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Il Corvo – Un semplice amore

Il Corvo (1994) di Alex Proyas, tratto dall’omonimo fumetto di James O’Barr, è uno dei più grandi cult cinematografici degli Anni Novanta.

La sua fama è legata anche all’infausto incidente dell’attore protagonista, Brandon Lee, che morì sul set a soli ventott’anni e non poté mai vedere il film finito…

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 23 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo, tanto da portare a ben due sequel.

Di cosa parla Il Corvo?

Eric e Shelly sono una giovane coppia innamorata, il cui destino viene stroncato da un evento improvviso. Ma la vendetta è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il Corvo?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

In generale, sì.

Non voglio troppo sbilanciarmi: Il Corvo è un film che va veramente inquadrato nel periodo in cui è uscito, in quanto figlio di un’estetica che ad oggi potrebbe essere considerata quasi trash e dozzinale.

Inoltre, se siete appassionati del fumetto d’origine, potreste rimanere parzialmente delusi – per me è stato così – in quanto questa trasposizione cerca di rendere più digeribile una vicenda davvero cupa e malinconica.

Tuttavia, al di là di questo, Il Corvo è indubbiamente una lettera d’amore verso l’opera di James O’Barr – presente anche con un piccolo cameo – che riesce al meglio delle sue possibilità – e con scelte complessivamente vincenti – a rendere una graphic novel così complessa e sofferta.

Insomma, da vedere.

In questa recensione inevitabilmente ci saranno dei confronti con l’opera originale, che vi invito a riscoprire.

Frammenti di dolore

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Non era semplice rendere la scena dell’omicidio iniziale de Il Corvo.

Il film sceglie un taglio peculiare, ma assolutamente adatto alla narrazione dell’opera originale: un montaggio travolgente, in cui frammenti della scena si susseguono sullo schermo, attimi di dolore e paura…

Inoltre la pellicola opera alcuni cambiamenti funzionali alla riuscita del film: la violenza non avviene in strada, ma nell’appartamento della coppia, e così Shelly non viene uccisa con un colpo alla testa, ma affronta trenta ore di dolore in ospedale.

La monumentalità ammorbidita

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Allo stesso modo, anche portare in scena Eric era la sfida più ardua.

Nel fumetto il protagonista è una figura monumentale e paurosa, che vive del contrasto fra l’orrido presente e la morbidezza delle scene d’amore quotidiano con Shelly, che sottolineano la profondità del dolore e del desiderio di vendetta del suo personaggio.

La pellicola in questo senso sceglie un taglio leggermente diverso: Brandon Lee sembra quasi uno zombie che riemerge dalla tomba…

…e riesce nel complesso a reggere sulle spalle un personaggio così complesso, con una buona presenza scenica e una resa visiva veramente calzante.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Al contempo però il film sceglie anche di riportare il protagonista più coi piedi per terra, di non giocare troppo con il contrasto fra presente e passato…

…ma piuttosto di mantenere questa dicotomia nel presente stesso: come Eric è un killer insaziabile, al contempo è anche un giovane ragazzo distrutto dal lutto, ma ancora legato agli affetti terreni.

Nello specifico, al personaggio di Sarah.

La felicità intrusiva

Nonostante ne comprenda la funzione, Sarah è l’elemento che ho meno apprezzato.

Nel fumetto Sarah ha un ruolo minore, limitato a pochi momenti, mentre nel film diventa una figura fondamentale per rendere più umano il protagonista e permettere allo stesso di trovare col suo ritorno in terra una funzione ulteriore oltre alla vendetta.

Insomma, serve a dare un briciolo di speranza in più allo spettatore.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Sempre per lo stesso fine, la madre di Sarah segue un percorso di redenzione proprio grazie al protagonista, liberandosi dalla dipendenza dalle droghe e ricominciando a curare la figlia.

Una scena di per sé inutile ai fini della trama, ma del tutto funzionale per ammorbidire il tono del film.

E lo stesso avviene nel finale.

Il vero amore?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Il finale del film ruota principalmente intorno al personaggio di Sarah.

A differenza del fumetto, Eric nel terzo atto ha fondamentalmente concluso la sua missione ed è pronto a ricongiungersi con Shelly, ma ritorna in campo proprio per salvare la ragazzina, perdendo anche parte dei suoi poteri – l’immortalità – e quindi dovendo combattere ad armi pari T-D.

Nel complesso tuttavia ho apprezzato il cambiamento della fine di del boss, che solo alla fine Eric comprende essere il vero artefice del suo dramma: per questo decide di punirlo con qualcosa di peggiore della morte stessa.

Ovvero, fargli provare l’insopportabile dolore di Shelly prima di morire.

Al contrario, mi è ha meno convinto la chiusura del film.

Per rendere la vicenda più comprensibile allo spettatore medio, si sceglie di glissare totalmente sul motivo originario – nel fumetto – della vendetta di Eric, ovvero il tentativo di liberarsi dalla colpa di non essere riuscito a salvare la sua amata, così da poter lasciare questa vita di mezzo e ricongiungersi con lei.

Il film sceglie una via più semplice, sottolineando la forza di un amore così sincero ed immortale come quello fra Eric e Shelly, che gli ha permesso di tornare in vita e di punire i suoi aguzzini, e, infine, di ricongiungersi amorevolemente con lei.

Il Corvo Sequel

A cura di Carmelo.

Vale la pena di vedere i sequel de Il Corvo?

Il secondo film è molto vicino allo spirito del primo capitolo: nonostante il protagonista sia diverso, la sua motivazione e le dinamiche della sua storia sono simili.

Fra l’altro, è presente un collegamento diretto con il film del 1994, per la presenza di Sarah, che funge da guida per il nuovo protagonista.

Un sequel che si distingue per un taglio più onirico e surreale, ma che può essere comunque apprezzato.

Lo stesso si può dire de Il Corvo 3 – Salvation (2000).

In questo caso il protagonista è un ragazzo condannato alla sedia elettrica per il presunto omicidio della sua fidanzata, e torna per vendicarsi dei veri assassini.

Insomma due sequel che cercano di mantenere il taglio del primo film, e che possono comunque essere apprezzati se vi intriga la dinamica raccontata.

Assolutamente sconsigliato invece il quarto capitolo, Il Corvo – Preghiera maledetta (2005): girato tutto alla luce del sole – quindi mancando totalmente dell’atmosfera originale – porta l’elemento magico-fantastico in direzioni molto meno desiderabili, snaturando l’opera originale.

Insomma, da evitare.

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Chi ha incastrato Roger Rabbit – L’inganno perfetto

Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) è probabilmente l’opera più ambiziosa di Robert Zemeckis, uno dei migliori esempi dell’uso della tecnica mista nella storia del cinema.

Con un budget piuttosto consistente – 50 milioni di dollari, circa 130 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 350 milioni di incasso (circa 900 oggi).

Di cosa parla Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Eddie è un detective privato pieno di debiti e ubriacone, che viene coinvolto in una vicenda piuttosto piccante ma con retroscena inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Roger Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Assolutamente sì.

Chi ha incastrato Roger Rabbit è un classico della filmografia di Zemeckis, in cui sperimentò splendidamente con una tecnica piuttosto complessa, ovvero l’utilizzo del live action misto all’animazione…

…raccontando sostanzialmente un noir crudelmente realistico e con riferimenti culturali piuttosto attuali – nello specifico, il razzismo – ma cambiando un paio di elementi in scena e riuscendo a portarlo al cinema come un film per tutta la famiglia.

Un’opera imperdibile, insomma.

La seguente interpretazione più sul versante politico-sociale è avvallata anche dal libro di ispirazione, Who Censored Roger Rabbit? (1981, inedito in Italia), che presenta queste tematiche in maniera più netta.

Strappo

L’incipit di Chi ha incastrato Roger Rabbit è perfetto.

Infatti, volendo rivolgere la sua opera ad un pubblico piuttosto variegato, Zemeckis sceglie di mettere tutti sullo stesso livello.

Se il pubblico più adulto può riconoscersi nelle follie cartoonesche di Hanna & Barbera con cui è cresciuto, così anche gli spettatori più giovani, magari più abituati ai nuovi cartoni di derivazione nipponica, riescono a riavvicinarsi ad un taglio narrativo del tutto diverso.

Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La sequenza iniziale non è infatti altro che il più classico episodio di un prodotto di animazione degli Anni Quaranta, nelle sue follie violente e profondamente comiche, che richiamano le dinamiche di serie popolarissime come Tom & Jerry e Willy il Coyote…

…che viene improvvisamente interrotta, accompagnandoci nel ben più crudo realismo del film, in uno studio hollywoodiano con star capricciose e artisti sottopagati, allontanando progressivamente l’inquadratura da un Roger Rabbit disperato, per rivelare un burbero figuro di spalle, che in una sola battuta rivela tutta la sua personalità:

Toons.

Un classico noir

Jessica Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Quello che segue è l’avvio piuttosto classico di un film noir.

Più Eddie ci viene introdotto, più scopriamo quanto sia un detective ormai fallito, pieno di debiti e schiavo dell’alcol, disposto a tutto per guadagnare qualcosa, persino scattare delle foto piccanti per far risvegliare le energie di un personaggio come Roger Rabbit.

Per il resto, l’introduzione di Jessica Rabbit è tutto un programma.

Betty Boop e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La donna è incredibilmente fascinosa e sensuale, ma svelerà a suo tempo come questa sua apparenza risulti col tempo insopportabile, in quanto la vincola ad essere un puro oggetto sessuale e nient’altro, anche facilmente dimenticabile come la povera Betty Boop, che cerca ancora di essere ammiccante…

…ma che è lasciata nel dimenticatoio, in quanto cartone d’altri tempi.

