Melancholia (2011) è un film di Lars von Trier, cineasta danese autore di pellicole di altissimo valore, autore di pellicole particolarissime e spesso al centro di polemiche.
Il film ebbe un incasso molto contenuto, anche se ampiamente prevedibile visto il genere di pellicola: 17 milioni di dollari al box office contro un budget di 9 milioni.
Di cosa parla Melancholia?
Justine, interpretata da Kirsten Dunst, è una giovane donna affetta dalla cosiddetta malinconia, uno stato di profonda tristezza e mancanza di energie. Questo le impedisce di vivere serenamente il suo matrimonio, con cui si apre il film, mentre un enorme cataclisma sta per piombare sulla terra…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Melancholia?
Assolutamente sì.
Melancholia è un film davvero particolare: fin da subito si viene travolti dalla regia, che è cadenzata fra movimenti di macchina iperrealistici e musiche imponenti, quasi operistiche, con un costante sguardo quasi voyeuristico.
Uno svolgimento molto lento e angosciante, persino nel climax finale, e che ci permette di entrare nell’intimità prima di Justine, poi della sorella, Claire. Il film è infatti articolato in due cicli, perfettamente paralleli.
Insomma, non ve lo potete perdere.
I due cicli
Come anticipato, il film è suddiviso in due parti, o, meglio, due cicli.
Il parallelismo fra le due sezioni è perfetto perché rappresenta appunto il ciclo di evoluzione delle due sorelle. Nella prima parte Justine sembra padrona della situazione e genuinamente felice, per poi rivelare la sua fragilità ed i suoi comportamenti autodistruttivi.
All’inizio della seconda parte è invece totalmente priva di forze, ma lentamente ritorna padrona di sé stessa, parallelamente all’avanzare della Melancholia.
Allo stesso modo per la maggior parte del film Claire sembra padrona della situazione, quasi tiranneggiare sulla sorella, fino a urlarle addosso tutta la sua esasperazione.
Ma, alla fine, man mano che si avvicina la Melancholia, perde progressivamente le forze, e si lascia infine guidare dalla sorella in un apparente luogo sicuro e protettivo, ma estremamente fragile come le loro esistenze.
Splendida in questo senso la costruzione dell’angoscia di Claire, derivata dallo stesso tentativo di rassicurazione del marito, che finisce invece per confermare le sue paure.
Justine, una Cassandra
Justine è in tutto è per tutto una Cassandra.
Prevede un futuro catastrofico e angoscioso, ma nessuno le crede.
Dando una interpretazione quasi fantastica, si può pensare che il suo personaggio sia legato alla Melancholia, come dimostra anche la scena in cui, completamente nuda, si sollazza alla luce del pianeta. E così nel flashforward iniziale sembra ottenere dei poteri dal cataclisma stesso, a cui era stata sempre sensibile.
Infatti, in diversi punti del film alza gli occhi al cielo e osserva l’arrivo imminente del pianeta, mentre altri personaggi, come John, il marito di Claire, cercano di negarlo, con fare anche paternalistico.
E, in questa interpretazione, si può pensare che la sua malinconia derivi appunto da questa distruzione imminente.
In altro modo, la Melancholia sembra rappresentare un’angoscia o un male nascosto che è sempre presente, celato dietro ad un’apparente serenità, rappresentata dal sole, dietro appunto al quale il pianeta si nasconde nel film.
Un male che avanza, ma di cui Justine è appunto completamente e profondamente consapevole, a differenza di tutti gli altri.
Mary e il fiore della strega (2017) è un film diretto da Hiromasa Yonebayashi, il più giovane regista dello Studio Ghibli, che ha lavorato per anni spalla a spalla col maestro Hayao Miyazaki.
Questa pellicola non è una produzione dello Studio Ghibli, ma dello Studio Ponoc, fondato recentemente dal regista della pellicola. A fronte di un budget sconosciuto, ebbe un incasso abbastanza normale: circa 42 milioni di dollari.
