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Il settimo sigillo – Dio, dove sei?

Il settimo sigillo (1957) è l’opera più famosa e celebrata della prolifica produzione di Ingmar Bergman.

A fronte di un budget risicatissimo persino per l’epoca – appena 150 mila dollari, circa 1,7 milioni oggi – ebbe nel complesso un buon riscontro al botteghino300 mila dollari – per essere poi considerato negli anni un capolavoro della storia del cinema.

Di cosa parla Il settimo sigillo?

Antonius Block è un cavaliere che ha appena fatto ritorno dalle Crociate, ritrovandosi in una patria devastata dalla peste e della superstizione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il settimo sigillo?

Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Il settimo sigillo non solo è una delle trattazioni e riflessioni più interessanti sul tema della morte e della ricerca di Dio, ma è anche un’opera capace di creare un bozzetto preciso – e per lunghi tratti persino comico – dell’Europa del XIV sec.

Una pellicola in cui momenti profondamente riflessivi e malinconici si alternano a sequenze più profondamente ironiche, con una comicità che gioca col grottesco e la mentalità dilagante di quel periodo.

Insomma, non ve la potete perdere.

Omen

Bengt Ekerot in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

La sequenza di apertura de Il settimo sigillo è il primo omen.

I due personaggi sono stesi sulla spiaggia, e appaiono già morti… o forse lo sono davvero, perché proprio a quel punto la morte si approccia per la prima volta ad Antonius, invitandolo a seguirla.

La reazione del protagonista rivela al contempo la sua superbia e la sua disperazione.

Bengt Ekerot e Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Infatti, Antonius, dopo un decennio passato a perseguire una causa divina, è ancora più scettico sulla presenza di Dio, e ne ricerca disperatamente i segnali, la mano benevola che lo accompagni serenamente verso quella morte che non è pronto ad accettare.

Per questo sceglie di sfidare il destino, illudendosi di poter piegare perfino il triste mietitore ai suoi trucchi, di poterla tenere a bada il tempo che serve per ricongiungersi con il divino e liberarsi da quel turbamento costante e apparentemente irrisolvibile.

La presentazione dei due protagonisti si chiude con altri segnali – reali quanto immaginari – della Morte sempre in agguato, in cui la pellicola sparge i primi semi della sua deliziosa quanto macabra ironia.

Così Jöns, dopo aver blaterato per lungo tempo su visioni quasi apocalittiche – cavalli che si divorano l’un l’altro, quattro soli in cielo… – vede in faccia la morte, ed esorcizza l’incontro con un dialogo brillante quanto rivelatorio:

In questo senso lo scudiero dimostra di aver compreso pienamente verso quale mondo si stanno dirigendo: una realtà devastata dalla Peste Nera, un mondo dove ci sono più morti che vivi…

Natività

Con il cambio di scena, assistiamo alla prima visione.

Il settimo sigillo racconta abilmente questa dinamica fondamentale nell’Europa Medievale – la stessa che, in altro modo, porterà alla scrittura della Divina Commedia – e ne chiarisce anche la doppia natura:

una visione, maligna o benigna, poteva portare ad una benedizione quanto una condanna della Chiesa.

Nils Poppe e Bibi Andersson in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Questa prima visione – la Madonna con bambino – introduce l’altro polo della riflessione interna al film, contenuta da qui in poi nella figura di Mia: la natività, connessa anche alla dolcezza del paesaggio bucolico, contrapposta alla miseria e alla morte.

I personaggi legati al teatro sono anche vettori della sottotrama più spiccatamente comica: il tradimento della moglie del fabbro con Skat, che si toglierà dall’impiccio fingendo di morire – e poi morendo effettivamente – in una classica novella che potrebbe essere uscita dal Decameron.

La parte teatrale è anche il momento più prettamente metanarrativo: Jöns suggerisce al fabbro le parole da dire per duellare con l’attore, per poi anticipare le argomentazioni della donna per riconquistare il marito e farsi perdonare per il torto commesso.

D’altronde, inganno e maschere sono elementi onnipresenti nella pellicola.

Alternativa

Gunnar Björnstrand in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Inconsapevolmente, Antonius ha al suo fianco l’alternativa alla sua disperazione.

Ovvero, Jöns.

Lo scudiero è una maschera tipica del teatro classico – il servo furbo – anche più tridimensionale e tratteggiata in maniera quasi paradossale: come Jöns è sostanzialmente un nichilista e un disilluso – disprezza espressamente sia le Crociate quanto Dio…

…quasi anarchico – dice di ridere in faccia al suo padrone – è anche il personaggio più positivo della pellicola.

Gunnar Björnstrand in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Lo scudiero infatti aiuta le due donne vittime – prima la sua futura serva che rischiava di essere violentata, poi la strega a cui offre dell’acqua – proponendosi persino di uccidere tutti i soldati pur di liberare la futura martire

Lo stesso è anche il principale protagonista della linea comica della pellicola, col suo umorismo anche piuttosto cupo e piccato.

Inganno

Al contrario Antonius, che si crede l’eroe della storia, è in realtà vittima di un continuo turbamento che non riuscirà mai a risolvere.

Proprio nella sua disperata ricerca di Dio, si rifugia in una chiesa, specificatamente in un confessionale, per rivelare la sua profonda angoscia nel non riuscire più a vedere Dio nella sua realtà terrena…

…dove trova solo miseria, inganno e distruzione, ammettendo anche il suo pensiero di fondo, che è la chiave fondamentale per leggere la pellicola:

Abbiamo creato un idolo dalla nostra paura e l’abbiamo chiamato Dio.

Secondo questa interpretazione piuttosto lucida e disillusa, Dio non è altro che un tentativo di dare forma ad una paura – quella della morte – e così di riuscire anche ad esorcizzarla…

…anche tramite atti estremamente violenti sia su sé stessi – l’autodafé – e sugli altri – l’uccisione della presunta strega che si unisce con il maligno.

Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Non è un caso che, mentre Antonius confessa queste cose credendo di parlare con un emissario di Dio, stia venendo in realtà ulteriormente ingannato, ritrovandosi a conversare con l’unico dialogante realmente presente, e che lo spinge costantemente verso questa ritrovata disillusione…

Insomma, l’unico dio è la Morte.

Salvezza

La vita terrena è definita da una costante dicotomia.

L’aspetto più disperato, più estenuante anche per la ricerca di Antonius, è assistere alla degradante processione degli auto flagellanti, che cercano in ogni modo di scacciare la morte e il maligno da sé stessi

…ma riuscendo solo ad istigare una paura e un’ossessione ancora maggiore nella comunità, che vede in loro l’apparizione di Dio.

Max von Sydow e Bengt Ekerot in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

L’altro lato dell’esistenza terrena è la vita piccola ma soddisfacente, i semplici momenti di felicità e condivisione: così Antonius diventa ospite dei due attori, godendosi la compagnia e il cibo, e sapendo di poter conservare dentro di sé questo ricordo rasserenante.

Questa pace terrena, così semplice, ma anche così potenzialmente raggiungibile, è infatti la stessa che gli permette, almeno per un momento, di allontanarsi dalla partita a scacchi con la Morte – e quindi dall’angoscia che lo opprime – e affrontare poi la prossima mossa con una ritrovata felicità.

Morte

Max von Sydow una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Ma la morte è inevitabile.

Prima di arrivare definitivamente al suo castello, Antonius si imbatte nuovamente nella martire, a cui chiede consiglio per finalmente riuscire a vedere un segno divino – o diabolico – ma infine arrendendosi davanti alla sua totale cecità…

…inciampando ancora una volta nel suo cammino nell’unica presenza onnipresente: la morte.

L’ultima partita a scacchi è quella decisiva: come Antonius si sentiva prima sicuro di aver messo in scacco la sua lugubre compagna, invece in poche mosse viene sconfitto.

È l’occasione della seconda visione di Jof, che vede quella partita del destino, e per questo capisce che è il momento di allontanarsi, per non prendere parte a quella che sarà l’ultima e fondamentale visione: la macabra danza della Morte che conduce all’aldilà.

Invece Antonius, pure ora che ha perso contro la Morte, cerca comunque di rifugiarsi nel suo castello, e in ultimo cerca un conforto in un Dio che continua a non rispondergli, mentre gli astanti tengono lo sguardo fisso sulla Morte

…in particolare la donna che Jöns salvato, che cade in ginocchio in lacrime, proprio come davanti alla processione…

Ma la chiusura de Il settimo sigillo ci rassicura mostrandoci una morte che è ancora lontana, vincolata alla visione scherzosamente messa da parte da Mia, mentre si allontana all’orizzonte con il suo carro carico di vita…

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Hook – Ti ricordi, Peter?

