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Il sacrificio del cervo sacro – Un pretenzioso rituale

Il sacrificio del cervo sacro (2017) è la seconda collaborazione di Yorgos Lanthimos con Colin Farrell, nonché il suo secondo film hollywoodiano dopo The Lobster (2015).

A fronte di un budget di 3 milioni di dollari, è stato nel complesso un buon successo commerciale, con 10 milioni di incasso.

Di cosa parla Il sacrificio del cervo sacro?

Steven Murphy è uno stimato cardiologo con una famiglia apparentemente felice. Ma nasconde un importante segreto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il sacrificio del cervo sacro?

Nicole Kidman e Colin Farell in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Dipende.

Purtroppo ho veramente poco apprezzato questa pellicola: mi è sembrata così piena di idee interessanti, ma al contempo davvero così poco efficace nel realizzarle, non riuscendo sostanzialmente mai a raccontare in maniera credibile i personaggi e le loro dinamiche.

Una situazione che ho trovato a tratti esasperante, nello specifico nei momenti in cui sembrava che Lanthimos volesse stupire lo spettatore, più che riuscire a creare delle scene che riuscissero a suscitare dei sentimenti sinceri e naturali nello stesso.

Peccato.

Tensione

Colin Farell in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Le dinamiche del primo atto sono quelle che ho trovato più pretenziose.

Per lunghi tratti Lanthimos cerca di costruire un certo tipo di tensione ed inquietudine, con alcuni trucchi registici purtroppo necessari: dalla musica lugubre e tesa, fino ai personaggi che parlano senza che si senta la loro voce, tutto serve a creare un’inquietudine di fondo che altrimenti da sola la messinscena non riuscirebbe a sostenere.

E in effetti molti elementi che avrebbero potuto nutrire meglio la scena e renderla più viva e credibile sono del tutto mancanti: mancando l’antefatto, mancando la costruzione del rapporto e la sua esasperazione, lo spettatore viene catapultato nell’atto finale di un rapporto ormai sviluppato.

E per questo il colpo di scena è poco funzionale.

Disturbo

Nicole Kidman in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Più che un effettivo plot twist, è come se Martin dovesse raccontare in che direzione deve andare la trama.

Ed è veramente un peccato.

L’idea centrale della trama poteva essere davvero interessante, e in generale l’atto centrale è quello che funziona meglio e senza troppe sbavature, grazie proprio all’unico personaggio che effettivamente riesce a rendersi sufficientemente tridimensionale.

Infatti il protagonista è l’unico che sembra avere delle reazioni credibili, al contrario degli altri personaggi – compreso il personaggio di Barry Keogan – che sembrano davvero delle banderuole che si piegano ogni volta alle necessità della trama.

Dio

Barry Keogan in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Martin è un dio?

A differenza del resto della produzione di Lanthimos, in questo caso è presente un elemento fantastico che dovrebbe reggere l’intera trama, e che evidentemente Lanthimos non voleva spiegare, e che proprio per questo risulta così poco funzionante nell’economia narrativa.

Barry Keogan in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Di fatto non sarebbe stato effettivamente necessario raccontare come fosse possibile che Martin potesse piegare gli eventi a suo favore, ma sarebbe bastato costruire un minimo il perché fosse capace di tali atti – mentre così ne risulta una voragine narrativa che azzoppa la storia.

Oltretutto la presenza di questo personaggio è terribilmente scostante, e anche in questo senso si sarebbe potuto fare molto di più per mostrare un personaggio che osserva dall’esterno gli avvenimenti, e che ricorda costantemente al protagonista la minaccia che sta vivendo.

Estetica

Raffey Cassidy in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

I personaggi tuttavia peggio caratterizzati sono i figli.

In questo senso nel terzo atto il film vive di un taglio grottesco molto fine a sé stesso, in cui i personaggi si muovono a carponi per finalità puramente estetiche, con una dinamica che si inserisce proprio all’interno dei loro comportamenti funzionali solo alla trama e alla volontà di stupire lo spettatore.

Così queste figure sono a tratti disperate, arrivando a pregare il padre di non ucciderli, ora sembrano invece immersi in un sogno, in particolare Kim, che ora sembra succube di Martin, ora sembra sicura di non essere uccisa, ma che infine arriva nuovamente a pregare il padre di risparmiarla.

Così questi personaggi occupano fin troppo la scena e tolgono invece respiro all’evoluzione del dilemma morale di Steven, che si riduce infine ad una sorta di roulette russa per evitare che la sua famiglia venga sterminata, con una chiusura che non racconta di fatto nulla sulle conseguenze della sua scelta…

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Alice nel Paese delle Meraviglie – Una morale impossibile

Alice nel Paese delle Meraviglie (1951) è il tredicesimo Classico Disney, tratto dal romanzo di Lewis Carroll Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) – e in parte dal sequel del 1871 dello stesso autore.

Purtroppo, a fronte di un budget di 2 milioni di dollari, incassò appena 2.4 milioni nella sua prima distribuzione, portando ad una perdita consistente per l’azienda.

Di cosa parla Alice nel Paese delle Meraviglie?

Walt Disney riprese le avventure del classico di Carroll non apportando particolari cambiamenti, ma semplicemente cercando di piegare la narrazione ad una morale più adatta al suo tempo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alice nel Paese delle Meraviglie?

Assolutamente sì.

Nonostante contenga dei frangenti genuinamente angoscianti – ma niente di nuovo per la Disney di questo periodo – Alice nel Paese delle Meraviglie è una visione davvero piacevole, che porta in scena con una buona fedeltà l’opera di Carroll.

L’unico grande difetto è il tentativo di piegare la storia in direzioni del tutto innaturali per la stessa: nello specifico, la volontà di dargli una morale – il romanzo di 1862 è volutamente amorale – rendendo spesso Alice meno incisiva nei suoi comportamenti.

Ma, nel complesso, è una visione davvero da non perdere.

Alice nel paese delle meraviglie Produzione

Alice nel paese delle meraviglie era il sogno d’infanzia di Walt Disney.

Come altri bambini della sua generazione, il libro di Carroll era parte della sua formazione scolastica, che lo portò nel 1923, quando era ancora un regista ventunenne, a produrre un cortometraggio liberamente ispirato alla storia, col titolo Il Paese delle Meraviglie di Alice.

Nel 1932 cominciò a pensare di creare un lungometraggio misto live action e animazione, ma due eventi gli fecero cambiare idea.

Ovvero, le nuove prospettive aperte con il successo di Biancaneve e i sette nani (1937) e, soprattutto, la Paramount che lo anticipò sui tempi, creando il terzo lungometraggio live action basato sull’opera di 1865.

Walt Disney infatti si approcciava ad un mercato in cui erano già usciti tre cortometraggi dedicati (dal 1903 al 1915), e tre lungometraggi in live action, di cui quello del 1937 era già il secondo con dialoghi.

I lavori iniziarono effettivamente nel 1938, quando venne registrato il marchio e venne creato la prima proposta, che venne però bocciata da Disney perché troppo basata sulle illustrazioni originali del libro – troppo difficili da animare – e con una storia troppo cupa per essere vendibile.

La produzione ricominciò però solamente dopo la guerra, nel 1945: la nuova versione aveva un taglio artistico ben più moderno, definito da colori più accesi e stravaganti, e la sceneggiatura venne riscritta mettendo più in evidenza il lato surreale dell’opera di Carroll piuttosto che le parti più dark.

Solo nel 1946, però, decise definitivamente di fare un prodotto solo animato.

Alice nel paese delle meraviglie scene tagliate

Nonostante nel complesso si cercò di stare molto vicini al romanzo, inserendo anche delle battute in maniera diretta, furono diversi i tagli.

In particolare, venne tagliata l’importante scena (che copre un intero capitolo nel libro) della Duchessa Brutta, mentre l’incontro con l’inquietante Ciciarampa venne sostituito con l’iconico racconto de Il tricheco e il carpentiere.

