rappresentazione della loro storia come credibile, di fatto il rapporto fra i protagonisti è profondamente tossico.

E io mal sopporto l’idea che una storia deve esistere perché due persone si amano, nonostante la stessa sia deleteria per entrambi.

Soprattutto il finale è diversamente interpretabile: la scena sembra dissolversi, come se ancora uno dei due (o entrambi) abbiano voluto cancellare quel ricordo. E potrebbe essere o che la relazione si sia conclusa definitivamente, oppure che i due siano entrati in un ciclo infinito e autodistruttivo in cui tentano continuamente di far ricominciare la loro relazione.

Io, personalmente, spero che sia la prima opzione.

Un puzzle non così complesso

Jim Carrey e Kate Winslet in una scena di The Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004) per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman

In generale ho apprezzato la costruzione della storia: parte in una maniera che sembra introdurre una relazione nuova di zecca con dinamiche piuttosto tipiche. Poi sconvolge lo spettatore con un taglio netto e imprevedibile, introducendo a poco a poco la storia.

Così ho apprezzato l’idea della cancellazione dei ricordi, spiegata anche in maniera sensata ed intelligente, e così il viaggio di Joel e le dinamiche che si creano. In generale, tralasciando la morale discutibile, è un film che ho apprezzato.

Tuttavia, mi è dispiaciuto che il colpo di scena finale fosse così prevedibile: circa a metà film ero riuscita con non troppe difficoltà a ricostruire la timeline della storia. Non so se volesse essere un effettivo colpo di scena, ma avrei preferito che fosse più complesso e che spingesse maggiormente sul lato surreale e onirico.

Insomma, avrei voluto un film che fosse più simile a Sto pensando di finirla qui.

Cosa significa il titolo

Il titolo del film fa riferimento ad una poesia di Alexander Pope, poeta settecentesco, nella sua opera Eloisa to Abelard (1717)

How happy is the blameless vestal's lot!
The world forgetting, by the world forgot.
Eternal sunshine of the spotless mind!
Each pray'r accepted, and each wish resign'd

Il titolo può essere tradotto circa come l’eterna bellezza della mente candida, nel caso del film riguardante la mente priva di ricordi dei protagonisti. Non a caso, alla fine del film, nonostante tutto quello che è successo, i due riescono di nuovo ad innamorarsi.

Come in tutti i film di Jim Carrey finora, anche in questo caso troviamo attori divenuti famosi successivamente.

Anzitutto, Kirsten Dunst che interpreta Mary, che due anni dopo divenne protagonista dell’apprezzatissimo Marie Antoniette (2006) e di recente ne Il potere del cane (2021). Poi Mark Ruffalo, famoso soprattutto per aver interpretato Hulk nell’MCU, ma che ha lavorato anche altrove. Così vediamo Elijia Wood, che qui interpreta Patrick ed era appena uscito dal successo incredibile de Il Signore degli Anelli, di cui era protagonista.

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Lightyear – Verso la metanarratività…e molto oltre!

Lightyear (2022) è l’ultimo film della Pixar uscito la scorsa settimana, il primo uscito in sala dopo quasi due anni. Ed il motivo è facile da capire: questa pellicola non è un film Pixar come lo intendiamo comunemente, ovvero un percorso di crescita e maturazione con un risvolto profondo. Si parla più che altro di una space opera, un film avventuroso in senso classico, che comunque gode di una robusta morale.

Tuttavia, per ora non sembra una scommessa vincente: la pellicola è infatti più o meno stroncata da gran parte della critica e ha aperto miseramente (appena 84 milioni la prima settimana), rischiando già il flop commerciale. E la causa potrebbe essere che in primis molti si aspettavano un film molto più collegato a Toy Story (cosa che non è) e forse che era un film meno spendibile per il grande pubblico, soprattutto infantile, di quanto si pensasse.

Di cosa parla Lightyear?

Buzz Lighyear è uno space ranger che si trova naufragato con la sua squadra in un pianeta sconosciuto e minaccioso. Dovrà quindi tentare di riparare la navicella per ritornare a casa, con molti tentativi che non andranno come si aspettava…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lighyear?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

In generale, Lightyear è un film che mi sento di consigliare, a patto di approcciarsi alla visione con la giusta mentalità. Infatti, come anticipato, il film c’entra veramente poco con Toy Story e le sue dinamiche. Ma non è per forza un difetto: dopo quel maledetto Toy Story 4 (2019), è anche ora di lasciare intatta la magia del brand.

Io, pur da grande purista della Pixar, sono andata in sala con grande tranquillità, con la consapevolezza che non sarebbe stato un film Pixar in senso stretto. E così sono riuscita a godermi un film sicuramente non perfetto, ma che riesce ad intrattenere ed a riallacciarsi (seppur debolmente) alle tematiche tanto care alla casa di produzione.

Quindi, se vi piacciono le avventure spaziali, che giocano con il genere del buddy movie, e se in generale vi piace Star Wars, è molto probabile che Lightyear vi piacerà. L’importante, appunto, è andarci con le giuste aspettative. Insomma, dimenticatevi Toy Story.

Distaccarsi da Toy Story: buona idea o commercialata?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Come anticipato, è Lighyear non è strettamente legato a Toy Story. I riferimenti sono infatti abbastanza sporadici: a parte dire che il film sia quello visto da Andy nel 1995 (di cui parleremo), il film si limita ad inserire qualche citazione e dinamica famosa della saga. Per il resto, prende tutta un’altra strada.

La pellicola sembra più decostruire il personaggio di Buzz, i suoi atteggiamenti abbastanza ridicoli di voler fare sempre rapporto e la sua ossessione di portare a termine la missione. Per il resto, la maggior parte dei personaggi sono totalmente nuovi o, nel caso di Zurg, rivisitati.

E, per me, non è stata una cattiva idea. Infatti, come ci insegnano eventi recenti di Star Wars, andare a rimettere le mani sul canone e portare collegamenti mal pensati, solitamente non è una buona idea. Invece andare a sfruttare un personaggio molto amato come Buzz ed ampliare l’universo di Toy Story, senza intaccare il canone, è stata un’idea decisamente migliore.

