Categorie
Animazione Avventura Cult rivisti oggi Disney Dramma familiare Drammatico Fantasy Film Racconto di formazione

Frozen – Il mediocre di successo

Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee è uno dei lungometraggi animati più redditizi della storia della Disney. Un prodotto che ebbe infatti un successo immenso, tanto che alcune parti del film sono ancora oggi assolutamente iconiche.

Per capire il tipo di riscontro che ebbe, a fronte di un budget di appena 150 milioni di dollari, incassò quasi 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Se avete vissuto nel periodo della frozen-mania saprete fino a che punto eravamo bombardati dalle infinite riproposizioni di Let it go e affini, da cui io stessa fui coinvolta. Tuttavia, andando a guardare il prodotto con un giudizio più analitico, e non di pancia, emergono tutte le crepe.

Di cosa parla Frozen?

Elsa e Anna sono due sorelle in un regno immaginario dal sapore germanico, e vivono un’infanzia spensierata. Se non fosse che Elsa possiede dei poteri apparentemente incontrollabili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Frozen?

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

No.

E potremmo chiuderla qui.

Ammetto di avere un malcelato fastidio per questa pellicola, che mi portò al tempo a vederlo due volte al cinema, non riuscendo per nulla a capire l’entusiasmo che aveva suscitato. Lo trovai un film assolutamente normale, anzi molto difettoso, una brutta copia di Rapunzel (2010), da cui pescava a piene mani, in maniera anche piuttosto maldestra.

Col tempo, mi resi conto di quanto questo prodotto dovesse il suo successo a pochi elementi di vincenti, che oscurarono tutto il resto. Per me è un film mediocre, mediocrissimo, ma se proprio volete vederlo, non aspettatevi gran che.

Sicuramente i bambini lo ameranno.

Elsa: un’adulta irrequieta

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Elsa non è un bel personaggio.

E con questo intendo dire che la sua figura è stata particolarmente esaltata come un grande passo avanti per la Disney a livello di rappresentazione dei personaggi femminili, dal momento che è forse la prima che non abbia una storia romantica all’interno del suo percorso.

Tuttavia questo non significa che sia un passo veramente avanti né un buon esempio per il target di riferimento.

Infatti il problema non è tanto avere o meno un interesse romantico, ma essere definito dallo stesso: protagoniste come Mulan e Rapunzel vivono indipendentemente dalle loro storie romantiche, e hanno una crescita emotiva molto più interessante.

Elsa è infatti un’adulta irrequieta, prigioniera (per motivi che poi affronteremo) della sua stessa famiglia, e che non è capace di vivere serenamente la sua vita e che, da un momento all’altro, perde la testa e lascia totalmente a briglia sciolta i suoi poteri.

E tutta la sua storia manca di un’evoluzione emotiva degna di questo nome.

I problemi non risolti

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

L’evoluzione emotiva di Elsa dovrebbe portare alla risoluzione di un profondo conflitto interiore che la rendeva incapace persino di uscire dalla sua stanza.

Tuttavia questo prende anzitutto una strada del tutto negativa, dove lei sembra quantomeno risolvere (senza che questo abbia una chiara spiegazione) il valore distruttivo dei suoi poteri, rendendoli invece positivi e costruttivi.

Ma nulla si risolve dal punto di vista emotivo.

E infatti la troviamo ancora piuttosto tormentata sia quando Anna la va a trovare, sia dopo, con intere scene in cui mostra la sua irrequietezza. E la risoluzione di tutti i suoi problemi sembra l’accettazione dell’amore della sorella e, per estensione, l’accettazione di tutti gli altri.

Ma senza che di fatto ci sia stata una vera evoluzione o un vero percorso, se non una sorta di terapia d’urto con la morte della sorella. Senza che sappiamo nulla sull’origine dei poteri, di come infine riesca a controllarli.

Nulla.

Anna: il bilanciamento drammatico

Anna (Kristen Bell) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Anna è di fatto la vera protagonista della pellicola.

E non è di per sé un personaggio problematico, ma è piuttosto appiattita nella figura della principessa ingenua e ingiustificabilmente positiva, che riesce facilmente a farsi circuire da un personaggio assolutamente ridicolo come Hans.

Ma c’è un chiaro motivo.

Elsa è un personaggio troppo drammatico per un prodotto con target infantile, troppo tormentato per essere effettivamente digeribile ed essere effettivamente protagonista del film.

Per questo ha bisogno di un bilanciamento drammatico da parte di Anna, nonostante il suo comportamento sia totalmente poco credibile, in quanto dovrebbe avere almeno la metà dei drammi emotivi di Elsa.

Invece Anna sostiene tutto il peso emotivo della sorella, la va a cercare e in ultimo la salva effettivamente. E si salva da sola.

Insomma, un personaggio che poteva essere ben più interessante di come è stato scritto.

L’anello debole

Anna (Kristen Bell) e Kristoff (Jonathan Groff) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

La storia romantica di Anna e Kristoff è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Complice anche lo screentime veramente scarso che gli è stato concesso.

Di fatto, Anna e Kristoff si devono innamorare, e devono intraprendere una relazione perché la trama lo richiede. Dal punto di vista emotivo, Anna non ha effettivamente imparato così tanto, perché capisce di amare il suo compagno di viaggio dopo non tantissimo tempo che stanno insieme e dove non sembra che ci sia un’effettiva evoluzione del loro rapporto.

E questo è così tanto diverso dall’apparente rapporto idilliaco con Hans?

Banalmente, basterebbe confrontare l’eccellente costruzione del rapporto fra Flynn e Rapunzel in Rapunzel: i due partono da una relazione incredibilmente antagonistica, vivono una precisa e interessantissima evoluzione, con una relazione romantica va molto oltre il semplice amore, ma che ha un significato ben più profondo.

Possiamo dire lo stesso per Anna o concludiamo che si tratta dell’ennesima principessa che si innamora perché deve innamorarsi?

Alla faccia del passo avanti…

Una relazione quasi grottesca

Inoltre, relazione fra Anna e Kristoff è talmente forzata da risultare quasi grottesca.

Il punto più drammatico è quando i due si recano dai troll per curare Anna, ma la scena si trasforma in una sequenza senza senso, anzi piuttosto fastidiosa, in cui i troll pensano che Kristoff voglia sposare Anna e li costringono quasi a farlo.

Per concludere con la più classica paraculata Disney del vero amore che vince su tutto.

E a questo punto Anna viene riportata a palazzo per essere salvata da Hans, per poi inseguire in maniera anche abbastanza disturbante Kristoff per farsi baciare. E per fortuna questa idea è sventata dal film stesso, in cui mostra che il vero amore è quello fra Anna e Elsa.

Elemento che, però, va ancora più a svalutare la relazione fra Anna e Kristoff.

Un viaggio dispersivo

Anna (Kristen Bell), Kristoff (Jonathan Groff) e Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Altro elemento problematico di Anna è la gestione del suo viaggio.

Anna intraprende il viaggio per andare da Elsa, non risolve assolutamente niente, e si lascia inutilmente trasportare da Kristoff verso un siparietto agghiacciante (di cui sopra), e infine si mette in trappola da sola.

Quindi sostanzialmente Anna diventa vittima degli eventi stessi, riesce a salvarsi sul finale, ma di fatto, da circa metà del film in poi, si dimentica del problema principale della pellicola, ovvero sua sorella, e mette (anche comprensibilmente) al centro della trama la sua salvezza personale.

E tutto viene risolto magicamente negli ultimi minuti.

I genitori: i veri villain

La conclusione più surreale di questa pellicola è rendersi conto che i genitori sono i veri villain.

Non stiamo parlando certo di popolani che devono proteggere la figlia dal linciaggio della massa, ma regnanti che potenzialmente potevano rendere la loro figlia una figura di culto, persino un’arma, e modellare l’opinione pubblica a loro uso e consumo.

Invece, giustamente, non solo non cercano neanche di provare ad aiutarla a capire i suoi poteri, magari cercando una persona che potesse darle una mano, ma la fanno sempre più rinchiudere in sé stessa, traumatizzandola definitivamente.

Un meccanismo della trama senza alcun costrutto.

O piuttosto una forzatamente versione positiva del rapporto distruttivo fra Rapunzel e Madre Gothel…

Olaf: un disastro estetico

Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

So che molti non saranno d’accordo, ma io detesto Olaf.