Per contro, venne scritto un numero piuttosto nutrito di canzoni per il film, e molte ebbero spazio nella pellicola, anche se per pochi secondi.

Creare

L’incipit di Alice nel paese delle meraviglie è significativo per più motivi.

Anzitutto, funge da prologo piuttosto eloquente della storia, grazie alle parole di Alice che ci guidano per il mondo senza senso che sta per creare – e per vivere – e che comincia ad esistere quando la bambina tocca lo specchio d’acqua – specifico riferimento al sequel del 1871, in cui Alice attraversa lo specchio.

D’altra parte, definisce questa Alice cinematografica in una maniera simile ma al contempo diversa rispetto alla sua controparte cartacea.

Infatti, anche se entrambe entrano in un sogno, lo fanno l’una – quella animata – per un effettivo desiderio di evasione dal noioso presente – l’altra – quella originale – più che altro spinta dalla curiosità.

Elemento che sarà determinante nel finale.

Succube

Alice più che esplorare questo mondo meraviglioso, ne sembra in molti tratti succube.

Infatti, dall’impossibile girotondo con gli uccelli sulla spiaggia alle brutte maniera del bruco, fino all’esplicito bullismo dei fiori, tanto belli quanto elitari, la protagonista vive un sogno ostile e su cui non sempre riesce a rivalersi.

Una situazione non in realtà particolarmente dissimile dal romanzo di partenza, almeno per quanto riguarda i modi piuttosto scostanti ed imprevedibili con cui i vari personaggi si rapportavano con Alice…

…ma con la grande differenza che la protagonista di Carroll era molto più in controllo della situazione.

Invece il senso di smarrimento della Alice disneyana è definito da due elementi.

Anzitutto, il suo disperato tentativo di mettersi sulle tracce del Bianconiglio, non per una vera motivazione, ma più che altro per quello che il personaggio rappresenta: una figura che apparentemente riesce a passare dal sogno alla realtà a cui, alla fine, Alice vuole tornare.

E proprio qui sta la differenza fondamentale.

Amorale

Alice nel paese delle meraviglie di Carroll è un racconto programmaticamente amorale.

La grande differenza fra l’opera del 1865 e altri romanzi per l’infanzia era proprio come la protagonista non vivesse la sua avventura per ricevere un insegnamento, ma piuttosto per educarsi da sola davanti alle varie insidie di questo mondo meraviglioso.

Proprio per questo, particolarmente d’impatto era la conclusione dell’avventura, in cui Alice chiosava siete solo un mazzo di carte, e in quel momento riprendeva il totale controllo sul sogno – e si risvegliava – dopo un’avventura di cui lei stessa aveva definito i modi e i tempi.

Al contrario, la Alice di Walt Disney viene dipinta come una ragazzina fin troppo curiosa e scostante, che si incastra in una vicenda da cui non riesce a scappare, arrivando prima ad essere francamente stufa di tutto questo nonsense, per poi rattristarsi, convinta di non essere capace di seguire neanche i suoi stessi consigli.

Così la chiusura del film, per quanto erediti la suddetta battuta del libro, si risolve invece con Alice ancora una volta tormentata dal suo sogno, che fugge disperatamente verso la sua via d’uscita – il risveglio – con una conclusione che in realtà non risolve nulla, anzi lascia un certo senso di angoscia…

Scelta che, fra l’altro, potrebbe aver influito sull’insuccesso del film.

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Cenerentola – Il sogno passivo

Cenerentola (1950) è il dodicesimo Classico Disney e uno dei più amati e celebrati della produzione della Casa di Topolino.

Infatti, a fronte di un budget di 2.2 milioni di dollari, incassò 4.2 milioni di dollari solo in America, diventando il più grande incasso di Walt Disney da Biancaneve e i sette nani (1937).

Di cosa parla Cenerentola?

Disney riprese il classico popolare Cinderella e lo ripropose in una veste più a misura di bambino, mettendo al centro una protagonista piena di sogni (e che li realizza tutti).

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Cenerentola?

Assolutamente sì.

Non è un caso che Cenerentola fu un successo quasi al pari di Biancaneve: le due storie si somigliano moltissimo, anche se personalmente preferisco il Classico del 1950, che crea un climax narrativo più efficace e intrattenente.

Allo stesso modo, anche questa pellicola non manca di ampi inserti di siparietti comici con protagonisti gli animali, ma in maniera ancora più incisiva rispetto al Classico fondativo, ed evolvendo ulteriormente e in maniera decisiva la figura dell’aiutante.

Insomma, da riscoprire.

Cenerentola Produzione

Cenerentola segnò il grande ritorno della Disney.

Dopo i difficoltosi anni della guerra che avevano messo a dura prova l’idea di produrre lungometraggi e avevano minato le entrate aziendali, le buone rendite degli ultimi cortometraggi invogliarono Walt Disney a tornare su produzioni come Biancaneve.

La storia classica e anche piuttosto orrorifica di Cenerentola fu integrata con sequenze comiche e di effetto, oltre a diversi cambiamenti di trama.

Come ogni produzione Disney del periodo, la ricerca della credibilità scenica fu al centro della creazione dell’opera.

La direzione artistica fu affidata a Mary Blair, che aveva già lavorato a diversi cortometraggi e la cui scelta ricadde in una precisa connessione fra le ambientazioni e i personaggi, a differenza di precedenti classici come Dumbo (1940) e Bambi (1942).

Vennero inoltre utilizzati diversi effetti speciali per diverse scene, da quella in cui Cenerentola si vede riflessa nelle bolle di sapone, all’apparizione della Fata Madrina, che doveva apparire luccicante – gli stessi vennero utilizzati anche per Trilli in Le avventure di Peter Pan (1953).

Ci furono diversi cambiamenti e tagli durante la produzione.

Anzitutto, inizialmente il principe aveva un ruolo e uno spazio ben più importante: veniva mostrato sia all’inizio a caccia, sia alla fine quando rincontrava Cenerentola nelle sue vere sembianze.

La sequenza del vestito vedeva originariamente protagonista Cenerentola, che si immaginava di moltiplicarsi in un esercito di cameriere per venire a capo del suo enorme carico di lavoro.

Altra scena tagliata mostrava Cenerentola che origliava la sua famiglia mentre parlava della misteriosa ragazza del ballo, mostrandosi piuttosto divertita: Walt Disney scelse di eliminare la scena perché la faceva sembrare troppo dispettosa.

Miglioramento

L’incipit di Cenerentola è assai simile a quello di Biancaneve.

Tuttavia, a più di dieci anni di distanza dal primo Classico, l’antefatto si mostra ben più strutturato – e anche particolarmente adulto: il sogno di un’infanzia idilliaca viene distrutto dall’intrusione della matrigna e dalle sue terribili figlie…

…che, dopo la scomparsa improvvisa – e forse voluta? – del padre della protagonista, ne sperperano il denaro e bullizzano sistematicamente Cenerentola, rendendola serva nella sua stessa casa, fino ad arrivare al presente piuttosto desolante della storia.

Ma non basta ad abbattere la protagonista.

Bontà

Cenerentola è un esempio positivo.

Nonostante viva una vita da incubo, la protagonista non si è mai lasciata scoraggiare e non ha mai smesso di sperare nella realizzazione dei suoi sogni, ancora intatti nella sua mente e che, come dice lei stessa, nessuno le potrà mai sottrarre.

Tuttavia, il suo grande limite è l’essere spesso drammaticamente passiva.

Il suo sogno Cenerentola lo avvera più per interventi esterni che per la sua agency, proprio per la natura stessa del personaggio e di quello che rappresenta: la sua naturale piacevolezza merita di essere premiata e per questo attrae la bontà anche degli altri.

Infatti, nonostante sia animata da tanta buona volontà che la porta a continuare a sognare e a non perdere le speranze, al contempo è poco attiva nel concretizzare i suoi sogni: la sua partecipazione al ballo è merito prima dei topini e poi della Fata Madrina, deus ex machina per eccellenza…

…e il suo conquistare il principe non sembra altro che una naturale conseguenza, il destino che si avvera, e persino la sua vittoria – riuscire a mostrare di essere quella ragazza – è merito più del regalo della sua protettrice che le ha lasciato la scarpetta.