Per questo la battuta iconica Non sono cattiva, mi disegnano così racconta proprio la tragicità di questo personaggio intrappolato in un corpo più deleterio che premiante, e che infatti ricerca un compagno che la apprezzi non solo per la sua bellezza.

Il doppio inganno

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Proprio su questa linea, tutta la costruzione del Patty-Cake (in italiano farfallina) inganna lo spettatore per due volte.

Lasciando per lungo tempo le immagini esplicite fuori scena, Zemeckis fa credere abilmente che Jessica si stia intrattenendo sessualmente con Acme – e, oltre al velo della finzione filmica, è esattamente quello che succede – fingendo di utilizzare un’espressione gergale per indicare il tradimento sessuale…

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

quando in realtà il Patty-Cake non è altro che un gioco per bambini.

Ad un livello più profondo, si tratta del primo tassello di una storia ben più complessa di ricatti e di sesso, in cui sia Jessica Rabbit – personaggio molto più attivo di quanto sembri – sia Roger sono coinvolti apparentemente come i colpevoli, in realtà come vittime incastrate in un complotto.

L’autodistruzione

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Il giudice Morton – Judge Doom in inglese – è probabilmente l’elemento più iconico di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

Interpretato in maniera magistrale da un Christopher Lloyd che dopo Back to the future (1985) era ormai il feticcio di Zemeckis, bastano pochi dettagli di trucco per caratterizzare un villain lugubre e spietato, che non è nient’altro che una rappresentazione neanche troppo edulcorata di un boss del crimine.

In una dinamica che ricorda molto da vicino quella di Wilson Fisk in Daredevil, questo spietato imprenditore ha ripulito la sua immagine e si è riproposto sullo scenario politico in modo da prendere lentamente il possesso di Cartoonlandia, sviluppando contro la stessa un piano di totale distruzione.

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Se non ci vuole tanta fantasia per rileggere la salamoia come l’acido in cui i mafiosi sono soliti a sciogliere le loro vittime, non viene neanche difficile sostituire i toons con delle minoranze etniche nel mondo dello spettacolo, dove sono maltrattate e sottopagate – si veda Dumbo, che si accontenta di un pugno di noccioline.

Secondo questa lettura, Morton non è altro che un uomo che faceva parte della stessa suddetta minoranza che ora perseguita, in una totale follia autodistruttiva che l’ha portato non solo a scalare la gerarchia sociale, ma a distruggere le sue stesse radici, nello specifico Cartoonlandia, un ghetto per i Toons, mal accettati in molti altri contesti per umani.

Edulcorare

Salamoia in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Dopo una rocambolesca fuga propria dei migliori buddy movie, quasi per caso Eddie scopre la verità dietro alle mosse di Morton, arrivando così ad un finale incredibilmente classico per il genere, ma nondimeno anche straordinariamente avvincente e scandito sul filo dei secondi.

Potrebbe risultare piuttosto sorprendente la scelta di non mostrare del tutto il vero aspetto del Giudice Morton, ma limitarsi ad un agghiacciante quanto iconico confronto con Eddie, che rivela la malvagità e la spietatezza di questo cartone…

Tuttavia, questa scelta è dettata da una motivazione metanarrativa.

Per questo film Zemeckis si fece prestare un gran numero di personaggi animati da altre case di produzione, evidentemente a patto che nessuna di queste ne uscisse danneggiata – e infatti sono tutti personaggi positivi – e un personaggio così diabolico come Morton non poteva essere in alcun modo associato al mondo dei cartoni.

Infatti, nonostante anche la spietata violenza che caratterizzava in quel periodo l’animazione per bambini, nessuno poteva essere considerato effettivamente cattivo come Morton, ma piuttosto le azioni negative dei villain venivano spesso stemperate da un taglio comico e grottesco a misura di bambino.

Non è quindi un caso che in chiusura Topolino e tutti gli altri toons si interroghino sulla vera identità del villain, chiosando che sicuramente non era né un papero, né un topo

…insomma, niente di associabile ai personaggi tanto amati dai bambini del periodo.

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Grosso guaio a Chinatown – Il trash sotto controllo

Grosso guaio a Chinatown (1986) è una delle opere minori della filmografia di John Carpenter, che ottenne successo di pubblico solo negli anni successivi alla sua uscita in sala.

Il riscontro al botteghino fu infatti disastroso: a fronte di un budget stimato di 25 milioni, ne incassò appena 11 in tutto il mondo.

Di cosa parla Grosso guaio a Chinatown?

Jack Burton accompagna l’amico all’aeroporto per accogliere la sua fidanzata, finendo coinvolto in una vicenda di mafia e magia davvero sconvolgente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Grosso guaio a Chinatown?

Kurt Rusell, Dennis Dun e Kim Cattrall in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

In generale, sì.

Anche se non è una delle opere più brillanti di Carpenter, Grosso guaio a Chinatown è un film che si fa ricordare.

Con una comicità semplice ma efficace, una trama che va dritta al punto ed utilizza topoi narrativi anche piuttosto scontati, ne risulta una visione piacevole e rilassata, che riesce a bilanciare l’elemento magico senza scadere nel trash più becero.

Insomma, vale una visione.

Un eroe nuovo

Kurt Rusell in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

Alla terza collaborazione con Carpenter, Kurt Russell si riscopre eroe comico.

E funziona.

Per quanto iconici siano i suoi precedenti personaggi della filmografia carpenteriana – Snake Plissken e MacReady – in Grosso guaio a Chinatown l’attore dimostra di saper tenere ottimamente sulle spalle sia il ruolo da protagonista sia la linea comica della pellicola.

E, a differenza dei suoi precedenti ruoli ben più drammatici, in questo caso Jack Burton è un eroe molto più terreno, senza particolari doti, che si improvvisa salvatore della situazione, con non pochi inciampi – anche comici – lungo la strada.

La solita storia?

Grosso guaio a Chinatown racconta una storia molto tipica.

Come Una nuova speranza (1977) dieci anni prima, ancora una volta si sceglie il tropo vincente della principessa da salvare, avendo in mente un target di pubblico principalmente maschile, ma offrendo anche qualche spazio di autonomia ai due personaggi femminili.

Kim Cattrall in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

Al contempo però si cerca anche di arricchire la storia con una mitologia propria, riuscendo anche a scampare il problema della poca chiarezza narrativa con delle abili didascalie messe in bocca ai personaggi, le quali, nel contesto di un film già molto sopra le righe, sorprendentemente non appaiono forzate.

Ne deriva così una trama ben ritmata, dove non ci si ferma un attimo, con diverse scene action, anche stemperate da una buona dose di comicità, e con un utilizzo dell’elemento magico piuttosto consapevole.

E a questo proposito…

Una mano capace

James Hong in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

Grosso guaio a Chinatown è un film che rischiava moltissimo di essere un prodotto trash.

Oltre ai toni al limite dell’assurdo e del cartoonesco, i poteri degli antagonisti sembrano usciti da Street Fighter, e sono resi con tutti i limiti degli effetti visivi digitali dell’epoca. E questo senza contare i costumi dei mostri che sono forse ancora meno credibili…

Tuttavia, Carpenter è un autore capace di lavorare con poco.

Kurt Rusell e Dennis Dun in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

Per questo all’interno della pellicola punta principalmente su quegli effetti che, nel loro piccolo, riescono a funzionare – i fulmini e i lampi dagli occhi – e che risultano complessivamente credibili agli occhi dello spettatore, con davvero poche sbavature in questo senso.

Al contrario, si cerca di limitare il più possibile il minutaggio delle creature – i due mostri – e degli effetti – il corpo che si gonfia a dismisura – che invece non riesco a funzionare con altrettanta efficacia, ma che così non sembrano altro che piccoli inciampi all’interno di una gestione complessivamente consapevole.

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Season of the Witch – Evasione

Season of the Witch (1973), rilasciato più volte e con diverse edizioni e titoli – Jack’s wife e poi Hungry wives – è una delle opere minori e meno conosciute di George Romero.

Con meno di un milione di dollari di budget, ebbe un riscontro al botteghino sconosciuto.

Di cosa parla Season of the Witch?

Joan è una casalinga sola ed annoiata, che vive nell’ombra del marito assente, ma che avrà un’occasione per riscattarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Season of the Witch?

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

In generale sì.

Anche se è un’opera minore della filmografia di Romero, già qui si trova l’impostazione alla base del successivo Dawn of the dead (1978): utilizzare l’elemento horror per raccontare una tematica sociale, con anche un crudo realismo, nonostante la presenza dell’elemento fantastico.

Una pellicola indubbiamente complessa, quasi surreale, in cui la lettura simbolica è centrale, mentre l’elemento più strettamente narrativo risulta più secondario e quasi del tutto funzionale al significato complessivo del film.

Insomma, da riscoprire.

Incasellamento

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Il sogno iniziale definisce perfettamente il senso di angoscia della protagonista.

Portata al guinzaglio dal marito – letteralmente e metaforicamente – Joan vede la sua vita passargli davanti, definita da una serie di elementi – la figlia ribelle, le amiche con cui sparlare – che sembrano tutti cuciti su misura per la casalinga perfetta.

Una casalinga che però è sempre di più abbandonata a sé stessa, che ha perso i punti di riferimento che definivano il suo mondo come madre e moglie devota – il marito assente e la figlia ormai cresciuta ed indipendente.

Tuttavia, c’è una via di fuga.

Allo specchio

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Fin dall’inizio Joan ha l’alternativa davanti agli occhi.

Ricercando continuamente la sua identità perduta nel suo riflesso, la protagonista vi trova invece un’altra donna: una figura molto più invecchiata, austera, che le ricambia lo sguardo magnetico, tentandola verso una via alternativa.