Le sue canzoni sono veramente di cattivo gusto a livello estetico, plasticose e totalmente fuori contesto, non mi piace l’ironia e il punto chiave della sua personalità, ovvero amare un elemento contrario alla sua natura.

Ma soprattutto detesto il suo character design, che trovo molto abbozzato e sinceramente brutto, secondo solamente a quella mostruosità del mostro marshmallow che caccia Anna e Kristoff dal palazzo di Elsa.

Ed è un problema anche più ampio.

L’unica cosa che funziona

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Nonostante tutti i difetti, la relazione fra Anna e Elsa è l’elemento più solido della trama, e forse anche quello che tutto sommato la tiene insieme.

Un elemento emotivo molto forte, forse anche più importante da raccontare ad un pubblico infantile piuttosto che replicare nuovamente la questione del vero amore romantico. E infatti una delle canzoni più iconiche della saga è Wanna build a snowman?, con tutto il carico emotivo che si porta dietro.

E la scelta di rendere il salvataggio della protagonista per mano della sorella e non di un uomo appena conosciuto, nonostante si incastri male nel contesto, era una buona idea, almeno sulla carta.

Perché Frozen ha avuto tutto questo successo?

Il successo di Frozen, ovviamente, è stato veicolato dal pubblico infantile che si è innamorato del prodotto, e in particolare del personaggio di Elsa.

Perché, nonostante tutte le mie analisi, è indubbio che Elsa sia un personaggio intrigante e sicuramente diverso dal solito. Ma soprattutto il suo character design è davvero incredibile, ben pensato e davvero vendibile.

E infatti per me ancora rimane un mistero come abbiamo fatto un lavoro creativo così ottimo con questo personaggio e così pessimo col resto.

Stesso discorso vale per Let it go, canzone che personalmente apprezzo, sia per la scena, sia perché è stata cantata da un’artista di grande talento come Idina Menzel, sia per il valore emotivo che l’accompagna.

Un altro elemento molto iconico, in un mare di canzoni, con l’eccezione di Wanna build a snowman?, piuttosto mediocri e dimenticabili.

Insomma, un prodotto con pochi elementi vincenti e iconici in un oceano di mediocrità.

Frozen 2 – La rivelazione

Mi sono fatta delle grassissime risate con Frozen II (2019).

Sia perché il film si presta molto di più (volontariamente o involontariamente) alla risata, sia perché sono state confermate tutte le mie ipotesi sul successo del primo film, di cui sopra.

Se ci avete fatto caso, questo prodotto, nonostante un incasso sempre straordinario, è stato accolto molto più tiepidamente dal pubblico non in target, che invece aveva tanto lodato la prima pellicola.

E questo perché, secondo me, Frozen II è un film che mostra la stessa mediocrità del primo, con la differenza che manca degli elementi iconici che avevano definito il successo del precedente film.

Tuttavia un ottimo modo per vendere nuovi giocattoli, indubbiamente.

Categorie
Avventura Commedia Drammatico Fantasy Film Il viaggio di Bilbo Racconto di formazione Viaggio nella Terra di Mezzo

Un viaggio inaspettato – Una simpatica quest

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (2012) è il primo capitolo della trilogia prequel del Signore degli Anelli, sempre diretta da Peter Jackson.

Un prodotto che ebbe una produzione molto più tormentata rispetto alla trilogia originale – che, ricordiamo, era stata girata tutta insieme nel giro di 8 mesi.

Un film che costò quasi il doppio rispetto ai film precedenti (180 milioni di dollari), e che però arrivò subito a superare il miliardo di incasso, con 1,1 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato?

Mentre Bilbo sta concludendo le sue memorie e per festeggiare il suo 111esimo compleanno, ricorda l’inizio della sua inaspettata avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato?

Martin Freeman e Richard Armitage in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

In generale, sì.

Ma ci sono dei grossi ma.

Il punto è che sta tutto come volete intraprendere la visione di questa pellicola e della trilogia in generale: se lo prendete a sé stante, è un film assolutamente godibile e complessivamente ben fatto.

Se invece siete profondamente legati alla trilogia originale, o se siete dei tolkieniani puristi (e pure un po’ incazzati), vi consiglio caldamente di passare ad altro.

Per il vostro bene.

Un eroe diverso

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

Ho già ampiamente parlato del tipo di eroe che è Frodo: profondamente tragico, fallibile e vicino allo spettatore.

E si definisce anche più nettamente in confronto col tipo di personaggio che invece è Bilbo. Come punto di partenza hanno avuto la buona pensata di non caricare il personaggio con la stessa tragicità della sua controparte della trilogia originale.

Perché gli sarebbe stata stretta.

Bilbo è in tutto per tutto un eroe comico, che comincia un’avventura in tono molto minore e che ha una conclusione positiva. Oltre a questo, è un personaggio che rappresenta un pubblico molto più adulto rispetto a quello del primo, con tutti i problemi da adulto.

E forse è stata proprio quella l’idea: agganciare il pubblico dei fan ormai cresciuti, a dieci anni di distanza…

Una simpatica quest

Una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

Mentre guardavo la pellicola mi sono resa conto che aveva molto più il sapore di quest da GDR rispetto alla trilogia originale.

Infatti, rispetto a La compagnia dell’anello, l’obbiettivo molto più vicino e raggiungibile, il viaggio presenta una serie di deviazioni dal percorso, che comprendono anche il trovare la direzione effettiva per l’obbiettivo.

Purtroppo già qui si sente il voluto allungamento della trama, dovendo distribuire un libro di appena 400 pagine su tre capitoli. Tuttavia la più grossa deviazione del film, la trappola dei goblin, è anche quella che porta la scena migliore.

La sequenza di Gollum

Andy Serkis in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

L’incontro di Gollum e Bilbo era uno dei momenti più importanti da raccontare: non solo definisce l’incontro con l’anello, ma anche la decisione più importante della vita del protagonista.

Non uccidere Gollum.

La sequenza a loro dedicata mi è particolarmente piaciuta perché è stata trattata con la giusta tragicità, e per tutto il tempo sentivo il pericolo di Gollum, che abbiamo già conosciuto come una creatura infida e bestiale.

Tuttavia, come Frodo dopo di lui, Bilbo prova una profonda pietà nei confronti di questo personaggio. In effetti Smeagol è in fondo una creatura di cui avere pietà: un hobbit che ha perso ogni elemento di umanità ed è diventato una figura bestiale, ma, soprattutto, miserabile.

La questione di Thorin

Thorin è una delle maggiori polemiche che hanno circondato questa saga.

In effetti, anche per come ci erano raccontati e come li avevamo visti in Il signore degli anelli e poi anche in Rings of power, i nani hanno dei tratti molto marcati e anche molto buffi.

Infatti Gimli era il comic relief della saga originale.

Tuttavia in questa saga avevano bisogno di un personaggio che fosse fondamentalmente la controparte di Aragorn. E non poteva avere un aspetto meno affascinante…

È un discorso incredibilmente triste da fare, ma è anche molto realistico: se Thorin non avesse avuto questo aspetto non sarebbe stato credibile nel suo personaggio.

Le aquile di Gandalf e altre amenità di un viaggio inaspettato

Fin dal Signore degli Anelli, impazza la cosiddetta polemica delle aquile di Gandalf. Molto banalmente, non pochi spettatori si sono lamentati per come le aquile arrivano sia alla fine de Il ritorno del re (2003), sia alla fine di Un viaggio inaspettato come deus ex machina.

Come al solito, mi sono informata.

E ho tre cose da dire.

Anzitutto, a livello strettamente letterario e di canone, no, le aquile non potevo arrivare prima e no, non potevano trasportare direttamente i protagonisti alla loro destinazione. Questo banalmente perché le aquile sono delle divinità, non degli animaletti da compagnia, e intervengono solamente quando lo ritengono necessario.

Ad un livello quasi metanarrativo, Gandalf non vuole rendere così semplice il viaggio né di Frodo né di Bilbo, perché lo stesso non è un semplice percorso, ma un viaggio che permette anche ai personaggi di crescere e maturare. Tanto più che lo stesso Gandalf è una creatura divina, quindi molto più in alto rispetto alle piccole vicende della Terra di Mezzo.