E senza i topolini probabilmente sarebbe rimasta rinchiusa dentro alla sua stanza…

Attesa

I villain entrano effettivamente in scena molto tardi.

Buona parte del primo atto del film è dedicata al conflitto fra Lucifero e i topolini, ritardando invece l’apparizione di quelli che dovrebbero essere i veri antagonisti della storia: le sorellastre e la matrigna, la cui malvagità è costruita molto gradualmente.

Infatti il vero spunto per il primo effettivo maltrattamento di Cenerentola è il presunto scherzo che la protagonista avrebbe fatto alle due sorelle, per cui Lady Tremaine, in agguato nell’ombra, la punisce aspramente, caricandola ulteriormente di lavoro.

E, come Cenerentola è più passiva che attiva, la matrigna è un villain indiretto.

Solamente nell’ultimo atto agisce direttamente per mettere i bastoni fra le ruote alla protagonista, mentre per il resto della pellicola resta più che altro nell’ombra, tirando le fila per danneggiare in maniera più sottile e spietata la sua figlioccia.

Non a caso, non le nega la possibilità di andare al ballo, ma la carica di lavoro per renderglielo impossibile, così come non le distrugge l’abito, ma piuttosto istiga le sue vendicative figlie a farlo a pezzi, rimanendo in entrambi i casi ai margini della scena.

Intrusione

In maniera non tanto diversa da Bambi (1942), anche Cenerentola è ricco di intrusioni di personaggi secondari.

E la grande differenza con Biancaneve, la protagonista esce di scena per lunghi tratti, lasciando un sorprendente spazio di autonomia ai personaggi animali, nello specifico nella scena del confezionamento dell’abito, dove i veri protagonisti sono Lucifero, Gus Gus e Giac.

E il e proprio la loro rappresentazione piuttosto è variegata

Se da una parte infatti i topolini sono decisamente più umanizzati, parlando – pur in maniera stentata – e indossando abiti umani, ricordandosi solo per pochi tratti di essere dei roditori – quando scappano nei buchi della parete o quando usano la loro coda come filo per le perle…

…Lucifero non è nient’altro che un gatto che si comporta da gatto, che non ha altro interesse se non essere dispettoso, catturare i topolini e mettersi in mezzo nei piani degli eroi della storia, ma senza nessuna particolare malizia nelle sue intenzioni.

Eppure, è molto più attivo di Cenerentola…

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L’uovo dell’angelo – Libertà di distruzione

L’uovo dell’angelo (1985) di Mamoru Oshii, anche conosciuto come Tenshi no tamago, è un lungometraggio anime dai toni misteriosi e dai contenuti fortemente simbolici.

La pellicola fu un direct-to-video e un tale insuccesso commerciale che per tre anni il regista non riuscì a trovare altri lavori.

Di cosa parla L’uovo dell’angelo?

Una bambina senza nome si aggira per una città desolata e distrutta con un solo obbiettivo: proteggere l’uovo che ha trovato.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’uovo dell’angelo?

La bambina in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Assolutamente sì.

L’opera di Mamoru Oshii è un racconto splendidamente simbolico, ma che lascia un ampio spazio, sia fisico che metaforico, allo spettatore per lasciarsi leggere ed interpretare, e, al contempo, rappresenta  il turbamento interiore del regista stesso.

Una regia impeccabile, che ora vagheggia in questi panorami desolati dal forte sapore gotico, ora indugia per lunghi momenti sui personaggi immobili immersi nei loro pensieri e nelle loro domande a cui, da soli, non potranno mai trovare una risposta.

Insomma, da non perdere.

Occhio

L’incipit de L’uovo dell’angelo è l’inizio della missione senza speranza.

Un occhio minaccioso e vigile indaga il comportamento del cavaliere, di questo soldato che porta addosso simboli evidentemente cristiani, ma in cui ha evidentemente smesso di credere, ormai disilluso delle promesse del suo Dio.

Il crociato in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Un personaggio che sembrerebbe l’ultimo flebile legame con la promessa disattesa di Noè e dell’Arca, rimasta in eterno bloccata in un limbo senza via d’uscita, rendendo gli uomini dimentichi non solo della loro missione, ma del loro stesso senso di reale…

…impegnati ad inseguire delle ombre di un passato inesistente.

E poi c’è la bambina.

Luce

La bambina in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

L’infanzia è spesso al centro della mitologia cristiana per rappresentare il candore e la verginità.

Ma aprendo il personaggio ad un senso più ampio, la stessa può essere considerato l’ultimo baluardo ad un’umanità ancora effettivamente viva e genuinamente curiosa ora di esplorare la realtà circostante, la creazione divina, ora di credere nei suoi simboli e nelle sue promesse.

La bambina in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Non è un caso che il suo personaggio sia spesso associato al simbolo dell’acqua, che in L’uovo dell’angelo ha una doppia valenza: se da una parte rappresenta semplicemente la vita, la rinascita, financo la liberazione del peccato di quell’umanità ormai perduta…

…al contempo ne simboleggia anche il vuoto, l’oblio, l’isolamento e infine la morte, viaggiando strettamente con questo doppio significato che esplode nel finale, in cui la morte della bambina rappresenta una distruzione, ma anche una rinascita potenziale.

Illusione

La bambina e il crociato in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Questa stringente simbologia è negata dal crociato.

Come il suo personaggio sembra l’unico a non essersi veramente dimenticato della promessa che avrebbe dovuto portare ad una rinascita dell’umano, lo stesso è sul precipizio di perdersi esattamente come tutti gli altri, derubricando la storia a pura leggenda, a pura illusione.

L’apice si raggiunge quando il soldato ipotizza persino di vivere all’interno di un’illusione, di un sogno da cui non riesce a liberarsi, nonostante la bambina cerchi costantemente di accompagnarlo a riscoprire i simboli che le hanno permesso di continuare a credere.

Ma proprio in quei simboli si perdono.

La bambina e il crociato in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

I protagonisti si domandano costantemente e vicendevolmente la loro identità, ma non sanno mai rispondere.

Infatti loro stessi, ad un livello più o meno metanarrativo, sono dei simboli che non hanno un’identità propria, ma che rappresentano il cammino dell’umano in due direzioni totalmente opposte: speranza e disillusione.

Quindi, ad un livello strettamente cristiano, la bambina è speranzosa del ritorno di Dio, della rinascita del Salvatore – l’uccello – che porterà alla rinascita dell’umanità, alla scoperta della terra da abitare, mentre il soldato rappresenta la crisi religiosa e l’allontanamento da Dio.

Ciclo

La bambina in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Il crociato non riesce più a credere.

Per questo infine sceglie di distruggere l’Uovo, quella prova materiale che quel Dio che pensa che l’abbia abbandonato è ancora presente, quella nuova promessa di cui non vuole illudersi, e lo fa proprio con gli stessi simboli cristiani – il fucile a forma di croce – creando un evidente paradosso.

Lo stesso si definisce ancora più strettamente proprio nella suddetta dinamica del finale, che racconta una sorta di ciclo inscalfibile di vita e morte, disillusione e speranza, che non potrà mai veramente essere scardinato, neanche dall’azione più violenza, più distruttiva e più disperata.

Così, anche dalla morte di un uomo sulla croce, l’umanità potrà sempre rinascere.

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Scott Pilgrim vs The World – La trasposizione perfetta

Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright è la trasposizione dell’omonimo fumetto di Bryan Lee O’Malley (2004 – 2010).

Nonostante negli anni sia diventato un piccolo cult, al tempo fu un flop commerciale: con un budget di 85 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Se non sapete niente di Scott Pilgrim vs The World continuate a leggere.

Se siete invece i massimi esperti sul tema, cliccate qui.

Guida alla visione Scott Pilgrim vs The World

Piccola guida alla visione se non vi siete mai approcciati al mondo di Scott Pilgrim vs The World.

