Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra è un classico blockbuster estivo. Uscì in quella strana estate del 2021, quando distribuire le pellicole in sala era ancora un terno al lotto.
Nonostante la presenza di due star come The Rock e Emily Blunt, nonostante tutti gli elementi che lo rendono una piacevole avventura per ragazzi, non fu un buon successo commerciale. Infatti, a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ne incassò appena 220.
Tuttavia, per il momento storico fu considerato soddisfacente, tanto che è stato ordinato un sequel.
Di cosa parla Jungle Cruise?
Londra, 1916. La Dottoressa Lily è una giovane e intraprendente avventuriera che vuole mettersi sulle tracce delle leggendarie Lacrime della Luna, che permetterebbero di guarire ogni malattia. La sua avventura viene ostacolata da un misterioso principe europeo, che vuole fare di tutto per mettere le mani su quel tesoro…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Jungle cruise?
Jungle cruise è un film senza molte pretese, ma che comunque si impegna a dare tutto il tempo ai personaggi per respirare e farsi conoscere dal pubblico. Per certi versi anche troppo, vista la durata atipica per un prodotto di questo genere (più di due ore!).
Tuttavia, è anche una pellicola divertente e che intrattiene facilmente, con una regia frizzante e coinvolgente. Lo consiglio per una visione rilassata, sopratutto se siete appassionati dei film di avventura per ragazzi di questo tipo.
Che cos’è la Jungle cruise?
Come anticipato, questo film è tratto dalla giostra omonima di Disneyland.
Non è la prima volta che Disney fa un’operazione del genere: la stessa cosa era successa anche con la saga di Pirati dei Caraibi. E in questo caso l’ispirazione primaria si vede molto bene all’interno del film: una delle scene principali riguarda proprio un gruppo di turisti che viene portato su un battello attraverso la giungla, con tanti effetti speciali per intrattenere il pubblico.
E infatti, provando la giostra di ispirazione, potrete vivere praticamente quello che vedete nel film.
Perché Lily è un buon personaggio…
Alla prima visione ero rimasta poco convinta dalla gestione dei personaggi di Lily e di MacGregor. Se per il fratello ho ancora qualche riserva, per lei mi sono effettivamente ricreduta.
Il suo personaggio è indubbiamente costruito a tavolino: è una ragazza giovane e avventurosa, che non si lascia fermare da niente, neanche da un mondo di uomini che cercano di bloccarla e sminuirla. Oltre a questo, è anche animalista e non può assolutamente sopportare il maltrattamento di animali.
Un personaggio che appare forzato per come è messo in scena, sopratutto per il contesto storico, ma che è anchegiusto per il tipo di target. Mi immagino quanto facilmente una bambina o ragazzina riesca ad immedesimarsi in questa protagonista le cui dinamiche, con le dovute differenze, può ritrovarle anche nella sua vita quotidiana.
…ma MacGregor forse no.
Il personaggio di MacGregor è stato costruito con lo stesso concetto, ma in questo caso forse ricadendo in uno stereotipo troppo pesante per essere gestito con così tanta leggerezza.
Anche se non viene detto esplicitamente, il suo dialogo con Frank suggerisce abbastanza chiaramente che MacGregor è un uomo omosessuale che vive in una società ostile, e che solo la sorella lo supporta. E per questo viene associato ad una serie di stereotipi, come la sua passione per il vestirsi bene e in generale la vita raffinata.
Tuttavia, anche questo può essere un personaggio in cui un bambino si può rivedere: magari un giovane spettatore con le stesse difficoltà del personaggio, che non riesce ad imporsi e a rispettare le richieste che la società che lo circonda. E che alla fine, in diversi momenti prende coraggio e interviene nell’azione.
Quindi, non del tutto da buttare, ma avrei preferito che fosse meno stereotipato.
Un film animato?
La regia del film come detto è piuttosto frizzante, tanto da portare una messa in scena che sembra nè più nè meno quella di un lungometraggio animato. E per questo funziona perfettamente.
Lo conferma il character design dei personaggi: Mr Nilo e il Principe sono incredibilmente esagerati nell’aspetto e nei comportamenti, al limite della macchietta. Ma in questo caso delle macchiette simpatiche e che funzionano, con degli attori eclettici e di altissimo livello.
Non a caso Paul Giamatti è uno dei miei caratteristi preferiti, a partire dal suo personaggio in Una notte da leoni 2 (2011)
E Jessie Plemons conferma ancora il suo eclettismo, passando da un film di questo tipo a ruoli incredibilmente complessi come in I’m Thinking of Ending Things(2020). E la morte del suo personaggio, schiacciato comicamente come la Strega dell’Ovest da un masso enorme, non fa che confermare la vena comica e cartoonesca della pellicola.
Quando c’era Marnie (2014) è un film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi, recentemente tornato alla regia con Mary e il fiore della strega(2018).
Il film si colloca in un momento abbastanza drammatico per lo studio: dopo lo scarso successo de Il racconto della principessa splendente(2013), la casa di produzione decise di prendersi una pausa.
È tornata recentemente con Earwig e la strega (2020), primo film in animazione 3D, stroncato da pubblico e critica.
Anna è una ragazzina di tredici anni, chiusa in sé stessa e con molti drammi interiori irrisolti. La madre adottiva, preoccupata anche per la sua salute, decide di mandarla in campagna dalla zia, così da respirare aria fresca e rimettersi in forma.
In questa occasione Anna incontrerà una misteriosa e bellissima ragazza, Marnie.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Quando c’era Marnie?
Assolutamente sì.
Ho recuperato abbastanza recentemente Quando c’era Marnie, ma è subito diventato uno dei miei film preferiti.
Sarà per la storia che sento molto vicina, per tutti momenti davvero toccanti della pellicola e la profondità della vicenda raccontata, ma anche ad una seconda visione è riuscito ancora ad emozionarmi e coinvolgermi.
Una pellicola racconta in maniera matura e profonda il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, del ritrovare sé stessi e venire a patti col proprio passato, con piglio molto drammatico, anche a livelli strazianti, ma complessivamente ben equilibrato.
Marnie dei miei ricordi
In originale Quando c’era Marnie si intitola 思い出のマーニー, che significa Marnie dei miei ricordi.
Quando l’ho scoperto, non ho potuto che apprezzare ancora di più la bellezza e la profondità di questa pellicola.
Il film gioca sul limite fra il magico e il reale, senza volerlo spiegare fino in fondo. Semplicemente la nonna di Anna, Marnie, ha voluto ritornare in contatto con la nipote, legata a questo particolare luogo della sua memoria e che amava molto: la villa della sua infanzia.
In realtà Marnie è sempre stata nella vita di Anna, anche se lei non lo sapeva: da notare in particolare la bambola con le sembianze della nonna che la piccola Anna abbraccia nelle scene di flashback.
Anna, non conoscendo finora la vera storia della sua famiglia, ha sofferto terribilmente, sentendosi abbandonata.
In realtà, proprio dopo un passato di reale abbandono, Marnie cercò di crearsi una famiglia migliore, ma tutto le crollò addosso con la morte del marito e poi della figlia, portandola ad una profonda depressione, che infine la vinse.
Ma, nonostante tutto, ci viene raccontato come non si perse mai d’animo e cercò fino alla fine (e oltre) di essere felice e ricostruire la sua vita.
Un’emotività problematica
Anna viene fin da subito raccontata come un personaggio molto problematico.
Un’emotività fragilissima, che non si sente per nulla amata dalla sua madre adottiva, soprattutto dopo la scoperta dei sussidi ricevuti dalla sua famiglia. Oltre a questo, odia i suoi genitori e sua nonna per averla abbandonata, anche se sa che non era colpa loro.
E si odia per questo.
Il contatto con Marnie, ragazza che la ama incondizionatamente e che sente da subito vicina a sé, la porta a volerla salvare dalle sue fragilità e debolezze.
Aiutare sé stessi
Aiutando la Marnie del passato, Anna aiuta sé stessa.