In ultimo, come ho già mostrato, non sono d’accordo con questa polemica, ma mi sento vicina ad un concetto piuttosto importante: se allo spettatore viene la domanda perché non è stato fatto prima? non è un buon segno. E se ne Il ritorno del re la questione per me non si pone, tutto il comportamento di Gandalf sul finale (aquile permettendo) è comunque discutibile e denota una sceneggiatura per certi tratti abbastanza traballante.

Come va considerato lo Hobbit

Ci tengo a dire due parole su questa questione.

Io capisco perfettamente quale sia stato il problema per molti fan della trilogia originale davanti a questo prodotto.

Banalmente, manca della stessa epicità.

Ma è indubbio che lo stesso taglio narrativo sarebbe stato tremendamente fuori posto davanti alla materia raccontata. Come detto, l’avventura di Bilbo è decisamente in tono minore rispetto a quella di Frodo. E di conseguenza è stata trattata.

E per me va bene così.

Con tutto che ci sono degli indubbi difetti soprattutto nella gestione della storia, ma che non vanno a mettere in discussione l’intera operazione.

Categorie
Avventura Azione Drammatico Fantasy Film Il viaggio di Frodo Racconto di formazione Viaggio nella Terra di Mezzo

Il ritorno del re – Il peso dell’anello

Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re (2003) è il terzo e ultimo capitolo della trilogia diretta da Peter Jackson tratta dall’opera di Tolkien.

Un ultimo episodio che doveva reggere sulle spalle una conclusione epica di un racconto complesso e pregno di significati. E ovviamente la conclusione dell’avventura è incredibile, anche se…

Davanti ad un budget di 94 milioni, raggiunse un risultato tanto epico quanto il film: 1,140 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il ritorno del re?

Sam e Frodo vengono condotti in quello che sembra essere l‘unica via per raggiungere il Monte Fato, ma anche quella più ingannevole…

Nel frattempo, Aragorn e Gandalf devono gestire la complessa situazione politica e militare che ancora furoreggia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Il ritorno del Re?

Ian McAllen in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Ovviamente sì.

Se state guardando, soprattutto se per la prima volta, la trilogia di Peter Jackson non potete perdervi l’epico (e lo è davvero!) finale della saga. Come sempre rimarrete probabilmente senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali, della regia dinamica, della profondità narrativa di questa pellicola.

Incredibile come un film basato su un’opera così complessa abbia creato una saga così incredibile, che non ha perso praticamente mai un colpo, ma ha proseguito di gran carriera verso un incredibile finale, fra l’altro con tempi anche piuttosto stretti.

Uno di quei prodotti che non si può mancare di vedere almeno una volta nella vita, insomma.

L’aspetto battagliero

Ian McAllen in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

La parte militare è la parte che ho trovato personalmente meno interessante del film a livello intrattenitivo.

Per diversi motivi, fra cui il fatto che è in generale la parte che meno mi interessa dei film in toto, ma anche perché, diversamente dallo scorso capitolo, non vi è quasi nessuna costruzione narrativa oltre alla battaglia, ma è lo scontro il punto stesso del discorso.

Con tutto che le scene di battaglie sono dirette magistralmente, il lato tecnico è al limite della perfezione, e pieno di colpi di scena di grande interesse ed efficacia.

Ma c’è un grosso ma…

Lode all’odio (di nuovo) ne Il ritorno del re

Come avevo già raccontato per lo scorso capitolo, non riesco veramente a sopportare il personaggio di Eowyn.

E ne Il ritorno del Re ho trovato incredibilmente forzato darle tutta quella importanza nella storia, quando il suo ruolo era assolutamente accessorio. E, soprattutto, è assolutamente poco credibile che, in una società così profondamente medievale, una donna sia in primo luogo capace di combattere.

Perché Eowyn non mena colpi a casaccio, ma riesce anzi ad evitare le botte di un personaggio come Angmar e a sconfiggerlo con veramente troppa facilità. E con la battuta più agghiacciante dell’intero film.

Ma capisco le necessità produttive.

Fine delle cose che non mi piacciono di questa pellicola.

Il peso dell’anello

Direi che non mi aspettavo niente di meno dalla conclusione della storyline di Frodo.

Il nostro protagonista è ormai avvelenato dal potere dell’anello, e viene ancora di più deviato dalle maligne bugie di Gollum. Così, per gelosia dell’anello, si rivolta contro il suo amico. Ma questa ovviamente è la scelta peggiore: appena si lascia alle spalle Sam, viene subito punito dagli eventi.

A dimostrazione ancora una volta che questa avventura sarebbe stata impossibile per Frodo senza Sam al suo fianco…

Il ruolo di Sam

Elijah Wood e Sean Astin in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Pellicola dopo pellicola, sono rimasta sempre più colpita da quanto sia fondamentale la figura di Sam e di come, di fondo, quest’opera sia un grande inno all’amicizia. Davanti ad una situazione disperata come quella della scalata del Monte Fato, davanti a Frodo distrutto dal viaggio, Sam fa l’impensabile: lo prende sulle spalle e scala il Monte.

E la fa soprattutto perché vuole che Frodo si liberi di questo fardello, che è quantomai evidente che lo stia distruggendo…

E questo, fra l’altro, dopo averlo salvato da morte certa.

Il fallimento di Frodo

Elijah Wood in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Mi ha personalmente sorpreso il risvolto che ha avuto la storia di Frodo.

Per quanto fosse evidente come la corruzione dell’anello l’avesse conquistato, mi aspettavo in ultimo un momento di ripensamento e redenzione. Invece Frodo si lascia del tutto conquistare dall’anello, rifiutandosi di distruggerlo, con l’intenzione di tenerlo per sé, come avrebbe fatto se Gollum non glielo avesse strappato così violentemente.

E solo davanti alla scelta estrema, fra morire per cercare inutilmente di recuperare l’Anello come Gollum, e tornare fra le braccia dell’amico, solo allora sceglie effettivamente di tornare in sé. Ma senza quella redenzione netta che mi sarei aspettata da un eroe di questo tipo.

Tuttavia, questo elemento, oltre ad essere originale e interessante, è quantomai fondamentale per il finale…

Perché Frodo parte per Valinor?

Ammetto che sulle prime non avevo ben compreso il finale.

Tuttavia, dopo essermi adeguatamente informata anche tramite un caro amico tolkeniano (che ringrazio), tutto ha avuto senso.

I motivi per cui Frodo lascia la Contea sono differenti. Il motivo più pratico, che non viene esplicitato in maniera così netta nel film, è trovare la cura per la malattia e per il dolore dato dalla puntura di Shelob.

Ma, più profondamente, Frodo è stato per sempre segnato dall’esperienza che ha avuto con l’Anello, anche perché lui stesso è consapevole di essersi alla fine lasciato vincere dallo stesso.

E, dopo un’avventura del genere, non può più essere il Frodo della Contea…

Categorie
Animazione Avventura Azione Cinema gelido Cinema per ragazzi Comico Drammatico Dreamworks Fantasy Film Racconto di formazione

The rise of the guardians – Cosa ci insegna l’infanzia

The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey, in Italia noto con il titolo infelice di Le 5 leggende, è un lungometraggio animato, risalente al periodo in cui la Dreamworks era ancora capace di far sognare…

Un prodotto per un pubblico infantile, ma che parla piacevolmente anche agli adulti, con tematiche profonde e raccontate in maniera incredibilmente brillante e originale.

Un film che purtroppo non portò ai risultati sperati: a fronte di un budget di abbastanza ingente di 145 milioni di dollari, incassò complessivamente 306 milioni, non riuscendo a rientrare nelle importanti spese di marketing.

Di cosa parla The Rise of the guardians

I guardiani dell’infanzia, North (Babbo Natale), Easter (il coniglietto pasquale), Sandman (L’omino dei sogni) e Tooth (la Fatina dei denti), di trovano a dover fronteggiare un nuovo nemico, Pitch Black, l’uomo nero…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The rise of the guardians?

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

La domanda forse più giusta sarebbe: vale la pena di vedere questa pellicola anche da adulti?

Per me assolutamente sì, perché è un prodotto con diverse chiavi di lettura, create con una cura e un’eleganza che poteva solamente provenire da questa casa di produzione ai tempi d’oro…

Ovviamente specifico che sono totalmente di parte: al tempo vidi il film al cinema quattro volte, con l’aggiunta delle infinite visioni domestiche. E non a caso, insieme a Rapunzel (2010), è fra i miei lungometraggi animati preferiti in assoluto.