Ovvero, quella della stregoneria.

Come per gli zombie in Dawn of the Dead, anche in questo caso l’elemento fantastico è del tutto simbolico: essere una strega non significa tanto compiere delle magie, ma piuttosto essere capace di evadere la quotidianità opprimente, e trovare un proprio soddisfacimento personale.

E gli stimoli sono fin troppo evidenti.

Evadere e invidiare

Il percorso di evoluzione di Joan passa per alcuni momenti fondamentali.

Anzitutto, la scena in cui salva Shirley, che esprime ad alta voce le angosce della protagonista stessa: aver ormai superato l’età della giovinezza e della bellezza, ed essere ormai un puro accessorio del marito – che l’aspetta in casa come un’ombra opprimente controluce…

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Poi, il momento in cui Joan entra in casa e sente l’amplesso fra la figlia e Gregg: percepito inizialmente come insopportabile, lentamente diventa lo spunto per la riscoperta la propria sessualità, nonostante il senso di vergogna che le fa provare Nikki quando la scopre e decide per questo di abbandonarla.

A questo segue il momento più umiliante per la protagonista, in cui le viene attribuita la colpa della fuga della figlia – anche se indirettamente – portando il marito a metterle le mani addosso in maniera violenta, a facendola sentire ancora più cagna di quanto si sentiva nei suoi sogni…

Il vero nemico

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Il terzo atto è un connubio fra sesso e violenza.

Anzitutto Joan utilizza i suoi neo acquisiti poteri stregoneschi per procacciarsi un amante, e non a caso sceglie Gregg, che ricollega indirettamente alla felice ed indipendente giovinezza della figlia, capace di non legarsi sentimentalmente ad un uomo per avere del piacere sessuale.

Al contempo, il sogno ricorrente del terzo atto rappresenta la sua vergogna.

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

la figura diabolica che la perseguita, che cerca di penetrare nella casa e di farle violenza – tipico simbolo del senso di colpa femminile nel godimento della sessualità – è imperscrutabile e impedisce alla protagonista di capire chi è il vero nemico.

Lo svelamento avviene quando Joan uccide per sbaglio il marito, che scambia – o forse riconosce – come un intruso che la vuole aggredire, riuscendo così a liberarsi dal vero autore della sua angoscia, diventando così una donna libera e consapevole.

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Elemental – L’insostenibile leggerezza dell’inesperienza

Elemental (2023) di Peter Sohn è uno dei film Pixar più sfortunati degli ultimi anni, che ha avuto una sorte particolarissima al box office.

Partendo da un budget piuttosto elevato – ma medio per un prodotto Pixar – di 200 milioni di dollari, per via di un marketing scandalosamente superficiale è stato il peggior esordio per la casa di produzione, ma ha recuperato grazie al passaparola, arrivando ad incassare 484 milioni in tutto il mondo.

Comunque un flop, ma un flop molto meno grave di quanto si prospettava.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Elemental (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Elemental?

Bernie e Cinder Lumen sono una coppia di immigrati ad Element City, una città poco accogliente per la loro razza, ma in cui riescono a ricreare la loro comunità, sicuri di poter lasciare la loro eredità alla figlia, Ember…

Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo in quanto davvero poco rappresentativo del film:

Vale la pena di vedere Elemental?

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

In generale, sì.

Per quanto non sia uno dei migliori prodotti della Pixar – anche per la poca esperienza da sceneggiatore e regista di Peter Sohn – è un film piacevole, e che anzi si impegna a raccontare in maniera piuttosto interessante il tema dell’immigrazione e dell’integrazione sociale.

Purtroppo, il film soffre di una debolezza complessiva della scrittura, che sembra voler raccontare solo pochi concetti fondamentali, ma incapace di portarli in scena con una storia davvero convincente e ben strutturata.

Comunque, vale una visione.

La barriera all’ingresso

Ember e i genitori in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

L’inizio del film è anche la parte più interessante e incisiva.

I genitori di Ember arrivano in una città in cui vivono tutti i problemi che gravano sulle spalle degli stranieri che cercano di integrarsi in una nuova realtà sociale: la barriera linguistica – i loro nomi vengono adattati – le porte sbattute in faccia, una città non adatta alla loro sopravvivenza.

In particolare quest’ultimo aspetto è affrontato sotto diversi punti di vista: sia la ghettizzazione delle comunità immigrate, che la comunità è incapace di integrare, sia per il conseguente odio indiscriminato dei reietti verso l’ostica Elemental City.

Ember e il padre in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Così i due sono riusciti a costruire un punto di riferimento per il resto degli immigrati del fuoco che non trovano un posto altrove, ma che anzi costruiscono la loro città – o ghetto, più giustamente – intorno proprio al Focolare.

Al contempo il padre è costantemente inacidito contro il popolo dell’acqua, che considera nemico a prescindere, nonostante i diversi tentativi della figlia di fargli comprendere che una persona non rappresenta tutta la sua comunità.

E questo è proprio il cuore della sua evoluzione.

Creazione e distruzione

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ember, proprio per via dell’educazione del padre, è un personaggio incredibilmente chiuso in sé stesso, che ha un solo obiettivo nella vita – prendere possesso del negozio e così far felice il genitore – e per questo rifugge ogni contatto con l’esterno della sua comunità, non uscendo mai da Fire City.

Ma al contempo la protagonista è evidentemente molto fuori luogo nella stessa, incarnando l’aspetto più distruttivo del fuoco, e non riuscendo a vedere oltre lo stesso.

In realtà Ember ha molto più da offrire

Durante la pellicola riscopre il lato positivo del suo elemento, ovvero quello creativo: se fino a quel momento aveva usato il suo potere solamente per rimediare agli errori – le tubature, la diga rotta – con la cena con la famiglia di Wade si affaccia finalmente agli orizzonti di possibilità che le sue capacità le offrono.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Lo stesso incontro le permette di comprendere la limitatezza del suo pensiero fino a quel momento, aprendosi finalmente all’idea che due comunità diverse possono riuscire a convivere, pur con i giusti compromessi.

Persino con un elemento così opposto come l’acqua.

Persino l’incontro apparentemente disastroso fra Wade e Barnie, si rivela invece una possibilità di unione: un piatto così tanto caldo – con un gioco di parole sul doppio significato di hot, che significa anche piccante – può essere addolcito con un po’ d’acqua, rendendolo più digeribile anche al di fuori del popolo del fuoco.

Favola e realtà

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ma se le tematiche e la simbologia di Elemental sono complessivamente riuscite, al contrario la resa narrativa non è particolarmente vincente.

Elemental vuole sostanzialmente raccontare il comporsi e ricomporsi di due rapporti: quello di Ember con il padre e con il nuovo interesse amoroso, Wade. Il primo è quello che ho trovato complessivamente più azzeccato, soprattutto godendo di un minutaggio piuttosto importante.

Non a caso, è anche il rapporto più importante della pellicola, che viene suggellato nel finale, il momento di vero confronto, quando Ember richiede quell’approvazione paterna per lei fondamentale, che il padre non aveva trovato al tempo nella sua famiglia.

Un momento toccante e centrale nella narrazione, a fronte di un primo ricongiungimento fra i due personaggi non adeguatamente incisivo.

Wade e Ember Elemental

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, il rapporto con Wade non mi ha convinto fino in fondo.

Il film si propone di seguire strade piuttosto consolidate, con una sorta di enemy to lovers molto simile al ben più efficace Rapunzel (2010), che però sembra reggersi unicamente sui momenti fondamentali del loro rapporto, che mancano però di una costruzione sufficientemente robusta.

Sarebbe stato molto più interessante instaurare anche un piccolo mistero sulla diga – alla Zootropolis (2016), per intenderci – la cui risoluzione portava anche allo sbocciare dell’amore fra i protagonisti.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, la questione della diga è un elemento molto più debole di quanto mi aspettassi, quasi un meccanismo della trama, e allo stesso modo il regalo di Wade ad Ember – la visita del Garden Central Station – non ha abbastanza mordente.

Ancora meno mi è piaciuto il taglio favolistico, quasi tragico, che è stato affibbiato al loro rapporto: al di là della costruzione non del tutto convincente, l’ho trovata una scelta narrativa che risulta piuttosto stridente e fuori luogo in un film che si propone di essere per molti tratti estremamente verosimile.

Ma non è tutto da buttare.

Elemental animazione

L’animazione di Elemental è impeccabile.

Non è un caso che Peter Sohn – qui regista e co-sceneggiatore – lavori da più di vent’anni come animatore per innumerevoli prodotti Pixar (e non) e che sia riuscito ancora una volta a portare una tecnica e un character design davvero ineccepibili.

Era così semplice scadere nel banale per dei personaggi rappresentativi degli elementi naturali, e invece il film riesce a portare in scena delle figure infuocate e acquatiche vive e credibili.

Non a caso le fiamme del corpo di Ember e degli altri del Popolo del Fuoco continuano a muoversi e definiscono altri tratti del loro viso, in particolare il naso, così la rappresentazione dell’Acqua è molto variegata, giocando su diversi elementi, fra cui le onde del mare.

Ma il fiore all’occhiello è indubbiamente l’incontro fra fuoco e acqua, che porta Wade inizialmente a bollire e Ember a spegnersi, ma che poi cambia proprio la chimica dei due elementi, rendendoli compatibili.

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Zoolander – Demenziale, ma non troppo

Zoolander (2001) è uno dei cult più particolari dell’inizio degli Anni Duemila, in cui Ben Stiller si mise in gioco come attore, regista e sceneggiatore.

Nonostante il riscontro al botteghino poco entusiasmante – appena 60 milioni di dollari a fronte di un budget di 28 milioni – divenne col tempo un film di culto, tanto da portare ad un sequel nel 2016.