In questo riesce a ritrovare pian piano la propria felicità e a venire a patti con il proprio passato e col proprio presente. Particolarmente toccante e significativo il momento in cui Anna si sente abbandonata da Marnie, sia effettivamente che metaforicamente, ma che infine riesce a perdonarla per la sua debolezza e per non esserle stata vicino.
Infatti, Marnie evidentemente desiderò accoglierla fin da subito nella sua casa con affetto e amore, anche per colmare i suoi sbagli passati. E, finalmente, ha la sua occasione di riscatto: regalare alla nipote una vita felice e appagante.
Una settimana da Dio (2003) è un film diretto da Tom Shadyac, regista che aveva già lavorato con Jim Carrey per Ace Ventura(1994).
Una pellicola che, dopo quasi 10 anni dal lancio al grande pubblico dell’attore, confermò le sue capacità recitative, ancora più di The Truman Show(1998).
Il film fu un buon successo di pubblico (484 milioni di dollari contro 80 di budget) e, non a caso pochi anni dopo si tentò di produrre un seguito, Un’impresa da Dio (2007), con protagonista Steve Carell, che però fu un disastro commerciale (174 milioni di incasso contro un budget di 175).
Di cosa parla Una settimana da Dio
Bruce, interpretato da Jim Carrey, è un giornalista televisivo per Channel 7 e che ambisce a diventare il conduttore del telegiornale, scontrandosi contro il rivale, Evan. Quando la sua vita sembra andare a scatafascio, un incontro inaspettato, con niente di meno che Dio in persona, gli sconvolgerà la vita.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Una settimana da Dio fa per me?
Una settimana daDio si inserisce nel trend delle commedie dei primi Anni 2000, con tutto quello che ne consegue.
Quindi battute anche di cattivo gusto e quel fetish parecchio strano che avevamo per la pipì e alle scoregge, che a quanto pare facevano molto ridere. Tuttavia, un umorismo in questo senso ben dosato, senza mai cadere negli eccessi, pur geniali, di prodotti ben più esagerati come Dodgeball(2004).
In generale, è un film che mi sento di consigliare se vi piacciono le commedie e soprattutto se volete vedere un Jim Carrey al massimo della forma, nel periodo d’ora della sua carriera.
In questo film infatti, a differenza di un The Mask (1994), Carrey riesce a calibrare perfettamente le sue capacità comiche nelle espressioni, nella voce e, soprattutto, nella recitazione corporea.
Nel complesso è una pellicola assolutamente godibile e che vi consiglio se volete vedere un prodotto che, anche 20 anni dopo, è ancora stato in grado di farmi ridere genuinamente.
Scegli una storia, sceglila bene
Come scheletro narrativo Una settimana da Dio è sostanzialmente assimilabile a The Mask: una commedia che racconta il sogno di potenza di un uomo medio.
Tuttavia, in questo caso la morale è (o dovrebbe essere) più profonda: non semplicemente un protagonista che deve capire le sue potenzialità, ma un personaggio sostanzialmente negativo che deve migliorare sé stesso.
Infatti, Bruce è un uomo ambizioso, invidioso e iracondo, cui viene messo in mano un potere straordinario, che però utilizza solamente per il suo tornaconto. E alla fine Dio lo metterà davanti alla consapevolezza di non aver mai fatto nulla di buono con i suoi poteri, come invece avrebbe dovuto.
E, a questo punto, secondo me il film si perde.
Una conclusione?
Teoricamente questa esperienza dovrebbe portare Bruce alla consapevolezza dei suoi difetti, a ridimensionarsi e a capire che può ottenere una vita felice e soddisfacente anche accontentandosi di quello che ha. Tuttavia, questa consapevolezza non è messa in scena in maniera ottimale.
Infatti, nonostante ci siano una serie di indizi di come le azioni di Bruce causino importanti conseguenze, lo stesso sembra non accorgersene.
Il momento di consapevolezza dovrebbe arrivare prima con il discorso di Dio stesso, quando gli spiega che i miracoli sono quelli che compiono le persone tutti i giorni, e non tanto i piccoli trucchi di magia che ha fatto Bruce fino a quel momento.
E, teoricamente, da quel punto in poi il protagonista dovrebbe comportarsi in maniera migliore. Tuttavia, questo cambio di comportamento è troppo veloce e improvviso, oltre ad avere un minutaggio abbastanza ridotto.
Quindi a mio parere Una settimana da Dio è una commedia complessivamente buona e davvero divertente, che però si perde nell’ultimo atto, andando ad incartarsi nel classico finale consolatorio che troviamo nella maggior parte dei prodotti di quel periodo…
Cip e Ciop: Agenti speciali (2022) è una delle ultime pellicole in tecnica mista uscite su Disney+ e che sta facendo parlare molto di sé. Il motivo è semplice: se pensavate che fosse un film per bambini, dovete ricredervi.
Io per prima pensavo quanto sopra, ma, grazie al passaparola positivo che ho ricevuto da diverse persone, mi sono convinta a recuperarlo. E non è nulla di quanto mi sarei mai potuta immaginare. Mi è sembrato di tornare a tanti anni fa, allo splendido Chi ha incastrato Roger Rabbit(1988), cult assoluto della mia infanzia, con tutto quello che ne consegue.
Di cosa parla Cip & Ciop agenti speciali
Cip e Ciop sono amici fin dall’infanzia e riescono a diventare protagonisti di uno show televisivo (che dà il nome al film e che è stato veramente trasmesso fra il 1989-90), ma si dividono inaspettatamente per il desiderio di Ciop di smarcarsi dall’ombra di Cip.
I due dovranno riunirsi molti anni dopo per salvare Monterey Jack, il loro ex-collega della serie.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perché Cip & Ciop agenti speciali non è niente che potreste aspettarvi
Come anticipato, io avevo bollato (ingiustamente) questo film come il solito revival di prodotti del passato per farli apprezzare alle nuove generazioni, come era stato appunto per il recente Tom & Jerry (2021) e altri prodotti simili. E mai come in questo caso ringrazio con tutto il mio cuore il buon passaparola che ho ricevuto.
Cip & Ciop agenti speciali è fondamentalmente un buddy movie nel senso più classico del termine, richiamando anche direttamente uno dei prodotti pionieristici del genere, 48 ore (1982). Due personaggi che partono come antagonisti (in questo caso divisi da un vecchio rancore) e che riusciranno a ricostruire il loro rapporto. Detto così, potrebbe sembrare un film innocuo. Niente di più sbagliato.
In realtà questo film non è minimamente pensato per un pubblico infantile, e forse neanche per un pubblico di ragazzini, ma principalmente per il target dei figli degli Anni Ottanta e Novanta, che conoscono i vari meme di internet e che sono cresciuti con i cartoni animati dell’epoca.
Nessuno pensa ai bambini!
Per quanto non sia detto esplicitamente, in Cip & Ciop agenti speciali si parla di dipendenza dalle droghe, quindi spaccio e traffico di esseri umani. Già questo getta un’ombra sul film, ancora più aggravato da scene non tanto spaventose, ma sottilmente disturbanti.
Oltre a questo, un bambino rischia di annoiarsi: per la maggior parte delle battute sono riferite a meme di internet e a prodotti degli Anni Novanta e Anni Duemila. Il massimo che potrebbe intrattenerlo sarebbe la storia raccontata, ma è impossibile (e per fortuna) che la capisca fino in fondo.
Perché dovreste vedereassolutamente Cip & Ciop agenti speciali
Fatte queste dovute premesse, Cip & Ciop agenti speciali è un film sorprendentemente geniale. La vera trama appunto riguarda temi abbastanza pesanti, cui si aggiunge il tema evergreen, già ben sperimentata in Bojack Horseman, ovvero quella riguardante la crudeltà dello show business hollywoodiano.
Un film profondo e maturo, pur con qualche ingenuità nel riprendere dei topoi molto abusati. Oltre a questo, soprattutto all’inizio, ci sono delle battute assolutamente geniali in riferimento a prodotti ormai entrati nella cultura popolare, in cui la Disney arriva a parodizzare sé stessa (e non solo). Un film gustoso e divertente, che dovreste assolutamente recuperare, soprattutto se fate parte della generazione che è cresciuta con questi personaggi.