Hook (1991), in Italia conosciuto anche con il sottotitolo Capitan Uncino, è uno dei film per ragazzi più iconici non solo della filmografia di Steven Spielberg, ma in generale di tutta la produzione cinematografica degli Anni Novanta.

Nonostante il buon riscontro commerciale – circa 300 milioni di dollari a fronte di 70 milioni di budget – incassò ben al di sotto delle aspettative, e lo stesso Spielberg si dimostrò insoddisfatto del risultato.

E i motivi non sono difficili da immaginare…

Di cosa parla Hook?

Peter Banning è un avvocato aziendale, del tutto assorbito dal suo lavoro e incapace di passare del tempo con i suoi figli. Ma il passato sta venendo a bussare alla porta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hook?

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

L’insuccesso commerciale di questa pellicola è spiegabile proprio per il tono del film, che si allontana quasi immediatamente dal target infantile, inserendo alcuni elementi non solo poco adatti ad un pubblico di bambini – come la violenza e la morte – ma temi proprio non pensati per loro.

Infatti, Hook è una rilettura intelligente e consapevole della fiaba di Peter Pan, ma il cui protagonista rappresenta non un bambino troppo cresciuto, ma un adulto, un padre che deve riscoprire la meraviglia dell’infanzia e la bellezza del calore familiare.

Insomma, da adulti probabilmente lo apprezzerete di più.

Oblio

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Nell’incipit di Hook Peter è immerso nell’oblio.

Una caratteristica del protagonista che denota una profonda conoscenza dell’opera letteraria – l’oblio rappresenta l’altro lato dell’infanzia perpetua della sua controparte letteraria – e che permette di mettere in scena un primo atto per molti tratti agrodolce.

Il lato più drammatico è l’incapacità di Peter di rimanere bambino, arrivando fino a disprezzare proprio il concetto di infanzia, in particolare adirandosi davanti ai comportamenti infantili del figlio maggiore, mostrandosi interessato – anzi ossessionato – unicamente alla sua noiosa vita adulta.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Un gustoso paradosso che spesso sfocia anche nella comicità.

Particolarmente spassoso in questo senso il terrore del protagonista all’idea di salire su un aereo – il quale, ad un livello più profondo, racconta la totale perdita di spensieratezza che caratterizzava il vecchio Peter – e che gli permetteva di volare.

Al contempo, il protagonista è circondato dai suoi simboli identitari: oltre alla costante dimenticanza dei nomi dei personaggi che lo circondano, la sua ombra rivelatoria è sempre in agguato, la moglie prende il nome dalla nonna – Moira – col primo apice drammatico nella realizzazione di Wendy:

So Peter you became a pirate!

Peter, sei diventato un pirata!

Rivelazione

La rivelazione di Peter avviene in due parti.

Anzitutto tramite Wendy, che rappresenta una riscrittura piuttosto arguta del personaggio, togliendole il peso di quella maternità piuttosto costrittiva che la caratterizzava nel romanzo, e trasferendolo all’interno di tema più generale e meno opprimente – l’accoglienza degli orfani.

Il suo personaggio è un elemento chiave per un primo riavvicinamento di Peter alla verità sulla sua natura, prima sottilmente nelle diverse punzecchiature, poi più esplicitamente, mostrando direttamente al protagonista quello che è stato.

Ma ancora più fondamentale è l’intervento di Trilli.

Anche nel romanzo la fatina è sempre stata una compagna essenziale nella storia di Peter Pan, nonostante i numerosi contrasti fra i due, ed è emblematico che sia lei stessa a riportarlo nell’Isola che non c’è…

…andando così a risolvere un problema di fondo che altrimenti avrebbe rovinato la narrazione: ricordarsi come si vola è un passaggio fondamentale dell’arco evolutivo del protagonista, e come tale può arrivare solo nell’atto finale.

Annullamento

Dustin Hoffman in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

L’Uncino di Dustin Hoffman è un personaggio profondamente drammatico.

Nonostante non si tocchino i toni più tragici del personaggio di Jason Isaacs in Peter Pan (2003), anzi si cerchi in più momenti di ammorbidire la sua figura, il Capitano presenta una personalità malinconica, a tratti persino autodistruttiva.

Infatti, sotto alla patina di umorismo che il film propone, intravediamo un adulto disilluso e avvilito, che si rifugia nell’assurdo desiderio di vendetta nei confronti di Peter Pan – che rappresenta quello non è e che non può essere – nonostante lo stesso non ne abbia più interesse.

Per questo è tanto più interessante quando inconsapevolmente cerca di rubare a Peter il suo sogno.

Tramite una dinamica anche piuttosto tipica, con un tono ancora fortemente agrodolce, Uncino cerca di mettere Jack contro il padre, proprio andare a fare leva sulle mancanze del protagonista come genitore, cercando in qualche modo di prenderne il posto.

Un’idea che si traduce nell’iconica e meravigliosa sequenza della partita di baseball – uno dei momenti di più intelligente attualizzazione dell’opera letteraria – e nelle divertentissime lezioni con cui il villain avvelena la mente del ragazzino.

Dustin Hoffman in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Ancora più interessante il fatto che il suo personaggio non si affezioni mai veramente a Jack, dimostrando ancora più profondamente la sua incapacità di amare, la quale gli impedisce di trovare un riscatto – l’essere padre – nella sua realtà adulta.

Un totale annullamento che porta – a quanto pare più volte – Uncino a decidere di farla finita, non trovando più nessuna soddisfazione nella sua condizione attuale, ma ricercando nella morte, l’unica avventura a cui può ancora ambire.

Riscoperta

Il secondo atto di Hook è geniale.

Particolarmente intelligente anzitutto reimmaginare il covo dei Bimbi Sperduti, trasformandolo in niente di più che un quartiere periferico di New York, e riuscendo così a rappresentare la multiculturalità già propria del periodo di uscita del film.

Così si alternano momenti profondamente commoventi – come quando uno dei bimbi sperduti riconosce Peter – e sequenze più comiche, in particolare quando si cerca di far volare il protagonista, con delle dinamiche tipiche dei film per ragazzi del periodo.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Ma il primo momento di rivelazione è ancora più significativo.

La maggior parte dell’opera di Peter Pan si basa sulla finzione giocosa che scandisce i rapporti fra il protagonista e i Bimbi Sperduti, particolarmente per la cena immaginaria, che nel film è il primo momento in cui Peter riesce effettivamente a capire il potere dell’immaginazione.

Ma l’epifania è rappresentata dall’effettiva riscoperta del suo passato, in particolare della figura di Wendy, e del motivo che gli aveva fatto infine abbandonare l’Isola che non c’è, ovvero una felicità ignota, ma incredibilmente appagante: la paternità.

Ma è una rivelazione rischiosa…

Insidia

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Il ricordo del passato è il primo passo per un ulteriore oblio.

La condizione di totale spensieratezza di Peter Pan nell’opera letteraria rappresentava proprio il perdersi totalmente nei sogni d’infanzia, dimenticandosi di tutto il resto: così in Hook Peter Pan rischia di dimenticarsi della sua stessa famiglia.

Ancora fondamentale, quando struggente, è l’intervento di Trilli, che rappresenta l’altro lato della scoperta felice di Peter: come il protagonista prende il posto della Wendy letteraria – che riscopre il valore di una condizione che aveva finora disprezzato…

…allo stesso modo la fata prende il posto del Peter letterario, sentendosi esclusa dalla nuova vita del suo compagno di avventure, nonostante nella stessa sperava forse di trovare la maturità sentimentale che gli avrebbe permesso di condividere una vita insieme.

Una maturità che la stessa Trilli trova, anche solo per un momento, diventando abbastanza grande per poter contenere nel suo corpo un sentimento così importantele fatine sono troppo piccole per contenere più di un sentimento alla volta – ma inutilmente…

Equilibrio

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Nonostante lo straripante entusiasmo del protagonista, il suo punto di arrivo è all’insegna dell’equilibrio.

Nell’ultimo atto Peter non ha alcun altro interesse se non ricomporre la sua famiglia, mostrandosi del tutto indifferente davanti alle richieste di Uncino, che vorrebbe invece trovare sfogo per la sua personale ossessione.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Così, mentre Peter è già sulla via di casa e gli volta le spalle, Uncino lo trascina in un duello che inevitabilmente perde, rivelandosi come nient’altro che un vecchio ridicolo, che non riesce a trovare nessuna piacevolezza nella sua vita – e mai la troverà.

Infine, nel suo ritorno a casa, il protagonista mantiene la sua ritrovata felicità e eccitazione, ma senza cadere nel totale oblio che viveva in giovane età, ma trovando una buona via di mezzo.