Detto questo, si tratta sicuramente di un film prodotto con l’intento di far conoscere il personaggio ad un pubblico infantile e vendere molti giocattoli. Con una situazione che fra l’altro supera il concetto di metanarratività in maniera quasi agghiacciante.

Buzz Lighyear: un personaggio coerente?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Il personaggio di Buzz è stato fortemente criticato, soprattutto negli Stati Uniti, per via del suo doppiatore, Chris Evans, famoso soprattutto per aver interpretato Captain America nell’MCU. La critica ha sembrato rimpiangere la voce storica di Tim Allen, non considerando Evans per nulla all’altezza.

A me personalmente il doppiaggio di Buzz ha assolutamente convinto e non ho mai trovato straniante il cambio di doppiatore. Oltre a questo, secondo me il personaggio è scritto ottimamente, ampliando il suo carattere e la sua storia in maniera assolutamente coerente con il canone.

Troviamo infatti un Buzz sempre concentrato sulla missione, fino all’ultimo intestardito all’idea di portarla a termine, quasi ridicolo nei suoi atteggiamenti. Proprio il Buzz che vedevamo in Toy Story, soprattutto nel primo film.

Zurg: un cattivo a metà

Zurg in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Ho generalmente apprezzato il personaggio di Zurg: è coerente con quello di Toy Story ed è stato un bel colpo di scena. Il punto di partenza della morale più adulta del film, che però pecca in un elemento fondamentale: il minutaggio.

Al personaggio di Zurg non viene evidentemente dato il tempo di respirare: viene introdotto, viene spiegata la sua storia, ma nel giro di pochissimo tempo Buzz gli si rivolta contro. E da quel momento diventa semplicemente il personaggio di Zurg di Toy Story, ovvero un cattivo molto tipico e stereotipato. E con un minutaggio risicato.

Lightyear e una trama imperfetta

Complessivamente parlando, la trama di Lightyear mi è piaciuta: ben strutturata, con alcuni momenti abbastanza prevedibili, ma comunque toccanti. Per esempio, mi aspettavo assolutamente che Alisha morisse, ma lo stesso, vedendo Buzz che entra nell’ufficio vuoto, mi si è stretto il cuore.

Nonostante la trama riesca a ben posizionare le pedine in gioco, tende ad incartarsi nella parte centrale. Infatti i protagonisti vengono continuamente messi davanti a continui ostacoli, in maniera quasi estenuante.

Anche se non penso che fosse quello l’intento, questa dinamica dà taglio di verosimiglianza alla vicenda. Infatti, a differenza della finzione cinematografica, è molto più credibile che in una situazione reale i personaggi si sarebbero trovati davanti a una marea di imprevisti.

La doppia morale

Lighyear in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Dal punto di vista della morale, il film si struttura su due livelli: la morale per il pubblico di bambini e la morale per il pubblico di adulti. Molto Pixar, senza dubbio.

La morale per i bambini, drammaticamente didascalica, riguarda l’importanza di non isolarsi e intestardirsi sulle proprie idee, ma cercare di lavorare di squadra. Infatti Buzz è per la maggior parte restio a lavorare con gli altri personaggi, sottovalutandoli, ma alla fine capisce il loro valore, proprio come Alisha aveva fatto con lui.

La morale adulta riguarda invece il non inseguire un sogno impossibile e non sapersi godere la propria vita per quello che è, con i suoi alti e bassi. Una morale davvero bella e toccante, con una messa in scene molto convincitene. Peccato che sia la stessa morale di Up (2009).

Una comicità non sempre vincente

Lightyear è un film che sembra volerti far continuamente ridere, buttando lì battute pensate probabilmente più che altro per un pubblico infantile. Soprattutto all’inizio, ho trovato quasi fastidiosa questa continua insistenza. Tuttavia, all’interno della pellicola ci sono diversi momenti in cui ho riso sinceramente.

La maggior parte, ovviamente, sono collegati a Sox, un personaggio su cui non contavo per nulla, ma che invece è stato fra i miei preferiti dell’intero film.

Lightyear è il film che ha guardato Andy?

Volevo aggiungere questa piccola coda alla fine della recensione, perché penso di non essere l’unica ad essersi fatta questa domanda. All’inizio del film viene detto esplicitamente che Lightyear è il film che vide Andy nel 1995 e che lo fece innamorare del personaggio.

Ovviamente, questo non è possibile. Il film di Lightyear nel 1995 non sarebbe mai stato un film dove il protagonista viene messo così tanto in discussione, con una morale del genere, con un cast così inclusivo.

Sarebbe stato al contrario un film alla Terminator, ma nello spazio, pieno di violenza edulcorata e un trash che solamente gli Anni Novanta possono regalarci.

Ma, ovviamente, qui parliamo di sospensione dell’incredulità totale. E va bene così.

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Melancholia – La felicità mentita

Melancholia (2011) è un film di Lars von Trier, cineasta danese autore di pellicole di altissimo valore, autore di pellicole particolarissime e spesso al centro di polemiche.

Il film ebbe un incasso molto contenuto, anche se ampiamente prevedibile visto il genere di pellicola: 17 milioni di dollari al box office contro un budget di 9 milioni.

Di cosa parla Melancholia?

Justine, interpretata da Kirsten Dunst, è una giovane donna affetta dalla cosiddetta malinconia, uno stato di profonda tristezza e mancanza di energie. Questo le impedisce di vivere serenamente il suo matrimonio, con cui si apre il film, mentre un enorme cataclisma sta per piombare sulla terra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Melancholia?

Kirsten Dunst in una scena di Melancholia (2011) di Lars Von Trier con Kirsten Dunst vincitrice della pama d'oro a Cannes

Assolutamente sì.

Melancholia è un film davvero particolare: fin da subito si viene travolti dalla regia, che è cadenzata fra movimenti di macchina iperrealistici e musiche imponenti, quasi operistiche, con un costante sguardo quasi voyeuristico.

Uno svolgimento molto lento e angosciante, persino nel climax finale, e che ci permette di entrare nell’intimità prima di Justine, poi della sorella, Claire. Il film è infatti articolato in due cicli, perfettamente paralleli.

Insomma, non ve lo potete perdere.

I due cicli

Come anticipato, il film è suddiviso in due parti, o, meglio, due cicli.