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

La trasposizione cinematografica non poteva essere messa in mani migliori.

Edward Wright al tempo era fresco dei primi due film della Trilogia del cornetto, in cui dimostrò di essere capace di portare in scena una regia dinamica ed originale, che calzava a pennello per il fumetto di O’Malley.

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

E la trasposizione era tanto più difficile non solo per la lunghezza del fumetto, ma soprattutto per la natura piuttosto anomala dello stesso.

E invece il risultato fu semplicemente grandioso, con un utilizzo degli effetti speciali e una messinscena sempre vincente e che non è invecchiata di un minuto, nonostante siano colmo di scene piuttosto stravaganti e chiassose.

A cura di @lav3nd3r_boy

Scott Pilgrim è uno dei più famosi esempi di opere a metà strada tra l’immaginario occidentale ed orientale.

L’autore, Brian Lee O’ Malley, fa parte di quella generazione cresciuta sia con Batman che Dragon Ball – e questo si rispecchia nel suo modo di raccontare: non sto parlando solo della scelta di qualche inquadratura o l’aspetto super deformed dei personaggi…

…ma della capacità di mischiare scene di vita quotidiana a combattimenti sopra le righe, caratteristica tipica di diversi manga di successo anche piuttosto recenti, come ad esempio lo splatter-pulp Chainsaw Man (2022).

Passano gli anni, ma il viaggio di Scott e Ramona resta comunque un’opera che non invecchia facilmente.

E questo grazie alla sua capacità di fotografare in maniera del tutto personale quel momento di passaggio tra la fine dell’università e l’inizio della vita lavorativa, tramite la narrazione di tanti piccoli aneddoti in cui ognuno si può riconoscere.

La serie tv Scott Pilgrim Takes Off non è assolutamente quello che sembra.

La produzione Netflix è stata pubblicizzata come una riproposizione in chiave animata del fumetto, quando in realtà è uno spin-off che presenta un forte legame col film del 2010 – il cast vocale è identico – e che si basa su una sorta di what if…

Ne risulta così una serie che offre molto più spazio al personaggio di Ramona, un po’ sacrificato nel basso minutaggio della trasposizione cinematografica, e che ci regala un nuovo spunto di riflessione sulla relazione con Scott.

Insomma, da vedere, ma per ultima.

Doppio

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Michael Cera è semplicemente perfetto per la parte.

Eppure l’attore non fece altro che riportare in scena il ruolo che lo rese famoso pochi anni prima – Bleeker in Juno (2007) – riuscendo però ad essere comunque incredibilmente convincente per uno Scott cinematografico che rischiava moltissimo di essere banalizzato.

Michael Cera, Mary Elizabeth Winstead e Ellen Wong in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

E invece Wright riuscì a condensare in appena novanta minuti di pellicola il dramma di un personaggio fumettistico lungo sei albi, grazie anche ad una regia particolarmente indovinata che contribuisce al senso di spaesamento del protagonista.

E infatti il taglio registico è il vero punto di forza del film.

Frenetico

Michael Cera, Mary Elizabeth Winstead e Ellen Wong in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Scott Pilgrim vs The World non è semplicemente un fumetto.

Oltre alle contaminazioni videoludiche – parte essenziale del tessuto narrativo – che si trovano per esempio nei piccoli tag che accompagnano ogni personaggio, la graphic novel è caratterizzata da un ritmo forsennato, in cui si passa violentemente e improvvisamente da una vignetta ad un’altra.

E dopo aver già dimostrato in due occasioni – sia in Shaun of the dead (2004) sia in Hot Fuzz (2007) – quanto fosse un maestro di una regia incalzante ma sempre chiarissima nella messinscena, Edward Wright era la scelta più naturale per questa insidiosa trasposizione.

In particolare, in questo caso l’autore della Trilogia del cornetto sperimenta con dei trucchi registici per dare una sorta di continuità fittizia alla narrazione, con un proto-piano-sequenza in cui i personaggi attraversano la scena e sbucano nella successiva.

E non è neanche l’elemento più vincente.

Prova

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

È estremamente raro per un’opera cinematografica riuscire a sopportare la prova del tempo quando imbottita di effetti speciali.

E se solitamente si citano capolavoro dell’effettistica come The Thing (1982), Scott Pilgrim vs the World può essere annoverata fra i migliori utilizzi di CGI del nuovo millennio: sarà per come gli effetti siano perfettamente assimilati alla scena, sarà perché sono non sono mai effettivamente eccessivi

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

…in ogni caso la resa è semplicemente magnifica e mai fuori luogo, e rende con una precisione e una credibilità sorprendente intere vignette ma senza sembrare mai pedante, anzi facendo non poche scelte narrative per condensare una storia così ampia in un minutaggio così ridotto.

E questo accade in particolare per tre personaggi.

Diverso

Mary Elizabeth Winstead in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Una delle figure più sacrificate è sicuramente Ramona.

Non avendo a disposizione abbastanza tempo per raccontarsi, spesso la Ramona Flowers cinematografica viene fraintesa come il più classico esempio di pixie girl, ovvero di personaggio femminile che vive unicamente in funzione dell’evoluzione del protagonista maschile.

Mary Elizabeth Winstead e Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

In realtà, Ramona va ben oltre quel ruolo: la graphic novel si prende diverse pagine per raccontarne il complesso dramma, il suo essere dipendente dal suo complesso passato che sembra definirla, nonostante spesso si trattasse di relazioni di brevissima durata e di poca importanza.

Wright tratteggia una Ramona Power il più possibile sfaccettata, riuscendo quantomeno ad definirne i contorni: il personaggio passa dall’essere la ragazza misteriosa e desiderabile, alla figura tormentata dal suo passato, per arrivare alla medesima conclusione della controparte fumettistica.

E forse era impossibile pretendere di più…

Ruoli

Brie Larson in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Ma il personaggio che più di tutti viene ridotto a mero ruolo è Envy.

Nel fumetto si trova un’abile costruzione emotiva che racconta più ampiamente il suo passato e il come è arrivata ad essere cattiva, portando il lettore a detestare il suo personaggio, per poi sferrare la zampata finale che invece rimette in discussione tutta la sua personalità.

Nel film invece il suo dramma è appena accennato, e si mette in scena la sua parte invece più negativa e da femme fatale, raccontandola come un nuovo ostacolo nella relazione fra Ramona e Scott, ma andando ben poco oltre a quello, anzi facendola facilmente scomparire di scena.

Jason Schwartzman in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Gideon invece è un discorso a parte.

Wright ha cercato di ammorbidire un personaggio che nel fumetto era più una presenza, un’ombra costantemente in agguato nella vita di Scott, ma che appariva effettivamente solo nel finale in cui rivelava il suo piano – ben più complesso e ben più crudele rispetto al film.

La pellicola invece fa il verso al fumetto – in cui Scott pensava che Gideon fosse un produttore discografico – e lo si collega strettamente a tutta la vita del protagonista, in modo che la sua sconfitta non liberi solamente Ramona, ma anche i suoi amici.

Una riscrittura forse azzardata, ma che funziona.

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Dumbo – La favola triste

Dumbo (1941) di Ben Sharpsteen è il quarto classico Disney, distribuito per recuperare le perdite di Fantasia (1940).

In effetti, a fronte di un budget molto ridotto – meno di un milione di dollari – incassò 1,3 milioni.

Di cosa parla Dumbo?

Il nuovo arrivato del circo, il piccolo Dumbo, viene discriminato e maltrattato per le sue grandi orecchie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dumbo?

Dumbo e il topolino Timoteo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Assolutamente sì.

Anche per la durata veramente ridotta – poco più di un’ora – Dumbo è una visione piacevolissima, nonostante la storia davvero straziante in più momenti, che cerca però di smorzare la tragedia sul finale, inserendo degli intermezzi comici – o presunti tali.

Anche se fu concepito come un prodotto dal basso budget, Walt Disney non smise ancora di sorprendere con la sua animazione splendida pur nella sua semplicità, continuando sulla strada vincente di animare personaggi animali in maniera credibile e mai forzata.