Cos’è il genio?
Riuscire a mettere così tanti riferimenti alla cultura pop di un certo periodo non era semplice, ma è Cip & Ciop agenti speciali ci è riuscito alla perfezione.
Per me le battute più geniali sono state sicuramente quelle dell’animazione anni 2000 e soprattutto Ugly Sonic, uno dei casi cinematografici più discussi in tempi recenti. Per non parlare della quantità di riferimenti di prodotti animati, Disney e non.
Riuscire poi ad edulcorare tematiche pesantissime come il traffico di organi e di essere umani, lo sfruttamento di Hollywood e la dipendenza dalle droghe, riuscendo al contempo a contestualizzare tutto perfettamente nel contesto raccontato, non è cosa da tutti. Ma, ancora, questo film ci riesce perfettamente.
Il rapporto fra Cip e Ciop
Ho davvero adorato come il rapporto fra i due non sia affatto appiattito, non limitandosi a raccontare una banalissima dinamica da buddy movie.
Cip e Ciop erano due bambini molto soli e incompresi, in particolare Cip non riusciva ad avere amici e finalmente ha trovato un compagno di vita in Ciop: il suo racconto alla fine sul corpo esanime di Cip è uno schiaffo emotivo.
Un bellissimo racconto di amicizia, di come i rapporti possono essere guastati da una semplice parola non detta, accecati da un senso di inferiorità ingiustificato verso i propri amici, anche più stretti.
La scelta del rilascio in streaming
Il film è stato rilasciato direttamente sulla piattaforma Disney+, senza quindi passare per la sala. In questo caso, potrebbe non essere stata la scelta peggiore: probabilmente altri come me si saranno fermati davanti al titolo, bollandolo come un film per bambini.
Così il pubblico infantile e i genitori si sarebbero fiondati in sala, convinti di vedere un film pensato per loro. E, vista l’eccelsa capacità di rating dell’Italia (vi ricordo The Suicide Squad era classificato come film per tutti), probabilmente avremmo avuto una generazione di bambini traumatizzati per la vita.
Per questo probabilmente avrebbe avuto un pessimo passaparola e sarebbe stato un flop. Invece, rilasciandolo subito in streaming e rendendolo così più accessibile, ha permesso che fosse più facile che i vari influencer (adulti) lo vedessero e creassero un ottimo passaparola. E così è successo.
E non sarà né la prima né l’ultima pellicola che vivrà di migliore salute in streaming piuttosto che in sala.
Cip & Ciop agenti speciali citazioni
Il film conta più di 200 riferimenti a prodotti animati e non (altro che Ready Player One!). Ecco quelli che ho individuato io:
Flounder dalla Sirenetta (1989), Lumiere da La bella e la bestia (1998), Zio Paperone nella versione Ducktales, Paperino, Pumba da Il Re Leone (2018), Winnie The Poo, Rapunzel (2010), Cars (2006), Woody di Toy Story (1995), Paul Rudd, I Simpson,Alvin Superstar (2007), Polar Express(2004), Batman, Rick e Morty, Sonic – Il film (2020), Randy Marsh da South Park, E.T.(1982), Cats (2019), Fast & Furios, Mantis da Kung Fu Panda (2008), Casper (1995), My Little Pony, Peppa Pig.
Qui potete trovare la lista completa dei riferimenti.
Mary e il fiore della strega (2017) è un film diretto da Hiromasa Yonebayashi, il più giovane regista dello Studio Ghibli, che ha lavorato per anni spalla a spalla col maestro Hayao Miyazaki.
Questa pellicola non è una produzione dello Studio Ghibli, ma dello Studio Ponoc, fondato recentemente dal regista della pellicola. A fronte di un budget sconosciuto, ebbe un incasso abbastanza normale: circa 42 milioni di dollari.
Di cosa parla Mary e il fiore della strega
Mary, la protagonista della pellicola, è una ragazzina che, appena arrivata in una nuova città, deve riempire il tempo nella settimana prima dell’inizio della scuola. Ma un’avventura l’aspetta…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Mary e il fiore della strega?
In generale, sì.
Mary in Mary e il fiore della strega è un film adatto a tutti e che, a differenza de Il racconto della principessa splendente (2013), consiglierei per accedere al mondo dell’animazione giapponese.
Infatti, le dinamiche sono semplici e facilmente comprensibili anche per il pubblico occidentale, con dei trope piuttosto tipici anche nel nostro cinema, ma non per questo meno funzionali.
Insomma, un film leggero e intrattiene facilmente, pure con qualche interessante colpo di scena ben congegnato.
Le animazioni, come detto, sono un’ottima eredità dello Studio Ghibli e in particolare a Miyazaki: non rasentano il capolavoro come i suddetti, ma sono comunque di ottimo livello, con un character design piuttosto convincente per la maggior parte dei personaggi.
Una protagonista perfetta
L’undicenne Mary è una protagonista scritta a regola d’arte.
Viene dedicato il giusto minutaggio a raccontarci la sua personalità, il suo essere profondamente buona, ma anche piuttosto imbranata. In questa piccola avventura, come nei migliori racconti di formazione, riesce ad assumere maggiore consapevolezza di sé stessa e delle sue abilità, con un finale piacevole che ci lascia con un sorriso.
Al contempo, è una protagonista con cui è facile empatizzare: proprio per la sua semplicità e goffaggine, è un personaggio che appare da subito simpatico e piacevole. Inoltre, la sua fallibilità e incertezza la rende al contempo una protagonista molto accessibile, in cui, anche con importanti differenze di età, è facile immedesimarsi.
Ingenuità di scrittura
Il film, come anticipato, presenta importanti ingenuità di scrittura, che in parte rovinano la solidità della storia. In particolare, ci sono due cose che non funzionano del tutto: il rapporto di Mary con Peter e la backstory dei villain.
La backstory degli antagonisti è troppo poco esplorata, tanto da diventare superficiale: manca un adeguato minutaggio per raccontare la situazione di partenza, il cambiamento e il dramma che si verifica. Per come è messo in scena, sembra che Charlotte decida di portare via il fiore della strega all’improvviso, senza averci pensato prima.
Inoltre, per come te lo presenta il film, Peter dovrebbe essere una persona a cui Mary tiene tantissimo, in quanto diventa quella da salvare all’interno del film e per cui la protagonista mostra costantemente di avere un grande legame emotivo.
Tuttavia, questo stesso legame sembra un po’ nato dal nulla: manca un’adeguata costruzione che riesca a farti coinvolgere realmente con il dramma del suo rapimento.
Trigger emotivi fallimentari
Per questo stesso motivo, tutti i trigger emotivi legati a Peter non funzionano fino in fondo: manca appunto un racconto funzionante del rapporto con Mary per poterci far emozionare nei vari momenti di dramma che vanno a crearsi. Invece nelle scene di difficoltà più che altro si viene coinvolti dalle emozioni di Mary più per il personaggio di Mary in sé che per il suo rapporto con Peter.
Infatti il loro rapporto nasce prima come antagonista, poi vi è un piccolo momento di riconciliazione, per poi avere un altro battibecco. Dopodiché, quando si rincontrano, sembrano immediatamente legati da un profondo rapporto.
Questo è il difetto più grande della pellicola, ma che, per la poca esperienza dello studio di produzione, mi sento di perdonare.
The Mask (1994) fu uno dei primi film di Jim Carrey, nonché una delle tre pellicole (insieme ad Ace venturae Scemo & Più scemo, usciti lo stesso anno) che lofece conoscere al grande pubblico.
Fu infatti un piccolo cult per i figli degli anni Ottanta-Novanta, e io stessa ricordo di averlo visto più e più volte, rimanendone sempre affascinata e divertita.
Non a caso fu un incredibile successo commerciale: 351 milioni di incasso contro un budget di circa 20 milioni.
Di cosa parla The Mask?