Ovvero, essere un adulto, ma anche un padre affettuoso, non dimenticandosi della creatività e dell’immaginazione che teneva in vita il suo personaggio.

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Il ragazzo e l’airone – Come vivrai?

Il ragazzo e l’airone (2023) – traduzione piuttosto impropria di 君たちはどう生きるか, lett. E voi come vivrete? – è l’ultimo (per ora) film creato dalla meravigliosa mente di Hayao Miyazaki.

A fronte di un budget piuttosto importante per un film animato orientale – 64 milioni di dollari – si sta rivelando uno dei maggiori incassi del genere degli ultimi anni: 137 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Il ragazzo e l’airone (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Il ragazzo e l’airone?

Tokyo, 1943. Nel bel mezzo del Secondo Conflitto Mondiale, il giovane Mahito e il padre si ritirano nella loro tenuta di campagna. Sarà l’occasione per il protagonista per riscoprire sé stesso e il suo passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il ragazzo e l’airone?

L'airone in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Dipende.

Non voglio assolutamente sminuire il grande valore artistico de Il ragazzo e l’airone, ma mi rendo conto che è un film che potrebbe lasciare spiazzati molti spettatori, soprattutto se abituati alle altre opere di Miyazaki, in cui l’elemento simbolico è sempre secondario rispetto all’impianto narrativo.

Al contrario, con la sua ultima fatica, il maestro nipponico confeziona un’opera incredibilmente metaforica e simbolica, che si apre a diverse e variegate interpretazioni, in cui i temi tanto cari al regista – l’ambientalismo e la guerra – si intrecciano al racconto del suo passato e del suo presente.

Insomma, un’esperienza a cui bisogna arrivare pronti.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il ragazzo e l’airone il pericolo non esiste.

Perché?

Dopo tanti anni di attività, la Lucky Red ha finalmente deciso di affidare il doppiaggio a qualcuno che non sia Cannarsi. E, per questo, finalmente è un film godibile anche doppiato.

Evviva, evviva!

Questa recensione non sarà fatta in ordine cronologico, ma personaggio per personaggio, elemento per elemento, proprio per la natura stessa dell’opera.

Il ragazzo

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Mahito si presta ad un ampio ventaglio di interpretazioni.

La lettura più semplice è ritrovare nel protagonista Miyazaki stesso, andando a ricalcare alcuni momenti chiave della sua vita – pur con date e situazioni diverse – e il suo ritrovarsi sotto la guida di Yasuo Ōtsuka, il suo maestro, per poi intraprendere la propria personale carriera artistica.

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Ribaltando invece i ruoli, il protagonista potrebbe in qualche misura rappresentare Hiromasa Yonebayashi, collaboratore storico dello Studio Ghibli, che ha lavorato alla maggior parte dei titoli prodotti dallo stesso, proponendone anche uno proprio – Quando c’era Marnie (2013)

…ma che nel 2015 ha scelto di distaccarsi da Miyazaki e fondare il proprio studio – lo Studio Ponoc.

Quindi forse una delle poche persone che erano interne allo Studio Ghibli in cui Miyazaki vede una sua possibile eredità artistica – lo stile di Yonebayashi è evidentemente erede di quello del maestro – davanti all’evidente incapacità del figlio – di cui bisogna fare un discorso a parte.

Il ragazzo e l’airone

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Ad un livello invece più generale, Mahito può rappresentare la generazione post-atomica.

Il tema della rinascita dopo la tragedia della bomba atomica – e del secondo conflitto mondiale in generale – è estremamente tipico del cinema orientale – lo si può trovare esplicitamente in Gen di Hiroshima (1983) e City of life and death (2009), o, più indirettamente, in Akira (1988).

Di fronte alla drammaticità di eventi che segnarono così profondamente l’immaginario nipponico, il protagonista de Il ragazzo e l’airone potrebbe appunto rappresentare una generazione che ha deciso di non arrendersi, di non rifugiarsi in una realtà altra, ma di trovare il meglio possibile nella propria.

L’airone

L'airone in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

L’airone è una figura incredibilmente enigmatica.

Ad un livello prettamente narrativo, il suo personaggio è la maligna presenza che cerca di attirare il protagonista nella torre per volontà del prozio stesso, per poi riuscire a convincerlo a prenderne il posto.

Leggendo invece il suo personaggio da un punto di vista artistico, l’airone potrebbe rappresentare le creazioni stesse di Miyazaki – è infatti la creazione del prozio – che in più occasioni ha sperimentato con creature fra l’animale e l’umano – si veda Haku in La città incantata (2001) e, soprattutto, Howl in Il castello errante di Howl (2004).

L'airone e Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

In questo senso – e riabbracciando l’interpretazione per cui Mahito rappresenta Hiromasa Yonebayashi – l’airone rappresenterebbe l’eredità artistica di Miyazaki, e così il suo tentativo di conciliare la stessa con un suo possibile successore.

Questa interpretazione ben si accorda con la malvagità della pietra con cui è creato il mondo alternativo, come una sorta di ripensamento disilluso del maestro nipponico riguardo la sua opera, che appare ad oggi mancante di un vero futuro.

Il ragazzo e l’airone

L'airone e Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Secondo un’altra interpretazione, l’airone potrebbe essere Gorō Miyazaki.

Se infatti Yonebayashi si è dimostrato un buon erede del maestro, lo stesso non si può dire per il figlio di Miyazaki, particolarmente nel suo tentativo del tutto fallimentare di rilanciare lo studio con l’animazione 3D con Earwig e la strega (2020).

Forse nella severità del prozio nei confronti della sua creatura possiamo intravedere un sofferto ammonimento del maestro nei confronti del figlio, ma anche un tentativo di conciliazione delle parti – Yonebayashi e Gorō – per trarre il meglio della sua eredità.

Ma il figlio si può ritrovare anche in un terzo personaggio.

Il limbo

La realtà sotterranea rappresenta indubbiamente un mondo altro e forse ultraterreno – da cui la frase, tratta da Inf. III, 5, fecemi la divina podestate.

Proprio come l’airone, il mondo immaginario al di là della torre potrebbe essere una rappresentazione degli alti e dei bassi – almeno secondo la visione di Miyazaki – della sua produzione – e la difficoltà dello stesso di tenerla ancora insieme.

All’interno di questo mondo altro il Re Parrocchetto potrebbe essere una punzecchiata proprio al figlio, che si credeva ormai padrone dello Studio Ghibli, cercando di far cambiare totalmente strada allo stesso, ma risultando infine del tutto incapace.

In un altro senso, nel mondo sotterraneo è racchiusa un’amara riflessione sull’umano.

Trovandosi in una realtà in cui non si riconosce più, il prozio del protagonista si è rifugiato in un mondo alternativo, creandolo, proprio come un dio, secondo la sua visione, trovandosi tuttavia infine a creare un’alternativa per nulla migliore rispetto al mondo di partenza.

In questa realtà alternativa, infatti, l’umano si è comportato al suo peggio, in particolare nei confronti degli animali, diventati aggressivi e davvero umani, ma proprio perché costretti dallo stesso a diventare tali.

Non a caso, Kiriko spiega che in quel mondo ormai ci sono più morti che vivi.

Il creatore

Il prozio in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

L’azione del creatore è in ultimo fallimentare.

In questo senso è molto più probabile che in questa figura Miyazaki volesse rappresentare un sé stesso ormai incapace di tenere in piedi un mondo – lo Studio Ghibli – che lui stesso ha creato, nonostante ci siano tutte le possibilità per farlo – la pietra buona che infine trova per ricostruirlo.

Al contempo, la sua posizione è definita dai simboli della vita e della morte.

Questa dicotomia è racchiusa nelle due sorelle, Hisako e la zia Natsuko.

La gravidanza contenuta dentro al mondo del prozio potrebbe rappresentare un desiderio sopito, ma forse impossibile, di produrre ancora qualcosa – anche non in prima persona – all’interno dello Studio Ghibli.

In questo senso, non è decisamente un caso che questa pellicola, creata a seguito dal suo abbandono dalle scene, sia un’opera così poco tipica

Il ragazzo e l’airone

Mahito e Hisako in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Allo stesso modo Hisako può rappresentare sia la tragedia storica – la bomba atomica – sia la tragedia personale – la morte della madre di Miyazaki e, soprattutto, l’improvvisa scomparsa del suo compagno ed amico, nonché cofondatore dello Studio Ghibli, Isao Takahata.

Il protagonista prende infine le mosse dalla stessa, accettandola dentro sé stesso e decidendo così di proseguire con la sua vita: così Miyazaki ripensa al suo essere riuscito a proseguire con la sua carriera pure dopo la morte dell’amico proprio con questa pellicola…

…volendo forse incoraggiare un suo possibile erede – chiunque sia – a continuare la sua eredità nonostante la situazione dubbia dello Studio.