Il parallelismo fra le due sezioni è perfetto perché rappresenta appunto il ciclo di evoluzione delle due sorelle. Nella prima parte Justine sembra padrona della situazione e genuinamente felice, per poi rivelare la sua fragilità ed i suoi comportamenti autodistruttivi.

All’inizio della seconda parte è invece totalmente priva di forze, ma lentamente ritorna padrona di sé stessa, parallelamente all’avanzare della Melancholia.

Kirsten Dunst in una scena di Melancholia (2011) di Lars Von Trier con Kirsten Dunst vincitrice della pama d'oro a Cannes

Allo stesso modo per la maggior parte del film Claire sembra padrona della situazione, quasi tiranneggiare sulla sorella, fino a urlarle addosso tutta la sua esasperazione.

Ma, alla fine, man mano che si avvicina la Melancholia, perde progressivamente le forze, e si lascia infine guidare dalla sorella in un apparente luogo sicuro e protettivo, ma estremamente fragile come le loro esistenze.

Splendida in questo senso la costruzione dell’angoscia di Claire, derivata dallo stesso tentativo di rassicurazione del marito, che finisce invece per confermare le sue paure.

Justine, una Cassandra

Kirsten Dunst in una scena di Melancholia (2011) di Lars Von Trier con Kirsten Dunst vincitrice della pama d'oro a Cannes

Justine è in tutto è per tutto una Cassandra.

Prevede un futuro catastrofico e angoscioso, ma nessuno le crede.

Dando una interpretazione quasi fantastica, si può pensare che il suo personaggio sia legato alla Melancholia, come dimostra anche la scena in cui, completamente nuda, si sollazza alla luce del pianeta. E così nel flashforward iniziale sembra ottenere dei poteri dal cataclisma stesso, a cui era stata sempre sensibile.

Infatti, in diversi punti del film alza gli occhi al cielo e osserva l’arrivo imminente del pianeta, mentre altri personaggi, come John, il marito di Claire, cercano di negarlo, con fare anche paternalistico.

E, in questa interpretazione, si può pensare che la sua malinconia derivi appunto da questa distruzione imminente.

In altro modo, la Melancholia sembra rappresentare un’angoscia o un male nascosto che è sempre presente, celato dietro ad un’apparente serenità, rappresentata dal sole, dietro appunto al quale il pianeta si nasconde nel film.

Un male che avanza, ma di cui Justine è appunto completamente e profondamente consapevole, a differenza di tutti gli altri.

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Avventura Azione Cult rivisti oggi Fantascienza Film Star Wars - Trilogia classica

Star Wars: Il ritorno dello Jedi – Un degno finale?

Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) è l’ultimo capitolo della trilogia originale di Star Wars, ovvero la prima uscita in ordine temporale. Dopo un ottimo inizio e un sequel ancora più convincente, George Lucas sarà riuscito a dare un degno finale alla sua storia?

Il successo di pubblico al tempo fu ampio, anche se economicamente minore rispetto al precedente film: solo 475 milioni con un budget di 32 milioni di dollari.

Sempre un grande successo, ma complessivamente un incasso inferiore.

Di cosa parla Star Wars: Il ritorno dello Jedi

La storia riprende le mosse dal precedente film: Luke e Leila devono salvare Han dalle grinfie del malefico Jabba The Hutt, orrendo mostro dalla forma di un verme gigantesco…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di guardare Star Wars: Il ritorno dello Jedi?

In generale, sì.

Per quanto devo dire che mi sia piaciuto leggermente di meno rispetto al capitolo precedente, è comunque un’ottima conclusione per la trilogia. Vengono lasciati aperti alcuni spunti per possibili sequel, ma la linea narrativa principale si conclude, con importanti colpi di scena e anche momenti piuttosto toccanti.

Quindi, se eravate indecisi se continuare a guardare Star Wars, non perdete altro tempo e recuperatevelo. Se invece non avete mai visto Star Wars, cosa ci fate qui? Ho scritto un articolo apposta per voi.

Una narrazione a tappe

Mark Hamill e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

A differenza del precedente capitolo, in questa pellicola la vicenda è piuttosto lineare, e si definisce secondo le diverse tappe o quest del protagonista.

Si comincia risolvendo il finale del film precedente, cui è legato il tentativo di salvataggio di Leila, seguito dall’intervento risolutivo di Luke. Tutto il piano presenta qualche ingenuità narrativa, ma è indubbiamente una costruzione della tensione piuttosto azzeccata.

La tappa successiva è dettata da Yoda, il quale, insieme al fantasma di Obi-Wan, rivela a Luke tutta la verità e gli assegna quindi la quest finale: affrontare Darth Vader e diventare finalmente un Cavaliere Jedi.

Il cammino dell’eroe

Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Luke percorre un cammino dell’eroe piuttosto classico.

Raggiunge la consapevolezza della sua missione, si addestra e si mette in discussione, e infine sconfigge l’ultimo e peggiore nemico: suo padre.

In questo ultimo episodio Luke è assolutamente sicuro di se stesso, anche troppo. Infatti, per tutto il tempo minaccia gli antagonisti, si consegna volutamente, sicuro di essere capace di sconfiggerli e di portare a termine la sua missione.

E infatti così succede: però manca in parte per quel senso di fallibilità del protagonista che avrebbe potuto renderlo più tridimensionale.

Darth Vader: il villain incompreso

Sebastian Shaw in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Dart Vader è la parte migliore di Star Wars: Il ritorno dello Jedi.

In questo caso la sua spietatezza è poco raccontata, anzi è depotenziata dagli altri antagonisti messi in scena. Anzitutto, anche se indirettamente, da Jabba The Hutt, un essere disgustoso, che vive in un ambiente oscuro e spettrale, che usa le donne come schiave e che mangia animali vivi.

Un villain indiscutibile, insomma.

Così viene finalmente introdotto di persona Palpatine, un vecchietto apparentemente fragile, ma che, oltre a cercare di tentare malignamente Luke al lato oscuro, rivela infine i suoi terribili poteri. Il suo accanirsi su Luke è inoltre l’ultimo atto che convince Vader a rivoltarsi contro il suo maestro e salvare così il figlio.