Stanley Ipkiss è un mediocre impiegato bancario, che vive di grandi sogni di successo, che però non riesce mai a realizzare. Troverà per caso una maschera che, se indossata, lo renderà un inguaribile rubacuori, capace di qualsiasi cosa…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.:
Vale la pena di guardare The Mask?
In generale, sì.
Oltre ad essere uno dei film più famosi di Jim Carrey, è ancora una pellicola piacevole da guardare anche oggi, soprattutto se ci si approccia con l’idea di vedere un film di intrattenimento senza grandi pretese di originalità, ma totalmente retto sulle spalle di un giovane ma già incredibile Jim Carrey.
Quindi, se apprezzate i film comedy degli Anni Novanta, con tutte le loro esagerazioni e assurdità, e se soprattutto siete fan di Jim Carrey, guardatelo.
Perché The Mask divenne un cult?
Le motivazioni del successo di The Maskin realtà non sono difficili da immaginare.
Anzitutto il film utilizza una tecnica molto comune di scegliere un protagonista che ricalchi le caratteristiche del target di riferimento. Infatti, Stanely rappresenta il topos dell’uomo medio, intrappolato nella sua mediocrità e incapacità di realizzarsi, pur avendo grandi sogni e speranze di successo.
E The Mask rappresenta il suosogno di potenza: avere la possibilità di fare tutto, realizzare i suoi desideri più reconditi, che sono di fatto due: imporre la sua mascolinità sugli altri uomini superiori a lui e ottenere la ragazza dei sogni.
Così infatti la maschera dà la possibilità a Stanley ad avere la meglio sul borioso e viscido direttore di banca e di conquistare una splendida ragazza come Tina.
Non sei come gli altri
Un altro trope piuttosto comune, e che si adatta sia ai personaggi maschili che femminili, è iltu non sei come gli altri.
Per i personaggi femminili di solito è una degradazione delle altre donne, disinibite e superficiali, mentre per i personaggi maschili è una dichiarazione di superiorità rispetto agli altri uomini, più potenti del protagonista, ma di minor valore.
Così ben due donne nel film dicono al protagonista che lui è speciale, che non è come gli altri, che è anzi un uomo romantico e sensibile come ogni donna vorrebbe. E anche questo è un sogno ricorrente: pensare di avere maggiori qualità degli altri uomini che raggiungono il successo e sperare che gli altri (soprattutto le donne da conquistare) se ne accorgano e ne rimangano ammaliati.
Semplicemente Jim Carrey
The Mask fu un ottimo banco di prova per Jim Carrey, al tempo ancora quasi sconosciuto. Nel film infatti, al di là delle poche reazioni in CGI, fu Jim Carrey, con la sua espressività esplosiva e coinvolgente, a conquistare il pubblico.
Quando veste i panni dell’uomo medio ha un’espressività più semplice, ma comunque molto convincente, mentre quando diventa The Mask è un personaggio al limite della follia e dove Carrey riesce a dare il meglio di sé.
Non ancora, secondo me, il miglior Jim Carrey, ma comunque un ottimo punto di partenza.
I limiti del film
Il film, anche per la sua semplicità, ha degli ovvi limiti.
Anzitutto, l’antagonista: oltre ad essere molto stereotipato, non riesce a diventare interessante e minaccioso quando indossa la maschera. Sembra anzi un altro personaggio totalmente, un mostro ancora più stereotipato. E infatti il suo screen time in quelle vesti è per fortuna molto limitato e la sua dipartita è altrettanto rapida, anche se piuttosto spassosa.
Così anche ovviamente il personaggio femminile, che è in tutto e per tutto una donna oggetto che esiste in funzione del sogno del protagonista. Lasciando anche da parte come il taglio erotico e abbastanza patetico con cui la regia la racconta, Tina è la classica donna bella e impossibile, ma alla fine si innamora comunque di Stanley e lo aiuta anche a realizzare il suo piano.
Ovviamente, all’interno della dinamica per cui la donna vive solo per essere oggetto del desiderio maschile, tutti i personaggi maschili sono pateticamente svenevoli quando appare. Ma stiamo parlando degli Anni Novanta: altri tempi, altra mentalità. E per quello che volevano fare, è un personaggio assolutamente azzeccato.
A differenza di come si pensi, nel film Jim Carrey non dice spumeggiante, ma sfumeggiante. Infatti, in inglese dice smoking, di cui sfumeggiante è la traduzione letterale.
Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) è l’ultimo film Marvel uscito la scorsa settimana nelle nostre sale. Il ritorno alla regia di Sam Raimi, conosciuto e amato per la sua trilogia di Spiderman (2002-2007) e de La casa (1981-1992). Un ritorno fra l’altro dopo quasi un decennio di assenza dalla macchina da presa: l’ultimo film da regista è stato Il grande e potente Oz (2013).
Doctor Strange in the multiverse of madness è anche il primo film horror dell’MCU e sicuramente non potevano scegliere un autore migliore per questo compito. E non è sicuramente un caso che la pellicola ha aperto questo weekend con 450 milioni di dollari di incasso.
Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla Doctor Strange in the multiverse of madness
Doctor Strange in the multiverse of madness racconta di America Chavez, giovane ragazza con un potere davvero particolare: aprire i passaggi fra gli universi. Per questo è braccata da un terribile nemico che vuole impossessarsi delle sue abilità. La giovane ragazza chiederà quindi l’aiuto di Doctor Strage, che già aveva avuto contatti con il multiverso in Spiderman no way home (2021).
Questo, raccontato assolutamente senza spoiler.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
È davvero un film di Raimi?
La mano di Raimi si vede, e tanto. Le splendide dissolvenze incrociate, le inquadrature che si immergono negli occhi dei personaggi, la camera che ruota intorno alle scene, fino al taglio splendidamente horror.
Perché si, questo film ha davvero un taglio horror (ovviamente sempre horror per ragazzi, alla Raimi appunto), altro che un certo Moon Knight di mia conoscenza. Con fra l’altro scene di combattimento incredibili e ottimamente dirette, probabilmente le migliori di tutto l’MCU finora.
Vale la pena di vedere Doctor Strange in the multiverse of madness?
Per quanto mi riguarda, assolutamente sì, anche solamente pet la regia di Raimi, diversa dal solito, ma che ben si adatta ai ritmi ed alle tematiche dell’MCU. Di fatto, un buon prodotto supereroistico con una regia di primo livello.
Tuttavia, come ogni prodotto MCU, richiede delle conoscenze pregresse. Oltre ovviamente a Doctor strange (2016), anche Endgame (2019) ed Infinity war (2018). Per le serie, Wandavision è abbastanza importante per comprendere il personaggio di Wanda, Loki per il multiverso, mentre What if…? è accessorio.
Ovviamente se non siete appassionati dell’MCU non è un film che mi sento di consigliarvi, proprio per via dei collegamenti col resto della filmografia. Tuttavia, se siete fan di Raimi, forse potrebbe essere un modo permettere un primo piede dentro la porta di questo universo.
Wanda, una villain inaspettata
Non era del tutto sicuro che Wanda fosse la vera villain principale della pellicola: la logica avrebbe voluto Mordo al suo posto, visto come si era concluso Doctor Strange. Tuttavia, non mi posso lamentare: Wanda è uno dei pochi e buoni villain che l’MCU può contare.
E lo è anche perché abbiamo la possibilità di vedere un antagonista che ha un percorso di crescita e di redenzione. Infatti alla fine Wanda, messa davanti alla realtà, capisce il suo errore e si redime, accettando la distruzione del Darkhold e di sé stessa. Tuttavia secondo me la sua storia non è finita qui, anzi non è del tutto detto che sia veramente morta. La plot armor, quando serve, viene sempre in aiuto.
Al contempo però mi è dispiaciuto che il suo personaggio sia stato un po’ appiattito sulla questione dei figli, visto che questi erano solamente l’ultimo elemento di un dramma che aveva radici più complesse e profonde: nella sua infanzia, nell’origine dei suoi poteri e nel rapporto con Visione. Ma per questo, appunto, è richiesta la visione di Wandavision.