Quindi non lasciatevi frenare (né qui né altrove) dal fatto che sia un prodotto animato: vi perdereste veramente una perla.

Jack Frost – La spensieratezza

Jack Frost è fondamentalmente il protagonista del film è anche, soprattutto da un certo punto in poi, il filo conduttore dell’intera vicenda.

Il suo centro non viene esplicitamente rilevato, ma, guardando con attenzione la pellicola, è quantomai evidente: Jack Frost rappresenta la spensieratezza, ma anche la capacità di andare oltre propri limiti e oltre le proprie paure.

Ma anche, in una lettura più adulta, può essere anche il non lasciarsi sopraffare dalla tristezza e dal buio interiore.

Il percorso di questo personaggio è alla ricerca della sua identità, che gli fa scoprire come sia sempre stato capace di vincere la paura, sua e degli altri. Così aiutare i Guardiani a ritrovare il contatto con i bambini che dovrebbero proteggere.

E come, per estensione, di come anche da adulti, sommersi dagli impegni, non possano dimenticarsi di quella spensieratezza tutta infantile che rende la vita un pochino più leggera da vivere…

North – La meraviglia

North, insieme a Easter, è il personaggio col character design più interessante e originale, di fatto inaspettato.

Il nome completo è Nicholas St. North, facendo quindi riferimento alla ben più antica figura di San Nicola, che poi coi secoli si è riadattata a quella di Babbo Natale.

Tuttavia è un Babbo Natale assolutamente atipico: è battagliero, rumoroso, guascone, ma anche la figura più saggia del gruppo. Un uomo dalla statura immensa più vicino allo stereotipo dell’uomo del Nord che alla figura tipica di Babbo Natale.

Ma, nonostante il suo aspetto, è il personaggio che racchiude la magia della meraviglia che i bambini provano davanti a questo mondo tutto nuovo e eccitante da scoprire

Ed è anche un invito all’adulto a non lasciarsi vincere dal grigiore della vita quando si è oppressi dalla pesantezza quotidiana, ma ritrovare la bellezza della scoperta e del lasciarsi (e volersi) far sorprendere ed emozionare.

Easter – La speranza

Easter, ovvero il Coniglio Pasquale, è indubbiamente il personaggio più interessante e a cui è legato il simbolismo più evidente.

Come viene più volte ripetuto, la Pasqua, e quindi anche la sua figura, sono legati alla speranza, che è ribadita anche in altri due elementi: il colore degli occhi, di un verde intenso, e che, quando una delle sue buche si chiudono, spunta un fiore, persino nella neve.

Entrambi elementi tradizionalmente associati al concetto di speranza.

Un concetto che sembra molto astratto, ma che in realtà è incredibilmente concreto: perdere la speranza, quindi la fiducia e l’ottimismo che è intrinseco per l’infanzia, è devastante per un bambino.

E infatti, la perdita della speranza rappresenta l’ultimo momento delle luci che si spengono. E la speranza si sgretola molto più facilmente una volta raggiunta la vita adulta, quando si ha effettivamente conoscenza del mondo…

Tooth – Il ricordo

Anche se forse Tooth, la Fatina dei denti, è il personaggio di per sé meno interessante, il suo potere è quantomai affascinante.

Il periodo dell’infanzia è il momento fondamentale della crescita, che getta le basi della nostra personalità e dei valori che in seguito si formeranno. E la perdita, il cambio per così dire dei denti, rappresenta il passaggio dal periodo infantile, più fragile, a quello adulto, dove si dovrebbe avere i denti più forti e definitivi.

Tuttavia quei denti persi non possono essere sprecati, perché raccontano un periodo che appunto non può essere mai dimenticato, e che ci definisce.

Altrimenti saremmo persi e senza un’identità come Jack Frost…

Sandman – Il sogno

Sandman è il guardiano del sogno e del sonno.

Tuttavia non si tratta solamente del sogno che si fa di notte, ma anche della capacità di immaginazione positiva, che crea immagini piacevoli e fantastiche. Così i bambini creano un universo alternativo, a loro misura, in cui rifugiarsi.

Ma il sogno è fondamentale anche per un adulto: insieme alla speranza è quello che non ci fa mai arrendere, e che ci ricorda che non c’è mai limite a quello che potenzialmente possiamo sognare e realizzare…

Pitch Black – L’incubo

Pitch Black significa buio pesto.

E il buio è una paura atavica, sia per bambini che adulti.

Infatti Pitch è un’ombra, uno spettro, che si nasconde effettivamente sotto ad un letto come il mostro sotto il letto, o l’uomo nero, per l’appunto.

La paura è anzitutto legata all’incubo, quindi il contrario dei sogni. Ma lo stesso è derivato da delle paure che possono essere molto più concrete, proprio come quelle di Jack Frost: non essere creduto, accettato, visto…

E la paura si evolve e si differenzia, con situazioni anche molto più diverso e gravi, ma il concetto rimane sempre lo stesso: con la spensieratezza, la speranza, la meraviglia e il sogno, la potremo sconfiggere.

Attraverso lo sguardo

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Gli occhi sono un elemento fondamentale della pellicola, quasi un fil rouge che unisce tutti i protagonisti.

La magia di Jack Frost si vede proprio attraverso gli occhi, la meraviglia di North è attraverso gli occhi enormi di un bambino, Jack Frost vede i suoi ricordi attraverso i suoi occhi e gli occhi della sorella…

Lo sguardo quindi la percezione, la percezione che può essere mutata e plasmata, con i sentimenti sia positivi che negativi. E così si può passare facilmente dalla paura al divertimento, alla spensieratezza, e con poco…

Il mascheramento smascherato

Tooth, doppiata da Isla Fisher, Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, North, doppiato da Alec Baldwin, Easter, doppiato da Hugh Jackman in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Guardando il film da un punto di vista più superficiale, appare evidente che sia stato concepito come una sorta di film di supereroi.

Infatti, come si cerchi di raccontare concetti importanti e di grande profondità, ma mascherandoli in una veste digeribile per il grande pubblico e, soprattutto, per il pubblico infantile. Tuttavia è evidente che non ha funzionato.

Questo probabilmente perché, per quanto il ritmo sia incredibilmente incalzante e la storia interessante, anche uno sguardo più superficiale intuisce che ci sia qualcosa di più rispetto a quanto viene mostrato. E questo di più non è per nulla immediato.

Aspetto che purtroppo potrebbe aver solo confuso il pubblico di riferimento…

Categorie
Avventura Cult rivisti oggi Drammatico Fantasy Film Il viaggio di Frodo Viaggio nella Terra di Mezzo

Le due torri – Una buona distrazione

Il Signore degli Anelli – Le due torri (2002) di Peter Jackson è il secondo capitolo della trilogia dedicata all’opera di Tolkien.

Il capitolo mediano di una trilogia è sempre quello più problematico: bisogna raccontare una storia interessante, ma senza arrivare alla fine del percorso. E il rischio è sempre quello di sembrare un filler di poco interesse.

E invece Le due torri riesce ad essere narrativamente quasi più vincente del primo capitolo.

Neanche a parlarne, un altro grande successo commerciale: davanti ad un budget di 94 milioni di dollari, ne incassò ben 936 in tutto il mondo.

Di cosa parla Le due torri?

Il capitolo centrale è l’intreccio di più storie: Sam e Frodo continuano il loro viaggio, non con qualche sorpresa. Aragorn e i suoi compagni, nel tentativo di salvare i due piccoli hobbit, si trovano coinvolti in una situazione politica ben più complessa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le due torri?

Bernard Hill in una scena de Il Signore degli Anelli - Le due torri (2002) di Peter Jackson

Assolutamente sì.

Come detto, un capitolo mediano che dà molte soddisfazioni.

A differenza della possibile pesantezza del primo capitolo, Le due torri risulta un capitolo molto più narrativamente coinvolgente, con una struttura più classica con un punto di arrivo più chiaro e che lo spettatore aspetta con grande attesa.

Personalmente l’ho apprezzato quasi di più del precedente, ed è uno di quei fantastici casi in cui il sequel è ottimo se non migliore, come era il caso di L’impero colpisce ancora (1980).

La tragedia di Gollum

Andy Serkis in una scena di Il Signore degli Anelli - Le due torri (2002) di Peter Jackson

Gollum è la grande novità della pellicola.