Di cosa parla Mary e il fiore della strega
Mary, la protagonista della pellicola, è una ragazzina che, appena arrivata in una nuova città, deve riempire il tempo nella settimana prima dell’inizio della scuola. Ma un’avventura l’aspetta…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Mary e il fiore della strega?
In generale, sì.
Mary in Mary e il fiore della strega è un film adatto a tutti e che, a differenza de Il racconto della principessa splendente (2013), consiglierei per accedere al mondo dell’animazione giapponese.
Infatti, le dinamiche sono semplici e facilmente comprensibili anche per il pubblico occidentale, con dei trope piuttosto tipici anche nel nostro cinema, ma non per questo meno funzionali.
Insomma, un film leggero e intrattiene facilmente, pure con qualche interessante colpo di scena ben congegnato.
Le animazioni, come detto, sono un’ottima eredità dello Studio Ghibli e in particolare a Miyazaki: non rasentano il capolavoro come i suddetti, ma sono comunque di ottimo livello, con un character design piuttosto convincente per la maggior parte dei personaggi.
Una protagonista perfetta
L’undicenne Mary è una protagonista scritta a regola d’arte.
Viene dedicato il giusto minutaggio a raccontarci la sua personalità, il suo essere profondamente buona, ma anche piuttosto imbranata. In questa piccola avventura, come nei migliori racconti di formazione, riesce ad assumere maggiore consapevolezza di sé stessa e delle sue abilità, con un finale piacevole che ci lascia con un sorriso.
Al contempo, è una protagonista con cui è facile empatizzare: proprio per la sua semplicità e goffaggine, è un personaggio che appare da subito simpatico e piacevole. Inoltre, la sua fallibilità e incertezza la rende al contempo una protagonista molto accessibile, in cui, anche con importanti differenze di età, è facile immedesimarsi.
Ingenuità di scrittura
Il film, come anticipato, presenta importanti ingenuità di scrittura, che in parte rovinano la solidità della storia. In particolare, ci sono due cose che non funzionano del tutto: il rapporto di Mary con Peter e la backstory dei villain.
La backstory degli antagonisti è troppo poco esplorata, tanto da diventare superficiale: manca un adeguato minutaggio per raccontare la situazione di partenza, il cambiamento e il dramma che si verifica. Per come è messo in scena, sembra che Charlotte decida di portare via il fiore della strega all’improvviso, senza averci pensato prima.
Inoltre, per come te lo presenta il film, Peter dovrebbe essere una persona a cui Mary tiene tantissimo, in quanto diventa quella da salvare all’interno del film e per cui la protagonista mostra costantemente di avere un grande legame emotivo.
Tuttavia, questo stesso legame sembra un po’ nato dal nulla: manca un’adeguata costruzione che riesca a farti coinvolgere realmente con il dramma del suo rapimento.
Trigger emotivi fallimentari
Per questo stesso motivo, tutti i trigger emotivi legati a Peter non funzionano fino in fondo: manca appunto un racconto funzionante del rapporto con Mary per poterci far emozionare nei vari momenti di dramma che vanno a crearsi. Invece nelle scene di difficoltà più che altro si viene coinvolti dalle emozioni di Mary più per il personaggio di Mary in sé che per il suo rapporto con Peter.
Infatti il loro rapporto nasce prima come antagonista, poi vi è un piccolo momento di riconciliazione, per poi avere un altro battibecco. Dopodiché, quando si rincontrano, sembrano immediatamente legati da un profondo rapporto.
Questo è il difetto più grande della pellicola, ma che, per la poca esperienza dello studio di produzione, mi sento di perdonare.
Emma. (2020) è un film tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen, diretto da Autumn de Wilde, fotografa statunitense nota per i suoi ritratti e per la regia di videoclip musicali, nella sua prima opera cinematografica.
Purtroppo la pellicola uscì proprio in concomitanza con l’inizio della pandemia, quindi incassò veramente poco: appena 26 milioni di dollari,pur non risultando un flop per il budget contenuto – 10 milioni.
Di cosa parla Emma.
La protagonista della pellicola è Emma, giovane nobildonna inglese non ancora sposata, ma molto abile a tessere le relazioni altrui. In particolare si preoccupa di far sposare la sua protetta, Harriet.