Questo apparente climax della redenzione di Vader non è in realtà costruito al meglio, perché è rappresentato solo da Luke che insinua dei dubbi nella mente del padre, assolutamente sicuro della sua bontà.

E che infine ci riesce, con un atto definitivo che porta alla definitiva morte di Palpatine (e ci torniamo). Con, infine, la rivelazione del volto sofferente di Anakin Skywalker sotto la maschera, l’ultimo atto di riappacificazione col figlio.

Leila e la commedia degli equivoci

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

La trama di Leila e Han viaggia fra alti e bassi: sicuramente Leila, a differenza del precedente film, è un personaggio molto più attivo e interessante.

Prova a salvare il suo innamorato (pur essendo poi, giustamente, oscurata da Luke, l’eroe) e si salva da sola da Jabba, riuscendo persino ad ucciderlo. Insomma, ne esce come un personaggio rafforzato.

Per il rapporto con Han, ho apprezzato la dinamica scherzosa con cui Han dichiara il suo amore per Leila nello stesso modo in cui lei l’aveva dichiarato a lui alla fine dello scorso film. Tuttavia, non mi ha entusiasmato questa sorta di commedia degli equivoci che crea un apparente triangolo amoroso fra Luke, Leila e Han.

Soprattutto perché Leila non aveva veramente motivo di nascondere il trauma della parentela con Luke ad Han, anzi, visto il rapporto che si era creato fra loro due, aveva più senso che glielo rivelasse immediatamente.

Un evidente escamotage per creare tensione e zizzania nella coppia, che sembra altrimenti ormai consolidata. Tuttavia, bisogna riconoscere la maturità con cui Han si dimostra comunque comprensivo nei confronti di Leila, anche per l’eventuale relazione con Luke.

Un sequel inesistente?

Mark Hamill e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Il film, come il primo, sembra lasciare delle porte aperte per eventuali sequel, dando diversi spunti, poi sviluppati in maniera forse diversa da come si immaginava all’inizio. I due spunti più importanti riguardano la sensibilità di Leila alla Forza e la missione di Luke di trasmettere la sua conoscenza come ultimo Jedi vivente.

La questione di Leila viene approfondita nell’Universo Espanso, ovvero nella pletora di opere derivate, nelle quali Leila viene addestrata come Jedi. Questo elemento viene richiamato molto goffamente all’inizio di quella porcheria di Star Wars: L’ascesa di Skywalker (2019), quando la Principessa addestra Rey off-screen.

Allo stesso modo la scuola Jedi di Luke viene accennata nella trilogia sequel e anche in The Book of Boba Fett, ma rivelandosi un progetto fallimentare che non porta a nulla se non a tornare al punto di partenza.

Sarebbe stato bello che invece questi spunti narrativi fossero stati esplorati in dei sequel degni di questo nome, invece che produrre dei prequel fallimentari e dei sequel che sono la brutta copia della trilogia originale.

retcon, che passione!

Come ogni saga di grande successo che si rispetti, Star Wars è piena di retcon.

Già solamente vedendo questo film, ne individuiamo tre.

Le prime due riguardano Bib Fortuna (il maggiordomo di Jabba) e Boba Fett, personaggio diventato iconico successivamente, in questa pellicola ancora un anonimo cacciatore di taglie.

Entrambi muoiono nella scena dell’esecuzione: Boba cade nel Sarlacc, Bib Fortuna muore nell’esplosione del palazzo di Jabba. E invece li ritroviamo entrambi nella serie The Book of Boba Fett.

Infine, la retcon più grande e peggio digerita di tutto Star Wars: Palpatine che ritorna in Star Wars: L’ascesa di Skywalker.

La sua sopravvivenza o rinascita che dir si voglia non a caso è spiegata in maniera molto fumosa: la scelta di includerlo nella pellicola fu una soluzione dell’ultimo minuto per riparare all’inaspettata morte del villain principale nel film precedente.

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Star Wars: L’impero colpisce ancora – L’inarrestabile ascesa

Star Wars – Episodio V: L’impero colpisce ancora (1980) è il secondo capitolo di una delle saghe più popolari e redditizie della storia del cinema.

Una pellicola aveva l’arduo compito di confermare l’enorme (e inaspettato) successo del primo film, la cui storia era conclusa, ma in realtà c’era ancora moltissimo da raccontare.

Ci è riuscito?

Già l’ottimo incasso di 538 milioni di dollari, a fronte di un budget di 18 milioni ce ne può dare un’idea…

Di cosa parla Star Wars: L’impero colpisce ancora

Nonostante la distruzione della Morte Nera, dopo tre anni l’Impero ancora furoreggia e dà la caccia ai membri della Ribellione. Troviamo i nostri protagonisti in una base segreta sul pianeta ghiacciato di Hoth, braccati dalle forze imperiali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Star Wars: L’impero colpisce ancora?

Harrison Ford in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas Star Wars: L'impero colpisce ancora

Assolutamente sì.

Soprattutto se avete visto Star Wars: Una nuova speranza, il continuo della saga è assolutamente irrinunciabile: si conferma un ottimo prodotto di intrattenimento, che è riuscito perfettamente a utilizzare gli elementi del primo capitolo e ad introdurne altri in maniera perfettamente coerente.

Quindi, se vi è piaciuto il primo film, dovete assolutamente continuare. Se invece non avete mai approcciato Star Wars, cosa ci fate qui? Ho già scritto un articolo perfetto per voi!


La conferma

Peter Mayhew, Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena del film  Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Star Wars: L’impero colpisce ancora, come anticipato, è stato capace di confermare in maniera ottimale le dinamiche del primo capitolo. In particolare, l’incipit è ben pensato: rivediamo immediatamente i personaggi principali e veniamo reintrodotti nelle loro dinamiche relazionali.

Luke si dimostra ancora l’eroe della storia con la sua piccola avventura, da cui riesce parzialmente a salvarsi, per poi essere soccorso da Han, che sfida il clima avverso per andare a cercarlo, riconfermando così il loro rapporto di amicizia.

Al contempo Leila viene ancora (e per fortuna) raccontata come uno dei leader della Ribellione. Non manca anche il continuo della sottotrama amorosa e burrascosa fra lei e Han.