La necessità di Wandavision
Doctor Strange in the multiverse of madness è forse il primo caso nell’MCU dove davvero la necessità di vedere le serie tv collegate è abbastanza opprimente. Infatti, come anticipato, vedere Wandavision è abbastanza essenziale per capire veramente la profondità del personaggio di Wanda, che altrimenti potrebbe apparire forzata e quasi macchiettistica.
Invece, avendo bene in mente la sua storia e soprattutto la sua storia nella serie, si riesce ad entrare profondamente a contatto col personaggio e col suo dramma personale.
Orrore e frenesia
Doctor Strange in the multiverse of madness ha due elementi portanti: il taglio horror e la frenesia della narrazione (che non sempre va a suo vantaggio). Veniamo infatti fin da subito portati in medias res della vicenda e la trama non si prende praticamente mai un attimo di pausa, ma procede a grandi falcate e con un ritmo davvero frenetico, forse anche troppo.
Per quanto forse non sia nello stile di Raimi, non sarebbe guastato aggiungere del minutaggio, se questo avesse significato portare più elementi di introduzione e di conclusione, oltre che qualche maggiore approfondimento. Invece è una continua corsa, a tratti sfiancante.
Per il taglio horror invece niente da aggiungere: oltre a quanto già detto, splendida la citazione a The Ring (2001) quando Wanda esce dallo specchio a Kamar-Taj e da capogiro tutta la sequenza dell’insegnamento sotto al Baxter Building. Per non parlare dello splendido body horror costante. Non proprio un film per tutte le età, insomma.
America Chavez e il problema delle soluzioni fuori dal cappello
America Chavez è uno degli elementi più deboli della pellicola: il personaggio manca di un’introduzione interessante e che ci faccia affezionare, nonché di un arco narrativo convincente. Di fatto il suo percorso è esplorato pochissimo e la conclusione assolutamente improvvisa e poco credibile. Ho avuto davvero la sensazione di essermi saltata una serie o un film.
Il generale, America Chavez è uno degli elementi di Doctor Strange in the multiverse of madness che sono pensati più per essere funzionali alla trama che per essere veramente importanti per la stessa. Di fatto il suo personaggio serve per dare modo a Wanda di dare sfogo alla sua ossessione, come poteva esserlo qualunque elemento introdotto per l’occasione.
Allo stesso modo il Darkhold e il Libro dei Vishanti: problemi creati per essere risolti in maniera semplice e funzionale all’interno della trama. In particolare il Libro dei Vishanti sembra proprio una soluzione tirata fuori dal cappello, che poi si rivela non essere neanche l’elemento risolutivo della vicenda: un MacGuffin da manuale.
Il fan service dosato (e come potrebbe non piacere)
Un ottimo aspetto di questo film è la mancanza di elementi di fan service troppo ingombranti. Anzitutto John Krasinski come Mr Fantastic, ruolo richiesto dal fandom e dall’attore stesso da moltissimo tempo. Poi Patrick Stewart come il Dottor Xavier, ucciso da Wanda e secondo me anche il modo in cui la Marvel dice totalmente addio agli X-men dellaFOX. E, infine, Captain Carter da What if…?
Insomma, un fan service ben dosato, che però potrebbe essere dannoso per la pellicola. Infatti ho sentito della vibes non del tutto positive circa il gradimento del pubblico e ho idea che potrebbe essere dovuto anche a questo elemento.
Io per prima mi aspettavo molti più camei e molto più fan service, e forse altri si aspettavano uno Spiderman No Way Home seconda parte. Ed effettivamente non ti fa saltare sulla sedia allo stesso modo. Ma forse è meglio così.
La morale Doctor Strange in the multiverse of madness
Un altro elemento che ho particolarmente apprezzato di questo film è la morale: l’importanza di accontentarsi. La vita che abbiamo potrebbe non essere la migliore che potremmo mai avere, ma è quella che abbiamo e da cui dobbiamo cercare di trarre il meglio, nonostante le avversità.
Quindi Doctor Strange accetta di non essere lo Stregone Supremo e che lo sia invece Wong, inchinandosi infine davanti a lui e riconoscendo così la sua carica. Così accetta che Christine non potrà essere la sua compagna. E infine Wanda accetta che non potrà mai avere i suoi figli, perché questo significherebbe distruggere la loro vita in un altro universo e così quella di un’altra se stessa, oltre a dover uccidere America. In questo caso il peso della colpa e della vergogna la porta ad suicidarsi per il bene comune.
Ma, appunto, non è detta per forza l’ultima parola su questo personaggio.
La storia della principessa splendente(2013) è un lungometraggio animato nipponico, opera di Isao Takahata, uno degli animatori di punta dello Studio Ghibli.
Una produzione lunghissima: otto anni, di cui solo cinque per lo storyboard. All’uscita in sala ottenne incassi discreti, ma un grande riconoscimento di pubblico e critica.
Di cosa parla La storia della principessa splendente?
La principessa splendente, trovata per caso da un tagliatore di bambù all’interno di un fusto, la principessa è un essere magico che cresce a velocità incredibile. Ma diventa anche in fretta un oggetto del desiderio…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La storia della principessa splendente?
Dipende.
In generale, consiglierei questa pellicola a persone che hanno già dimestichezza con lo Studio Ghibli e con un tipo di animazione giapponese piuttosto riflessiva e legata all’elemento magico ed enigmatico.
L’ho trovato tra i film più difficili per questa casa di produzione, ma comunque un tassello importante nella storia della stessa.
Se non ve la sentite di approcciarvi a questo tipo di visione, cosa assolutamente comprensibile, vi consiglio di provare altri prodotti più accessibili dello Studio. Sicuramente non è la pellicola che consiglierei a chi si approccia per la prima volta a questa produzione o addirittura all’animazione giapponese in toto.
Una tecnica unica
La tecnica di animazione de La storia della principessa splendenteè assolutamente unica, almeno secondo la mia esperienza.
Si ispira evidentemente ai dipinti su rotolo della tradizione giapponese, portando personaggi definiti con pochi tratti, talvolta addirittura caricaturali, dispersi su grandi spazi bianchi.
Questa tecnica di animazione non è neanche del tutto nuova allo Studio Ghibli: molti dei film di questa casa di produzione hanno degli sfondi che sembrano dei dipinti. In questo caso il risultato è di grande raffinatezza, che può piacere o meno a seconda del proprio gusto.
A me personalmente ha convinto a metà.
Una favola, un archetipo
Essendo una favola, è evidentemente un racconto archetipico, in cui è facile riconoscere degli stilemi piuttosto comuni sia nel cinema occidentale che orientale.
Questo aspetto può essere più o meno di vostro gusto, a seconda anche di quanto conoscete o volete conoscere del folklore giapponese e di un tipo di impostazione così tanto favolistico.
Oltre a questo, la pellicola racconta anche una cultura antichissima, profondamente sessista e segregante per entrambi i sessi, tanto che la principessa è per molto tempo tenuta quasi prigioniera all’interno del palazzo.
In questo senso torna un tema molto caro allo Studio Ghibli, ovvero il contrasto fra la realtà urbana e artificiosa e quella naturale e più genuina.
La durata immensa
Visto che la storia è allungata moltissimo rispetto all’opera originaria, la pellicola è appesantita da una durata veramente immensa. Inoltre, nonostante l’apparente semplicità della trama, verso la fine il film diventa complesso e non facile da seguire.
D’altra parte, il tipo di trama archetipica, quindi per certi versi veramente prevedibile, toglie in parte godibilità alla visione. Infatti, per la maggior parte del tempo, possiamo già intuire le svolte di trama.
La storia della principessa splendente
L’approfondimento dell’esperta
La pellicola è tratta da un racconto anonimo risalente al X secolo, tradizionalmente considerato il primo esempio di monogatari, un genere fondamentale per la letteratura giapponese classica.
Il contesto storico
Nel X secolo il Giappone si trovava in piena epoca Heian, un periodo di pace e di fioritura delle arti. Le uniche testimonianze giunte fino a noi sono quelle della vita di corte, che raccontano una società poligamica.