Ma, proprio per questo, Miyazaki gli chiede: E tu, come vivrai?

A dieci anni di distanza, con Il ragazzo e l’airone Miyazaki porta nuovamente in scena la sua tecnica precisa e impeccabile, pure con qualche novità.

L’evoluzione più evidente è l’animazione di alcune scene particolarmente intense – specificatamente quelle dell’incendio – con una tecnica magnetica e ricca di movimento, che riprende le mosse da Si alza il vento (2013):

Se invece per buona parte dei volti umani Miyazaki rimane su tratti semplici e simili all’opera precedente…

…stupisce con le nuove e ampie sperimentazioni sui volti anziani:

E, al contempo, per la prima volta utilizza un modello di un volto maschile per un volto invece femminile:

Ma la punta di diamante è indubbiamente lo splendido character design dell’airone, con il suo aspetto estremamente mutaforme, e le splendide animazioni che lo portano in vita:

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Wish – Un’ubriacatura lunga cent’anni

Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn rappresenta il punto di arrivo di un centenario disneyano piuttosto drammatico…

…non a caso si prospetta già l’ennesimo flop commerciale per la Disney: a fronte di un budget piuttosto consistente – 200 milioni di dollari – ad un mese dalla sua uscita ha incassato neanche 150 milioni di dollari…

Di cosa parla Wish?

Asha si prepara alla cerimonia in cui il sovrano, Re Magnifico, realizza un desiderio di uno dei suoi cittadini. E la protagonista vorrebbe davvero che il sogno di suo nonno, ormai centenario, fosse esaudito…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wish?

Sasha e Valentino in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Dipende.

Personalmente non considero Wish un film particolarmente meritevole, anzi: mi sono trovata davanti ad un disordinato incontro di diverse intenzioni, fra uno sguardo gettato al passato e ai suoi Classici, e l’intenzione evidente di realizzare qualcosa di più al passo coi tempi.

Ne risulta un prodotto piuttosto incolore, che cerca di rifarsi a dinamiche narrative del passato, ma senza portare nulla di significativo, anzi perdendosi in una metanarrativa e in un citazionismo a tratti veramente esasperante.

Insomma, niente di imperdibile.

La volta buona

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

L’ambientazione di Wish è una delle poche scelte vincenti del film.

Rosas è infatti storicamente piuttosto credibile, pur in un contesto fantastico come quello del film: una metropoli probabilmente tardo-antica, un incontro verosimile fra diverse culture – greca, latina, araba… – come poteva essere, per esempio, Alessandria d’Egitto.

Quindi è del tutto verosimile che, in un panorama del genere, vi sia la presenza di diverse etnie.

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Purtroppo, i meriti si fermano qui.

Come già detto in precedenza, fra tutte le case di produzione, la linea puramente politica della Disney negli ultimi anni è quella che meno digerisco, proprio per il fatto che non vi è la minima traccia di genuinità sul lato dell’inclusività.

Così, anche in questo caso, la produzione sembra voler riempire delle caselle per poter accontentare tutti, con una varietà di figure veramente poco interessanti – nello specifico con l’inclusione di un personaggio disabile, inserito unicamente per far presenza.

Un debole incontro

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

La protagonista di Wish è un pasticciaccio.

Pur con qualche capitombolo lungo la strada, da Rapunzel (2010) in poi si può dire che la Disney abbia almeno tentato di portare in scena protagoniste femminili più tridimensionali ed estranee al concetto più classico di principessa.

Nel caso di Asha, ci troviamo in una drammatica via di mezzo: per molti versi il suo personaggio assomiglia a Rapunzel – e a tutte le principesse da lei derivate – quindi una ragazzina di buon cuore, un po’ sbadata e molto insicura di sé stessa…

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

…ma, al contempo, si cerca in tutti i modi di ricondurla al prototipo della principessa destinata ad un certo lieto fine – in questo caso dal valore discutibile – cercando anche di renderla più attiva, ma risultando comunque mancante di un effettivo arco evolutivo.

Infatti, il punto di arrivo della sua evoluzione è più che altro il riuscire a riunire la comunità sotto la sua figura di fata madrina ante-litteram, mancando però delle basi consistenti e convincenti in questo senso.

Diciamo che più che un punto di arrivo, sembra un punto d’inizio.

La banalizzazione involontaria

Magnifico in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Magnifico è una terribile occasione persa.

Anche in questo caso le intenzioni sono simili a quelle di Asha, con un incontro fra presente – un villain non semplicemente cattivo, ma con un background consistente – e passato – un antagonista volutamente negativo e spaventoso.

Il problema è che Magnifico non è nessuna delle due cose, ma piuttosto un villain piuttosto basilare e poco interessante, con una motivazione veramente banale – la conquista del potere – ed un arco narrativo estremamente prevedibile.

Magnifico in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

In questo senso, si potevano prendere due strade.

Si sarebbe potuto esplorare maggiormente la sua psicologia, legata ad un concetto genuinamente interessante – il controllo dei desideri delle persone per poterle sottomettere – e non renderlo semplicemente un sovrano frustrato per l’ingratitudine dei suoi sudditi.

Allo stesso modo si poteva aggravare la sua malvagità, magari arricchendola di colpi di scena più consistenti: fra questi, sarebbe stato molto calzante scoprire che Magnifico fosse l’autore della morte del padre di Sasha, agendo magari con la complicità della moglie.

Un vero peccato.

Persi in sé stessi

Magnifico, Valentino e Sabino in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Più che puntare sulla storia, sembra che Wish voglia semplicemente essere celebrativo della Disney.

Quindi si sottrae moltissimo alla scrittura di una storia originale ed interessante, preferendo invece abbondare fino alla nausea con riferimenti alla storia della casa di produzione, anche con inserimenti veramente fuori luogo.

Infatti, per quanto sarebbe stato interessante raccontare una sorta di origine del mondo Disney – in particolare molto carina l’idea di rendere Magnifico lo Specchio di Grimilde in Biancaneve e i sette nani (1937) – non pochi elementi non tornano.

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Anzitutto il riferimento alla fata madrina riguardante Asha – concetto introdotto nel panorama favolistico ben oltre l’epoca in cui è probabilmente ambientata la storia e legato fortemente alle storie Disney…

…e, soprattutto, l’inserimento di Peter Pan e, indirettamente, di Mary Poppins (1964), due personaggi con storie veramente troppo lontane dal contesto raccontato in Wish, e il cui inserimento va a togliere senso ai loro stessi film.

Insomma, non si poteva pensare a qualcosa di più sottile ed elegante, invece che questa sbrodolatura fin troppo entusiastica?

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The Nightmare Before Christmas – Crisi di Natale

The Nightmare Before Christmas (1993) è uno dei più incredibili progetti animati della storia del cinema, per la regia di Henry Selick – e non Tim Burton, che fu ideatore del progetto, ma lo seguì a distanza – proprio per l’utilizzo della tecnica stop-motion.

A fronte di un budget di 24 milioni di dollari, fu un grande successo commerciale – 101 milioni di dollari in tutto il mondo – anche se nulla in confronto alla popolarità che guadagnò negli anni.

Di cosa parla The Nightmare Before Christmas?

Jack Skeletron è il Re delle Zucche ad Halloween Town, ma si sente ormai vuoto nel dover organizzare ogni hanno la stessa festa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Nightmare Before Christmas?

Jack e Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

In generale, sì.

Per quanto consideri The Nightmare Before Christmas un prodotto di grande valore, mi rendo conto che i suoi meriti sono ritrovabili più nel lato artistico e musicale, che nella scrittura, che è piuttosto semplice e narrativamente non particolarmente brillante.

Tuttavia, se siete pronti a lasciarvi conquistare da un’opera davvero incredibile, una delle poche create con la splendida tecnica passo-uno (o stop-motion), vi innamorerete delle sue canzoni iconiche e degli splendidi character design dei personaggi.

Vuoto

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

La sequenza di apertura di The Nightmare Before Christmas è iconica.

This is Halloween (Questo è Halloween) è una delle canzoni più celebri della pellicola, che rappresenta perfettamente la città di Halloween Town e i suoi fantasiosi personaggi, creati prendendo le mosse dalle paure più classiche dei giovani spettatori.

E, soprattutto, l’entrata in scena di Jack è uno dei momenti più splendidi della pellicola, semplicemente spettacolare nelle sue dinamiche, e che racconta perfettamente il ruolo di divo che il protagonista gode nella città.

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Ma non basta.