Brevemente introdotto (a parole) nel primo capitolo, in questo film diventa un personaggio fondamentale, con un’evoluzione inaspettata. Si lascia infatti brevemente conquistare dalle parole di Frodo, che nella sua infinita pietà cerca di salvarlo e farlo tornare alla sua forma più umana.

E il racconto della sua psicologia dilaniata (letteralmente) è uno dei momenti più iconici della saga, grazie anche all’ottima interpretazione di Andy Serkis, in uno dei momenti più alti della sua carriera, insieme a Il pianeta delle scimmie.

Fra l’altro con un CGI che farebbe ancora oggi impallidire tanti blockbuster

Un’ottima distrazione

Sarebbe stato troppo semplice se Sam e Frodo fossero già arrivati alla fine della propria avventura. E sarebbe stato altrettanto poco credibile se il loro viaggio si fosse prolungato per tre film, senza alcun intoppo.

Invece credibilmente i due hobbit arrivano da Sauron, ma non arrivano fino al Monte Fato. E l’allungamento del viaggio è credibile e l’intoppo che trovano è assolutamente funzionale.

Infatti, con la vicenda di Faramir, si inserisce sia un approfondimento della storia di Boromir, una di quelle classiche cosa che non sai che ti servivano, ma che alla fine si rivelano necessarie; sia si racconta meglio di come l’anello sia desiderato e di come Frodo si possa facilmente far corrompere dallo stesso.

E con questo intermezzo il popolo degli uomini sembra rinunciare definitivamente al desiderio dell’anello.

La storyline vincente

Viggo Mortensen, Orlando Bloom e Ian McKellen in una scena di Il Signore degli Anelli - Le due torri (2002) di Peter Jackson

Come la vicenda cardine è la distruzione dell’anello, è molto più funzionale porne una accanto, quella di Aragorn e del regno di Edoras, per ampliare e rendere più interessante la narrazione.

Questa linea narrativa è gestita in maniera praticamente perfetta, con una costruzione avvincente e ben strutturata. E soprattutto rende complessivamente più interessante l’intero film, perché pone un punto di arrivo chiaro e crea un’ottima tensione.

E poi il punto di arrivo è uno spettacolo.

La meraviglia della battaglia del Fosso di Helm

Non sono uno spettatore che si lascia facilmente impressionare dalle scene d’azione né di battaglia, anzi spesso è il contrario.

Ma non ho che potuto rimanere a bocca aperta davanti alla bellezza di questa battaglia.

Oltre ad essere uno spettacolo visivo, è anche ben costruita sia sulla tensione, raccontando uno scontro che sembra praticamente impossibile da vincere, variando molto la messa in scena e facendoci seguire chiaramente tutti i momenti della vicenda. E infine portando il colpo di scena finale, la salvezza che non si sperava più.

E, per rendere tutto davvero perfetto, non manca anche l’elemento comico di Gimli e Legolas, assolutamente ben contestualizzato e genuinamente divertente.

Una bromance mancata

Penso che un po’ tutti siano arrivati con le lacrime agli occhi al finale, quando un’altra volta Frodo e Sam confermano il loro meraviglioso rapporto di amicizia.

Perché, davvero, se Frodo non avesse avuto Sam al suo fianco non sarebbe riuscito ad arrivare alla fine della sua avventura. Infatti, Sam non è una semplice spalla, ma un elemento assolutamente fondamentale della narrazione.

E non posso fare a meno di pensare che se questi film fossero usciti una decina di anni più tardi saremmo stati sommersi dalle fanfiction dedicate.

Che forse lo siamo già stati, inconsapevolmente…

Lode all’odio per le Due torri

Mi prendo questo piccolo spazio conclusivo per ammettere una mia colpa (?): ho trovato estenuante e veramente poco interessante la relazione fra Aragorn e Arwen.

Mi rendo conto che si tratti di un blockbuster e che sia necessario inserire anche personaggi femminili di una qualche centralità e così delle relazioni romantiche. Tuttavia, se già questa storyline mi interessava poco nello scorso capitolo, mi ha definitivamente annoiato con questo triangolo amoroso insopportabile con Éowyn.

Fra l’altro Éowyn un personaggio che sembra vivere praticamente in funzione di questo elemento…

Categorie
Avventura Drammatico Fantasy Film Il viaggio di Frodo Racconto di formazione Recult Viaggio nella Terra di Mezzo

La compagnia dell’anello – L’inizio di una grande avventura

Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello (2001) di Peter Jackson è il primo capitolo della trilogia cult tratta dalle opere di Tolkien. Dopo la mia parziale delusione di Rings of Power, da buona casual fan di questa saga ho voluto riguardarla da capo, dopo tanti anni dalla prima visione.

E secondo me è quantomai evidente quanto la serie abbia provato ad imitare la grandezza di queste opere, che però si sono rivelate davvero inarrivabili.

Questo film fu anche un incredibile successo economico: a fronte di un budget di 93 milioni di dollari, ne incassò quasi 900.

Di cosa parla Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello?

Dopo un ampio prologo dedicato alla creazione e alla perdita dell’Anello, veniamo catapultati nella Contea degli Hobbit, minuscole creature fantastiche che si troveranno al centro della storia. In particolare il nostro eroe, Frodo, si trova fra le mani questo oggetto preziosissimo, ma anche molto pericoloso, che deve essere distrutto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello?

Elijah Wood e Ian McKellen in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Ovviamente sì.

Molti si potrebbero sentire un po’ minacciati da quest’opera, soprattutto davanti alla durata piuttosto corposa, oltre al culto che la circonda. Tuttavia, vale assolutamente la pena di approcciarsi quantomeno al primo capitolo della saga, un caso abbastanza raro di un blockbuster che venne riconosciuto anche per il suo valore artistico.

E in effetti già questa prima opera, nonostante abbia dei tratti estetici tipici di un altro periodo, dimostra tutta la passione di questo autore nel portare sullo schermo l’opera di Tolkien, riuscendo a reggere magnificamente tre (e più) ore di film.

E a questo proposito…

Meglio la versione cinematografica o la versione estesa?

Una dura scelta.

Ma la scelta in realtà è più semplice da quello che sembri: se vi state approcciando per la prima volta a questo film, non vi consiglio di guardare la versione estesa. Non perché non ne valga la pena, ma perché le tre ore e venti di durata sicuramente si sentono, e potrebbe non dico guastare la visione, ma renderla più impegnativa del necessario.

Tuttavia, se state rivedendo i film e soprattutto se siete appassionati della saga, vale assolutamente la pena di approcciarsi alla versione estesa, che aggiunge scene magari non fondamentali, ma che sicuramente ampliano la narrazione.

Un eroe minuscolo

Elijah Wood in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Una delle caratteristiche più peculiari del film, e più in generale dell’opera di Tolkien, è la scelta dell’eroe. Frodo è un ragazzino, quasi un bambino, che non ha esperienza del mondo, e che anzi ha una statura minuscola, un personaggio che può essere schiacciato potenzialmente da chiunque.

E infatti è proprio il topos dell’eroe per caso, che porta sulle spalle l’importante peso di salvare il suo mondo, ma che al contempo è continuamente fallibile e impaurito. Ed è solo l’inizio di un grande percorso di crescita e di scoperta, che lo spettatore può seguire con grande affiatamento.

E infatti Jackson si è trovato per le mani un protagonista perfetto, che può essere quanto più possibile vicino allo spettatore, che si comporterebbe forse in maniera non tanto dissimile nella medesima situazione.

L’anello, il vero nemico

Always remember Frodo, the Ring is trying to get back to its master. It wants to be found.

Ricorda Frodo, l’Anello sta cercando di tornare dal suo creatore. Vuole essere trovato.

Un elemento di grande interesse della pellicola è come Sauron, il grande nemico, sia fondamentalmente assente. I personaggi vengono soprattutto a contatto con i suoi sottoposti, in particolare i terribili nazgol, nemici con un’estetica semplice, ma molto efficace.

Ma il vero nemico è l’anello.

L’anello è un nemico infido, che non si può effettivamente sconfiggere se non distruggendolo, con cui non si può dialogare, che è al contempo il nemico e l’oggetto del desiderio. Quindi il protagonista è minacciato da ogni parte: da chi vuole impossessarsene e dall’anello stesso che vuole essere posseduto.