La norma era infatti che un uomo avesse una moglie ufficiale e varie concubine, mentre la poligamia delle donne era solo sopportata. Una realtà omosociale, ossia c’era una netta divisione tra gli ambienti maschili e quelli femminili, i quali non si intersecavano mai, se non di notte, quando l’uomo raggiungeva in segreto l’amante.
Il motivo della riscrittura
La trama del Taketori monogatari è molto ampliata nel film, soprattutto per la prima parte, che racconta una situazione di iniziale equilibrio e pace: della vita in campagna con la famiglia adottiva e agli amici nel testo originale non vi è traccia.
Di conseguenza le scene di conflitto tra il padre e Kaguyahime (lett. principessa splendente) che si fondano sulla nostalgia della vita agreste, più semplice e autentica, non avevano motivo di esistere.
Perché allora riscrivere la storia originale, allungandola e rischiando di risultare pesanti?
In effetti un motivo c’è: il finale del Taketori monogatari non è lieto perché, secondo le interpretazioni, sarebbe una sorta di punizione per aver violato la netta separazione tra terreno e alieno, avvenuta nel momento stesso in cui il tagliabambù ha deciso di accogliere nella sua vita lo spirito della principessa.
Dalla rottura di questo tabù (ricorrente nella cultura giapponese antica) nascevano i conflitti del testo fino al ritorno di Kaguyahime al regno della luna, causa di grandissimo dolore per i genitori.
Un finale diverso
La pellicola vuole invece fare luce su un altro tipo di conflitto: il contrasto tra la bellezza altra e la sofferenza terrena viene riadattato e applicato al contrasto tra natura e urbanizzazione.
La vita in campagna era idilliaca, perfetta, semplice; quella nella capitale finta, costrittiva, crudele. Da qui nasce la brama della protagonista di ritornare ai luoghi della sua giovinezza, che scoprirà poi essere irrimediabilmente diversi: muore in lei anche la speranza della nostalgia.
Questo film, come molti altri dello studio Ghibli, presenta una pesante critica dello stile di vita moderno ed evoluto e allo stesso tempo piange la perdita di uno più antico e idealizzato.
Per dare questo effetto si è manipolato il principio estetico di epoca Heian detto mono no aware, concetto di difficile traduzione che indica il senso di meraviglia misto a nostalgia che gli animi sensibili provano di fronte alla bellezza della natura in relazione alla sua caducità.
The Northman (2022) è l’ultima pellicola diretta da Robert Eggers, cineasta attivo solo da pochi anni, ma che ha già lasciato un’impronta importantissima nel mondo del cinema. Infatti le sue due prime pellicole, The Witch (2015) e The Lighthouse (2021), sono dei piccoli capolavori.
The Northman è il primo prodotto ad alto budget in cui Eggers viene coinvolto, riuscendo comunque a mantenere la sua inconfondibile forma autoriale. Tuttavia, essersi aperto al cinema mainstream potrebbe non essere la scelta migliore per questo regista.
Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla The Northman
La trama prende ispirazione dall’Amleto di Shakespeare ed è ambientata nell’Europa del Nord del X sec. a. C. Il giovane Amleth è il primogenito ed erede al trono della dinastia del padre, il Re Corvo. Il genitore viene tuttavia ucciso davanti ai suoi occhi da un terribile tradimento, costringendo il giovane alla fuga, ma giurando vendetta.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
C’è un po’ di Eggers in questo film
Io sono una grande fan di Eggers: ho apprezzato il suo The Witch per la freschezza che ha portato al genere, e mi ha incantato con la sua follia in The Lighthouse. Quindi le mie aspettative erano ovviamente altissime.
E, nel complesso, non posso dire che siano state deluse. Come anticipato, la firma di Eggers si sente: splendide sequenze oniriche, sempre al limite del fantastico e del delirio, l’elemento magico ben contestualizzato soprattutto nella figura dell’animale simbolo sempre presente nelle sue pellicole, personaggi potenti e monumentali.
Tuttavia, questa pellicola non è Eggers fino in fondo, e i problemi produttivi sono esplicativi in questo senso: il montaggio è derivato da un compromesso fra la produzione e il regista. Quindi se da una parte abbiamo un film comunque complesso, costruito con grande cura, con una ricerca storica precisa e lucida, dall’altra abbiamo il tentativo di rendere un prodotto più digeribile per il grande pubblico.
Quindi, come The Lighthouse mi era sembrato il punto di arrivo di una carriera già fulminante di un cineasta di altissimo livello, The Northman mi è parsa in parte una soluzione di compromesso. Insomma, una pellicola che, se Eggers fosse stato lasciato a briglie sciolte, mi sarebbe piaciuta probabilmente di più.
Ma non per questo mi sento di bocciarlo, tutt’altro.
Il cast delle grandi occasioni
All’interno di una trama con uno scheletro narrativo complessivamente semplice, il protagonista è invece complessoe tridimensionale. Interpretato dall’ottimo Alexander Skarsgård, che è anche produttore e ideatore del film, Amleth è un personaggio profondamente tormentato, violento e ossessionato, oltre che estremamente fallibile. Quindi tutt’altro che un eroe di un’epopea in senso classico, ma un uomo guidato ed accecato da una profonda e terribile vendetta.
Oltre a questo, Eggers ha avuto come sempre a disposizione un cast di altissimo livello: anzitutto Anya Taylor Joy, attrice praticamente scoperta da questo regista, conosciuta soprattutto per la serie tv La regina degli scacchi, ma che ha dato prova di grandi capacità anche in prodotti più di nicchia come appunto The Witch e il più recente Emma (2020). Inoltre, un’ottima prova attoriale di Nicole Kidman: nonostante la difficoltà dell’espressività del volto dovuta alla pesante chirurgia plastica cui si è sottoposta (per sua stessa ammissione), è stata premiata da una regia indovinata, che le è stata cucita addosso per esaltare al meglio le sue capacità recitative. E infine l’inarrestabile Ethan Hawk, che appare per poco ma che è ancora in splendida forma (per quanto mi avesse fatto perdere le speranze nel recente Moonknight).
Un cast delle grandi occasioni, appunto.
The Northman fa per me?
C’è solo un prodotto a cui mi sento di paragonare The Northman, ovvero la serie Sky nostrana Romolus, creata dall’ottimo Matteo Rovere. Quindi se vi è piaciuta quella serie, guardate The Northman.
Nello specifico, se apprezzate le saghe epiche, con una contestualizzazione storica praticamente perfetta, un ritmo incalzante, in un contesto assolutamente brutale e violento, può fare certamente per voi. Tuttavia, se siete fan puristi di Eggers come me, ridimensionate le aspettative.
Rimandare la vendetta
Una delle cose che mi hanno poco convinto della pellicola è stato l’andamento del piano di Amleth: si ha la sensazione che il protagonista continui ad annunciare la sua vendetta, ma si prenda tantissimo tempo prima di metterla in atto.
Allo stesso modo, ho trovato quasi estenuante questo continuo rimando dello scontro finale, come se dovesse essere per forza costruito a tavolino. Capisco che Amleth volesse seguire la sua profezia, ma sembra quasi doverla forzare perché si avveri: ne è un esempio chiarissimo il fatto che debba darsi un appuntamento sul vulcano per il maledetto duello con Fjölnir, come prescritto dalla predizione, e questo non possa avvenire quando i due si trovano faccia a faccia, con ai piedi i cadaveri dei loro congiunti. Ma è l’unico problema effettivo che mi sento di segnalare, dovuto fra l’altro, a mio parere, al compromesso di montaggio di cui sopra.
Personaggi femminili vincenti
Una delle cose che riesco meno a sopportare, più dei personaggi femminili stile Mary Sue, sono i personaggi femminili forzati in situazioni dove appaiono totalmente fuori luogo. Uno degli esempi che per primo mi viene alla mente è quello della bambina protagonista di Dumbo (2019): povera in canna, realisticamente analfabeta, anacronisticamente interessata alla scienza, con un personaggio falsamente al passo coi tempi.