A differenza del primo capitolo seguiamo tre linee narrative, che alla fine si intersecano: l’avventura di Han, Leila e Chewbecca, l’addestramento di Luke e i piani di Darth Vader, che diventa molto più presente sulla scena.

Un film quindi molto più ricco e con una trama più articolata, con anche l’introduzione di nuovi elementi, divenuti immediatamente iconici.

Un cattivo stereotipato?

David Prowse in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Come detto, Darth Vader diventa un personaggio molto più centrale nella vicenda. Infatti, a differenza del primo capitolo, è l’unica persona al comando delle decisioni militari, mentre nel primo era affiancato da un villain secondario.

Sicuramente come personaggio presenta degli elementi che lo rendono abbastanza macchiettistico: la recitazione corporea, soprattutto nelle scene con Luke, è a tratti veramente stereotipata. Allo stesso modo è assolutamente e tremendamente spietato, senza che questo aspetto venga più di tanto approfondito.

Tuttavia, vediamo qualche sprazzo di maggiore interesse: vengono gettate le basi per raccontare la sua storia, poi effettivamente narrata nella trilogia prequel, e si approfondisce maggiormente la questione del Lato Oscuro della Forza. Inoltre, per la prima volta sbirciamo sotto al suo casco e scopriamo un personaggio misterioso e solitario, nonché estremamente intrigante.

Nel complesso un cattivo abbastanza tipico, ma che appare più tridimensionale rispetto al primo capitolo.

La storia di Luke

Mark Hamill e Frank Oz Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

L’addestramento di Luke è una delle parti più iconiche dell’intera saga, che si è poi tentato maldestramente di replicare nella trilogia sequel, e che è stata citata in infiniti prodotti successivi, fra cui ovviamente Kung fu Panda (2008).

Yoda appare inizialmente come un vecchietto esuberante e bizzarro, ai limiti del grottesco. Tuttavia, man mano prosegue il film, il personaggio si avvicina sempre di più alla figura del saggio maestro, guida del protagonista.

La parte dell’addestramento è gestita molto bene, soprattutto perché getta un’ombra su Luke, così impaziente di mettersi in gioco per usare la Forza, esponendosi facilmente al Lato Oscuro come suo padre prima di lui.

Io sono tuo padre

In particolare, splendida la scena, quasi onirica e davvero inquietante, in cui Luke deve affrontare i suoi demoni e vede se stesso dentro al casco distrutto di Vader: uno splendido foreshadowing della rivelazione principale della pellicola.

La rivelazione sulla parentela fra Darth Vader e Luke è sicuramente uno dei più famosi colpi di scena della storia del cinema, nonché uno dei peggio citati: Vader non dice Luke, io sono tuo padre, ma No, io sono tuo padre.

In generale una scelta decisamente indovinata per legare ancora più strettamente l’eroe ed il suo antagonista, con un’ulteriore svolta di trama nel prossimo film (che non vi spoilero). In questo modo si è evitato di ridurre Vader ad un villain anonimo e semplicemente cattivo, senza altro da raccontare.

Leila e il rapporto con Han

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Il personaggio di Leila, per quanto mi fosse piaciuto nel primo capitolo, in questo caso mi è parso che abbia fatto un passo indietro. Infatti, nonostante la recitazione di Carrie Fisher sia complessivamente migliorata, la sua storia è maggiormente legata al rapporto con Han piuttosto che alle vicende chiave della pellicola.

In generale rimane sempre un personaggio relegato alle retrovie della narrazione nei momenti principali e che appunto partecipa molto di meno alle scene d’azione rispetto al primo capitolo. Oltre a questo, il suo rapporto con Han, per quanto fosse stato ben introdotto, non viene a mio parere sviluppato al meglio.

Carrie Fisher e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Il rapporto fra i due viene raccontato all’inizio in maniera giocosa, con Han che la provoca costantemente. Tuttavia, quasi da un momento all’altro, i due si baciano. E da lì il loro rapporto diventa ben più serio e maturo, con anche la dichiarazione d’amore finale, la quale mi è parsa non adeguatamente preparata.

Nel complesso il loro rapporto non mi dispiace del tutto, ma avrei preferito per l’appunto che fosse costruito decisamente meglio. Considerando anche che il comportamento di Han muta da un momento all’altro nella pellicola, rendendolo come detto più serio e maturo nel suo rapporto con Leila, ma senza che ci sia stata una crescita effettiva del suo personaggio.

Un finale aperto

Carrie Fisher e Mark Hamill in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Una cosa che sinceramente non mi ricordavo per nulla di questa pellicola è quanto fosse aperto il finale e quante cose fossero rimandate al film successivo.

Un’ottima scelta all’interno del secondo capitolo di una trilogia, che permette di dare un senso di continuità fra le due pellicole, evitando al contempo un finale raffazzonato e troppo improvviso.

Vediamo se la prossima pellicola confermerà questo andamento positivo.

May the force be with you!

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Star Wars: Una nuova speranza – Un inizio vincente

Star Wars Episodio IV – Una nuova speranza (1977) è il primo capitolo di una delle saghe cinematografiche più di culto e redditizie della storia del cinema. Non a caso è considerato il primo blockbuster, ovvero un film pensato per il più ampio pubblico possibile.

A fronte di una produzione di medie dimensioni – appena 11 milioni (circa 55 ad oggi), che fu immediatamente un incredibile successo commerciale e di pubblico, con 775 milioni di incasso.

Questo articolo è anch’esso un blockbuster, pensato per tutti.

Se sei totalmente digiuno di Star Wars, continua a leggere. Se sai già di cosa si parla, clicca qui per passare alla parte specifica.

La struttura della saga

Star Wars è una saga cinematografica che prosegue da oltre cinquant’anni, articolata (finora) in nove capitoli, raggruppati in tre trilogie. Questo senza considerare tutti i prodotti satellite (serie tv, fumetti ecc.), che però non sono essenziali per capire la saga principale.

La trilogia originale (Episodi IV, V, VI), che è il nucleo fondamentale della vicenda, nonché la prima ad essere uscita a livello temporale (1977-83).