Jack si ritira quasi immediatamente dai festeggiamenti, muovendosi in un panorama lugubre e desolato, che rappresenta proprio i suoi contrastanti sentimenti sulla sua posizione, in una sorta di crisi di identità per cui non vuole più essere il Re di Halloween.

Un sentimento del tutto comprensibile, considerando che il protagonista ha vissuto tutta la sua vita circondato ed immerso nella stessa festa e nelle stesse atmosfere, nelle quali non riesce più a trovare la stessa soddisfazione di un tempo…

Scoperta

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

La scoperta del Natale è in realtà una tentazione.

Il protagonista viene improvvisamente catapultato in un mondo nuovo, in delle atmosfere assolutamente opposte a quelle di Halloween Town, comportandosi proprio come un bambino a Natale.

Tutta l’iconica sequenza di What’s this? (Cos’è) è fondamentale proprio per raccontare l’entusiasmo del personaggio, che così riesce a risolvere la sua crisi d’identità, pur non riuscendo – né ora né dopo – a comprendere davvero la festa di riferimento.

Ma è così splendida questa sua adorabile ingenuità nel cercare di trovare la formula per comprendere il Natale, e nel suo travolgere tutti con un inguaribile trasporto verso questa nuova scoperta, nonostante non sia nelle corde né sue né degli altri personaggi di Halloween.

Ed è ancora più irresistibile quando assistiamo ai tentativi del tutto ingenui dei suoi concittadini nel creare questo Natale alternativo, senza averne capito l’essenza, anzi contaminandolo costantemente – ed inconsapevolmente – con la loro festa di riferimento.

Ma non tutti sono convinti…

Cassandra

Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Sally è un personaggio molto meno banale di quanto potrebbe pensare.

Una sorta di rilettura di Frankenstein: una bambola di pezza che, come Jack sta attraversando una crisi esistenziale, è in una sorta di fase adolescenziale, che la porta ad essere totalmente invaghita del protagonista.

Al contempo è anche un personaggio particolarmente ingegnoso, del tutto consapevole delle sue potenzialità – poter usare le parti del corpo a suo piacimento – e anche piuttosto abile prima nello sfuggire dalle grinfie del suo creatore, poi nel gabbare – almeno momentaneamente – il terribile Bau Bau.

Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Al contempo, Sally ha il ruolo di Cassandra.

Infatti, quando entra per la prima volta in contatto con il Natale, vede la piantina natalizia bruciarsi fra le sue mani: un oscuro presagio della futura disfatta di Jack, che il suo personaggio cerca più volte di spiegare al protagonista, rimanendo però inascoltata.

Così, davanti alla totale cecità di Jack, Sally è protagonista di forse non la canzone più iconica della pellicola, ma sicuramente di una sequenza molto sentita e soffertaSally’s song o La Canzone di Sally – in cui malinconicamente ammette che il suo sogno d’amore è irrealizzabile.

Ingenuità

Jack e Babbo Natale in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

L’ingenuità di Jack non ha limiti.

Essendosi ormai intestardito nel suo progetto, il protagonista non vede nulla di male persino nel rapire Babbo Natale – anzi, pensa di stargli regalando finalmente una vacanza – e così niente di pericoloso nell’affidarsi ai maligni aiutanti di Bau Bau,

Ma, nonostante i suoi tentativi di spiegare il Natale – che, ricordiamolo, neanche lui capisce – ai suoi concittadini, i regali sono terribili, incapaci – per ovvi motivi – di portare gioia ai bambini, ma più che altro utili a regalare un profondo senso di orrore ed inquietudine.

Ma neanche questo basta a fermarlo.

In questo senso, la caduta del protagonista è fondamentale.

Nonostante lo scioglimento della vicenda sia a mio parere un po’ troppo sbrigativo, è necessario che Jack riceva un forte schiaffo che gli faccia comprendere finalmente che non può diventare il protagonista di un’altra festività.

Una realizzazione abbastanza angosciante, che però è sanata da un senso di rivalsa del protagonista, che è comunque felice di averci provato, sentendosi rinvigorito e pronto a riprendere le sue vesti di Re delle Zucche.

Sconfitta

Bau Bau in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Bau Bau è un villain necessario.

Trovandoci in un mondo dominato dall’orrore, con un protagonista non propriamente positivo, ma anzi a tratti profondamente negativo, il ritorno alla ribalta di Jack necessita della sconfitta di un antagonista ancora più pauroso e indiscutibilmente cattivo.

Infatti, Bau Bau rappresenta la paura massima per un bambino – l’incomprensibile e mutaforma Uomo nero – ed è infatti immerso in un ambiente piuttosto ostile, soprattutto per lo sguardo infantile: una sorta di sala giochi delle torture.

 Nightmare Before Christmas finale (1993) di Henry Selick

In questo modo, Jack ha una doppia rivalsa.

Il protagonista riesce a sconfiggere un villain per cui fin dall’inizio dimostrava una malcelata antipatia, considerandolo probabilmente una sorta di minaccia che poteva mettere in discussione la sua autorità.

E, ovviamente fondamentale nel finale riprendere e riscrivere la malinconica canzone di Sally, ma in positivo, con un finale estremamente felice, in cui Jack riesce finalmente ad aprire gli occhi e a capire cosa si stesse perdendo.

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Avventura Cinema per ragazzi Drammatico Fantastico Film Polar Express Surreale

Polar Express – In cosa credi?

Polar Express (2004) è una delle opere più iconiche della filmografia di Robert Zemeckis – il primo dei due film natalizi che produrrà nel giro di pochi anni insieme a A Christmas Carol (2009).

A fronte di un budget piuttosto ingente per un prodotto animato – 150 milioni di dollari – ebbe un riscontro discreto al botteghino: appena 314 milioni di incasso.

Di cosa parla Polar Express?

Un bambino senza nome, proprio la sera della Vigilia, sembra non riuscire più a credere al Natale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Polar Express?

Capotreno in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Il motivo per cui probabilmente Polar Express fu un discreto flop è che non è per nulla un film di Natale in senso classico, né un film propriamente per famiglie: le dinamiche sfiorano il surreale, le atmosfere sono più angoscianti che gioiose, e, sopratutto, la morale è molto atipica e non semplicissima da comprendere.

Infatti, Zemeckis sceglie di portare in scena una concezione del Natale che vada oltre il mero ambito materiale, raccontando degli insegnamenti piuttosto importanti e profondi sul vero significato che dovrebbe avere il periodo natalizio.

Insomma, una pellicola da riscoprire.

Il dubbio

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

I primi minuti di Polar Express sono quelli che forse meglio si adattano ad un pubblico infantile.

Infatti, l’incipit racconta dei dubbi del tutto legittimi e naturali che cominciano ad assalire i bambini quando si approcciano al passaggio all’adolescenza, ovvero il momento più tragico della crescita che rappresenta la fine del mondo dei sogni.

Tuttavia, il protagonista non sembra avere un atteggiamento disilluso e distruttivo, ma piuttosto speranzoso: sembra insomma che cerchi in ogni modo di riuscire a credere al Natale e alla narrativa che lo circonda.

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Ma il Polar Express non arriva per convincerlo.

Il conducente del treno gli offre semplicemente la possibilità di salire sul treno e per questo riuscire a vedere con una nuova prospettiva il senso della festività. Tuttavia, non insiste più del dovuto: davanti all’incertezza del bambino, semplicemente, lo lascia a sé stesso.

E infatti è il protagonista che infine decide di accettare questa nuova avventura.

La tasca

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Il viaggio in treno è funzionale al mettere alla prova il protagonista – e non solo lui.

Il bambino si immerge in un panorama particolarmente festoso, ma in cui riesce a fatica a prendere parte tanto che, paradossalmente, le scene iniziali di questa sequenza sono quelle più propriamente natalizie e adatte al target di riferimento – nello specifico, il numero musicale della cioccolata.

Al contrario, più sottili le dinamiche riguardo alla tasca bucata rappresentano l’atteggiamento del protagonista: nonostante il biglietto sia presente nella tasca sana, il bambino prima di tutto cerca nella tasca fallata.

Insomma, gli occhi del protagonista sono fissi verso il lato più inevitabilmente e irreparabilmente disilluso del suo animo, sempre alla ricerca di una prova materiale che c’è ancora qualcosa in cui credere.

Per questo, i suoi coprotagonisti sono fondamentali.

I due opposti

Bambina in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

La ragazzina senza nome e Billy rappresentano due opposti.

La bambina, che fin da subito guarda il protagonista in maniera divertita e concitata, è l’unica che ha già compreso il vero valore del Natale – e che rappresenta la morale del film: non una semplice festa consumistica e materiale, ma un’occasione per essere migliori.