Invece la bellezza di questo film è anche di non aver neanche pensato a provare ad introdurre personaggi femminili irrealistici, magari donne guerriere fuori dal tempo. Invece si è deciso di sfruttare quello che si aveva disposizione nella realtà storica rappresentata, forti anche di una solida ricerca al riguardo: anzitutto Olga, ridotta schiava, legata al mondo della magia e dell’esoterismo, che si rifiuta violentemente di sottomettersi alla sua condizione e che aiuta il protagonista ad attuare il suo piano.
Ma soprattutto nota di merito per il personaggio di Nicole Kidman, Gudrún: invece di essere ridotta al ruolo di madre e moglie fedele, è una donna che ha ritrovato una vita felice alle spalle di un marito che l’aveva forzata ad una gravidanza e ad un matrimonio che non la rendeva felice. Un personaggio femminile che non ha paura di essere violento persino verso il figlio e di rivoltare la situazione del tradimento fratricida a suo vantaggio. Una donna terribile, certo, ma non ingabbiata in uno stereotipo pesante e datato. E, per questo, decisamente più interessante di quanto mi sarei aspettata.
Rapunzel (2010) è un lungometraggio animato di casa Disney, il cinquantesimo fra i suoi Classici, nonché, insieme al Re Leone (2019), il film animato più costoso della storia del cinema.
E così, con un budget di 260 milioni di dollari, incassò bene: quasi 600 milioni in tutto il mondo.
Ed è fra i miei prodotti animati preferiti in assoluto.
Di cosa parla Rapunzel?
Rapunzel è una ragazza che sta per compiere diciotto anni, passati tutti nella torre in cui è stata imprigionata da Madre Gothel, che vuole sfruttare il suo potere…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena guardare Rapunzel?
Assolutamente sì.
Rapunzel è un ottimo prodotto di animazione, che riesce facilmente ad intrattenere e a divertire.
Oltre a non avere mai dei momenti morti, presenta una narrazione incalzante, porta in scena due protagonisti con un’ottima chimica, una storia d’amore davvero coinvolgente, pur nella sua semplicità. Inoltre, una serie di personaggi secondari genuinamente divertenti e ben scritti.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Rapunzel
Rapunzel è una protagonista all’avanguardia per i tempi.
oltre ad essere, insieme a Mulan, una delle poche principesse a possedere un’arma, come Mirabel in Encanto (2021), è un personaggio intraprendente e che prende in mano la propria vita, nonostante tutti gli ostacoli che le vengono messi davanti.
Ovviamente il maggiore ostacolo è Madre Gothel e i suoi ricatti emotivi, ma anche Flynn inizialmente cerca di ingannarla e manipolarla.
Ma Rapunzel è inarrestabile.
In particolare, la protagonista della pellicola ha due punti di forza: non ha un principe e si salva da sola.
Salviamoci insieme
Non solo Rapunzel si salva da sola, ma salva anche il principe.
Una caratteristica ben poco presente per i personaggi femminili, che solitamente sono figure passive che devono essere salvate, spesso premio di una prova del personaggio maschile.
In questo caso Rapunzel decide autonomamente di intraprendere il suo viaggio e riesce, pur con qualche difficoltà, a difendersi, sia fisicamente che psicologicamente, da Flynn e infine da Madre Gothel.
Inoltre, appunto, salva Flynn in almeno due situazioni: quando stanno scappando dai gendarmi dalla taverna, quando stanno per affogare, e infine, anche se indirettamente, quando Flynn è effettivamente morto.
E l’unico momento in cui viene effettivamente salvata non è il solito salvataggio della principessa in pericolo.
Flynn
Molto spesso nella narrazione classica si portava una rappresentazione del protagonista maschile che doveva essere il sogno di ogni bambina: trovare un uomo bello e ricco da sposare, possibilmente che sapesse mettersi in gioco per salvarci la pelle.
Tuttavia le prospettive e i desideri del pubblico già dieci anni fa si erano ampliati.
Per questo Flynn Rider è stato il primo anti-principe della Disney.
A questo esperimento ne è seguita una pallida imitazione con Kristoff in Frozen, e in parte Nick in Zootropolis (2016). Quindi personaggi maschili che si affiancano le protagoniste femminili più come compagni di avventure che (solo) come interessi amorosi.
Nel caso di Flynn troviamo un personaggio assolutamente inusuale per l’epoca: viene anzitutto presentato come fondamentalmente negativo, in quanto fuorilegge, furbo e approfittatore, oltre che vanitoso (caratteristica rara nei personaggi maschili protagonisti, se non per sottosensi queer).
Nonostante tutti questi difetti, Flynn ci sta subito simpatico perché è un personaggio umano.
Uscire dallo stereotipo
A differenza di Rapunzel, che è un personaggio più tipico, Flynn è un personaggio profondamente umano.
Come ci spiega lui stesso, Flynn non è rappresenta la sua reale persona, ma è una facciata che si è costruito. Anche se non è spiegato nel dettaglio, sicuramente proviene da una realtà di grave povertà, forse persino da un orfanotrofio.
Per cui rubare non era mai stato un atto di avidità, ma un modo di sopravvivere, e anche di inseguire, seppure in maniera negativa, il sogno di una vita migliore. La validità del suo sogno viene tuttavia più volte ridimensionata, anzitutto da Uncino, che gli dice Il tuo sogno fa schifo.
Compagno di vita
Così, come nel migliore dei buddy movie, Flynn insieme a Rapunzel riesce a crescere e a migliorarsi, con un effettivo lavoro di squadra, che non sia solo unidirezionale.
Infatti Flynn non salva Rapunzel in senso stretto, ma più che altro la aiuta a compiere quell’atto finale che non riusciva a compiere lei stessa, per via lavaggio del cervello cui era stata sottoposta: tagliare definitivamente i ponti, e così il cordone ombelicale metaforico con la madre.
Oltre a questo, Rapunzel riesce a tirare fuori il meglio da lui, portandolo ad abbandonare Flynn per tornare ad Eugene, ovvero una persona che si interessa a qualcun altro oltre che a sé stesso, e che ha mire definitivamente più oneste e positive.
Ovviamente all’interno di un finale molto semplice e prevedibile, ma del tutto funzionale.
L’innamoramento
Un grande pregio del film è che il rapporto Flynn e Rapunzel, nonostante sia basato sui più classici e funzionali tropoi di enemy to lovers, è ben costruito.
Inizialmente entrambi, appena si scoprono, sono quantomeno colpiti. Soprattutto Flynn, che rimane sbigottito vedendola per la prima volta, anche perché in quella scena la ragazza è disegnata in maniera più adulta.
Immediatamente, sono entrambi sulla difensiva davanti all’ignoto: Rapunzel si difende disordinatamente con la padella, Flynn con i suoi stupidissimi metodi di approccio, che potrebbero funzionare con altre donne, ma non con Rapunzel.
Poi ci riprova, vedendola in difficoltà, usando trappole emotive al pari di Madre Gothel, anche se ovviamente non in maniera così diabolica.
L’ultimo inganno a cui la sottopone è quello decisivo: alla taverna, invece di arrendersi definitivamente, Rapunzel si dimostra nuovamente capace di gestire la situazione, portandola a suo vantaggio.
E così è anche la prima volta che Flynn è genuinamente interessato a lei, come si vede dal mezzo sorriso che le rivolge mentre sono nel tunnel sotto alla caverna. Da questo momento in poi comincerà a non considerarla più una ragazzina sprovveduta.
Ed è anche la prima volta in cui Rapunzel si rende conto delle sue capacità, e di non essere una buona a nulla come raccontava Madre Gothel.
Le ultime tappe
La scena del falò è un altro momento decisivo.
Finalmente entrambi si svelano l’uno all’altro, in maniera in cui nessuno dei due aveva mai fatto con nessuno. A quel punto Rapunzel è già evidentemente già innamorata, ma Flynn non può concedersi questo passo: la guarda ammaliato, poi abbassa lo sguardo, genuinamente sorpreso, e si allontana con una scusa.