Di cosa parla Zoolander?

Derek Zoolander è il modello del momento, ma la sua fama verrà scalzata in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zoolander?

Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Anche se la comicità nonsense non è nelle vostre corde, non potete veramente perdervi questa piccola perla dell’assurdo che, in un impeto di genialità, Ben Stiller riuscì a portare in scena nel lontano 2001 – nutrendo il futuro cast di Dodgeball (2004), fra l’altro.

Zoolander è uno dei cult più interessanti dei primi Anni Duemila, che colpisce sia per la sagacia con cui tratta tematiche ancora attualissime, sia per come riesce a non scadere mai nel banale, sorprendendo ad ogni scena.

Passato e presente

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Una delle tematiche principali di Zoolander è ancora drammaticamente attuale, anche a più di vent’anni di distanza.

L’obbiettivo dei villain è infatti quello di assassinare il neoeletto presidente della Malaysia, per le sue assurde ambiziose di mettere fine allo sfruttamento del lavoro minorile – molto conveniente per l’industria della moda.

Un tema molto caldo ancora oggi per la straziante tematica della fast fashion, non solo per l’impatto ambientale, ma proprio per il poco rasserenante panorama dello sfruttamento lavorativo, volto ad ottenere molti prodotti in poco tempo e a prezzi stracciati.

Ed è davvero incredibile trovare un tema del genere affrontato con tanta sagacia in un film come Zoolander.

Un adorabile idiota

Ben Stiller e Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Zoolander e Hansel sono due adorabili idioti.

Ho apprezzato particolarmente la scelta di renderli tali fino in fondo, senza cioè ricondurli al ben più infelice e rincuorante stereotipo dell’uomo bamboccione, un bambino troppo cresciuto che ha ancora bisogno di una balia – di solito, il personaggio femminile di turno.

I due protagonisti sono invece semplicemente del tutto limitati al loro piccolo mondo, fatto di invidie e di una competizione galoppante, una realtà che li venera e li celebra a fasi alterne, ma rimanendo incapaci in ogni altro ambito dell’esistenza.

Si genera così un umorismo che personalmente trovo esilarante, basato su delle incomprensioni così stupide da risultare surreali, financo grottesche – in particolare con l’assurda morte dei fratelli del protagonista mentre giocavano con la benzina.

I divi usa-e-getta

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Un’altra tematica non scontata è la concezione dei modelli come divi usa-e-getta.

Già la rivalità fra Zoolander e Hansel è indicativa: per sua stessa ammissione, il protagonista si sente minacciato dalla figura del concorrente proprio perché sembra poter mettere a rischio lo status tanto fortuitamente guadagnato.

E, se consideriamo che i due non hanno che pochi anni di differenza, appare evidente come la popolarità nel mondo della moda sia una condizione estremamente passeggera, legata ad un successo momentaneo e, soprattutto, al mito della giovinezza eterna.

Questo concetto è particolarmente evidenziato dal personaggio di J.P. Prewitt, il mitico manista, che però ho dovuto mantenere la sua mano in uno stato di ibernazione eterna proprio per evitare che invecchiasse e che, di conseguenza, perdesse di valore.

E il racconto di come generazioni di modelli siano state pedine in mano a sanguinari imprenditori senza scrupoli, che li utilizzavano per eliminare ogni tipo di ostacolo al guadagno, sottolinea ancora una volta la fragilità di questi idoli, che possono essere creati e sacrificati ad libitum.

Infatti, non mancherà mai qualcuno che potrà prenderne il posto.

Un femminile anomalo

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Il personaggio di Matilda mi ha particolarmente sorpreso.

Una protagonista femminile che diventa motore dell’azione, nonché personaggio estremamente attivo, in questo caso assumendo proprio il ruolo della figura ragionevole e, di fatto, risolutrice della vicenda.

Nondimeno Matilda non viene tratteggiata come una donna fredda che deve essere fatta sciogliere dal protagonista. Piuuttosto, i due si aiutano reciprocamente: Matilda impedisce che Zoolander diventi un assassino, e quest’ultimo le fa riscoprire il piacere sessuale.

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

E al contempo Matilda diventa anche la voce – pur in maniera molto semplicistica – dei danni che involontariamente il mondo della moda arreca soprattutto alle giovanissime, facendole vivere nell’ombra di modelli di bellezza irraggiungibili.

Ed è drammaticamente ironica la risata che i due protagonisti si fanno sulla sua bulimia, derubricandola ad una condotta del tutto normale per la loro professione…

Lo sguardo che uccide

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

La storia del Magnum è tutto un programma.

Proposto inizialmente come il biglietto da visita del protagonista, il suo sguardo corrucciato è una costante della recitazione di Ben Stiller, che non esce mai dal personaggio, riuscendo ad essere assolutamente credibile in ogni scena.

In questo senso, ottima l’idea di affidare al villain il ruolo di dare la voce ad un pensiero probabilmente già proprio dello spettatore: i meravigliosi sguardi di Zoolander in realtà non sono nulla di che, oltre ad essere tutti identici.

E invece Zoolander ci sorprende con un’espressione che cambia le sorti del mondo, dimostrando come uno sguardo abbastanza affilato possa mettere al tappeto persino uno shuriken.

Un colpo di scena che è anche motivo del successo di questa pellicola.

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Matilda – La lotta inizia da piccole

Matilda (1996) di Danny DeVito è la più famosa trasposizione dell’opera omonima di Roald Dahl – uscita in Italia con l’infelice titolo di Matilda 6 mitica (che mi rifiuto di utilizzare in questa sede).

A fronte di un budget medio – 36 milioni di dollari, circa 70 milioni oggi – fu un pesante flop commerciale – solo 33 milioni di incasso, circa 64 oggi – diventando un piccolo cult solamente successivamente.

Di cosa parla Matilda?

Matilda è una bambina geniale, capace di leggere perfettamente già a quattro anni. E che paradosso che una persona del genere sia nata in una famiglia così ignorante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Matilda?

Sara Magdalin in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Dipende.

Matilda è un film a cui sono molto legata perché è stata una delle mie visioni preferite dell’infanzia, ma, a differenza di altri prodotti dello stesso genere – come Genitori in trappola (1998) – è una pellicola pensata principalmente per un pubblico di giovanissimi.

Il romanzo originale al confronto ha uno sguardo molto più maturo e adulto – come tipico della narrativa di Dahl. Ma nondimeno, se amate il romanzo di ispirazione, potrete ritrovare in questa pellicola una trasposizione complessivamente fedele e con una regia piuttosto piacevole.

Al contempo, è un film che guardato con un occhio più critico offre molti spunti di riflessione, che lo spettatore sia un bambino o un adulto.

Per questa recensione ho preso spunto dall’ottimo contributo ad opera di Heroica.it (che potete trovare qui) ed ho utilizzato tendenzialmente la traduzione ad opera della Salani (2004) per i nomi dei personaggi.

Nascere soli

La scelta di ambientare la storia negli Stati Uniti permette di dare tutto un altro sapore all’incipit.

Mentre infatti il romanzo non approfondisce la nascita di Matilda, l’accenno allo spreco di soldi per far venire al mondo la protagonista è del tutto comprensibile nel contesto statunitense, in cui un parto può venire a costare anche diverse decine di migliaia di dollari.

E così da quando è nata Matilda non è solo rifiutata, ma proprio dimenticata, anzitutto in macchina.

Ma Matilda non è una bambina qualunque: proprio nella sua incomprensione del mondo sia adulto che infantile, rifiuta di essere una semplice bambina, perché la sua mente geniale la spinge ad andare ben oltre.

Il potere della conoscenza

La scelta di Matilda di andare in biblioteca è estremamente simbolica.

Pur essendo nata in una realtà così culturalmente arida, proprio grazie al disinteresse dei genitori nei suoi confronti, non eredita nulla dalla sua famiglia, ma sceglie invece di alimentare la sua mente curiosa proprio al di fuori della stessa.

La scelta di uscire dal perimetro stabilito racconta, anche indirettamente, una prospettiva incredibilmente femminista di sottrarsi agli schemi sociali convenzionali e al controllo della figura maschile – in questo caso il padre, che la disprezza anche in quanto femmina.

Fra l’altro, proprio come nel romanzo, anche il film non spinge troppo sul versante della bambina prodigio.

Si sceglie invece il taglio più realistico: Matilda è comunque una bimba che non ha ancora affrontato né la scuola né la vita adulta, e per questo non riesce a comprendere fino in fondo le tematiche proposte dalle opere dei grandi autori del passato.

Ma non per questo si arrende.

Imparare a combattere

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Dopo essersi riuscita a ritagliare un piccolo angolo in cui dare sfogo alla sua genialità, Matilda comincia a non accettare più l’ostilità dei suoi genitori verso di lei, e anzi sono gli stessi ad insegnarle involontariamente il diritto alla punizione.

Questo aspetto è molto più ammorbidito rispetto al libro: nel romanzo le piccole vendette di Matilda erano sistematiche ad ogni sgarbo del padre e della famiglia in generale – in particolare, uno dei dispetti del romanzo, ai danni di tutti i suoi parenti, è omesso nella pellicola.

Nel film invece l’unico target è il padre, principale personaggio da punire: il Signor Dalverme non è solamente un piccolo uomo disonesto e pieno di sé, ma è proprio la figura che più di tutte limita Matilda e cerca di ricondurla all’idea di femmina stupida e sottomessa – l’unica che può accettare.

Mara Wilson e Danny DeVito in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Particolarmente iconico lo scontro nell’officina, in cui il padre sminuisce la protagonista ricordandole che è piccola e stupida, mentre lui è grande e intelligente, e ha tutto il potere e l’autorità dalla sua.