E particolarmente interessante che l’anello non è desiderato per motivi di per sé negativi. Infatti, come dice Gandalf:

I would use this ring for a desire to do good.

Userei l’anello per il desiderio di fare qualcosa di buono.

E infatti anche Boromir alla fine se ne vuole impossessare perché attratto dal tipo di potere che quell’oggetto può dare. Teoricamente, quindi, per fare il bene del suo popolo.

Una regia dinamica

Elijah Wood, Sean Astin, Dominic Monaghan e Billy Boyd in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Un grande pregio della pellicola, come per la saga di Scream e come Dune (2021), è la regia.

All’interno sempre di un prodotto dalla durata importante e con concetti non sempre facilmente digeribili, la messinscena e soprattutto i movimenti di macchina donano una tridimensionalità e una dinamicità incredibilmente coinvolgente alle scene.

Non di meno la fotografia e le ambientazioni sono molto più cupe di quando mi ricordassi, in parte anche figlie degli Anni Novanta e di certe tendenze nascenti nel millennio che era appena cominciato. Elementi che potenzialmente potevano far scadere il prodotto in un’estetica di seconda categoria.

Ma è tutto il contrario.

Una narrazione a tappe

Viggo Mortensen in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

La struttura narrativa di per sé non è problematica, ma indubbiamente può apparire non poco pesante e forse meno coinvolgente per il fatto che è evidentemente solo la prima parte di un viaggio.

E tanto più che è una narrazione a tappe, in cui ognuna è anche una tappa del viaggio stesso. Quindi non si vede di per sé un’evoluzione della vicenda, ma il tentativo di portare avanti un’avventura complessa e che, tutto sommato, risulta fallimentare nella sua prima fase.

Perché Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello mi è piaciuto Perché Rings of Power no

Questa è ovviamente la mia opinione personale, ma non riesco a considerare Rings of Power all’altezza della saga madre. Rivedendo infatti questo film mi sono resa conto di quanto al confronto la serie prequel mi sembra non più che una grande fanfiction ad alto budget.

Tanto per cominciare di Rings of Power, come avevo già raccontato nella recensione dedicata, non mi è piaciuta la regia e le ambientazioni. Mentre in La compagnia dell’anello ho visto delle ambientazioni credibili e molto più dark, nella serie ho trovato principalmente setting anche molto belli, ma eccessivamente patinati e luminosi, e di conseguenza per me molto finti.

Un’altra cosa molto fastidiosa della serie è stata la mia alienazione.

Molti elementi della trama vengono inseriti senza essere spiegati, quando bastava veramente una riga di sceneggiatura per rendere la storia più comprensibile. Invece ne La compagnia dell’Anello ci sono tutte le didascalie necessarie, e mai ingombranti.

Insomma, non voglio distruggere la serie, ma finalmente mi è chiaro perché ho sentito questa grande differenza di apprezzamento fra i due prodotti.

Categorie
Avventura Cinema per ragazzi Commedia Dramma familiare Drammatico Fantasy Film L'ultimo autunno Racconto di formazione

Ritorno al bosco dei 100 acri – Una favola di concetto

Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster è un prodotto ispirato ai racconti per l’infanzia di Winnie the Pooh e Christopher Robin.

Un film che cercava fare breccia nella nostalgia degli adulti, sia di agganciare un nuovo pubblico di bambini. Riuscendoci in parte: davanti ad un budget intorno al 70 milioni, ebbe un buon riscontro di 197 milioni di incasso.

Tuttavia, forse non era quello che si aspettavano. Infatti, in quel periodo uscirono due film analoghi, Paddington (2014) e il seguito, Paddington 2 (2017), costati pure meno e che per questo furono decisamente più redditizi: rispettivamente 282 milioni e 227 milioni.

Di cosa parla Ritorno al bosco dei 100 acri?

Christopher Robin deve abbandonare i suoi amici del bosco dei 100 acri per andare in collegio, esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ritorno al bosco dei 100 acri?

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

In generale, sì.

La pellicola ha molti punti forti, che lo rendono un film molto piacevole da guardare, con diversi momenti strappalacrime, oltre ai dolcissimi personaggi del bosco. Un film con una trama semplice e lineare, quasi prevedibile, ma che in molti punti scalda davvero il cuore.

Tuttavia, è un film che consiglio di guardare senza pensarci troppo: ad un’analisi più approfondita il film risulta difettoso in più punti, in particolare con una struttura narrativa un po’ traballante e tematiche più adatte ad un pubblico molto adulto che di bambini…

Inghiottiti dal lavoro

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

Il racconto del padre di famiglia che non si occupa adeguatamente dei figli e che li stressa per raggiungere il loro meglio è un topos narrativo molto tipico di questo tipo di film, fin da Mary Poppins (1964).

Tuttavia, in questo caso è raccontato in maniera forse più pesante del necessario: solitamente si associa questo tipo di racconto alla perdita dei sogni infantili e della spensieratezza una volta giunti alla vita adulta, ad uso e consumo del target infantile.

Invece in Ritorno al bosco dei 100 acri il protagonista è schiavo della retorica capitalista del col duro lavoro raggiungerai tutto quello che vorrai. Un tema drammaticamente attuale, che può essere facilmente comprensibile per un pubblico molto adulto, mentre potrebbe aver solo confuso un pubblico infantile.

Il bambino non protagonista

Forse un altro malus per la ricezione di questo film è stata proprio la mancanza di un protagonista infantile. Per due terzi della pellicola il personaggio principale è l’adulto che vuole tornare bambino, non il bambino stesso.

E, come detto, un adulto con dinamiche adulte, poco interiorizzabili da un pubblico infantile.

Infatti, il film e le sue tematiche dialogano non tanto con il sogno infantile della spensieratezza, ma al contrario con l’idea di dover tenere insieme un’azienda, fare il proprio lavoro e non rovinare la vita agli altri. E infatti, la risoluzione del problema, che cerca di scardinare un classismo di fondo della società, è un elemento poco chiaro per un bambino,

E poco importa se in parte la figlia del protagonista porta l’idea risolutiva.

Perché lei stessa è l’elemento più difettoso.

Il personaggio infantile

Quella che dovrebbe essere la protagonista del film, è in realtà catapultata al centro della scena sul finale per risolvere la situazione, senza che però il suo personaggio sia stato adeguatamente costruito, dando allo spettatore la possibilità di essere coinvolta con la sua storia.

Infatti, Madeline dovrebbe avere un’evoluzione durante il film per ritrovare la sua spensieratezza infantile, ma succede tutto troppo improvvisamente e senza dare il tempo al personaggio di respirare.

E questo è dovuto ad una struttura narrativa traballante, che sembra voler rispettare una serie di step obbligati di questo tipo di film, ma mancando di una robusta struttura che li tenga insieme.

Una scelta ottima…ma poco credibile

Personalmente ho davvero apprezzato la scelta di rendere i personaggi del bosco come bambole di pezza, realizzati in maniera molto credibile e che riescono a riprendere i caratteri dei personaggi originali, ma riuscendo anche ad adattarli al tono del film.

E la maggior parte dei loro discorsi toccano veramente nei punti giusti, e mi hanno sinceramente commosso.

Tuttavia, questa scelta è purtroppo poco credibile quando i personaggi del bosco dei 100 acri escono dal bosco stesso. La dinamica dovrebbe essere alla Toy Story, ovvero che si fingono delle bambole di pezza rimanendo immobili.

Ma questo succede troppo poco spesso e così troppo poco spesso gli altri personaggi umani si rendono conto della loro vera natura. I momenti in cui succede sono funzionali alla narrazione, ma per molto tempo del film io non riuscivo a credere a quello che vedevo in scena.

Perché Ritorno al bosco dei 100 acri non fu un grande successo?

Fra il 2014 e il 2018 sembra che fosse il grande momento dei buddy movie con un adulto e un orsetto.

Eppure, nessuno di questi fu un grandissimo successo: come detto quello che ne uscì meglio fu proprio la duologia di Paddington, che fu anche quella che costò di meno.

Anche peggio fu la produzione di Vi presento Christopher Robin (2017), che fu un flop al botteghino.

Nel caso de Ritorno al bosco dei 100 acri si trattò di un film ben più ambizioso, con un attore capace e quasi il doppio di Paddington. Un prodotto che però non riuscì particolarmente a distinguersi, azzeccando poco il target di riferimento e forse definendo la conclusione di un trend che era ormai saturo.