Insomma, da non perdere.

Dumbo tecnica animazione

Dumbo nacque come un Roll-A-Book.

Questo prototipo di giocattolo conteneva otto disegni e poche righe di narrazione, con Dumbo accompagnato da un pettirosso piuttosto che dal topolino Timoteo, e fu portato all’attenzione di Walt Disney nel 1939.

Il progetto fu subito accolto con entusiasmo da Disney, anche se inizialmente intese il progetto come un cortometraggio: la sua natura cambiò non solo quando si capì la necessità di una maggiore lunghezza per riuscire ad adattare la storia…

…ma soprattutto per venire incontro alle perdite finanziarie di Fantasia, il cui insuccesso fu dovuto anche all’impossibilità di distribuirlo in Europa per via dell’inedita situazione bellica.

Infatti Dumbo fu un progetto low-budget: si può ben notare dalla semplicità del design dei personaggi, dagli sfondi poco dettagliati, e da un certo numero di momenti riciclati dell’animazione interna al film.

Inoltre, insieme a Biancaneve (1937), è l’unico Classico Disney con gli sfondi creati con gli acquarelli.

Anche se fu nel complesso un successo, ci furono diversi problemi nella produzione e nella distribuzione.

Anzitutto, il 29 Maggio 1941, dopo che una prima animazione approssimativa del film era stata compiuta, diversi animatori appartenenti al sindacato Screen Cartoonists Guild cominciarono uno sciopero che si concluse solo dopo cinque settimane.

Inoltre la RKO fu inizialmente molto reticente nel distribuire il film nella sua lunghezza di soli 64 minuti, chiedendo inutilmente a Disney di allungarlo o distribuirlo come cortometraggio, dovendo poi cedere e portarlo in sala nella forma proposta.

Umano

Dumbo e la signora Jumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Uno dei grandi pregi di Dumbo è la gestione dei personaggi animali.

Altre produzioni molto meno ispirate avrebbero reso gli elefanti umani in tutto per tutto, facendoli camminare su due zampe e facendogli utilizzare le altre due come normali braccia, magari anche vestendoli di abiti borghesi.

Al contrario, nel quarto Classico Disney si punta moltissimo nell’animare la parte più attiva dei pachidermi: la loro proboscide, che diventa di fatto un braccio che in maniera del tutto credibile interagisce con l’ambiente circostante, afferrando, indicando e persino aggredendo.

Dumbo e la signora Jumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Tuttavia, le dinamiche sociali sono strettamente umane.

Fin dall’inizio si svela tutta la cattiveria del gruppo delle elefantesse, che prima umiliano la Signora Jumbo già solo per il fatto di essere incinta – con un sottosenso piuttosto impegnativo – e a cui basta un elemento fuori posto – le grosse orecchie – per cominciare a bullizzare il nuovo venuto.

Piuttosto audace per una produzione di questo tipo raccontare un lato ben meno felice della realtà circense, in cui gli animali non solo erano sfruttati, ma anche lasciati liberi nelle mani degli avventori, per poi essere puniti quando solo cercavano di difendersi.

E dare il via alla scena più triste di tutte…

Solo

Il topolino Timoteo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Una volta poste le basi di una situazione ostile e immobile, viene introdotto il motore della vicenda.

Ovvero, il topolino Timoteo.

Si tratta del secondo piccolo aiutante che appare in un Classico di casa Disney, dopo l’ottima sperimentazione con il Grillo Parlante in Pinocchio (1940) e che anche in questo caso diventa elemento fondamentale per la storia, che guida il protagonista nella sua evoluzione.

Il topolino Timoteo e Dumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

È infatti opera di Timoteo lo spettacolo con protagonista Dumbo, e sempre Timoteo lo incoraggia costantemente, anche quando viene umiliato e ridotto a pagliaccio, in una condizione di evidente inferiorità, per cui neanche viene considerato un vero elefante.

Ed è a questo punto che si trova la parte più iconica e altresì più enigmatica del film.

Intermezzo

Cosa rappresenta la scena degli Elefanti Rosa?

Secondo alcuni, è un semplice virtuosismo artistico in una pellicola, che per il resto non brilla particolarmente per l’innovazione, per altri una palese introduzione dell’elemento degli stupefacenti in un prodotto per bambini – niente di strano dopo il ben più problematico Pinocchio.

Quello che è indubbio è che ci troviamo davanti all’ennesima dimostrazione della maestria animata della Disney delle origini, capace di impreziosire una storia così in piccolo con una sequenza rimasta indelebile nell’immaginario di diverse generazioni di bambini.

Tanto più che la sequenza sfoggia una tecnica che sembra un retaggio di Fantasia stessa, con un sublime incontro fra musica e animazione, quasi dialogando con lo stesso pubblico di bambini, probabilmente attonito davanti a questa strana parata di inquietanti elefanti rosa.

Scioglimento

I corvi in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Nonostante la breve lunghezza, Dumbo mostra una struttura narrativa piuttosto solida.

Dopo una robusta introduzione, i primi passi del protagonista nella sua salita e caduta precipitosa, viene lasciato adeguato spazio per sciogliere la vicenda in maniera convincente e con non pochi inciampi dello stesso protagonista lungo la strada.

L’unico labile collegamento della parte degli Elefanti Rosa è che rende possibile a Timoteo di iniziare a sospettare le doti incredibili di Dumbo – il saper volare – con il piacevole inserimento dei corvi, che sembrano un po’ fare eco ai pensieri dello spettatore.

Il topolino Timoteo e Dumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Inoltre, la canzoncina Giammai gli elefanti volar costruisce un simpatico climax verso la conclusione, con anche l’inserimento di una apparentemente innocua bugia bianca, che però sembra quasi rivoltarsi contro Timoteo proprio nel momento più sbagliato…

…ma che invece porta ad un finale completo e soddisfacente.

Ritroviamo le elefantesse che, dopo essere state punite per la loro cattiveria, sono felici sul treno del circo, con in coda la Signora Jumbo finalmente riabilitata e libera dalla prigionia, mentre guardia orgogliosa il suo bambino, diventato ormai la nuova star del circo.

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Fantasia – Animare la musica

Fantasia (1940) è, insieme al poco precedente Biancaneve (1937), probabilmente una delle maggiori sperimentazioni di Walt Disney.

Purtroppo, fu un incredibile insuccesso commerciale, rischiando di minare il futuro dell’azienda stessa: la distribuzione piuttosto sfortunata – non venne distribuito in Europa – e piuttosto dispendiosa – unicamente in costosissimi roadshow – contribuì al fallimento economico dell’operazione.

Di cosa parla Fantasia?

Sotto la guida del Maestro delle Cerimonie Deems Taylor, il film presenta una collezione di otto episodi animati accompagnati da noti pezzi di musica classica.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fantasia?

In generale, sì.

Per quanto Fantasia sia una sperimentazione veramente incredibile e da riscoprire, è altrettanto vero che non è un prodotto per tutti i palati: si tratta sostanzialmente di un concerto lungo più di due ore, in cui le storie raccontate sono piuttosto semplici e fini a sé stesse.

Quindi il mio consiglio è, se non ve la sentite di affrontare tutto insieme, di spezzettare la visione a seconda dei singoli frangenti, così da ammorbidire l’esperienza, senza comunque fargli perdere importanza.

Fantasia Produzione

Fantasia nacque per rilanciare Topolino.

Il personaggio iconico di Walt Disney stava progressivamente perdendo terreno rispetto ai comprimari – Paperino e Pippo – e per questo si scelse di rilanciarlo tramite il corto L’Apprendista stregone, con anche un redesign sostanziale.

Tuttavia in poco tempo le spese di produzione lievitarono talmente tanto che apparve chiaro che quel cortometraggio da solo non era sufficiente per rientrare nelle spese, e che era necessario costruirci qualcosa intorno.

Così nacque l’idea di Fantasia.