Proprio questo spinge Matilda a vendicarsi, dimostrando – nella totale inconsapevolezza del padre – di essere molto più scaltra di quanto lui credesse, mettendolo nel sacco non una, ma per ben due volte – prima col cappello, e poi con la tinta per capelli.

Ed è esilarante se si pensa che il padre non sospetta mai di lei, proprio perché la crede così stupida.

L’altro nemico

Pam Ferris in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Quando Matilda finalmente si affaccia al mondo adulti al di fuori della sua sfera familiare, viene a contatto con due modelli femminili fondamentalmente opposti.

Il primo è la Signorina Trinciabue, che racconta fondamentalmente un modello di estrema anti-femminilità, anzi un rifiuto della stessa, andando invece a rifugiarsi in un più violento e sicuro modello maschile.

Pam Ferris in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ma anche più che rifiutare il femminile, Agata ne respinge la sua rappresentazione più debole: l’infanzia. Per questo Matilda è inevitabilmente la sua nemesi: una bambina che non dimostra debolezza ma, anzi, grande intraprendenza.

In generale, proprio come il Signor Dalverme, la Signorina Trinciabue sottovalutata i bambini, mettendoli continuamente alla prova con ostacoli apparentemente insormontabili, al fine di schiacciarli sotto al suo totale dominio.

Ma proprio per questo viene sconfitta più volte.

Alla riscossa!

Anzitutto da Bruno Mangiapatate.

Nel romanzo lo stesso riusciva senza alcuna fatica a mangiare l’enorme dolce della preside, mentre nel film si sceglie di puntare sull’idea che l’unione fa la forza, permettendo così al personaggio di concludere la prova grazie al sostegno dei suoi compagni.

Successivamente, anche Violetta riesce a ridicolizzarla: come nel libro la bambina organizzava il piano con cura e su ispirazione delle gesta di Matilda, nel film invece improvvisa totalmente.

In ogni caso, il risultato è lo stesso: riuscire a mostrare quella debolezza che Agata aveva sempre cercato accuratamente di celare.

Oltre all’anti-femminilità, la pellicola – a differenza del romanzo – si impegna a raccontare ancora questo personaggio come di fatto anti-umano, bestiale, proprio per sottolineare come si tratti di fatto di un mostro da sconfiggere.

La femminilità anomala

Embeth Davidtz in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Il personaggio della Signorina Dolcemiele è ancora più interessante.

Come Agata rappresenta l’anti-femminile, Betta invece ne incarna totalmente i valori, almeno quelli esteriori: una donna minuta, delicata, che parla poco e che non osa opporsi direttamente alla tirannia della preside, fungendo da figura materna secondaria per Matilda.

In realtà, il suo personaggio ricopre la funzione di insegnante nel senso più ampio del termine, essendo l’unica figura della storia – insieme alla Signora Felpa – a riconoscere, anzi ad incoraggiare le potenzialità della protagonista.

Embeth Davidtz e Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ed è proprio quando deve mettersi alla prova in questo senso, che Betta dimostra il suo potenziale.

Pur trovandosi davanti ad una figura sostanzialmente analoga a quella della Signorina Trinciabue, Betta non accetta di arrendersi davanti al pessimo comportamento del Signor Dalverme, che anzi disprezza e attacca direttamente in più momenti del loro incontro.

E, così come non aveva rinunciato al suo progetto davanti al diniego di Agata, allo stesso modo non si lascia sminuire dal superficiale ragionamento della Signora Dalverme, che la disprezza per aver scelto i libri invece che la bellezza.

Il potenziale inespresso

Embeth Davidtz e Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ma l’effettiva potenzialità di Betta risiede nel suo passato.

Come la protagonista di un dramma ottocentesco, la Signorina Dolcemiele nonostante fosse – fisicamente e simbolicamente – schiacciata dalla figura di Agata, riesce a trovare una sua via di fuga, pur dovendo accettare tutte le ristrettezze che quella libertà porta con sé.

Nel libro si racconta più specificatamente della paura del suo personaggio verso la zia, di come fosse anche economicamente dipendente da lei, dovendo per questo vivere con non più di una sterlina alla settimana.

Ma Betta è ancora oppressa dal terrore di Agata, e non riesce a liberarsi completamente.

A questo punto interviene Matilda.

Il passaggio di testimone

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

La protagonista eredita dalla maestra la sua forza nel ribellarsi, ma non la paura verso Agata, scegliendo di portare la sua rivalsa fino in fondo, ed esercitandosi nello sviluppo dei poteri proprio per questo fine – nel libro proprio specificamente ed unicamente per quello.

Interessante quanto funzionale l’aggiunta del film per cui Matilda si impegna per recuperare la bambola della Signorina Dolcemiele – e, simbolicamente, l’infanzia che è stata ingiustamente strappata alla sua maestra.

Ma la sua vera vittoria è riuscire a mettere Agata letteralmente al tappeto, facendo proprio leva sulla sua debolezza – l’essere molto superstiziosa – e dando così lo slancio anche ai suoi compagni per ribellarsi totalmente verso il mostro che li aveva compromesso l’infanzia.

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Questa aggiunta rispetto al libro – in cui semplicemente la Signorina Trinciabue scappava dopo lo scherzo di Matilda – mi ha convinto a metà: per quanto interessante distribuire la rivalsa su tutti i bambini, in questo modo si rende meno personale la vittoria di Matilda.

Allo stesso modo ho trovato molto più interessante la scelta del romanzo di limitare il potere della protagonista – un potere stancante e che terminava alla fine del libro – mentre il film ha scelto di renderlo più digeribile e legato ad una realtà fantastica e divertente.

Ma sono dettagli per un prodotto complessivamente molto rispettoso della sua fonte.

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Barbie – Un film necessario

Barbie (2023) di Greta Gerwig è uno dei film più chiacchierati dell’anno, che a tratti ha entusiasmato, a tratti ha totalmente indignato il pubblico, viste le tematiche molto controverse che ha portato in scena.

Un film che più che un film è stato un evento cinematografico come non se ne vedevano da Spider-Man No Way Home (2021), con 1,4 miliardi di dollari di incasso – a fronte di un budget di appena 145 milioni di dollari – diventando il maggior incasso del 2023.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Barbie (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior attore non protagonista a Ryan Gosling
Migliore attrice non protagonista a America Ferrera
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliore canzone What Was I Made For?
Migliore canzone I’m Just Ken

Di cosa parla Barbie?

In Barbieland le varie Barbie vivono in armonia nelle loro case da sogno, con delle esistenze sempre più perfette ogni giorno. Ma qualcosa è cambiato per la nostra protagonista…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: come tutta la campagna marketing di questo film, è incredibilmente ingannevole, in quanto asciuga la pellicola di tutti i suoi significati, facendola apparire solo come una commedia leggera.

A voi la scelta:

Vale la pena di vedere Barbie?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Assolutamente sì.

Barbie è uno dei film più interessanti del 2023, un’operazione molto intrigante e ben pensata per lanciare messaggi che, pur nella loro estrema semplicità, sono assolutamente fondamentali per comprendere la società odierna.

Oltre a questo, dal punto di vista totalmente intrattenitivo, è un film delizioso, nutrito di un’ottima ironia, spesso anche volutamente metanarrativa, sia sul mondo di Barbie, le sue dinamiche e la sua storia, sia per le interazioni della protagonista con il Mondo Reale.

Insomma, guardatelo e fatevi una vostra opinione.

Un mondo perfetto?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno degli elementi più geniali di Barbie è la rappresentazione di Barbieland.

Si sarebbe potuta scegliere una blanda messinscena del mondo di Barbie come semplicemente una realtà più colorata e da sogno, ma sostanzialmente verosimile. E invece Barbieland è esattamente un giocattolo a grandezza naturale.

Tutto è di plastica, tutto è finto: dalle bottiglie non escono liquidi, il cibo è già pronto, le onde sono di plastica e non esistono le scale, ma solo gli scivoli e le mani invisibili dei bambini che muovono le bambole.

L’incrinatura di questa perfezione arriva quando appaiono i Ken in scena.

Margot Robbie, Ryan Gosling e Simon Liu in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

In questo senso il film lavora su due livelli: storico-sociale e metanarrativo.

Infatti, Ken come giocattolo nasce proprio come accessorio di Barbie, la vera protagonista della storia, tanto che molte delle bambine che ci hanno giocato si ricorderanno come il compagno maschile apparisse del tutto superfluo, facilmente sostituibile da altri generici personaggi maschili.

Dal punto di vista invece storico-sociale, i Ken sono sostanzialmente il corrispettivo delle donne nel Mondo Reale – ovviamente in maniera molto semplificata, e anche con riferimento ad epoche molto meno felici della nostra storia, senza quindi voler fare un parallelismo così netto.

I Ken vivono sostanzialmente in funzione delle Barbie che comandano il mondo, non hanno una propria casa – quindi una propria indipendenza economica – non hanno nessun merito e nessun riconoscimento dalle stesse, e appaiono anche piuttosto superficiali e sciocchi – proprio perché non hanno i mezzi e il background necessario per essere altrimenti.

Insomma, vivono oppressi in un matriarcato.

L’intrusione del tragico

Kate McKinnon in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’intrusione del tragico nella vita di Barbie è dovuta alla sua stretta correlazione con la bambina che gioca con lei.

Proprio per il fatto che Barbie, per sua natura, permette alle bambine di essere quello che vogliono, le stesse riversano nel gioco anche i loro sentimenti. Nel caso di Gloria, le insoddisfazioni e le paure di una bambina ormai cresciuta, che vive nell’ombra del modello irraggiungibile di Barbie.

