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Il mio vicino Totoro – La favola di Miyazaki

Il mio vicino Totoro (1988), traduzione abbastanza coerente del titolo originale – となりのトトロ, lett. Totoro il vicino è uno dei film dal taglio più delicato e favolistico della produzione di Miyazaki.

A fronte di un budget ad oggi sconosciuto, è il miglior riscontro di Miyazaki a livello internazionale, con 41 milioni di dollari di incasso. Il film venne proposto nei cinema italiani solamente nel 2015.

Di cosa parla Il mio vicino Totoro?

Le sorelle Satsuki e Mei si sono appena trasferite in una graziosa casa nella campagna di Tokyo degli Anni Cinquanta. Un paesaggio quasi favolistico, che nasconde molti splendidi segreti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il mio vicino Totoro?

Assolutamente sì.

Anche se l’ho scoperto più tardivamente rispetto agli altri prodotti di questo regista, è un film assolutamente imperdibile, per la sua delicatezza e piacevolezza. Una storia in realtà con un sottofondo piuttosto drammatico, perfettamente integrata in un contesto favolistico e quasi onirico, nel peculiare stile nipponico.

Fra l’altro una delle migliori prove di Miyazaki come autore, sia per la costruzione della trama, sia per la bellezza dei disegni, in particolare negli splendidi sfondi. Un’opera che ti cattura, ti commuove, ti intrattiene in una durata anche piuttosto contenuta.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il mio vicino Totoro il pericolo è abbastanza basso.

Nonostante il doppiaggio risalga al 2015, forse anche per i pochi dialoghi, non è niente di così tanto drammatico, ma generalmente abbastanza ascoltabile.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Il contesto fantastico…

Il world building de Il mio vicino Totoro è spettacolare.

Una realtà fantastica che si integra perfettamente nel tema di fondo molto presente nelle opere di Miyazaki: la bellezza della natura e della sua conservazione.

Forse proprio per questo la scelta di ambientare la vicenda in una realtà più lontana anche dall’uscita originaria del prodotto in un contesto meno urbanizzato, e dove la natura domina.

Una natura anche piuttosto misteriosa, piena di nascondigli e segreti, uno sfondo perfetto per raccontare una storia con due protagoniste così giovani e la loro riscoperta dell’ambiente che le circonda, per nulla osteggiato – come in altri contesti – dagli adulti.

E qui nasce il più importante contrasto.

…e il sottofondo drammatico

L’elemento drammatico è introdotto molto lentamente, facendo prima immergere lo spettatore nella spensieratezza del contesto fantastico.

La malattia della madre inizialmente non sembra neanche grave – nella sua prima apparizione viene mostrata serena e con nessun segno di cedimento. Il picco drammatico avviene con il rimando del ritorno a casa.

Per la mancanza di comunicazioni dirette, rinasce nelle protagoniste di nuovo la terribile paura di perdere la genitrice, una paura sotterranea, ma in realtà non nuova, che le angoscia terribilmente. E la tensione viene ancora più caricata con la scomparsa di Mei, che assume per certi versi dei tratti da cronaca nera.

Il fantastico rincuorante

Anche l’elemento fantastico è introdotto a piccoli passi.

E sempre ridimensionato in senso positivo.

Il primo contatto con il mondo nascosto degli spiriti e della magia è con i fantasmini della polvere, che i protagonisti riescono a cacciare dalla casa. E poi, ormai nella parte centrale della pellicola, si introduce finalmente Totoro, la cui scoperta avviene grazie al giocoso inseguimento di Mei e gli spiritelli impauriti.

Nei due incontri successivi, Totoro arriva proprio nei momenti di maggiore sconforto e paura delle due bambine: prima quando aspettano impazienti il padre che sembra non arrivare mai, nell’iconica scena della fermata dell’autobus, in cui questa meravigliosa creatura mostra tutta la sua piacevolezza e giocosità.

In ultimo, proprio nel picco drammatico della pellicola, Satsuki chiede aiuto proprio a Totoro, che non solo l’aiuta a ritrovare alla sorella, ma le dà un passaggio con il gattobus, altra creatura fantastica che sembra uscita fuori da un libro delle favole.

E riescono così anche a vedere in prima persona che la madre sta bene.

In questo film la tecnica di Miyazaki compie un passo avanti piuttosto decisivo.