Ma non era niente di nuovo per Walt Disney: già con le Silly Symphonies, a partire dal 1929, aveva sperimentato questa commistione fra musica e animazione.

Ma in questo caso voleva fare qualcosa di più speciale: produrre cortometraggi dove la pura fantasia si rivela… l’azione controllata da un motivo musicale ha grande fascino nel regno dell’irrealtà.

Nel 1937 Walt Disney riuscì ad ottenere i diritti per i pezzi musicali, coinvolgendo Leopold Stokowski, direttore dell’Orchestra di Filadelfia dal 1912, che addirittura si propose di collaborare a costo zero.

La produzione coinvolse più di mille artisti e tecnici, per dare vita a più di cinquecento personaggi e per colorare la pellicola scena per scena, in modo che i colori di una sola ripresa si armonizzassero con l’insieme.

Anche in questo caso furono utilizzati dei modelli in argilla per aiutare gli animatori ad avere un’idea di tutti gli angoli dei personaggi da animare.

Non-Narrativo

Una scena di Fantasia (1940)

I cortometraggi di Fantasia si possono volgarmente suddividere in due categorie:

narrativi e non-narrativi.

I segmenti non-narrativi sono quelli che più propriamente abbracciano l’idea del portare in vita il concerto tramite l’animazione, in particolare con i primi due episodi della serie.

L'orchestra di Fantasia (1940)

Si passa dalle note di Bach animate con le lunghe ombre dell’orchestra che si scompongono in linee e geometrie astratte, che seguono il prezioso andamento della Toccata e fuga, e che cominciano il passaggio dalla realtà alla fantasia…

…per introdurre il trionfo naturale sulle note de Lo Schiaccianoci, in cui la natura si rianima e sembra come danzare leggera seguendo la melodia, con uno degli accostamenti più vincenti fra musica e immagine animata dell’intero lungometraggio.

La danza delle Ore di Fantasia (1940)

Ma, fra narrativo e non-narrativo, c’è anche la via di mezzo.

Emblematica in questo senso la Danza delle Ore: una sorta di balletto comico, in cui le ballerine vengono sostituite da animali antropomorfi tipici della produzione Disney, portando in scena uno dei frangenti più iconici della pellicola – nonché uno dei miei preferiti.

Lo stesso in un certo senso si può dire della sequenza conclusiva: dalle atmosfere quasi orrorifiche de Una notte sul Monte Calvo, il lungometraggio si chiude sulle note più maestose e intime dell’indimenticabile Ave Maria di Schubert.

Intermezzo

La colonna sonora di Fantasia (1940)

Lo scambio con la colonna sonora è forse il segmento che mi ha più sorpreso.

Proprio come per uno spettacolo teatrale – e in effetti ha senso nella forma di distribuzione roadshow – nella metà del lungometraggio viene inserito un intermezzo, che si apre con la colonna sonora in persona che viene invitata sul palco.

Il momento in cui queste linee vengono animate e in un certo senso umanizzate sotto la guida esperta di Deems Taylor è una testimonianza incredibile della creatività e fantasia che definì la Disney nei suoi primi anni di storia.

Narrativo

L'apprendista stregone di Fantasia (1940)

Parlando di segmenti narrativi, ovviamente si parla de L’apprendista stregone.

Il corto rappresenta inevitabilmente il cuore della pellicola, ed è quello che più strettamente può essere considerato narrativo: racconta una piccola storia di un giovane Topolino in vesti nuove di zecca, mentre pasticcia con la magia.

E il collegamento con lo spettacolo stesso è evidente quando, nei suoi sogni, il protagonista è come se dirigesse un’orchestra, per poi trovarsi catapultato in un incubo creato dalle sue stesse mani, che solo il suo Maestro, come un novello Mosè, può risolvere.

I centauri di Fantasia (1940)

In ultimo anche se in chiave minore, indimenticabile è sia la sequenza della nascita dei primi esseri viventi sulle note de La sagra della primavera, con anche un avvincente scontro fra i dominatori della preistoria…

…sia la più dolce Pastorale di Beethoven, uno spaccato di mitologia greca e romana in cui si alternano sulla scena le rampanti figure divine che sconvolgono gli equilibri terrestri e lo sbocciare degli amori fra i mitici centauri.

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Robot Carnival – Uno spaccato di anime

Robot Carnival (1987) è una raccolta di cortometraggi animati curati da nove registi e animatori giapponesi.

Al tempo venne proposto come OAV, Original Anime Video, ovvero un anime distribuito direttamente in videocassetta.

Di cosa parla Robot Carnival?

Proprio come un parco dei divertimenti, Robot Carnival raccoglie diverse ispirazioni da diversi registi con un tema comune: i robot.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robot Carnival?

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

Assolutamente sì.

È praticamente impossibile rimanere delusi con Robot Carnival: ci si trova davanti ad una tale varietà di toni, di temi e di tagli narrativi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta, con storie tutte diverse fra loro anche per stile artistico.

E se la poca presenza di dialoghi, o la loro totale assenza, potrebbe spaventare, a fine visione appare chiaro che gli stessi sarebbero stati del tutto inutili all’interno di una narrazione così ben strutturata da funzionare anche solo di musica e di suggestioni.

Rumore

Una scena di Franken's gear in Robot Carnival (1987)

Robot Carnival si apre con una collezione di rumori.

L’intro è visivamente aggressiva e sottilmente metanarrativa: sembra come se il colosso del film stesso, di questo strano parco dei divertimenti, entrasse prepotentemente in scena, distruggendo ogni cosa sul suo passaggio, anche gli indifesi spettatori.

Si passa poi ad un primo episodio semplice quanto efficace: una riproposizione moderna e robotica del classico di Mary Shelley: l’esperimento apparentemente fallimentare incorniciato dai rumori di laboratorio…

Una scena di Niwatori Otoko to Akia Kubi in Robot Carnival (1987)

…esplode in un climax ascendente per giungere a dinamiche non tanto dissimili dall’iconica scena di Frankenstein Junior (1974) ma con una ben più amara, quanto enigmatica, conclusione, in cui il successo dell’operazione sembra spezzarsi.

La stessa dinamicità si ripropone nel confusionario quanto surreale capitolo conclusivo, Niwatori Otoko to Akia Kubi, in cui un cittadino comune diventa testimone di una rivolta dei robot, che rinascono, si spezzano, cadono a pezzi in forme orrorifiche e incomprensibili.

Ma c’è spazio anche per il dialogo.

Dialogo

Una scena di Presence in Robot Carnival (1987)

Il dialogo in Robot Carnival è essenziale.

Nel terzo capitolo, Presence, lo è nel senso che è ridotto all’osso: la scena prima si anima di uno spaccato della difficoltosa vita dei robot nella società umana, per poi aprirci uno squarcio sulla vita del protagonista tramite un’intrusione nei suoi pensieri.

E questa impertinente macchina, questa creazione che sembra avere una vita propria, è anche l’unica che sembra comprendere la vera natura del suo creatore, che si è sempre privato dell’amore, vivendo una vita fra un gelido matrimonio e le sue invenzioni senza cuore.

Del tutto diversa l’atmosfera del penultimo capitolo, Strange Tales of Meiji Machine Culture: Westerner’s Invasion, in cui assistiamo ad un duello fra due enormi quanto primitive macchine, pilotate da un inventore squinternato e da una litigiosa coppia di ragazzini.

Un frangente che è l’unico veramente e propriamente comico della pellicola, con dinamiche che sembrano provenire da uno shonen degli Anni Ottanta (e non solo), e che permette allo spettatore infine di concedersi una risata.

Silenzio

Una scena di Deprive in Robot Carnival (1987)

In Robot Carnival ci sono diversi tipi di silenzi.

C’è il silenzio dei personaggi, che non hanno bisogno di alcun dialogo per raccontare la loro storia, ma che invece si avvicendano sulla scena con episodi estremamente dinamici e incalzanti, in piccole avventure a lieto fine.