Lode a Ewan McGregor

Ewan McGregor è un attore che apprezzo moltissimo.

Soprattutto perché è uno di quegli interpreti magnifici che in ogni produzione ci mettono veramente impegno. Anche quando si trova in produzioni che non richiedono particolari doti interpretative e che, negli ultimi tempi, hanno portato a risultati spesso deludenti.

Partendo dal tentativo di rilancio di Trainspotting, che ha avuto un riscontro economico non particolarmente entusiasmante, il flop di Doctor Sleep (2019) e poi quello di Birds of prey (2020).

In particolare quest’ultimo è stato per me un film mediocrissimo, oltre che con la campagna di marketing e la distribuzione meno azzeccata nella storia del cinema. E comunque anche in quello McGregor ha fatto del suo meglio.

E così anche ne Ritorno al bosco dei 100 acri ha recitato per la maggior parte delle scene da solo in scena, riuscendo a dare un’interpretazione sempre convincente.

Non proprio una cosa da tutti.

Ed è veramente un peccato che il maggior successo che questo attore abbia avuto recentemente è stato con quella mediocrata di Obi-Wan...

Categorie
2022 Avventura Azione Comico Commedia Dramma familiare Fantascienza Fantasy Film Oscar 2023

Everything everywhere all at once – Forse troppo

Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche è un film totalmente surreale, che riesce ad unire il genere fantascientifico e fantastico con il dramma familiare.

Un prodotto tanto creativo e profondo tanto, per certi versi, difettoso.

Il film è stato un successo di pubblico incredibile, sopratutto al botteghino statunitense: a fronte comunque di un budget non irrisorio di 25 milioni di dollari, è arrivato ad incassare ben 140 milioni in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Everything everywhere all at once (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh
Miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan
Migliore attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis

Migliore attrice non protagonista a Stephanie Hsu
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore colonna sonora
Miglior canzone originale

Di cosa parla Everything everywhere all at once?

Evelyn è una donna immigrata che si spacca la schiena dietro alla gestione della sua lavanderia a gettoni e della sua complicata famiglia. Un giorno viene improvvisamente contattata da un uomo che dice di venire da un altro universo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Everything everywhere all at once?

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Dipende.

Everything everywhere all at once è uno di quei classici film che spaccano il pubblico: è in effetti un prodotto particolarissimo, neanche facilissimo da seguire, ma che, se siete ben disposti, vi entrerà nel cuore.

Insomma, se state cercando un film che è un’esplosione di creatività e di pura estetica, che cerca di trasmettere dei profondi messaggi sulla vita e sulla famiglia, riuscendo anche ad essere discretamente divertente, potrebbe fare per voi.

Se invece non siete propensi ad accettare un film che dà più valore al messaggio e all’estetica che alla trama di per sé, potreste genuinamente odiarlo.

Essere disastrosamente creativi…

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

La creatività e l’estetica di questo film è non solo ammirabile, ma davvero sensazionale.

Sopratutto con i diversi costumi e aspetti di Joy, riesce a sperimentare e a portare in scena veramente di tutto, con una varietà e una cura del suo personaggio che mi ha fatto veramente impazzire.

Al contempo, anche se le idee raccontate magari non sono il massimo dell’originalità, ma anzi pescano a piene mani da cult come Matrix, i registi riescono comunque a sbizzarrirsi parecchio.

Sopratutto particolarmente divertenti sono i trampolini, anche se ammetto che ho riso meno dei miei compagni in sala (e forse anche di voi), per certe battute.

Insomma, per me l’umorismo è vincente fintanto che non scade nello slapstick.

…ma dimenticarsi del resto

Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Per quanto un film possa essere incredibilmente creativo e artistico, non può dimenticarsi di avere una struttura narrativa, a meno che non voglia lanciare una corrente cinematografica che si ribella alle strutture narrative stesse (e non credo sia questo il caso).

Penso sia più probabile che questa coppia di fantasiosi ma anche talentuosi registi si sia trovata con un’ottima idea fra le mani, ma non sono stati in grado di esplicarla efficacemente in una struttura narrativa.

Infatti sembra che la trama parta in un certo senso immediatamente, senza neanche una introduzione effettiva che porti ad un secondo atto, che si espanda disordinatamente fino ad un finale che è pure efficace, ma che non arriva in maniera organica.

Non del tutto da buttare, ma un pochino più di ordine e di idee chiare avrebbe indubbiamente giovato al film.

La spirale dell’autodistruzione

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Uno dei punti fondamentali del film è il racconto di questo senso di fallimento e del volersi del tutto annullare.

Volendo andare a leggere più drammaticamente il black bagel, è possibile che si volesse raccontare in maniera anche un po’ più scanzonata la depressione e probabilmente anche il suicidio.

Joy sembra infatti volersi lasciare totalmente travolgere da questo senso di inadeguatezza e di fallimento.

È invece la madre, Evelyn, che accetta infine il suo fallimento, di essere la sua versione peggiore possibile, ma comunque di riuscire ad apprezzare la bellezza di quel poco che ha e di tutto il valore che può avere anche solo stare con suo marito, cosa che in altri universi di successo non ha.

Un finale quasi da commedia, ma ben contestualizzato e che ti scalda il cuore.

Contro il sogno americano

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Due elementi mi hanno particolarmente colpito della pellicola: la scelta della protagonista e il racconto del sogno americano.

Anzitutto, particolarmente raro vedere come protagonista di un film con elementi anche action una donna di mezza età, con anche la sua controparte di Deirdre, interpretata da un’esplosiva Jamie Lee Curtis.

Altrettanto dissacrante il fatto che la realizzazione personale della protagonista, almeno in potenza, non avvenga negli Stati Uniti, la terra promessa, ma in patria. Anzi, la scelta di immigrare negli Stati Uniti è quello che l’avrebbe portata più alla povertà e alla poca realizzazione.

Una certa novità in un panorama recente che racconta di come gli immigrati negli Stati Uniti che hanno solo da guadagnare nella nuova situazione: basta guardare Shang-chi e la leggenda dei dieci anelli (2021) e Red (2022) per capire la tendenza.

Categorie
2021 Cinema d'autunno Dramma familiare Drammatico Fantasy Film

Lamb – Una favola gotica

Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson è un film islandese presentato anche a Cannes nel 2021 e agli Oscar 2022 nella categoria Miglior film straniero, con un certo riscontro anche nel cinema internazionale.

Il budget del film è ignoto, ma sicuramente è stato abbastanza risicato, effetti speciali permettendo. In tutto il mondo ha incassato 3,1 milioni.

Di cosa parla Lamb?

María e Ingvar sono due fattori in un luogo sperduto dall’Islanda, che vivono la loro vita per giorno. La situazione cambia improvvisamente con la nascita di uno strano cucciolo da una delle loro pecore…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: il primo atto del film è molto più godibile senza sapere nulla.

Vale la pena di vedere Lamb?

Noomi Rapace in una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

In generale, sì.

Lamb è un prodotto di alto valore artistico, ma con ritmi e un linguaggio non del tutto comprensibile nell’immediato, soprattutto per quanto riguarda il primo atto, quello più dominato dai silenzi e dalle inquadrature enigmatiche.

Gli ultimi due terzi di film sono quelli più digeribili: le dinamiche in scena, tolto l’elemento fantastico, il film si segue con abbastanza facilità. Come prodotto mi ha in parte ricordato The Witch (2015), senza però l’elemento orrorifico, molto meno presente di quanto è stato pubblicizzato.

Insomma, se cercate un prodotto di cinema fantastico che gioca molto con l’elemento favolistico e folkloristico, potrebbe davvero sorprendervi.

La costruzione del colpo di scena

Una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

Il primo atto è complessivamente quello più riuscito dell’intera pellicola: ti racconta lo sbocciare dell’amore per Ada e la rinascita della relazione matrimoniale, al contempo capace di nasconderti sapientemente la vera natura della figlia adottiva.

Infatti io, che conoscevo principale colpo di scena del film, ho avuto un cortocircuito mentale in cui pensavo di essermi sbagliata nel capire il punto centrale della storia, in quanto mi aspettavo che il vero aspetto di Ada fosse rivelato immediatamente.

In un certo senso all’inizio forse i due protagonisti nascondono la natura della figlia anche a loro stessi: mentre il suo essere una creatura ibrida può apparire grottesco, vedere solo la testa di agnello ispira una naturale simpatia e dolcezza.