Non a caso, quando cerca di convincere Billy sulla bellezza delle festività, non cita mai i regali, ma piuttosto fa riferimento ai sentimenti positivi e alle atmosfere che rappresentano il periodo natalizio.

Billy in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Invece, Billy è molto più simile al protagonista.

Il suo personaggio non è sicuro di voler salire sul Polar Express – e quindi di voler credere al Natale – perché, essendo evidentemente molto povero, si rende conto che il periodo natalizio è molto meno piacevole e festoso di quanto si racconti.

Anche se non viene detto esplicitamente, è evidente che con ogni probabilità il sentimento primario di Billy verso il Natale non sia la gioia, ma l’invidia, l’invidia di non poter veramente vivere il periodo con dolci e balocchi, così da sottolineare ancora di più le differenze fra lui e gli altri bambini.

Il biglietto fantasma

Le dinamiche legate al biglietto e all’arresto del treno sono emblematiche.

In entrambi i casi, il protagonista dimostra di custodire dentro di sé i sentimenti che dovrebbero essere propri del Natale: aiutare gli altri – fermando il treno per far salire Billy – e essere onesti e altruisti – cercando sbadatamente di dare alla bambina il suo biglietto smarrito.

Da questo momento, parte la sequenza più surreale della pellicola.

La bambina scompare misteriosamente con il capotreno, e il protagonista sceglie di seguirla per aiutarla, con un susseguirsi di scene che abbracciano più di tutte il taglio onirico e surreale della pellicola.

Fantasma in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

In particolare, per quanto riguarda il fantasma.

Si comprende a posteriori che quel fantasma è assimilabile ai tre spettri che visitano Scrooge in A Christmas Carol (1843), ed infatti è uno dei personaggi che mette più alla prova il protagonista, quasi sbeffeggiandolo.

Non a caso, il fantasma chiede al bambino se crede agli spettri – quindi a lui stesso – proprio a dimostrargli come la sua disillusione nei confronti del Natale sia orientata nel verso sbagliato: la sua adesione allo spirito natalizio è sotto i suoi occhi.

Il freddo Natale

Come per la maggior parte del film, la città del Natale è più lugubre che natalizia.

Infatti, i tre protagonisti incidentalmente entrano all’interno della fabbrica di Babbo Natale, e vedono da vicino le dinamiche del dietro le quinte, muovendosi in ambienti freddi e vuoti, spiando gli elfi che si comportano in maniera quasi maligna.

Questa esplorazione è guidata dalla bambina – l’unico personaggio che conosce davvero il senso del Natale – che riesce a sentire il suono delle campanelle, rappresentative appunto dell’essere effettivamente vicini allo spirito natalizio.

Campanella in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Il seguente arrivo di Babbo Natale è un momento genuinamente angosciante, in cui letteralmente il bambino non riesce a vederlo, nonostante questo sia davanti ai suoi occhi – e, allo stesso modo, non riesce a sentire la campanella, nonostante sia accanto al suo orecchio.

E qui avviene la svolta.

Il protagonista, dopo l’avventura rivelatoria che ha appena vissuto, si convince infine a riabbracciare lo spirito del Natale, al punto da chiedere a Babbo Natale proprio di poter portare con sé qualcosa che glielo confermi.

Per questo il finale è rivelatorio.

L’insegnamento immateriale

Campanella in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Ognuno dei protagonisti ha imparato qualcosa.

Anche se la bambina sembrava quella che avesse meno bisogno di apprendere qualcosa, comunque riceve infine un incoraggiamento da parte del capotreno: continuare a credere in sé stessa ed essere una guida per gli altri.

Più complesso è il senso dell’insegnamento di Billy: sul biglietto è scritto count on fare affidamento: il bambino deve ricominciare a credere nel Natale e sulla buona volontà delle altre persone, smettendo di chiudersi in quella sconsolante disillusione.

Ma, sopratutto, si vuole insegnare a Billy – e agli altri bambini – quanto il Natale non sia solamente una festa materiale, basata sui regali che si riceve – e infatti il bambino deve essere capace di attendere il giusto tempo per aprire il suo regalo.

Ma l’insegnamento più importante è quello del protagonista.

Il bambino deve ricominciare a credere, ma non a credere semplicemente a Babbo Natale, ma piuttosto a saper mantenere nel suo animo gli insegnamenti che il Natale dovrebbe portare, indipendentemente dai suoi simboli più materiali.

Per questo la campanella gli viene ridata con una sorta di ammonimento, un feticcio da conservare per essere sicuro di saper ancora credere, a differenza proprio dei suoi genitori e di sua sorella: chi prima chi dopo, tutti loro smetteranno di sentire il suono della stessa.

In questo senso, è più che altro un insegnamento per gli adulti sul non limitare il senso del Natale all’ambito più materiale, e così di abbandonare in fretta il senso di meraviglia e di speranza che caratterizza l’infanzia, ma di mantenere quei sentimenti – e insegnamenti – per tutta la vita.

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Back to...Zemeckis! Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Horror Thriller

Le verità nascoste – Un presentimento

Le verità nascoste (2000) è un’opera minore della filmografia di Robert Zemeckis, un intrigantissimo thriller con protagonisti Michelle Pfeiffer e Harrison Ford.

Con un budget piuttosto ingente – 100 milioni di dollari – fu complessivamente un successo, incassando 291 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Le verità nascoste?

In seguito alla partenza della figlia Caitlin, Claire si trova da sola in casa, che sembra come se fosse infestata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le verità nascoste?

Assolutamente sì.

Le verità nascoste è un film incredibilmente intrigante, che riesce ad equilibrare ottimamente l’elemento orrorifico e fantastico all’interno di un thriller con una simbologia seducente e ben delineata.

La stessa regia è precisa, puntuale, a tratti anche sperimentale, godendo fra l’altro di ottimi interpreti, in particolare la splendida Michelle Pfeiffer, in una delle migliori interpretazioni della sua carriera.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Il film si articola all’interno di un uso simbolico dei colori indossati dalla protagonista: bianco, rosso e nero.

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Avventura Cinema per ragazzi Commedia Commedia nera Cult rivisti oggi Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Grottesco Horror Humor Nero Unconventional Christmas

Gremlins – La commedia dei cattivi sentimenti

Gremlins (1984) è uno dei maggiori cult del cinema per ragazzi Anni Ottanta, per la direzione di Joe Dante e la fantastica sceneggiatura di Chris Columbus.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 11 milioni di dollari, circa 32 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 213 milioni di incasso (circa 621 oggi).

Di cosa parla Gremlins?

Lo stravagante inventore Rand visita una piccola bottega delle stranezze a Chinatown, dove trova un animaletto molto particolare, un mogwai

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins?

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Assolutamente sì.

Gremlins è un horror per ragazzi di grande valore, che gode di una scrittura veramente ottima e puntuale, che introduce gradualmente gli eventi con un raro equilibrio fra l’orrore e il grottesco, riuscendo al contempo ad ammorbidire i toni per renderlo adatto al target.

Oltre a questo, il character design dei gremlins è incredibile e così anche la loro messinscena, che riesce a farli passare non come dei meri pupazzoni, ma come delle creature vive ed incredibilmente espressive.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La minaccia sotterranea

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Per quanto il primo atto sembri raccontare una storia piacevole ed accogliente, diversi elementi in scena mostrano tutt’altro.

I personaggi sono totalmente immersi in questo sogno del nuovo animaletto domestico – il cui character design ricorda l’unione fra un coniglio, un orsetto e un pipistrello – che sembra totalmente innocuo, una piacevole aggiunta al quadro familiare.

Questa sensazione di apparente tranquillità rende i personaggi umani del tutto sbadati e poco attenti alla cura dello stesso, agendo più volte in maniera molto ingenua, tanto da essere loro stessi i fautori dell’incubo che verrà.

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Ma ci sono diversi indizi di quello che sta per succedere.

L’elemento più palese è l’inserimento di diverse scene del classico della fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956), che parla proprio di un’invasione segreta di alieni che si moltiplicano e si sostituiscono gli umani.

Ma l’indizio più sottile, ma assolutamente perfetto, è il siparietto comico in cui Rand sta testando la sua nuova invenzione: inizialmente le carte escono ordinatamente e sono controllate…ma poi la situazione gli sfugge di mano, e cominciano a moltiplicarsi fin troppo velocemente…

…proprio quando il figlio sta per venirgli a raccontare dei gremlins che si stanno riproducendo.

Introdurre il mostro

La maestria di Gremlins è anche il saper raccontare coi giusti tempi il villain della storia.

Anzitutto, i nuovi arrivati si dimostrano fin da subito ben diversi dal loro genitore – Gizmo – molto più irruenti e dispettosi – come dimostra, fra gli altri, il brutto scherzo nei confronti del cane, Barney.