La successiva trilogia prequel (Episodi I, II, III) racconta gli avvenimenti precedenti alla trilogia originale e che è uscita circa vent’anni dopo (1999-2005).

La trilogia sequel (Episodi VII, VIII, IX) racconta gli avvenimenti successivi alla trilogia originale e che è l’ultima uscita a livello temporale (2015-2019).

Perché questo ordine strano?

Harrison Ford e Peter Mayhew in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

Questo ordine strano, in cui i film usciti prima (Episodio IV, V, VI) sembrano successivi a quelli che arrivarono in sala successivamente (Episodio I, II, II) è dovuto ad una precisa scelta produttiva e di marketing.

Infarti George Lucas, la mente dietro al progetto, inizialmente chiamò il film del 1977 semplicemente Star Wars. Solamente dopo, davanti all’enorme successo e al progetto di far uscire la trilogia prequel, decise di riordinare i film in questo modo.

Ma quindi, di cosa parla Star Wars?

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

Senza andare troppo nello specifico, Star Wars racconta di un mondo immaginario in una galassia lontana lontana, dove i viaggi interplanetari sono la norma e dove robot, umani ed alieni vivono insieme su vari pianeti.

Detto proprio in soldoni, la trama ruota intorno ai Cavalieri Jedi, figure che hanno sorti alterne nella saga, ma che sostanzialmente combattono con le spade laser e sono capaci di controllare la Forza.

La Forza è un campo di energia mistico che pervade tutte le cose e che permette, a chi sa controllarla, di avere poteri telecinetici e di dominio della mente, fra le altre cose.

Ma ora passiamo alla domanda fondamentale.

Ha senso guardare Star Wars?

Harrison Ford, Carrie Fisher e Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

La risposta più semplice è sì.

Nello specifico, è una serie di film che non può mancare nel vostro bagaglio culturale, tale è la sua portata storica. Inoltre, dal punto di vista intrattenitivo, almeno per la trilogia originale, si tratta di prodotti di intrattenimento assolutamente godibili anche oggi.

Tuttavia, ci sono molti motivi per cui queste pellicole potrebbero non piacervi. Anzitutto, dovete apprezzare un certo tipo di fantascienza vecchio stile, Anni Settanta-Ottanta appunto, con un’estetica che sembrava già vecchia al tempo.

Inoltre, non aspettatevi film di grande profondità, come Blade Runner (1982), ma prodotti con una trama abbastanza semplice, quasi archetipica.

Come guardare Star Wars

Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

Diffidate dai pazzi che vi dicono di guardare i film nell’ordine temporale e non di uscita: oltre al fatto che il livello della trilogia prequel è decisamente più basso di quello della trilogia originale, e quindi non è il miglior primo approccio alla saga, è una strategia assolutamente senza senso.

La trilogia prequel è infatti totalmente dipendente dalla trilogia originale, mentre non vale il contrario. Infatti, la visione della trilogia prequel presuppone la conoscenza dei film usciti precedentemente.

Con questa strategia andreste solo in confusione.

Per questo vi dico: guardate i film in ordine di uscita. Poi, se proprio ve la sentite, potete provare pure la follia di guardarli in ordine cronologico. Se invece volete giusto l’essenziale della saga, limitatevi alla trilogia originale, considerata universalmente la migliore.

Se invece volete vederla tutta, che la forza sia con voi!

Di cosa parla Star Wars – Una nuova speranza?

In una galassia lontana lontana, l’universo è oppresso dalla tirannia dell’Impero, ma un gruppo di ribelli gli si oppone. La navicella della Principessa Leila viene attaccata dalle forze imperiali. Prima di essere catturata, la nostra eroina riesce a mandare un messaggio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Star Wars è il primo blockbuster

Lasciando da parte Lo squalo (1975), che è considerabile più il primo film evento, Star Wars: Una nuova speranza è considerato il primo blockbuster perché, come detto, è stato il primo film pensato per portare in sala il più ampio pubblico possibile.

Infatti, al suo interno troviamo personaggi e situazioni per tutti i palati: un eroe, un’eroina, una spalla comica e sex-symbol, una storia d’amore e dei simpatici personaggi secondari (R2-D2 e C3P-O), funzionali ad attrarre il pubblico di giovanissimi, nonché futuri acquirenti del merchandising.

E infatti è questo l’ulteriore motivo per cui questa pellicola è considerabile il primo blockbuster: fu il primo prodotto che ebbe un’importante produzione e vendita di merchandising, quindi un’altra vita oltre la sala, più di qualunque altro film prima.

Un trio vincente

Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

Il trio di protagonisti della storia è assolutamente vincente, perché appunto riesce ad intercettare i più diversi pubblici.

Anzitutto Luke, protagonista perfetto anche solo per come si viene inizialmente presentato, raccontando, con le dovute differenze, i sentimenti e la condizione dello spettatore medio di questo genere di film al tempo.

È infatti un ragazzo giovane, pieno di sogni e speranze, che vorrebbe allontanarsi dalla sua casa natale per farsi una vita altrove.

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

In secondo luogo Leila, uno dei primi personaggi femminili interessanti per il cinema mainstream: per quanto sia comunque una donna da salvare, nonché oggetto del desiderio dei due personaggi maschili, è comunque un personaggio attivo, che utilizza un’arma e che partecipa all’azione.

Insomma, niente di scontato per il tempo. Certe volte è sicuramente troppo sopra le righe, complice anche l’evidente inesperienza dell’attrice, ma è complessivamente un buon personaggio.

Harrison Ford in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

In ultimo, Han Solo, la controparte maschile più adulta di Luke: apparentemente spaccone e egoista, si rivela infine un personaggio positivo. Ed è, insieme a Chewbecca, la spalla comica del protagonista.

Questo personaggio fu fra l’altro la rampa di lancio per Harrison Ford, che andò a ricoprire anche altri ruoli iconici per gli Anni Ottanta e Novanta, fra cui Indiana Jones e Rick Deckard in Blade Runner (1982).

I cattivi senza volto

La rappresentazione dei villain è da manuale: anzitutto gli stormtrooper, tutti uguali e senza volto, che nelle scene di combattimento sono sostanzialmente indistinguibili. Insomma, personaggi con cui difficilmente si può empatizzare, a differenza delle controparti positive, che sono generalmente riconoscibili e a volto scoperto.