E in quel momento Rapunzel fa la mossa finale: dimostra di accettarlo per chi davvero è, e non per la facciata che Flynn ha dovuto usare tutta la vita. E da come lo guarda si vede che è definitivamente innamorata.
Lo stesso sguardo è negli occhi di Flynn quando in città vede Rapunzel con i capelli intrecciatidi fiori. Ma, ancora una volta, davanti allo sbeffeggiamento di Maximus, cerca di allontanare quel pensiero.
L’amore fra i due è finalmente rivelato prima quando si trovano mano nella mano durante la danza nella città, e infine sulla barca, quando si dichiarano vicendevolmente, senza più imbarazzo.
Così il breve distanziamento fra i due, che per fortuna non viene eccessivamente drammatizzato ed è anzi occasione per Rapunzel di avere la sua rivalsa su Madre Gothel, viene risolto con la dichiarazione reciproca dell’amore di entrambi.
E non con un semplice ti amo, ma con una dichiarazione più profonda.
Madre Gothel
Madre Gothel è villain da manuale.
un antagonista piuttosto tipizzato, ovvero quel tipo di cattivo la cui cattiveria non è particolarmente esplorata.
Tuttavia, leggendo più a fondo il suo personaggio, si scopre che non è così superficiale come potrebbe sembrare. Anzitutto, le sue motivazioni: non cattiva perché cattiva, ma perché ossessionata non tanto dalla vita eterna, ma proprio dalla bellezza.
Non a caso Madre Gothel è una donna fascinosa e magnetica, che utilizza anche questo suo potere a suo vantaggio.
Così ammalia uno dei delinquenti della taverna per sapere dove sbuca il tunnel sotterraneo, così inganna i due compari di Flynn Rider per utilizzarli a suo vantaggio.
E sempre sulla bellezza punta quando vuole sminuire Rapunzel, sia durante la canzone Mother knows best, quando le dice che è trasandata, persino grassa (a little chubby).
Ma soprattutto durante la scena del falò, quando le afferra i capelli per sbeffeggiarla e le dice Pensi che sia rimasto impressionato? ribadendo quanto la figlioccia sia strana, trasandata e per nulla attraente.
Ma, soprattutto, Madre Gothel è definita nella dicotomia luce – buio, in contrapposizione con Rapunzel.
Essere inghiottiti dall’oscurità
Secondo un topos molto semplice, ma non per questo meno efficace, Madre Gothel è strettamente collegata al concetto di oscurità. Anzitutto per i colori del suo personaggio, molto intensi e scuri appunto, così per la maggior parte delle scene in cui compare, sempre in ombra o penombra.
Inoltre, questa dicotomia si trova nella già citata canzone Mother knows best: tutta la scena è la donna che cerca di togliere la luce alla figlioccia, sia in senso metaforico che effettivo.
Come le spegne le candele che Rapunzel cerca di accendere per fare luce, così Madre Gothel utilizza la luce a suo vantaggio, facendo vedere quello che vuole lei, e ottenebrando la mente della ragazza con paure insensate.
Un’ombra
L’ombra di Madre Gothel accompagna Rapunzel anche quando non è presente in scena.
Quando la ragazza è profondamente divisa sul da farsi, avendo paura di deludere la madre, nelle scene di spensieratezza l’ambiente è luminoso e con colori pieni, quando è invece triste e preoccupata la vediamo in ambienti nell’ombra o nella penombra.
Altrettanto importante per questo simbolismo è l’incontro del falò: la donna abbraccia Rapunzel, non per affetto ma per ingabbiarla nuovamente, la afferra per un polso e cerca di trascinarla con sé, lontano dal falò e quindi dalla luce, verso la foresta nera da cui è emersa.
E così tutta la canzone, che serve a sbeffeggiare la figlioccia e impiantare in lei il seme del dubbio, si svolge nell’ombra.
Ancora la tematica della luce quandoRapunzel acquisisce consapevolezza: in inglese nella canzone delle lanterne dice Now I see the light, ovvero Ora vedo la luce, in senso sia letterale, sia metaforico.
E il parallelismo è scontato è quando assume la definitiva consapevolezza della sua identità, vedendo proprio i soli simbolo della sua famiglia nella sua stanza, e quindi la luce e la verità che gli era sempre stata nascosta.
Ma Rapunzel si fa anche tentare da una luce ingannevole: quando finalmente (e per fortuna temporaneamente) Madre Gothel la fa tornare a sé dopo averle fatto credere al tradimento di Flynn, è accanto ad una lanterna.
Ma è una lanterna di una luce fredda, verdognola, di un colore solitamente associato al veleno e all’inganno.
E si potrebbe andare avanti…
Non solo il tuo animaletto
Per quanto si sarebbe potuto desiderare un villain più profondo, che non fosse limitato alla sua cattiveria apparentemente superficiale, la spietatezza con cui Madre Gothel tratta Rapunzel è da brividi.
Non c’è mai un momento in cui dimostra qualche tipo di effettivo affetto verso la figlioccia, che considera sempre invece come uno strumento, come una risorsa per sé stessa ed il suo tornaconto.
Non solo uno strumento, ma anche un animale: nella sua prima canzone, Mother knows best, Madre Gothel chiama Rapunzel proprio pet, e in più di un’occasione le tocca la testa come si fa con gli animali da compagnia appunto.
Questo gesto è ribadito nell’ultimo atto, quando Rapunzel le si ribella, prendendola violentemente per il polso e impedendole di farlo.
E finalmente torreggia su di lei.
Personaggi secondari indovinati
Un altro merito di questo film sono sicuramente i personaggi di contorno.
Anzitutto i malviventi incontrati alla taverna, che nel finale diventano fondamentali. Soprattutto per la loro canzone dove vengono presentati, non sono altro che un’estensione di Flynn: criminali ma dal cuore d’oro e con altre passioni oltre al crimine di per sé.
Tra l’altro spassosissima la loro sfilza di interessi assolutamente anacronistici per il periodo rappresentato.
Altra punta di diamante della pellicola è Maximus.
Era forse dai tempi di Mushu che non si vedeva un animale così ben raccontato ed animato, con una mimica al limite della perfezione, che lo fa sembrare prima un uomo, poi un cane (nella scena in cui incontra Rapunzel). Maximus è proprio una storia a parte.
Nota a margine per Pascal: sembra un personaggio molto secondario, e invece ha un ruolo chiave nella vicenda. Infatti, fino alla fine, Madre Gothel neanche sa che esista e Rapunzel glielo nasconde volutamente.
Pascal è infatti la voce della ragione, una figura enigmatica e silenziosa che invita subito Rapunzel ad uscire, che veglia su di lei, riuscendo ad addomesticare Maximus e accettando tacitamente la sua relazione con Flynn.
E non è un caso che è Pascal stesso che interviene per rendere definitiva la dipartita di Madre Gothel.
Rapunzel: un’altra interpretazione
Il potere di Rapunzel è luminoso e puro e, una volta tagliato, perde il suo valore.
Non sarò la prima né l’ultima a dirvi che Rapunzel può essere letto in un’altra ottica.
Il dono di Rapunzel è in realtà la sua verginità, in una visione ovviamente molto tradizionalista. Così Madre Gothel la promette ai malviventi, in maniera davvero inquietante, così dice a Rapunzel che Flynn vuole solo una cosa da lei, come se dovesse sedurla per avere un rapporto sessuale e poi abbandonarla.
Una narrazione piuttosto utilizzata e radicata profondamente nell’immaginario collettivo, anche odierno. E il fatto che si parli di Rapunzel e del suo potere legato al fiore e della preziosità della corona, l’unico interesse di Flynn secondo Madre Gothel, non fanno che confermare questa visione.
Così, quando alla fine si baciano sulla torre e l’inquadratura si allontana, senza far mai vedere che escono o altro, i più maliziosi potrebbero intendere quello come effettivamente il momento in cui portano il loro rapporto ad un altro livello.