È questo il caso sia di Deprive, in cui un’invasione aliena diventa lo sfondo per quella che si rivela infine una dolcissima storia d’amore con protagonista un’umana e un robot dall’aspetto cangiante, che infine la ragazzina riconosce nella sua nuova forma…

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

…sia di Starlight Angel, il mio preferito della serie, che riprende sostanzialmente le stesse dinamiche, ma in un contesto più giocoso e onirico, in cui un sofferto tradimento amoroso si risolve nella formazione di una nuova e felice coppia.

E infine il silenzio c’è il silenzio Cloud, un bozzetto a matita che si anima per raccontare di un piccolo robot che attraversa le diverse epoche terrestri, nella silenziosa quanto inevitabile vittoria e distruzione del genere umano.

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Pinocchio – Brutalmente educativo

Pinocchio (1940) è il secondo classico Disney basato sul romanzo per ragazzi di Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio (1881 – 1883).

Nonostante fosse uscito poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 2,6 milioni di dollari, incassò 38 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Pinocchio?

Walt Disney prende le mosse dal classico di Collodi per raccontare sofferte quanto educative avventure di Pinocchio.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pinocchio?

Pinocchio e il Grillo Parlante in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Assolutamente sì.

Rispetto a Biancaneve (1937), Pinocchio si distingue per un impianto narrativo più solido, una collezione di avventure dal forte sapore educativo, che non manca comunque di una componente quasi orrorifica.

Infatti, riscrivendo il protagonista in una veste più positiva ed ingenua, le sfortune di Pinocchio hanno un impatto molto più potente, volendo mostrare le insidie del mondo e il come riuscire ad evitarle affidandosi alle giuste figure adulte.

Pinocchio tecnica animazione

Pinocchio non doveva essere un film.

La storia venne proposta a Disney a più riprese e da diverse persone, inizialmente neanche come un lungometraggio, che cominciò a prendere forma solamente nel 1937.

Il punto di svolta fu la lettura di Walt Disney di una versione tradotta dell’opera di Collodi, che gli permise di innamorarsi della storia e di abbracciare finalmente il progetto, che inizialmente doveva essere il terzo classico Disney.

Invece, per via dei problemi produttivi di Bambi (1942), la produzione venne anticipata.

Ma ci volle un intero anno prima che i lavori partissero.

La prima versione del film fu incredibilmente ostica, per via della difficoltà degli argomenti e della natura della storia, che presentava un protagonista abbastanza negativo e pochi momenti di comicità.

La prima stesura fu presa e cestinata da Walt Disney, facendo ricominciare la produzione da zero.

Estetica Pinocchio

L’estetica fu profondamente contaminata.

Nonostante Pinocchio sia ambientato in Italia, gli spazi e i vestiti dei personaggi ricordano più la Baviera, con anche elementi più moderni e propri della cultura statunitense, come la sala da biliardo nel Paese dei Balocchi.

Il reparto produttivo si sbizzarrì nella creazione di elementi da cui prendere spunto, con centinaia di oggetti di scena fra marionette, orologi e miniature dei personaggi, per la prima volta nella storia della Disney.

Fra le prime idee scartate, la più importante fu il character design di Pinocchio: nato come una marionetta pagliaccesca, per volontà dello stesso Disney la sua identità traslò progressivamente sempre di più verso una immagine umana e accessibile.

Così fu anche più umanizzata la figura del Grillo, il primo personaggio Disney aiutante e guida del protagonista.

Il grillo risulta infine non tanto un insetto, ma più un piccolo omino cortese e un po’ dongiovanni, messo sempre alla prova per la sua piccola statura davanti a personaggi negativi giganteschi e minacciosi.

Ancora una volta per le animazioni ci si affidò a malincuore al rotoscopio, ma in maniera differente rispetto a Biancaneve.

Infatti, l e scene in live action non vennero semplicemente ricalcate per la pellicola animata, ma decisamente ampliate per dare maggiore dinamicità e realismo ai personaggi.

Per la voce di Pinocchio si scelse il giovanissimo cantante Dickie Jones, mentre il Grillo prese la voce di Cliff Edwards, e la Fata Turchina fu fatta sul modello di Evelyn Venable, anche modella per il logo della Columbia Pictures.

Intuibile

Se si confronta col Pinocchio di Collodi, ma anche con la riproposizione in stop-motion di Guillermo del Toro, il personaggio di Geppetto è molto meno caratterizzato: non sappiamo molto sul suo carattere né sulla sua storia.

Possiamo solo intuirlo dal contesto e dalle parole della Fata Turchina: Geppetto è un uomo buono che ha fatto tanto bene agli altri, probabilmente tramite le sue creazioni, e che vive senza figli, ma con due pimpanti animali da compagnia.

Pinocchio e Geppetto in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

In questo modo, proprio come il Principe Azzurro, Geppetto è un personaggio con una funzione molto stringente: rappresentare la figura genitoriale buona ma anche apprensiva, che più che guidare, cerca di proteggere Pinocchio dal farsi del male da solo.

E proprio sta qui il punto della storia.

Ingenuo

Pinocchio e il Grillo Parlante in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Paradossalmente, il Classico Disney è per certi versi più educativo del romanzo di Collodi.

Infatti, come vedremo in coda, il personaggio originale era molto più cattivo e dispettoso, quindi rappresentava in maniera molto semplice ed immediata la sorte sfortunata di un bambino disobbediente, che infine veniva premiato per aver invece imboccato la retta via.

Al contrario, il Pinocchio disneiano è un bambino qualunque, preda della sua stessa ingenuità che lo porta a lasciarsi adescare dalla prima proposta allettante, dal primo adulto di cui si fida ciecamente, diventando così preda delle peggiori macchinazioni.

Pinocchio e la Volpe in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Insomma, Walt Disney sembra voler ammonire i bambini del suo tempo di dare fede alle parole dei propri genitori ed educatori, perché dette solamente per il loro bene, e invece di guardarsi dalle proposte di successo facile e fin troppo allettante.

Altrimenti le conseguenze sono terribili…

Animale

Postiglione in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Pinocchio è quasi orrorifico.

Il protagonista viene infatti non solo ripetutamente privato della sua libertà, ma proprio anche della sua stessa umanità: già piuttosto raccapricciante l’idea di diventare un fenomeno da baraccone chiuso in una gabbia da Mangiafuoco…

…ma ancora più devastante è la disavventura del Paese di Balocchi.

Postiglione e un asino in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Agli occhi dello spettatore odierno tutta la situazione appare davvero brutale, fin dalle eloquenti conseguenze di Pinocchio che si fa provocare da Lucignolo, aspirando il sigaro in maniera esagerata.

Ma l’apice dello sconvolgimento è la scoperta della vera natura del luogo e del piano del Postiglione, che rapisce i bambini per trasformarli in asini da mandare a lavorare – e a morire – nelle miniere di sale.

E al riguardo salta all’occhio un elemento ancora più agghiacciante…

Minaccia

Il Gatto e la Volpe in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

La maggior parte delle storie Disney sono a lieto fine.

E un aspetto fondamentale delle conclusioni è la sconfitta dell’antagonista, proprio con un’idea del bene che sconfigge il male, nel caso dei cattivi Disney con delle morti o degli annientamenti spesso non per azione dei protagonisti, ma per una sorta di autodistruzione.

In Pinocchio questo elemento è drammaticamente mancante.

Pinocchio e Il Grillo in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Che sia voluto o meno, per quanto la conclusione sia positiva, le varie minacce che hanno insidiato il protagonista durante le sue disavventure sono ancora presenti in agguato, e Pinocchio potrebbe ricaderci in ogni momento se non starà abbastanza attento.

E se la furba Volpe è riuscita ad ingannarlo per ben due volte di fila, cosa impedisce alla stessa o ad altri antagonisti di imbrogliarlo nuovamente?

Maturazione

La maturazione di Pinocchio è fondamentale.

Con un classico deus ex machina, la Fata Turchina offre al protagonista l’occasione per riscattarsi, dal momento che le sue ingenuità hanno influenzato anche la drammatica sorte di Geppetto, il personaggio che meno di meriterebbe una morte così tragica e sfortunata.