Una tecnica semplice, ma assolutamente efficace.

Anche Darth Vader ha il volto mascherato, ma per motivi leggermente diversi: sicuramente per renderlo emotivamente inaccessibile come personaggio (e infatti questo elemento sarà determinante nell’ultimo capitolo della trilogia), ma soprattutto perché la sua maschera lo rende una figura aliena e minacciosa.

Più in generale, gli antagonisti presentano un atteggiamento ed un abbigliamento rigido e militare, con una predominanza di colori scuri, contro i colori chiari e rassicuranti dei personaggi positivi.

Buona comicità e buona struttura

Anthony Daniels nei panni di C-3PO in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

La comicità di Star Wars: Una nuova speranza non è mai ingombrante, ma anzi calibrata e circoscritta a pochi personaggi chiave.

Fra questi, ovviamente C3P-O, personaggio che rappresenta un maggiordomo inglese del tutto stereotipato, ma assolutamente spassoso. Soprattutto per le sue interazioni con R2-D2, che li rendono una coppia irresistibile.

Inoltre, la pellicola gode di una struttura narrativa complessivamente solida, per via anche dell’estrema semplicità della trama: quasi una favola, con una principessa da salvare, un cattivo da sconfiggere e una missione da portare a termine.

Un altro elemento vincente di Star Wars: Una nuova speranza, e di Star Wars in generale, è l’intersezione fra diversi generi: come ci ha ben insegnato in questi anni l’MCU, coprendo diversi generi cinematografici si può ottenere un prodotto che porta in sala un pubblico ampissimo.

Così in questa pellicola troviamo non solo la fantascienza, ma anche l’avventura, l’azione e la trama romantica.

La bellezza di questo film è inoltre quella di lasciare tutto aperto e chiuso allo stesso tempo: nel complesso la vicenda arriva ad una conclusione, ma lascia volutamente molte porte aperte per uno sviluppo ulteriore.

Come, per fortuna, accadde.

May the force be with you!

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Level 16: poca spesa, tanta resa?

Level 16 (2018) è una piccola produzione canadese di stampo thriller-fantascientifico. Un film pochissimo conosciuto, che ha avuto una distribuzione molto limitata e che, secondo i dati ufficiale, ha raccolto non più di 15.000 dollari. Ma visto che probabilmente il budget del film era di due noccioline è possibile che pure si siano messi in tasca qualcosa.

Di cosa parla Level 16

Un gruppo di ragazze è costretto a vivere fin dalla primissima infanzia in una struttura di stampo militare, senza finestre, senza aver mai visto la luce del sole, e con una routine rigidissima. L’obbiettivo di tutte è di essere sempre pulite, seguendo regole strettissime, su come essere umili e poco curiose, con la promessa che, una volta raggiunti i 16 anni di età, saranno adottate.

La protagonista, Vivien, rimasta traumatizzata per essere stata brutalmente punita quando aveva appena otto anni, verrà portata a scoprire la verità dietro alla struttura dalla sua compagna, Sophia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché vale la pena di vedere Level 16

Ovviamente, bisogna partire con la consapevolezza che, appunto, si tratta di una produzione veramente piccola. Quindi ovviamente non troverete attori conosciuti né effetti speciali da urlo, ma in generale bisogna riconoscere al film di aver tratto il meglio dalle risorse che aveva, limitando molto le scenografie e gli ambienti.

Il cast di giovanissime attrici è piuttosto convincente, e in generale gli attori sono tutti piuttosto in parte. La trama riesce ad essere piuttosto intrigante fino all’ultimo atto, rivelando poco a poco i segreti che si nascondono dietro a questa misteriosa organizzazione. In generale il film intrattiene ed è a suo modo intrigante, e la rivelazione è abbastanza convincente.

Cosa non funziona

Purtroppo i limiti del film non sono dati solamente dal budget: lo svolgimento della trama non è sempre lineare, anzi tende a incartarsi un po’ su se stessa, nel continuo tentativo di non rivelare troppo subito, così da tenerti col fiato sospeso fino alla fine.

Oltre a questo, la rivelazione finale, per quanto convincente, non è sviluppata a dovere: per questo credo che bisogna incolpare le risorse limitate, perché esplicare fino in fondo la dinamica dell’organizzazione del film sarebbe stato piuttosto complesso. Tuttavia per molte cose sarebbe bastato aggiungere anche solo qualche linea di sceneggiatura per riuscire a completare la rivelazione.

Inoltre il finale risulta in parte confuso e poco chiaro nel suo scioglimento.

Level 16 fa per me?

Celina Martin in una scena del film Level 16 2019

Penso che abbiate capito di che tipo di film stiamo parlando: io personalmente sono parecchio intrigata da quelle pellicole che hanno come tema principale persone cresciute in luoghi di semi-prigionia e col lavaggio del cervello, il cui esempio più riuscito è sicuramente Dogtooth (2009). In questo caso si parla di un film senza troppe pretese, che riesce a fare il suo lavoro ed intrattenere con una trama abbastanza semplice.

Per un pomeriggio da riempire è perfetto.

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2021 Fantascienza Film Film Netflix Humor Nero Oscar 2022 Satira Sociale

Don’t Look Up o il film che ci guarda dentro

Candidature Oscar 2022 per Don’t look up (2021)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore sceneggiatura originale
Migliore colonna sonora
Miglior montaggio

Don’t look up (2021) è quel film per cui non potrò mai essere veramente oggettiva. L’ho semplicemente adorato. Avevo cominciato a vederlo alla vigilia di Natale, appena era uscito su Netflix, e ho dovuto purtroppo interrompermi dopo la metà del film. Ma ero così contenta di questa pellicola che il giorno dopo invece che andare avanti, l’ho ricominciato da capo. Mi sembrava così sbagliato vederlo in due parti.

Mi immagino Adam McKay sedersi davanti ad un foglio bianco e dire ‘Bene, vediamo come far incazzare gli statunitensi‘. Don’t look up è un film che vive per essere divisivo: come The Suicide Squad (2021) colpisce dove fa male, parlando di tutti, ma soprattutto degli statunitensi. McKay se la prende la politica, i media, i social network, denunciando la falsità e la cultura dell’immagine che domina la nostra società occidentale. Un film così profondamente verosimile e attuale da sembrare quasi banale (critica che ho sentito molto spesso, fra l’altro).