In questo senso, anche vista la proposta della protagonista umana sul finale, la pellicola denuncia le pressioni sociali della donna contemporanea, spesso frustrata da modelli irraggiungibili – reali o ideali – che le impediscono di vivere ed essere felice anche nella sua ordinarietà.

Anche in questo caso si parla di un discorso molto semplicistico e volutamente accessibile, ma che racconta come il femminile a livello sociale non abbia ancora trovato la sua dimensione mediana, ma di come sia continuamente spinto a riconoscersi in modelli predefiniti – madre, donna in carriera, puttana – senza la possibilità di una via di mezzo.

L’oggettificazione

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’arrivo della protagonista nel Mondo Reale è una delle parti più riuscite del film.

La forza di questa sequenza è che non si parla mai esplicitamente di cat calling o oggettificazione – anzi, è la parte meno didascalica del film – ma si sceglie piuttosto di raccontare le sensazioni che prova una donna all’interno di un mondo ancora dominato dal punto di vista maschile.

Il corpo della donna, volente o nolente, è sempre un oggetto di discussione.

Nonostante Barbie scelga degli outfit normalissimi – anche se datati nonostante non voglia essere un oggetto sessuale, lo diventa comunque: continue allusioni, battute dirette, anche con la volontà di far sentire in colpa la vittima della situazione per non accettare dei complimenti.

Una realtà che purtroppo è incredibilmente reale e che porta spesso le donne a non sentirsi libere di vestirsi come meglio credono…

Alla scoperta di patriarcato

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il percorso di Ken richiede tutto un discorso a parte.

Ken, come detto, parte da una situazione di totale svantaggio ed esclusione sociale, vivendo appunto totalmente in funzione di Barbie – e delle donne in genere.

Appena approda nel Mondo Reale capisce che esiste una realtà dove, tutto sommato, non viene discriminato, ma anzi accettato e glorificato, in cui trova anche una coesione sociale con gli altri uomini, non divisi dalle invidie per le attenzioni di Barbie come in Barbieland.

Ovviamente anche in questo caso è una visione semplicistica e funzionale alla storia, nonché apertamente comica.

Ryan Gosling, Ncuti Gatwa e Kingsley Ben-Adir in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il risultato è, tuttavia, quello di sostituire un mondo ingiusto con un’altra realtà ancora ingiusta, ma in senso contrario: non sono più le donne a dominare il mondo, ma gli uomini, con le figure femminili che diventano del tutto ancillari e, di fatto, totalmente accessorie.

Tuttavia, appare evidente come lo stesso patriarcato danneggi gli uomini stessi: ubriacati in questo sogno di potenza, oltre a non rispettare le donne, sono così sicuri di sé stessi da apparire di fatto ridicoli e, soprattutto, facilmente manipolabili.

Oltretutto, l’odio intestino che sembrava essere risolto con l’avvento del patriarcato, in realtà è ancora più radicato, in una competizione per l’invidia e il possesso delle loro compagne che sfocia in una vera e propria guerra.

Il femminismo intergenerazionale

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno dei discorsi più interessanti di Barbie è il femminismo intergenerazionale.

La figura di Barbie, modello per la generazione precedente – Millennials e Gen X – viene del tutto rigettata dalla Gen Z, rappresentata da Sasha, che vede in questa icona molto controversa più gli elementi negativi che positivi.

Effettivamente Barbie è di per sé una figura contrastante: nata – come ci spiega l’inizio del film – anche con l’obbiettivo di dare alle bambine una prospettiva diversa sulla loro vita e il loro futuro, al contempo ha rappresentato negli anni un modello irraggiungibile di perfezione femminile.

America Ferrera in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Per questo Sasha la respinge in toto.

Tuttavia, la ragazzina col tempo si ricrede e infine accetta il modello che ha definito la crescita e la consapevolezza della madre – e quindi della generazione precedente – arrivando, su un altro piano, ad accettare le conquiste di un femminismo forse più datato, più controverso, ma assolutamente essenziale per le conquiste presenti e future.

E, anzi, come abbiamo visto sopra, proprio questa esperienza spingerà sia Barbie che Gloria a riscrivere in un certo senso l’icona della Mattel in qualcosa di più inclusivo.

Le strade si dividono

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il finale di Barbie è uno degli elementi più controversi del film.

La parte apparentemente più problematica è quella di Ken: con una lunga – e già iconica – canzone, il protagonista maschile esprime i suoi sentimenti e racconta di come si senta sempre il numero due, sempre messo da parte, vivendo in una costante insoddisfazione.

Per questo Barbie viene in suo aiuto con una riflessione che serve ad entrambi: la scelta di evadere i modelli, i simboli che sembravano definirli – sia nel patriarcato che nel matriarcato – ed intraprendere invece un percorso che li porti alla scoperta di una propria identità.

Insomma, come Ken ha un risveglio di coscienza grazie alle parole di Barbie – che ammette anche i suoi errori nell’averlo dato per scontato – allo stesso modo le Barbie, che erano state manipolate per accettare la semplicità del patriarcato, proprio come le donne di ieri, diventano consapevoli dell’ingiustizia della nuova realtà e decidono di ribellarsi.

E qui arriviamo al punto più discusso del film.

Nonostante non abbiano fatto lo stesso percorso di Barbie, anche le altre donne di Barbieland sono più consapevoli, e capiscono che non possono tornare in toto ad una realtà matriarcale ed esclusiva come quella in cui vivevano precedentemente.

Tuttavia, davanti alle richieste dei Ken di acquisire finalmente un ruolo di potere fondamentale, la Presidentessa sceglie invece di dargli un piccolo ruolo amministrativo – quello che potremmo definire ministero senza portafoglio.

Al che segue la seguente battuta della voce fuori campo:

Well, the Kens have to start somewhere, and one day the Kens will have as much power and influence in Barbieland as women have in the Real World.

I Ken devono pur cominciare da qualche parte, e un giorno avranno tanto potere ed influenza in Barbieland di quanto ne hanno le donne nel Mondo Reale.

Barbie finale spiegazione

La battuta è volutamente ironica e cattiva, e vuole raccontare quanto il problema delle discriminazioni e dell’inclusione sociale non si risolve per magia o con i buoni sentimenti, ma che serve un lavoro duro, continuativo e difficile, anche solo per arrivare ad un briciolo di parità sociale.

E, secondo me, è la scelta perfetta.

Sia perché non porta in scena una risoluzione ideale, nonché totalmente irrealistica e poco consapevole, sia perché non si sbilancia nella glorificazione femminile – in un film già molto sbilanciato in quel senso: in situazione analoga a quella del patriarcato, le donne avrebbero altrettanta difficoltà cedere i propri diritti e il proprio potere quanto gli uomini di oggi.

Un concetto che vuole ancora una volta dimostrare come non sia un problema od una colpa da addossare agli uomini in quanto uomini – come purtroppo certe correnti femministe si ostinano a sostenere – ma piuttosto un problema sistemico e sociale che va risolto dalle fondamenta.

La scelta di Barbie

Ryan Gosling e Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

La scelta finale di Barbie è forse la parte ancora meno compresa della pellicola.

Dopo aver vissuto nel Mondo Reale, con le sue difficoltà e incomprensioni, Barbie man mano durante la pellicola si libera sempre di più di quegli elementi e simboli che la definivano nell’apparentemente perfetto matriarcato in cui viveva – e che non voleva cambiare.

Una scelta sempre più consapevole di cercare la propria identità altrove rispetto al modello di Barbie Stereotipata – e quindi vuota – a cui si era rifatta per tutta la vita, scegliendo di vivere in un mondo molto più difficile ad antagonistico, ma che le offre anche molte alternative.

Ed è ancora più indovinato il finale in cui la novella Barbara sceglie come primo passo di farsi visitare dalla ginecologa, ad indicare come non sia immediatamente fatta assorbire dal modello capitalista per cui il valore di una persona passa dal suo lavoro.

Piuttosto la protagonista sceglie di scoprirsi in questo nuovo corpo, diventando finalmente più consapevole e serena per lo stesso.

Barbie 2023 citazioni

Barbie è un film pieno di citazioni ad altre pellicole.

Ecco le più interessanti.

Quella più evidente è ovviamente 2001: Odissea nello Spazio (1968) nell’iconico incipit, che è stato usato come teaser trailer per il film stesso:

Quando Barbie sceglie il suo outfit all’inizio del film, è un evidente omaggio al teen movie Clueless (1995) – in Italia noto come Ragazze a Beverly Hills – nella famosissima scena in cui la protagonista si prepara per andare a scuola:

La scena danzante nella mega party di Barbie alla fine della sua giornata è un riferimento visivo alla fantastica scena in discoteca in La febbre del sabato sera (1977):

All’inizio del film si cita anche Matrix (1999): invece che fra la pillola blu o la pillola rossa, Barbie deve scegliere fra la Birkenstock e Scarpa col tacco:

Nella scena in cui Barbie torna a Barbieland e vede i Ken giocare a pallavolo, si cita la scena analoga in Top Gun (1986):

Infine, l’ormai iconica scena di ballo della canzone I’m just Ken è un mix di riferimenti a Singin’ in the rain (1952) e Grease (1978):

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La La Land – Una storia di distruzione

La La Land (2016) è il terzo film di Damien Chazelle, nonché la pellicola che l’ha portato al successo presso il grande pubblico, aggiudicandosi moltissimi premi, fra cui la Coppa Volpi per Emma Stone e sei premi Oscar.

A fronte di un budget medio – 30 milioni – è stato un enorme successo: 447 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La La Land?

Mia e Sebastian sono due giovani sognatori che cercano di sfondare in un contesto molto competitivo come quello di Los Angeles, perdendosi in bellissimi sogni da musical che contrastano con la più triste realtà…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La La Land?