Così l’insegnamento finale è anche più importante: Pinocchio si ingegna, passa dall’essere un personaggio passivo e guidata da altri – il Grillo e la Fata – a figura invece attiva e risolutiva, trovando la Balena e riuscendo a salvare sia sé stesso che Geppetto.

Ed è per questo che infine viene premiato.

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Biancaneve – Un piccolo inizio

Biancaneve (1937) di David Hand è il primo Classico Disney in assoluto, la prima grande scommessa di Walt Disney di colmare un vuoto del mercato che nessuno pensava andasse colmato: creare un lungometraggio animato.

Infatti, a fronte di un budget di appena 1.5 milioni di dollari – circa 32 milioni oggi – fu un enorme successo commerciale, fra i più grandi incassi nella storia dell’animazione, incassando complessivamente 418 milioni di dollari.

Di cosa parla Biancaneve?

Walt Disney riprese le mosse dal classico dei Fratelli Grimm, cercando il più possibile di alleggerire la storia, ma mantenendo comunque non pochi elementi grotteschi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Biancaneve?

Assolutamente sì.

Biancaneve è una pietra miliare nella storia del cinema, che sorprende ancora oggi per la grande attenzione al dettaglio e alla cura per una tecnica di animazione sostanzialmente avanguardistica, che dà il meglio di sé nei momenti più orrorifici.

D’altra parte, il primo Classico Disney è anche un compromesso storico con un’animazione al tempo dominata da cortometraggi con gag e storie minuscole, cercando di dare un più ampio respiro ad una storia che, tutto sommato, non ne ha molto.

Insomma, da riscoprire.

Biancaneve tecnica animazione

I Walt Disney Studios non sapevano animare le persone

La maggior parte della produzione fino a quel momento era stata quasi esclusiva di personaggi di animali antropomorfi, con il primo test su personaggi invece umani con il corto La dea della primavera (1933), la cui protagonista fu di grande ispirazione per le animazioni di Biancaneve.

Il character design fu un altro ostacolo importante: mancando un’iconografia fissa, gli animatori avevano grande libertà in merito, seguendo le direttive di Walt Disney, che voleva un personaggio innocente e affabile, la ragazza della porta accanto.

Il punto di svolta fu il coinvolgimento di Grim Natwick, autore di Betty Boop: nonostante Walt Disney non volesse un personaggio così sensuale, ammirava le capacità dell’animatore che aveva dato vita a diversi personaggi femminili.

E così, infine, Biancaneve divenne mora.

Nella fase produttiva, furono essenziali i modelli umani.

La principale ispirazione fu Marge Champion, al tempo ballerina e attrice quattordicenne, i cui movimenti vennero ampiamente studiati per rendere il più possibile credibile il personaggio, soprattutto nei momenti di danza.

E, nonostante le diverse opposizioni interne, venne ampiamente utilizzato il rotoscopio, in cui le scene venivano ricalcate da partire da una pellicola filmata in precedenza, in quantità e modalità diverse a seconda delle necessità.

Minimo

L’incipit di Biancaneve deriva da un grande compromesso.

Come vedremo più avanti, la riduzione ai minimi termini dell’antefatto fu necessaria in quanto l’incipit originale era fin troppo inquietante per un film per bambini: semplicemente, all’inizio scopriamo la bruciante invidia di Grimilde per la protagonista.

E il dialogo della strega con lo Specchio, da cui finisce infine per essere ammonita, è funzionale all’introduzione di Biancaneve stessa, raccontata come una ragazzina dall’aspetto piacente, nonostante i tentativi della Regina di imbruttirla.

Infatti, mancando di un antefatto esplicativo, Biancaneve punta molto sulla caratterizzazione della sua protagonista.

Nella sua prima apparizione Biancaneve è idillica, quasi bucolica, soprattutto per la simpatia che gli animali provano per lei – e non, per esempio, per i nani, da cui in seguito scapperanno – e per la sua voce angelica che illumina la scena.

Una voce che attira anche le attenzioni del Principe Azzurro, la cui interazione racconta un altro lato di Biancaneve: la ragazza si dimostra molto timida e riservata quando viene approcciata da uno sconosciuto, dovendosi far convincere per uscire dal suo nascondiglio.

Ma proprio questo è il momento di svolta.

Contrasto

Il primo atto vive di contrasti.

Il piano malvagio di Grimilde è in aperto contrasto estetico e simbolico con il candore di Biancaneve, che qualche scena dopo ritroviamo immersa in un delizioso quadretto naturale, con il cacciatore che la osserva da lontano.

Lo stesso sembra proprio penetrare con la sua ombra inquietante sul corpo di Biancaneve proprio per violarlo, ricredendosi all’ultimo e incoraggiandola a scappare, diventando per questo la causa del profondo turbamento della protagonista.

Infatti, nella splendida sequenza della foresta, vediamo concretizzarsi le paure di Biancaneve, con quel panorama, fino ad un attimo prima era armonioso e accogliente, che si rianima in maniera orrorifica per afferrarla, ferirla, rapirla.

Sequenza che si ricompone quando la ragazza si getta a terra disperata, e quegli occhi malvagi che sembravano minacciarla dall’ombra si rivelano essere propri di creature invece gentili e curiose, che si avvicinano timidamente a lei.

Da qui, infatti, comincia la parte più serena della narrazione.

Parentesi

La parte centrale è ricca di siparietti.

Una sorta di parentesi narrativa confortevole all’interno di due atti invece carichi di atmosfere lugubri e inquietanti, dove si susseguono le simpaticissime gag prima con gli animali, e poi con i nani stessi.

E i nani, definiti da tratti che ne raccontano a colpo d’occhio la personalità e le caratteristiche fondamentali, essenziali per l’identificazione immediata del pubblico infantile di riferimento, sono la punta di diamante della pellicola.

Allo stesso tempo, importanti anche i contenuti educativi.

Biancaneve si rivela in poco tempo tutto tranne che una sciocca ragazzina, ma piuttosto una figura materna persino ammonitrice nei confronti dei nani, che sembrano quasi i suoi bambini, a cui ordina di lavarsi per bene prima di mettersi a tavola.

In questo contesto si sviluppa anche il piccolo arco evolutivo di Brontolo, che viene infine vinto dalla innegabile piacevolezza e simpatia della protagonista, proprio in prossimità del momento in cui dovrà difenderla dall’attacco della strega.

Orrore

Con il ritorno alla Regina Cattiva, si ritorna anche alle tinte orrorifiche.

La trasformazione di Grimildespaventosa quasi al pari della sequenza di fuga della protagonista nella foresta – calca moltissimo sull’immaginario della megera che utilizza ingredienti strani e inquietanti per cambiare aspetto e diventare una innocua vecchina.

E la sua malvagità è ancora più straziante quando si approccia ad un personaggio così candido come Biancaneve, che si lascia facilmente ingannare dalle apparenze, dimostrando ancora una volta di non riuscire a vedere il lato negativo delle persone.

Per la sua morte, invece, si lavora di sottrazione.

Come Biancaneve non si vede mai chiaramente morta, se non nella sua angelica teca, così la tragica fine di Grimilde è solo raccontata: la strega dice che spezzerà le ossa ai nani con il masso, proprio per raccontare quello che sta per succedere a lei stessa…

…e, al contempo, si pone grande attenzione sull’elemento più eloquente della sequenza: gli avvoltoi, che maliziosamente seguono la strega sia quando muore Biancaneve, sia quando muore lei stessa, proprio per esplicitare questo concetto senza mostrarlo direttamente.

Proprio per questo il finale è il più semplice ed idilliaco possibile, utilizzando il principe come una sorta di deus ex machina per sciogliere la drammatica vicenda in maniera rassicurante e a misura di bambino.

E, in questo senso, è quasi essenziale che il principe sia un personaggio quasi per nulla caratterizzato, semplicemente raccontato come il destino di Biancaneve di vivere una vita felice lontano dalle grinfie di Grimilde.