E per questo il punto di svolta è così rivelatorio.

Infatti, quando Billy offre ai gremlins le cosce di pollo, questi ci banchettano felicemente, mentre Gizmo, come se fosse consapevole della situazione, le rifiuta…

Billy in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

La trasformazione dei gremlins è, fra l’altro, una bellissima citazione al suddetto L’invasione degli ultracorpi, ma anche ad Alien (1979): oltre ai gusci molto simili alle uova dello xenomorfo, anche il comportamento degli umani è simile.

Infatti, come nel cult di Ridley Scott, i personaggi umani sono anche fin troppo entusiasti di questa nuova situazione – particolarmente il professor Hanson – fino ad arrivare all’inquietante sottofondo della proiezione scientifica, che apre le porte alla trasformazione…

Così, come nei migliori film del genere, il mostro è tenuto fuori dalla scena per molto tempo, ma la sua presenza è costante: dall’assassinio del professore fino all’improvviso attacco ai danni di Billy.

Infine, la rivelazione effettiva avviene nella cucina, in cui la madre del protagonista, quasi come una novella Ripley, è la prima ad affrontare e riuscire in parte a sconfiggere questi orribili mostri.

E anche qui il film riesce a stupire.

Un film per bambini?

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

L’atto centrale, quanto quello conclusivo, godono di una rara maestria di scrittura.

In questo caso si mostra ancora più evidentemente la doppia natura del film, che riesce a mantenersi adatto per il target, pur mettendo in scena una violenza veramente sorprendente, a partire dai modi in cui la madre di Billy elimina i mostriciattoli…

Più volti al lato comico sono invece i vari siparietti degli scherzi dei gremlins e il loro comportamento incredibilmente caotico: dall’assalto al bar con Kate, in cui sbevazzano e fumano – e persino la importunano! – fino alla mia scena preferita: il coro di Natale.

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

I gremlins si rivelano insomma per quello che sono: mostriciattoli dispettosi, financo particolarmente spietati – tanto da distruggere una casa – ma, al contempo, anche la perfetta evoluzione di Gizmo.

Infatti, i suoi figli ne riprendono i caratteri, ma li mutano in maniera mostruosa: dalle orecchie da coniglio a quelle di un pipistrello, dai tratti dolci del viso e gli occhioni liquidi agli occhi rossi ed ai lineamenti serpentini…

Una deformazione particolarmente sottolineata quando gli stessi vengono messi a confronto con i nani durante la visione di Biancaneve e i sette nani (1937), di cui i gremlins imitano perfino le canzoni…

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

E questa dicotomia fra l’essere dei futuri giocattoli per bambini al riprendere le fattezze dei più famosi villain dei classici della fantascienza li accompagna fino alla fine, soprattutto nella sequenza del negozio per bambini…

Così anche nel finale: se la morte di Ciuffo Bianco richiama involontariamente l’iconica scena di Terminator (1984), la chiusura del film cerca di ammorbidire i toni, raccontandosi come la conclusione di una favola di Natale, ma con troppi elementi horror per davvero poterla considerare tale…

E a questo proposito…

Un Natale diverso

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Un aspetto che davvero sorprende di Gremlins è quanto poco sia associabile ad un film di Natale.

Nonostante il clima festivo sia presente fin dall’inizio, è disturbato da moltissimi elementi che raccontano un Natale davvero diverso, quasi malinconico: dalla cattiveria gratuita della Signora Deagle alla triste storia della morte del padre di Kate.

Una scelta che può sembrare banale, ma che in realtà è un modo intelligente per equilibrare i toni della pellicola, senza voler mostrare una disparità troppo grande fra l’orrore dei gremlins e l’atmosfera delle feste.

Peculiare in particolare la mancanza di una ricongiunzione finale dei personaggi, ma che non stupisce se si pensa al film di cui Chris Columbus si occuperà una decina di anni dopo: Mamma ho perso l’aereo (1990), per molti versi l’apoteosi della commedia dei cattivi sentimenti.

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The Whale – Il dramma insoluto

The Whale (2022) una pellicole di Darren Aronofsky, in cui il regista statunitense sceglie un taglio più strettamente realistico, pur non abbandonando del tutto l’elemento fantastico-simbolico.

A fronte di un budget veramente risicato – appena 3 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, con 54 milioni di dollari di incasso.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per The Whale (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior attore protagonista
Migliore trucco e acconciatura
Miglior attrice non protagonista

Di cosa parla The Whale?

Charlie è un professore universitario in un collage online, che, ad un passo dalla morte, sceglie di riallacciare i contatti con la figlia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Whale?

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Dipende.

Personalmente mi sono approcciata a questa pellicola con l’idea di riavvicinarmi alla filmografia di Aronofsky, dopo il passo falso di Madre! (2017), che mi aveva totalmente respinto e, di fatto, portato a detestare la poetica di questo autore.

Grazie a The Whale mi sono parzialmente ricreduta, in quanto sono riuscita ad apprezzarlo decisamente di più rispetto alla sua opera precedente. Tuttavia, questa visione ha anche confermato la mia insofferenza per un taglio narrativo volto in una certa misura all’autocompiacimento un po’ fine a sé stesso.

Nondimeno, ho indubbiamente apprezzato il ritorno di Brendan Fraser in scena, che riesce a reggere sulle sue spalle una performance veramente complessa e per nulla facile da rendere senza cadere nel ridicolo.

Insomma, dipende tutto da che tipo di aspettative avete su questa pellicola.

Nido

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie è il protagonista della sua tragedia personale.

Da anni ha scelto ormai di non prendersi più cura di sé stesso, ma di sprofondare in una trascuratezza e in una condizione tale da non potersi neanche più muovere, vivendo quasi del tutto isolato all’interno del suo nido.

Una sorta di lenta morte autoindotta, in cui porta avanti le sue due missioni più importanti: ispirare l’originalità e l’autonomia di pensiero nei suoi studenti, e il lasciarsi alle spalle un patrimonio tale da rendere la vita della figlia molto più soddisfacente della propria.

E qui risiede il primo problema.

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Per quanto Charlie – e il film stesso – cerchino di raccontarci il contrario, Ellie non è un personaggio positivo.

Il protagonista sembra infatti incapace di giudicare la figlia al di fuori di quel saggio scritto in tenera età, in cui Ellie dimostra effettivamente una lucidità e maturità mentale tale da saper analizzare un’opera così complessa come Moby Dick...

…ma il suo personaggio è ben altro.

Ideale

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Sulla carta Ellie è un personaggio che doveva mostrare una caratterizzazione variegata e interessante, ma nell’effettivo mi è parsa maggiormente un personaggio tagliato con l’accetta.

Di fatto, la riconduco senza problemi al modello della ragazza ribelle, anche piuttosto stupida ed immatura, che però nasconde dentro di sé dei talenti che, per la sua situazione sociale, sembra incapace di sfruttare appieno – non tanto diversa da Maeve di Sex Education, insomma.

In questo senso, Charlie vorrebbe farla sbocciare, ma riesce infine solamente a trovare un riscatto personale e puramente apparente, quando sembra ricondurre la figlia sulla strada più proficua dell’originalità di pensiero e di maturazione personale.

Ma è davvero così?

Salvezza

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie non vuole essere salvato.

Nella sua casa sono presenti due stanze: in una alberga il suo presente – la trascuratezza e l’autodistruzione – nell’altro il suo passato, e possibile futuro – l’ordine, la disciplina, la cura dell’ambiente e quindi del sé.

Nella sua persona è quindi presente il potenziale per una salvezza, continuamente incoraggiata dai personaggi che lo circondano, anche grazie al patrimonio che ha conservato con tanta fatica e che potrebbe svoltargli l’esistenza.

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Ma allora perché sceglie la distruzione?

Dopo i profondi drammi che ha attraversato, Charlie si è ormai convinto che, qualunque strada prenda, giungerà ad un’infelicità ancora maggiore: il solo tentare sarebbe già di per sé perfettamente inutile.

Per questo, sceglie Ellie.

L’importanza che viene data al patrimonio economico di Charlie è forse derivante da una mentalità estremamente statunitense del potere insito nella disponibilità economica, che può potenzialmente aprire infinite porte ed opportunità.

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Ma Ellie ha bisogno di molto altro che i soldi.

Charlie si congeda da sua figlia con una promessa, ignorando i segnali che raccontano una personalità assai problematica e fuori controllo, scegliendo di donarle solamente il mezzo per la salvezza che lui stesso non ha mai trovato, ma lasciandola senza una guida.