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Assolutamente sì.

La La Land è una delle più incredibili sperimentazioni artistiche e cinematografiche degli ultimi anni, che riesce a raccontare una decostruzione e, di fatto, una distruzione di un genere su diversi livelli: fotografia, messinscena, metanarrativa.

Quando si dice che Chazelle ha avuto il suo picco troppo presto, io rispondo che questa pellicola è stata il primo passo di un percorso incredibile di riflessione sui generi e sul cinema, sulla realtà e sul sogno, con un’evoluzione altrettanto interessante in Babylon (2022).

Non un musical, non un anti-musical, ma una sperimentazione imperdibile.

La falsa partenza

L’incipit di La La Land ci racconta già tutto della visione di Chazelle.

In un contesto molto urbano e reale, la scena esplode improvvisamente in un rocambolesco numero musicale, con la classica canzone introduttiva e positiva del più classico dei musical, ma che in realtà suggerisce fin da subito il sottotesto (neanche tanto sotteso) metanarrativo del film.

In particolare, è interessante osservare uno specifico passaggio della canzone:

Summer Sunday nights
We’d sink into our seats
Right as they dimmed out all the lights
The Technicolor world made out
of music and machine
It called me to be on that screen
And live inside its sheen
La sera delle domeniche d'estate
Sprofondiamo nelle nostre poltroncine
Appena spengono tutte le luci
Quel mondo di Technicolor fatto
di musica e macchina
Mi ha invitato a stare su quello schermo
e a vivere nella sua lucentezza

Questi pochi versi raccontano il desiderio del protagonista della canzone di far parte di quel mondo Technicolor fatto di musica, ovvero il mondo del musical, facendo riferimento in particolare alle opere prodotte fra gli Anni Venti e Cinquanta – in cui la tecnica del Technicolor fece la sua fortuna.

Per il resto la canzone anticipa proprio il percorso dei protagonisti – il più classico per il genere: partire con nulla (without a nickel to my name), cercando di raggiungere il successo (I’m reaching for the heights), pur andando incontro a diversi ostacoli (and even when the answer’s no / or when my money’s running low).

E, nonostante tutto, il protagonista della canzone conclude dicendo insistentemente It’s another sunny day: è un altro giorno di sole, è un altro giorno positivo, niente mi può fermare dall’inseguire il mio sogno.

Ma è un falso inizio.

L’altro inizio

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Il vero inizio della storia è quando i protagonisti effettivamente entrano in scena, dopo essere rimasti ai margini per tutto il numero musicale d’apertura.

Ma la prima apparizione di Mia è ancora ingannevole.

In prima battuta sembra che la ragazza stia parlando al telefono, ma subito dopo scopriamo che in realtà sta ripassando le battute per il provino. La rivelazione dell’inganno è sottolineata dall’improvviso colpo di clacson di Sebastian, che sembra riportare alla realtà sia Mia, sia lo spettatore.

La successiva scena del provino è luogo contrasti: la protagonista cerca testardamente di mantenere viva la scena, ma lo sguardo dello spettatore non può che essere distratto dal personaggio fuori fuoco alle sue spalle che si muove insistentemente.

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Una scena, fra l’altro, dai toni carichi e estremamente ingannevoli: per quanto sembri il classico momento in cui la protagonista riesce finalmente a vivere il suo sogno ed a diventare una star del cinema, la sequenza si rivela invece il solito provino senza futuro.

Anche Sebastian ha un climax simile: costretto a suonare insulse canzoncine natalizie, infine si decide a far mostra delle sue capacità musicali, improvvisando un pezzo con cui spera finalmente di riuscire a conquistare il pubblico e lo sperato successo.

E invece perde il lavoro e non ottiene il presunto amore della sua vita.

Si comincia in piccolo

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

La scena successiva è il momento in cui, apparentemente, Mia accetta di seguire la trama del musical.

Incoraggiata dalle sue amiche ad andare alla festa dove potrà incontrare la persona che stava cercando (a little chance encounter / could be the one you’ve waited for), ovvero, secondo il modello classico del musical, il suo interesse amoroso.

In realtà, ancora una volta, la scena è piena di elementi di disturbo: anzitutto il fatto che la musica di sottofondo sembra costantemente voler introdurre la parte cantata, ma la stessa ci mette moltissimo tempo prima di partire effettivamente.

Allo stesso modo gli altri personaggi in scena – che appaiono come effettivamente integrati nella stessa – spingono Mia ad accettare le vesti di quel personaggio (letteralmente), mentre la ragazza sembra deriderli per il loro comportamento, intervenendo con un’unica battuta, con cui si tira fuori dalla scena: I think I’ll stay behind.

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Solo in un momento successivo, dopo un paio inquadrature che mostrano come Mia non abbia trovato nella festa quello che cercava, la protagonista riprende le battute della canzone in maniera molto più malinconica, parlando a sé stessa con un atteggiamento disilluso.

Ma the show must go on, e i personaggi della festa continuano la medesima canzone di prima, in maniera ancora più convinta e confusionaria, lasciando definitivamente Mia al di fuori della scena e del numero musicale, proprio come aveva detto lei poco prima:

Watching while the world keeps spinning around.

Guardando mentre il mondo continua ad andare avanti.

Rifiutare il musical

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

La sequenza della festa in piscina è ancora più straniante, grazie ad una fotografia incredibilmente azzeccata.

Per quanto, infatti, la scena sia piena di colori caricatissimi, la fotografia racconta altro, scegliendo invece una luce molto più naturale, con lunghe ombre sui volti dei personaggi, i quali appaiono del tutto fuori contesto per il genere di appartenenza.

Ma l’iconica scena del ballo è quella più esplicativa.

I protagonisti sembrano come intrappolati all’interno della trama del musical, che li obbliga ad incontrarsi, anche se non sono interessati l’uno all’altro, mostrando anzi un rapporto molto conflittuale, come racconta lo stesso scambio fra i due:

— It's pretty strange that we keep running into each other.
— It is strange. Maybe it means something.
— I doubt it.
— Yeah, I don't think so.
— È così strano che continuiamo ad incontrarci. 
— È strano. Magari vuol dire qualcosa.
— Non credo.
— Sì, neanche io.
Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Le battute della canzone iniziata da Sebastian sono particolarmente indicative: il protagonista racconta come la scena sia perfetta per un incontro romantico (that’s tailor-made for two), ma aggiunge peccato che siamo noi due (what a shame those two are you and me), mostrando tutta la sua arroganza.

Al che Mia, ancora una volta deridendo questa ipotetica situazione romantica, racconta come lei per prima non sia interessata, e di come quella scena non faccia per lei (But, I’m frankly feeling nothing), soprattutto con quelle scarpe.

E allora i due sembrano come trascinati dentro la sequenza, con Mia che si cambia istintivamente le scarpe, come a rendersi pronta per il successivo numero musicale, e Sebastian che si muove meccanicamente e la coinvolge in un assurdo balletto, anche un po’ scoordinato, che dovrebbe farli innamorare…

Ma viene ancora interrotto da un elemento di disturbo.

La la land pontile

Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Lo stesso schema si ripete per la scena del pontile: Sebastian chiede alla città se stia splendendo per lui, se questo è per lui l’inizio di qualcosa di nuovo e fantastico (is this the start of something wonderful and new?)…

…ma viene subito riportato con i piedi per terra quando capisce che il cappello non è un oggetto di scena pensato per il suo numero musicale, venendo infatti interrotto dal compagno della signora con cui sta ballando languidamente, concludendo:

Or one more dream / That I cannot make true

O un altro sogno / che non posso realizzare

Accettare il sogno

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

L’atto centrale è l’accettazione del sogno.

Passaggio che avviene in maniera quanto più surreale e artificiosa, quanto comprensibile all’interno del genere musical: Mia si rende conto che non vuole stare con Greg, si alza improvvisamente e raggiunge Sebastian al cinema.

E, non a caso, si mostra a Sebastian come immersa nello schermo, proprio come lui aveva profetizzato:

Well’, I’ll see you into the movies.

Bene, allora ti rivedrò al cinema.
Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Ma questa volta, nonostante il film sembra contro di loro, interrompendosi improvvisamente, la coppia decide di continuare sulla strada definita della storia: nelle atmosfere fantastiche dell’Osservatorio, sboccia il loro amore, con persino un elemento fantastico che li porta a volteggiare fra le stelle – pur nel loro iniziale stupore.

La sequenza successiva usa ed abusa del linguaggio del musical, anzitutto con la transizione che chiude sul bacio fra i due e apre con una Mia finalmente sicura del suo sogno, intenta a scrivere la sceneggiatura che la farà diventare una star, seguito da un montaggio che racconta il felice susseguirsi delle vicende.

Tuttavia, diversi elementi in scena raccontano altro, a partire dalla sequenza in cui i due si allontanano in auto, ambientata in uno squallido vicolo con i cassonetti della spazzatura e la strada crepata…

Una dura realtà

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Ma la realtà sembra farsi largo prima del previsto.

La sequenza musicale che accompagna il passare del tempo è molto più malinconica di quanto racconterebbe la canzone: si mostra Mia che continua a lavorare strenuamente per raggiungere il suo sogno, anche se sembra meno vicino di quanto sembri.

Finché non arriva al momento della prova: a spettacolo concluso, quando le luci si accendono e noi ci aspetteremmo una folla festante che si congratula con Mia per la sua performance, in realtà vediamo solo pochi sparuti spettatori, e una voce fuori campo che critica duramente la sua prova attoriale.