Da qui seguono diversi intrighi e vicissitudini che coinvolgeranno la protagonista ed un ampio gruppo di personaggi secondari.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Emma.?
Assolutamente sì.
Emma. ed è tutto quello che potreste aspettarvi da Jane Austen: una storia romantica di matrimoni e intrighi nel contesto della piccola nobiltà inglese. Ma il suo merito è non scadere nel facile dramma che caratterizza spesso prodotti di questo tipo, e, sopratutto, non cercare di attualizzare le vicende.
Al contempo è anche una commedia frizzante e divertente, che intrattiene facilmente e dimostra come sia possibile portare in scena un dramma storico con una storia avvincente e articolata, senza dover scadere in banalità o in esagerazioni fuori contesto e luogo.
L’abito fa il monaco
Emma è in una posizione sociale superiore alla maggior parte dei personaggi, e sfrutta appunto questo suo potere per tessere le relazioni delle persone che gli stanno intorno. La sua posizione sociale prominente è evidente in ogni scena, soprattutto in quelle in cui è nel mezzo di personaggi che sono socialmente inferiori a lei.
La scelta dei costumi in questo senso è azzeccatissima.
Infatti, i personaggi di una classe più elevata si notano subito, soprattutto quelli femminili, per via di un abbigliamento più chiassoso e ricco, mentre i personaggi più socialmente svantaggiati indossano abiti più umili e contenuti.
Il percorso di Emma
Emma è un personaggio incredibilmente tridimensionale.
Compie un interessante percorso di crescita e consapevolezza, e il suo punto di arrivo non è né il matrimonio né l’innamoramento. Il fine della sua storia è infatti quello di comprendere la sua posizione e di non abusarne malignamente.
Il momento della realizzazione è quando deride pubblicamente Mrs. Bates, la quale, per la sua posizione inferiore, non può controbatterle.
E così Emma capisce di non voler diventare una persona sgradevole e vanesia come Mrs. Elton, la moglie del canonico, ma anzi di voler appunto usare la sua posizione per aiutare gli altri. Fra l’altro questo aspetto del suo carattere era il motivo Mr. Knightley si era innamorato di lei.
Un casting particolare
Scelta peculiare quella del casting dei protagonisti: per quanto consideri Anya Taylor Joy di una bellezza quasi divina, non ha comunque un volto convenzionalmente gradevole, anzi.
Il suo volto presenta dei tratti molto marcati e particolari, che la rendono una splendida scelta per il ruolo. Così Johnny Flynn, che incarna più l’ideale di bellezza del periodoche quella odierna: labbra pronunciate, sguardo assorto, capigliatura tormentata.
Al contrario, Callum Turner, che interpreta Mr. Churchill e che abbiamo (purtroppo) visto recentemente che in Animali fantastici: I segreti di Silente (2022), presenta una bellezza più convenzionale. Ma è totalmente funzionale alla trama: Emma, oltre anche per l’idea che si è fatta su di lui, deve esserne immediatamente ammaliata.
Personaggi secondari esplosivi
La pellicola può godere di personaggi secondari scoppiettanti.
Anzitutto Mr. Woodhouse, il padre di Emma, interpretato da un esplosivo Bill Nighy, che ricorderete sicuramente per essere stato il Ministro della Magia a partire da Harry Potter e il Principe Mezzosangue (2009).
Un uomo che spinge la figlia a non sposarsi per non abbandonarlo, ma alla fine dà indirettamente la sua benedizione alla nascente coppia, barricandosi dietro ben due paraventi per concedere loro un po’ di intimità.
Così Josh O’Connor, che interpreta il canonico: viscido e macchinatore, con una presenza scenica al limite del grottesco, e che ben si sposa con la maligna stravaganza di Augusta, la moglie nuova di zecca che si procura dopo il rifiuto di Emma.
Due personaggi sgradevoli e bizzarri in maniera davvero spassosa.