L’elemento che salta subito all’occhio sono gli sfondi: curatissimi e pieni di dettagli, quasi dei dipinti in movimento, e rendono perfettamente quell’aspetto aulico e retrò dell’ambientazione:

Ovviamente il punto più alto sono i dettagli, l’animazione e la cura nel disegno di Totoro, e così anche del gattobus:

Continua inoltre l’ottimo studio sui volti anziani. Infatti, con Nanny sembra formarsi in via definitiva il modello per questo tipo di personaggi: occhi molto grandi, guance pronunciate, corporatura robusta e una fitta rete di rughe, che avrà poi il suo apice in La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004):

Diversi miglioramenti anche per la gestione dei personaggi giovani, che diventano molto più espressivi: piangono, si emozionano, urlano, paradossalmente in maniera quasi parallela al personaggio di Totoro:

Guardando al futuro più prossimo, nell’aspetto Satsuki assomiglia molto alla protagonista della prossima pellicola di Miyazaki, Kiki – consegne a domicilio (1989):

Mentre sia Mei che Kanta ricordano lo sviluppo dei bambini in Il castello errante di Howl, nel personaggio di Markl:

Il mio vicino totoro vs la città incantata

E ho notato anche un paio di interessanti – nonché strani – parallelismi con La città incantata. Anzitutto, Mei in certi momenti ha una faccia che assomiglia molto ad una rana, e infatti se si fa il confronto:

La scena in cui i semi cadono per la casa sul pavimento ricorda, anche se in maniera diversa, la scena delle pepite d’oro. Ma il collegamento più evidente è l’aspetto degli spiriti della polvere, che si vedranno identici nel film del 2001:

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David Lowery Dramma romantico Drammatico Fantastico Film

A ghost story – Storia di chi resta

A ghost story (2017) di David Lowery è un piccolo film indie con protagonisti Rooney Mara e Casey Affleck.

A fronte di un budget davvero ridicolo – appena 100 mila dollari – ha incassato paradossalmente molto bene: quasi 2 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla A ghost story?

Una giovane coppia si è appena trasferita in una nuova casa, ma un terribile incidente sconvolge tutto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere A ghost story?

Assolutamente sì.

Ma con un forte avvertimento: non è per nulla un film semplice. È una pellicola con ritmi incredibilmente lenti, con diverse scene a camera fissa in cui semplicemente guardiamo normalissime scene di vita quotidiana attraverso gli occhi del protagonista.

Inoltre, anche sul finale molti elementi diventano più chiari, rimane comunque una storia piuttosto enigmatica e aperta alla completa interpretazione dello spettatore. Insomma, un’opera con un taglio autoriale piuttosto peculiare, ma che, se presa per il verso giusto, può dare grandi soddisfazioni…

Un vero fantasma

La rappresentazione del fantasma protagonista mi ha davvero sorpreso.

Solitamente nei film horror e fantastici i fantasmi vengono rappresentati come esseri trasparenti, con magari anche un aspetto mostruoso o i segni della loro morte. Insomma, delle creature che devono far paura in maniera semplice, ma immediatamente efficace.

Invece il fantasma protagonista è molto semplicemente una persona con addosso il suo sudario, tanto da sembrare sulle prime quasi il personaggio di un film per l’infanzia. In realtà è una presenza genuinamente spaventosa.

Uno spettatore silente e afflitto, ma che non emette un suono, ma che segue, che ascolta, e, che, solo in un’occasione, si comporta veramente come un fantasma che infesta una casa…

Chi va, chi resta

Il tempo scorre inevitabile.

Il protagonista è sempre al centro della scena, ancorato alla sua casa, al suo nido da cui non si voleva allontanare neanche quando era in vita. Ma, quasi senza poterlo controllare, si susseguono davanti ai suoi occhi storie, persone, morti. Tutti vanno avanti con la loro vita, lui resta immobile a guardarla.

Passano mesi, anni, secoli, e l’unico compagno è il fantasma dell’altra casa, che rappresenta il destino drammatico in cui potrebbe ricadere lo stesso protagonista: dimenticarsi perché non vuole lasciare la Terra.

E infatti lo spettro coperto di fiori scompare solo quando il suo punto di riferimento è distrutto, e si convince che chi aspettava non tornerà più – anche se non saprà mai chi…

Nichilismo totale

Una riflessione fondamentale si trova nella scena della festa.

Un personaggio ignoto esprime il suo totale nichilismo, nel considerare l’esistenza terrena solamente passeggera e di fatto inutile, che si trascina verso il destino inevitabile: la morte.

Ma rimarrà qualcosa di noi?

Qualche segno della nostra presenza potrebbe fortuitamente rimanere immortale, un frammento in un mondo inevitabilmente distrutto, una fragile memoria di una persona nel futuro che non saprà neanche chi siamo…

E si riallaccia al motivo della permanenza del protagonista.

Cosa succede nel finale di A ghost story?

Nel finale il protagonista riesce, trovandosi nel loop, riesce ad estrarre dalla parete il bigliettino che M aveva lasciato prima di andarsene.

E scompare.

La donna proprio all’inizio raccontava come in ogni casa che lasciava avesse lasciato un messaggio, un pezzo di sé.

Una chiusura che si apre a diverse interpretazioni.

Personalmente io credo che quel messaggio fosse la chiave della frustrazione di D, che non riusciva a darsi pace. Forse sul non capire cosa non andasse nel loro rapporto, che sembrava per molti versi conflittuale e non risolto, e che girava intorno anche alla volontà di abbandonare la casa stessa.

E se M avesse scritto sul foglio il motivo per cui non poteva rimanere nella casa?

Oppure semplicemente, Addio?