Di cosa parla Don’t Look up

In futuro non troppo lontano, la dottoranda Kate, interpretata da una splendida Jennifer Lawrance finalmente tornata sulle scene, scopre che un meteorite colpirà la terra da qui a poco tempo, portando alla distruzione totale del nostro pianeta. Lei e il Dr. Randall, interpretato da Leonardo Di Caprio, cercheranno di far comprendere l’importanza del pericolo imminente. Il resto, anche solo ripensando a questi ultimi due anni, lo potete immaginare.

Ma vi lascio il trailer.

Perché Don’t look up è un film drammaticamente attuale

Partiamo dal presupposto che Adam McKay non ha pensato questo film facendo riferimento all’attuale pandemia. La pellicola è infatti stata concepita nel 2019 e il tema reale è un altro problema altrettanto importante e contemporaneo, ovvero la crisi climatica. Ma la sua genialità sta proprio nel fatto che la storia raccontata potrebbe applicarsi a molte e diverse situazioni attuali o future: un doloroso ma dovuto specchio della nostra società contemporanea.

Come detto, Adam McKay non risparmia nessuno: si accanisce particolarmente sulla politica americana, falsa e calcolatrice, ma porta sulla scena dinamiche che potrebbero essere applicate senza tante differenze anche alla politica nostrana. Se la prende con i media, tradizionali e non, sottolineando come molto spesso ci lasciamo più facilmente coinvolgere dalle questioni di importanza discutibile invece che quelle che riguardano la nostra stessa sopravvivenza.

Una satira rivolta a tutti noi, interessati più al calcolo personale che al bene collettivo.

Perché Don’t look up parla di noi

Jennifer Lawrence e Timothée Chalamet in una scena del film Don't Look up (2021) up di Adam Mckay

Come detto, il regista si accanisce particolarmente contro la realtà statunitense, ma sottolinea con grande maestria l’universalità del suo messaggio. In molti momenti clou della vicenda, il suo occhio si allarga, includendo brevi istanti di realtà realistica, di persone reali in situazioni reali in cui possiamo riconoscerci. In qualche modo, mette in scena proprio lo spettatore stesso.

Non manca anche uno sguardo al mondo animale, con brevi frame che ci raccontano una natura tranquilla e ignara, che nonostante i problemi umani continua a prosperare. Purtroppo in questo caso MacKay non sfrutta fino in fondo le possibili analogie fra il mondo animale e il mondo umano, come aveva fatto in Vice (2018), ma sceglie un montaggio diverso. So che questa scelta registica è stata molto criticata perché in certi punti sembra troncare alcune scene, ma io personalmente l’ho trovata un interessante esperimento, che allarga lo sguardo ma al contempo dà un ritmo frenetico e incalzante a certe sequenze.

Una regia sperimentale

Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence in una scena del film  Don't Look up (2021) up di Adam Mckay

In generale, tecnicamente è un film per me ineccepibile: oltre al montaggio indovinato, la regia è davvero sorprendente. È una regia fatta di particolari, che accompagna l’occhio dello spettatore nei dettagli della scena che svelano determinati sottostesti. Soprattutto nella prima scena della Stanza Ovale, c’è un insistere su un gesto di Jason, il figlio della Presidentessa, che continua a passarsi le dita sul naso, indicando evidentemente che ha appena fatto uso di sostanze. Ma è solo uno dei vari dettagli che si possono trovare in quella scena, soprattutto con una seconda visione.

Sulle interpretazioni degli attori, non penso che ci sia molto da dire che non possiate già immaginare: tutte le prove attoriali sono brillanti ed esplosive. Particolare nota di merito a Meryl Streep che ancora riesce a sorprenderci con la sua capacità di portare sulla scena personaggi nuovi e mai banali. Vi basti solo sapere che la telefonata che fa nella Stanza Ovale è stata girata diverse volte e ogni volta la Streep improvvisava una telefonata diversa, inventata sul momento.

Vi lascio qui il video.

Perché guardare Don’t look up e perché no

Meryl Streep in una scena del film   Don't Look up (2021) up di Adam Mckay

Parto col dire che per apprezzare Don’t look up non bisogna per forza essere dei grandi fan di MacKay. Io, ad esempio, non ho apprezzato fino in fondo La grande scommessa (2015): per quanto McKay provasse a rendermi semplice la questione della crisi finanziaria, io sono riuscita solo a perdermi e ad annoiarmi. Mi spiace perché era un film con grandi potenzialità. Vice (2018) l’avevo generalmente apprezzato, nonostante certe scelte registiche e di messa in scena non mi avessero convinto fino in fondo (come la famosa scena di dialogo nella stanza da letto). In questo caso per me McKay ha fatto centro.

Se siete statunitensi o amanti ciechi degli Stati Uniti, probabilmente vi farà arrabbiare. Se non volete fare un’autocritica e non vi interessa un film che parla della realtà contemporanea, vi annoierete, lo troverete addirittura banale. Vi deve piacere di fatto un tipo di satira abbastanza pesantuccia, che si avvicina, per quanto mi riguarda, a South Park per molte cose. Ecco, se vi piace South Park probabilmente vi piacerà Don’t look up.

Se volete un film più leggero e adatto a tutti, ne ho uno per voi.

Previsioni Oscar 2022

Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence in una scena del film Don't Look up (2021) up di Adam Mckay

Per quanto mi riguarda, io credo che Don’t look up non vincerà, per gli stessi motivi per cui non ha vinto Vice nel 2018: è un film troppo politico e critico, che probabilmente farà solo arrabbiare l’Academy. Felicissima di essere smentita.

Sono abbastanza sicura che per i motivi sopra appunto non vincerà Miglior film né Migliore sceneggiatura, ma mi sembrerebbe solo giusto assegnargli Il Miglior Montaggio. Questo film è una delle due carte vincenti che Netflix sta portando agli Oscar, ma è più probabile che vinca (e giustamente) parecchi premi con Il potere del cane (2021).

Staremo a vedere.