Inoltre, Tanya Reynolds (Augusta) e Connor Swindells (Robert Martin) insieme a Josh O’Connor (Il canonico) sono tutti presi da Netflix: gli ultimi due da Sex Education(rispettivamente Lily e Adam) e Josh O’Connor lo ricorderete per aver interpretato Carlo, figlio di Elisabetta, nelle ultime due stagioni di The Crown.
L’innamoramento
Anche se potrebbe sembrare, la storia d’amore rappresentata non è la classica situazione enemyto lovers.
Infatti, Emma e Mr. Knightley sono amici da tempo per legami familiari, e lui, sapendo che a lei piace essere l’ape regina che controlla tutti e che è sempre al centro dell’attenzione, la punzecchia (per esempio esaltando la raffinatezza di Jane), ma cerca anche di riportarla coi piedi per terra, come nel caso della questione del matrimonio fra Harriet e Mr. Elton.
La seconda metà del film è il momento dell’innamoramento: Mr. Knightley mostra di apprezzare profondamente Emma, non solo per la sua bellezza, ma per altre doti intellettive e sociali, come fra l’altro Emma si aspettava da lui.
Nella scena del ballo a casa di Mr. Weston si percepisce una tensione di erotica non indifferente, che fortunatamente non si conclude in una scena di sesso anacronistica e volgare come in altri prodotti.
E alla fine arriva l’inevitabile dichiarazione d’amore, con una scena profondamente romantica e tormentata. Ma il momento è rimandato dall’urgenza di Emma di risolvere i suoi errori e di far sposare Harriet con Mr. Martin, intervenendo in prima persona.
E solo in chiusura del film il loro rapporto viene concretizzato, fra l’altro sdrammatizzando col già citato piccolo siparietto comico del padre di Emma. E non potrò mai ringraziare abbastanza questa pellicola di non essersi persa nel facile dramma strappalacrime, ma di essersi invece impegnata nella costruzione di un rapporto credibile e ben raccontato.
La storia della principessa splendente(2013) è un lungometraggio animato nipponico, opera di Isao Takahata, uno degli animatori di punta dello Studio Ghibli.
Una produzione lunghissima: otto anni, di cui solo cinque per lo storyboard. All’uscita in sala ottenne incassi discreti, ma un grande riconoscimento di pubblico e critica.
Di cosa parla La storia della principessa splendente?
La principessa splendente, trovata per caso da un tagliatore di bambù all’interno di un fusto, la principessa è un essere magico che cresce a velocità incredibile. Ma diventa anche in fretta un oggetto del desiderio…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La storia della principessa splendente?
Dipende.
In generale, consiglierei questa pellicola a persone che hanno già dimestichezza con lo Studio Ghibli e con un tipo di animazione giapponese piuttosto riflessiva e legata all’elemento magico ed enigmatico.
L’ho trovato tra i film più difficili per questa casa di produzione, ma comunque un tassello importante nella storia della stessa.
Se non ve la sentite di approcciarvi a questo tipo di visione, cosa assolutamente comprensibile, vi consiglio di provare altri prodotti più accessibili dello Studio. Sicuramente non è la pellicola che consiglierei a chi si approccia per la prima volta a questa produzione o addirittura all’animazione giapponese in toto.
Una tecnica unica
La tecnica di animazione de La storia della principessa splendenteè assolutamente unica, almeno secondo la mia esperienza.
Si ispira evidentemente ai dipinti su rotolo della tradizione giapponese, portando personaggi definiti con pochi tratti, talvolta addirittura caricaturali, dispersi su grandi spazi bianchi.
Questa tecnica di animazione non è neanche del tutto nuova allo Studio Ghibli: molti dei film di questa casa di produzione hanno degli sfondi che sembrano dei dipinti. In questo caso il risultato è di grande raffinatezza, che può piacere o meno a seconda del proprio gusto.
A me personalmente ha convinto a metà.
Una favola, un archetipo
Essendo una favola, è evidentemente un racconto archetipico, in cui è facile riconoscere degli stilemi piuttosto comuni sia nel cinema occidentale che orientale.