Una guida che poteva, anzi doveva essere Charlie, che invece ha preferito regalare la sua vita alla figlia, sembrando del tutto ignaro dell’importanza che avrebbe potuto avere per Ellie da vivo – molto più, appunto, del mero denaro.

Ma non è neanche l’unico colpevole.

Ignavia

Hong Chau in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie è circondato dai complici della sua disfatta.

Il problema di fondo non è tanto il fatto che il protagonista abbia un’idea così deviata e distruttiva della sua esistenza, ma che le persone che lo circondano non siano mai veramente capaci di salvarlo.

Da Liz a Thomas, fino alla stessa Ellie, tutti potevano effettivamente prendersi il ruolo di salvatori, ma tutti al contempo sembrano, nel loro piccolo, afflitti dalla stessa malattia di Charlie: l’incapacità di migliorarsi.

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

A questo proposito, non voglio dire che ogni protagonista tragico debba avere il suo riscatto o che debba per forza vivere un arco evolutivo con esito positivo, ma che lo stesso dovrebbe essere un minimo più significativo.

Diverse sono le figure che si susseguono in diverse storie che, incapaci di trovare un riscatto, si ritrovano soffocate dalle loro stesse debolezze – uno fra tutti, il protagonista di Beau is afraid (2023) – ma una buona scrittura è capace di arricchire questi drammi di importanti significati.

Al contrario in The Whale io ho trovato solamente un dramma fine a sé stesso, la storia di un uomo illuso e di fatto egoista, costretto a vivere in mondo terribile e che lo disprezza, senza che questo mi spingesse ad un’effettiva riflessione, lasciandomi invece solo con una profonda amarezza.

E nient’altro…

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La morte ti fa bella – Un’ossessione eterna

La morte ti fa bella (1992) è uno dei film forse più particolari della prolifica carriera di Robert Zemeckis, che poté godere di un terzetto di protagonisti incredibili: Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn.

A fronte di un budget abbastanza importante – 50 milioni di dollari – fu complessivamente un buon successo commerciale: 149 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La morte ti fa bella?

Madeline è un’attrice senza talento e con un solo punto di forza: la bellezza. E farebbe di tutto per mantenerla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La morte di fa bella?

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

La morte ti fa bella è un piccolo cult della filmografia di Zemeckis, in cui sceglie delle strade già percorse in parte con Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), con un umorismo profondamente grottesco, quasi orrorifico, ma che impreziosisce un importante tema di fondo.

Una pellicola che brilla in particolare per il terzetto di attori protagonisti, che riescono a gestire una recitazione molto caricata, ma mai eccessiva, all’interno di un reparto di effettistica davvero incredibile.

Insomma, da non perdere.

Un prologo improvviso

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’incipit di La morte ti fa bella viaggia a due velocità.

Il personaggio di Mad e la sua nomea vengono introdotti fuori scena, con uno scambio piuttosto aspro fra due spettatori scontenti per la sua prestazione attoriale, seguito dall’inquadratura su un volantino abbandonato sotto alla pioggia battente…

E, all’interno del teatro, la situazione non è differente: nonostante la baldanzosa performance della protagonista, buona parte degli spettatori è annoiata, addirittura addormentata, abbandona in massa la sala in uno scontento generale.

Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Tutti tranne uno.

L’entusiasmo travolgente di Ernest lo accompagna fino al camerino di una Madeline che già si dimostra ossessionata del suo aspetto, che però basta perché i due si scambiano sguardi languidi davanti ad una Helen terrorizzata – e, a posteriori, scopriremo anche il perché.

Il matrimonio improvviso, introdotto dalla rassicurazione di Ernest ad Helen – Non ha alcun interesse per Madeline! – introduce perfettamente il personaggio: un uomo che, anche per la sua professione, si fa facilmente e superficialmente ammaliare dalla bellezza e dal fascino di una donna che conosce appena.

I due estremi

Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

La condizione di Helen sette anni più tardi è rivelatoria della natura delle protagoniste.

Le due amiche si nutrono di due ossessioni: la ricerca ostinata della bellezza e del vivere eternamente giovani, e il profondo odio covato per anni l’una verso l’altra, raccontato perfettamente dal godurioso entusiasmo di Helen mentre guarda la scena in cui Madeline viene strangolata.

Al contempo questo lasciarsi totalmente andare rivela come entrambe siano di fatto incapaci di prendersi cura di sé stesse, tanto da limitare la loro esistenza solamente a due estremi: o l’obesità impossibile o la bellezza ricercata ad ogni costo.

Per questo all’interno di questo contrasto omicida, Ernest è infine solamente un trofeo, la prova di essere effettivamente riuscite a raggiungere un grado di desiderabilità tale da poter conquistare un uomo neanche così tanto desiderabile…

Il ribaltamento

Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’atto centrale è caratterizzato da un continuo ribaltamento di ruoli.

Una Helen tirata a lucido si ripropone agli occhi dell’ex-fidanzato, cominciando a muovere le prime pedine del suo piano omicida, in cui Ernest, ancora una volta, non è altro che un mezzo per la realizzazione di una personale vendetta.

Interessante in questo senso la sequenza che rappresenta il piano di Helen, in cui Madeline ne prende simbolicamente il suo posto – indossa infatti il vestito rosso – mentre Madeline e Ernest sono vestiti di bianco, come se si stessero finalmente sposando…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Questo incontro è anche il momento che mette davvero in crisi Madeline, attonita davanti ad un marito che, per quanto non sia neanche più così interessante, è un simbolo sociale troppo importante per lasciarselo sfuggire dalle mani dell’arcinemica.

Il picco drammatico è rappresentato dalla disastrosa fuga in macchina: dopo essere stata respinta persino dal suo giovane amante – trofeo sostitutivo del marito – una Madeline disperata getta uno sguardo al suo volto devastato dal pianto…

…e lancia un urlo di terrore.

Segue la splendida sequenza dell’elisir di lunga vita, che sembra risolvere tutti i problemi della protagonista, che anzi non avrà neanche più bisogno della conferma del marito per considerarsi bella, in quanto il suo aspetto parlerà già da sé.

Il momento della trasformazione è anche quello in cui il film comincia a dare sfoggio del suo splendido reparto di effettistica, che funziona ottimamente e con pochissime sbavature -l’unico momento poco credibile è quando Madeline ha la testa rivoltata.

L’arco evolutivo…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Il terzo atto è il più sorprendente.

L’unico personaggio che gode effettivamente di un arco evolutivo è Ernest, che sceglie di liberarsi della moglie autonomamente rispetto al piano di Helen, nonostante sia inizialmente pronto a salvarla dalla caduta dalle scale, ricredendosi immediatamente quando la donna si rivela nuovamente per la sua acidità.

Allo stesso modo, l’uomo ricomincia a prendersi cura di lei non tanto per un ritrovato amore, ma per riuscire finalmente a tornare a praticare la sua professione, iniziativa che però lo porterà ad essere nuovamente l’oggetto del desiderio delle due donne – anche se per motivi diversi…

Bruce Willis in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Ma più si immerge nel sogno folle della vita eterna delle due donne, che pur essendo morte, pur cadendo a pezzi, vogliono continuare ad essere ricostruite e messe a posto – una rappresentazione piuttosto sagace dell’inseguimento perfezione estetica tramite la chirurgia plastica – più se ne vuole allontanare.

Addirittura, scegliendo di togliersi la vita.

Pur in maniera molto semplicistica, nel finale il film racconta come la ricerca della bellezza e della vita eterna può essere ricercata al di fuori della mera realtà materiale ed estetica, riscoprendo la nuova vita di Ernest nei suoi ultimi trentasette anni di vita.

…e involutivo

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Invece, nel loro arco involutivo, le due protagoniste dimostrano tutta la loro ristrettezza mentale.

Se fino ad un momento prima cercavano di distruggersi a vicenda, appena si rendono conto della reciproca immortalità, si ricongiungono per un motivo puramente egoistico: sostenersi in questa fragile vita eterna.

Allo stesso modo, l’interesse a tenersi vicino Ernest è del tutto dettato dalla paura di non poter effettivamente essere belle per sempre, dando anzi per scontato che questa orrenda vita eterna sia un desiderio condiviso anche dall’uomo.

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Infatti, in diversi momenti si nota come la ruggine fra le due non sia mai stata risanata, al punto che, con un piacevolissimo parallelismo, Madeline lascia che Helen cada giù dalle scale, pensando finalmente di aver vinto…

…ma la sua ben più scaltra compagna la afferra per il bavaro, così che entrambe si trovino ancora più rovinate e inguardabili di quanto già non fossero, ma con una battuta di chiusura che fa forse presupporre che non è la prima volta che succede una cosa del genere…