E, se Sebastian quanto la storia sembravano promettere alla protagonista di potercela fare, la realtà racconta qualcosa di molto diverso: lo spettacolo non l’ha visto nessuno, non è stato il successo sperato e Mia non ha neanche i soldi per pagare il teatro.

Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

La situazione non è migliore per Sebastian.

In teoria il protagonista ha scelto una carriera che avrebbe dovuto portargli abbastanza soldi per realizzare il suo effettivo sogno, ma ancora una volta lo stesso è molto meno a portata di mano di quanto pensasse.

E, davanti agli occhi increduli della fidanzata, accetta di suonare una musica che non lo rappresenta, che sulla carta aveva sempre detto di odiare, come la stessa Mia gli fa notare nella scena della cena.

La la land dinner

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Una scena, fra l’altro, immersa in un’apparente atmosfera sognante tinta di un suggestivo verde smeraldo, che in realtà diventa lo sfondo per il contrasto e lo scontro definitivo fra la coppia, prologo della loro rottura.

Ma Chazelle non ci vuole lasciare senza speranza, non vuole dirci di abbandonare i nostri sogni: nonostante tutto, la scelta dello spettacolo ha portato Mia al risultato sperato, ovvero di essere coinvolta in una grande produzione.

E la scena del provino è indicativa proprio per la scelta della fotografia e la messinscena: mentre tutte le altre sequenze analoghe mostravano una Mia vestita di colori carichi ed illusori, in questo caso la scena è definita da tinte più tenui e da una messinscena molto più verosimile.

What if…

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

La chiusura di La La Land è magistralmente metanarrativa.

Anche se Mia è diventata una famosa attrice, anche se ha potuto realizzare il suo sogno, non ha ottenuto tutto quello che sperava e credeva: la reazione con Sebastian si è chiusa fuori scena, portando i due ad allontanarsi del tutto per molto tempo.

Ma, totalmente per caso, proprio come il loro primo incontro, la scena del club di Sebastian è il momento dell’epifania.

La prima sequenza racconta la versione della storia secondo i canoni musical più tradizionali: all’interno di uno sfondo pittoresco in cui i protagonisti sono perfettamente integrati, la loro vita e il loro amore sono costellati di immediati e facilissimi successi.

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Una messinscena che decostruisce totalmente il genere, mostrando ambientazioni che vivono sempre di più di sottrazione, sempre più artificiali e teatrali.

La seconda sequenza mostra qualcosa di diametralmente diverso: attraverso il linguaggio iperrealistico del finto documentario, scopriamo il destino della coppia se avesse abbandonato i propri sogni, per seguire la più felice via dell’amore e di una vita più modesta, che però non li avrebbe divisi.

E, in quello scambio finale di sguardi, vediamo tutta la consapevolezza dei protagonisti per quello che avrebbe potuto essere, i due estremi irraggiungibili, quando la realtà è invece una malinconica via di mezzo…

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Shrek – Lo schiaffo dovuto

Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson è uno dei titoli più cult dell’animazione del nuovo millennio, una delle prime prove di animazione 3D della Dreamworks.

Non a caso, fu un successo incredibile: a fronte di 60 milioni di budget, incassò ben 484 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Shrek?

Shrek è un orco che vive in una serena solitudine in un mondo favolistico. Ma un nuovo decreto di Lord Farquaad metterà a rischio la sua isola felice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek?

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

C’è da chiederlo?

Shrek è un cult non per caso, anche solo per l’importanza storica che ebbe per l’animazione: un approccio davvero rivoluzionario, con un protagonista totalmente fuori dagli schemi che il pubblico aveva visto fino a quel momento.

Fra l’altro, una pellicola dalla durata veramente limitata, ma che riesce perfettamente a bilanciare i tempi e raccontare tematiche di inedita profondità pur con un minutaggio ridotto.

Insomma, cosa state aspettando?

Meglio vedere Shrek in originale o in italiano

Meglio vedere Shrek doppiato o in originale?

Secondo me, entrambi.

Il doppiaggio italiano di Shrek è uno dei migliori di quegli anni, in particolare nel suo riuscire a rigirare frasi o termini fondamentalmente intraducibili con trovate assolutamente geniali e iconiche.

Fra queste, le più celebri sono sicuramente le scapolottine e l’uomo focaccina.

Tuttavia, se l’avete sempre visto in italiano, magari perché ci siete cresciuti, vi consiglio di provare a guardarlo in originale: il doppiaggio anche in quel caso è davvero ottimo, forte di un voice cast veramente pazzesco.

Lo schiaffo (dovuto)

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’incipit di Shrek ha fatto la storia dell’animazione.

Sostanzialmente è la Dreamworks che prende sessanta e più anni di storia Disney e la distrugge, la deride, la usa come carta igienica – per non dire altro…

Così vediamo per la prima volta un protagonista animato che non è immediatamente positivo, anzi è a tratti veramente disgustoso per tutta la sequenza iniziale, con la sua iconica quanto sconvolgente routine mattutina.

Per non parlare di come vengano messi al bando i personaggi più iconici della concorrenza: da Geppetto che vende Pinocchio per due soldi a Peter con Trilli chiusa in gabbia, è tutto un programma…

Fra tradizione e modernità

Farquaad in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’altro elemento di grande novità lo vediamo chiaramente nella scena di introduzione di Farquaad.

L’interrogatorio, la tortura fisica che in altri contesti sarebbe disturbante, diventa una gustosissima miscela fra favola e modernità, con anche Farquaad che cestina Zenzy in un cestino di metallo che sembra veramente preso da uno scaffale dell’IKEA.

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ancora più geniale l’iconica scena delle scapolottine con lo Specchio: la scelta della moglie diventa un programma televisivo con il voto da casa, a raccontare anche tutta la misoginia e pochezza del villain.

Ma probabilmente il picco è Duloc, che di fatto non è altro che un’evidentissima presa in giro di Disneyland: dalla fila con il tempo di attesa, ai tornelli all’ingresso, alla mascotte con la faccia di Farquaad…

Tutto così fuori luogo e improbabile, ma in realtà semplicemente geniale.

La metafora della cipolla

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

La metafora della cipolla ci racconta già tutto su Shrek.

La cipolla puzza, fa piangere, ma è anche un alimento essenziale e composto da diversi strati, che nascondono altro rispetto a quanto appaia all’esterno.

E non si può addolcire la cipolla

Infatti, nonostante Ciuchino cerchi di mutare la metafora di Shrek, provando a paragonare gli orchi prima ad una torta, poi alle lasagne, ovvero cibi che piacciono a tutti, Shrek non ci sta.

Infatti, il protagonista non vuole assolutamente illudersi: proprio per la sua natura, è consapevole di non poter essere una persona che piace a tutti, quindi preferisce essere apprezzato per altro, ovvero quello che è meno evidente all’esterno.

E, per motivi diversi, trova due compagni che lo apprezzano proprio per questo: Ciuchino e, soprattutto, Fiona.

Il dramma di Fiona

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Fiona è uno dei più interessanti personaggi femminili portati in un prodotto di animazione.

Il suo dramma si scopre a poco a poco, ed è molto meno superficiale della semplice maledizione, ma piuttosto derivante dalle pressioni sociali per un certo tipo di comportamento che gli altri si aspettano da lei.

Fiona è una principessa, quindi deve comportarsi come tale, lasciandosi ubriacare ed illudere dalle promesse del vero amore che l’avrebbe portato ad un fantastico lieto fine – una ricompensa davanti ad una vita di reclusione sia fisica che mentale…

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

In realtà, Fiona è aguzzina di sé stessa.

Come scopriamo durante la visione, Fiona non è per nulla la classica principessa illibata e ingenua, ma è anzi abile, piuttosto furba, e piena di risorse e capacità – fra cui il sapersi proteggere da sola.

Per cui appare evidente che la ragazza avrebbe potuto senza troppi problemi scappare dalla torre in cui era stata rinchiusa, ma ha costretto sé stessa a restarci proprio per seguire il preciso percorso da principessa da salvare a cui è stata indottrinata.

Quindi la maledizione è solo la punta dell’iceberg, una rappresentazione materiale di quello che Fiona realmente è – e non solamente perché è un’orchessa, ma perché non corrisponde allo stereotipo della donna in pericolo fino a quel momento proposto nella maggior parte dell’animazione.

L’amore con poco

Fiona e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Shrek è proprio la rappresentazione di come dei buoni sceneggiatori siano capaci di raccontare un rapporto efficace anche con poco tempo a disposizione.

Nonostante il minutaggio limitato, la costruzione dell’innamoramento funziona perfettamente.

Tanto più che di fatto Shrek e Fiona si salvano a vicenda: Fiona capisce che può essere sé stessa e trova qualcuno che la ama per questo – e non solo in quanto orchessa, perché Shrek si innamora di lei vedendola umana.

Al contempo, Shrek grazie a Fiona capisce che, per la cattiveria subita per tutta la sua vita, si è troppo chiuso in sé stesso, con la conseguenza di giudicare gli altri con la stessa superficialità a cui si sente condannato…

Un vero amico

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ma l’effettiva consapevolezza viene da Ciuchino.

L’asino parlante è un personaggio incredibilmente positivo e funzionale, perché riesce veramente a far aprire Shrek alla possibilità di essere qualcos’altro rispetto all’orco odiato da tutti, al reietto sociale – in una auto reclusione non dissimile da quella di Fiona.

In primo luogo, dimostrando di essere qualcuno che non si lascia frenare dalla prima impressione, non scappando a gambe levate appena vede un orco, anzi seguendolo e cercando di diventare suo amico.

E così, pur con tutti i muri che Shrek mette fra di loro, Ciuchino riesce a scuotere il protagonista e portarlo al suo lieto fine, diventando di fatto l’imprescindibile motore dell’azione sul finale.