Oltre a questo, questa scelta della rivelazione più tardiva non distrae dal punto centrale della scena: la crescita del rapporto d’amore per la bambina.

La maternità rubata

Noomi Rapace in una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

Marìa si appropria quasi egoisticamente di una maternità che non le appartiene, ribadendo la sua superiorità umana contro quella bestiale della vera madre di Ada. E se ne riappropria definitivamente utilizzando un’arma umana contro di lei.

La scelta è dovuta ai suoi incubi ricorrenti riguardo a questa maternità rubata: la donna è di fatto cosciente di essersene appropriata ingiustamente, ma non può permettere che di nuovo un’altra figlia le sia tolta. Si vede infatti che Marìa visita la tomba della figlia umana morta, con lo stesso nome della figlia adottiva.

E, come una sorta di contrappasso dantesco, questa violenza le si ritorce contro: alla fine sarà il vero padre di Ada, che ha tutte le capacità umane di rivalersi contro i rapitori della figlia, proprio nella stessa maniera umana che loro stessi hanno utilizzato.

Il simbolismo di Lamb

Lamb sembra trarre da diverse simbologie: quella più immediata è indubbiamente il mito del Minotauro, un racconto di hybris sempre legato ad una maternità mostruosa.

Con anche una sorta di ribaltamento: al contrario del Minotauro, che è un essere repellente, Ada è associata ad un animale spesso simbolo di delicatezza e dell’infanzia.

Un altro mito meno immediato è quello di Ganesha, l’aspetto più ricorrente del Dio della religione induista, nella forma di uomo con la testa di elefante. Secondo uno dei miti più diffusi riguardo alla sua nascita, il Dio sarebbe stato originariamente un fanciullo ingiustamente decapitato, la cui testa sarebbe stata sostituita da quella di un animale, l’elefante appunto.

In Lamb si ricollegherebbe al tentativo di Marìa di ricostruire la figlia che le è stata ingiustamente tolta.

Come è stata fatta Ada?

Ada ha dalla sua parte il fatto di essere un personaggio sostanzialmente muto, che non richiedeva quindi di essere interpretata da un attore professionista. E infatti è stata portata in scena da diversi bambini locali coinvolti nella produzione.

I bambini coinvolti indossavano una sorta di casco con il green screen, su cui poi è stata creata la testa, ideata usando come modello delle vere pecore di allevamenti locali al luogo della produzione.

La risoluzione e la credibilità del risultato è senza eguali per un film che è di fatto una produzione indipendente.

Categorie
Animazione Avventura Azione Cinema d'autunno Commedia Commedia nera Fantasy Wes Anderson

Fantastic Mr. Fox – Una favola per adulti

Fantastic Mr. Fox (2009) è il primo lungometraggio animato con la tecnica stop-motion di Wes Anderson, a cui è seguito L’isola dei cani (2018).

Il film fu purtroppo un pesante flop commerciale: a fronte di un budget non esattamente ridotto come 40 milioni di dollari, ne incassò appena 46 in tutto il mondo.

Di cosa parla Fantastic Mr. Fox?

In un mondo con animali semi-antropomorfi, Mr. Fox è una volpe che ha rinunciato alla sua natura animalesca di rubagalline su richiesta della moglie. Tuttavia, la sua avventatezza lo porterà a conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Fantastic Mr. Fox?

George Clooney come Mr Fox in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Fantastic Mr. Fox è assolutamente quello che vi potreste aspettare da Wes Anderson, con una tecnica di animazione che sembra calzargli a pennello e che per certi versi mi ha ricordato alcune sequenze di Grand Budapest Hotel (2018).

Un piccolo film di breve durata che ho trovato davvero piacevole da guardare, con una trama a sorpresa davvero piena di colpi di scena. Come al solito, non fatevi frenare dal fatto che sia un prodotto di animazione: non è un prodotto per l’infanzia, anzi è molto più godibile da un pubblico adulto.

Cos’è la tecnica stop-motion

La tecnica stop-motion, in Italia nota come passo uno, è una tecnica di animazione con l’utilizzo di una speciale macchina da ripresa, che riprende fotogramma per fotogramma.

Questo richiede diverse pose degli elementi della scena, rendendola una tecnica quanto affascinante che complessa.

Nel caso di Fantastic Mr. Fox i soggetti in scena sono dei pupazzi, avendo alle spalle professionisti come lavoratori anche con Tim Burton per La sposa cadavere (2005), altro prodotto creato con la stessa tecnica.

Anderson, oltre al successivo prodotto di animazione L’isola dei cani, utilizzò tecniche simili anche per Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Grand Budapest Hotel.

Se volete approfondire, ecco un dietro le quinte della realizzazione del progetto:

Perché è così difficile trasporre Roald Dahl

Vale la pena di spendere due parole su questa questione, soprattutto perché Roald Dahl è stato l’autore della mia infanzia, di cui lessi ogni storia, compresa l’autobiografia e la biografia.

E per l’occasione ho ripreso anche in mano il romanzo originale.

Generalmente parlando, la particolarità di questo autore sta tutto in certi elementi grotteschi, quasi orrorifici che inseriva nelle sue opere, nonché le morali non scontate dietro alle sue storie.

Uno dei punti più alti era forse ne Gli Sporcelli, in cui la coppia protagonista quasi si mangiava dei bambini che catturava, oltre a farsi gaslighting a vicenda, con tinte davvero horror.

Ma anche più semplicemente il finale de Le Streghe, che non è esattamente quello che ti aspetteresti da una storia per bambini, e che infatti è stata edulcorata senza alcuna vergogna nel film del 1990.

Paradossalmente è stato meglio che l’abbia preso in mano un regista come Wes Anderson, che ha cercato anzi di rendere la storia originale più digeribile per il suo pubblico.

Tuttavia, mentendo un totale rispetto per l’opera originale, arricchendola di contenuti, invece che cambiarla radicalmente

Una trama inaspettata

Willem Dafoe come Rat in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

In un prodotto più banale mi sarei aspettata che il punto di arrivo sarebbe stato la scoperta da parte della moglie delle malefatte di Mr. Fox.

E invece le stesse sono quasi il motore della vicenda che porta al finale.

Questa apparente anomalia riguarda anche il modo in cui Anderson ha cercato di arricchire la storia, che originariamente era molto più lineare e molto più breve. Nel libro in particolare manca tutta la sequenza iniziale di contrasto di Mr. Fox e la moglie.

Il regista è riuscito ad aggiungere dove bisognava aggiungere, soprattutto rendendo i personaggi più tridimensionali e la storia più ampia, ma mantenendo inalterato il cuore della storia.

Antropomorfi, ma non del tutto

Il carattere di antropomorfismo dei personaggi è reso con grande equilibrio, senza renderli del tutto umani, ma mantenendo il loro lato animalesco.

Si vede particolarmente nei momenti in cui le volpi mangiano come animali, appunto.

Nonché la questione di Badger, l’opossum, che in dei momenti improvvisamente perde coscienza del mondo. Questa caratteristica tanto strana è tipica del comportamento dei membri della sua specie, che in dei momenti sembrano morti.

Una reazione quasi involontaria che questi animali hanno quando si sentono minacciati, e che ha uno spassoso effetto comico all’interno del film.

Altrettanto geniale è tutta la messa in scena di come Mr. Fox organizzi di fatto una rapina umana, ma del tutto coerente con la sua natura da volpe ruba galline, appunto.

Il topos della fuga dal quotidiano

Un elemento che potrebbe apparire quantomeno bizzarro di questa pellicola è il tipo di rappresentazione del rapporto matrimoniale fra Mr. Fox e Mrs. Fox.

Tuttavia, facendo abbastanza attenzione si può notare come evidentemente la storia sia ambientata negli Anni Sessanta-Settanta, proprio quando fu pubblicato (e ambientato) il libro di ispirazione.

Così appare molto più comprensibile questa idea dell’uomo scapestrato in gioventù che si sente intrappolato nella vita matrimoniale, come effettivamente era tipico a livello sociale in quel periodo.

Fra l’altro il personaggio di Mr. Fox è molto più ampliato rispetto al libro, in cui era un eroe positivo in tutto e per tutto, nonostante in certi momenti si mettesse in luce la sua furbizia per finalità non del tutto positive…