Questo aspetto può essere più o meno di vostro gusto, a seconda anche di quanto conoscete o volete conoscere del folklore giapponese e di un tipo di impostazione così tanto favolistico.
Oltre a questo, la pellicola racconta anche una cultura antichissima, profondamente sessista e segregante per entrambi i sessi, tanto che la principessa è per molto tempo tenuta quasi prigioniera all’interno del palazzo.
In questo senso torna un tema molto caro allo Studio Ghibli, ovvero il contrasto fra la realtà urbana e artificiosa e quella naturale e più genuina.
La durata immensa
Visto che la storia è allungata moltissimo rispetto all’opera originaria, la pellicola è appesantita da una durata veramente immensa. Inoltre, nonostante l’apparente semplicità della trama, verso la fine il film diventa complesso e non facile da seguire.
D’altra parte, il tipo di trama archetipica, quindi per certi versi veramente prevedibile, toglie in parte godibilità alla visione. Infatti, per la maggior parte del tempo, possiamo già intuire le svolte di trama.
La storia della principessa splendente
L’approfondimento dell’esperta
La pellicola è tratta da un racconto anonimo risalente al X secolo, tradizionalmente considerato il primo esempio di monogatari, un genere fondamentale per la letteratura giapponese classica.
Il contesto storico
Nel X secolo il Giappone si trovava in piena epoca Heian, un periodo di pace e di fioritura delle arti. Le uniche testimonianze giunte fino a noi sono quelle della vita di corte, che raccontano una società poligamica.
La norma era infatti che un uomo avesse una moglie ufficiale e varie concubine, mentre la poligamia delle donne era solo sopportata. Una realtà omosociale, ossia c’era una netta divisione tra gli ambienti maschili e quelli femminili, i quali non si intersecavano mai, se non di notte, quando l’uomo raggiungeva in segreto l’amante.
Il motivo della riscrittura
La trama del Taketori monogatari è molto ampliata nel film, soprattutto per la prima parte, che racconta una situazione di iniziale equilibrio e pace: della vita in campagna con la famiglia adottiva e agli amici nel testo originale non vi è traccia.
Di conseguenza le scene di conflitto tra il padre e Kaguyahime (lett. principessa splendente) che si fondano sulla nostalgia della vita agreste, più semplice e autentica, non avevano motivo di esistere.
Perché allora riscrivere la storia originale, allungandola e rischiando di risultare pesanti?
In effetti un motivo c’è: il finale del Taketori monogatari non è lieto perché, secondo le interpretazioni, sarebbe una sorta di punizione per aver violato la netta separazione tra terreno e alieno, avvenuta nel momento stesso in cui il tagliabambù ha deciso di accogliere nella sua vita lo spirito della principessa.
Dalla rottura di questo tabù (ricorrente nella cultura giapponese antica) nascevano i conflitti del testo fino al ritorno di Kaguyahime al regno della luna, causa di grandissimo dolore per i genitori.
Un finale diverso
La pellicola vuole invece fare luce su un altro tipo di conflitto: il contrasto tra la bellezza altra e la sofferenza terrena viene riadattato e applicato al contrasto tra natura e urbanizzazione.
La vita in campagna era idilliaca, perfetta, semplice; quella nella capitale finta, costrittiva, crudele. Da qui nasce la brama della protagonista di ritornare ai luoghi della sua giovinezza, che scoprirà poi essere irrimediabilmente diversi: muore in lei anche la speranza della nostalgia.
Questo film, come molti altri dello studio Ghibli, presenta una pesante critica dello stile di vita moderno ed evoluto e allo stesso tempo piange la perdita di uno più antico e idealizzato.
Per dare questo effetto si è manipolato il principio estetico di epoca Heian detto mono no aware, concetto di difficile traduzione che indica il senso di meraviglia misto a nostalgia che gli animi sensibili provano di fronte alla bellezza della natura in relazione alla sua caducità.
La giovanissima Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d’Austria, viene catapultata nella realtà della Corte di Versailles, un luogo a lei particolarmente antagonistico…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Marie Antoinette?
Assolutamente sì.
Anche se il trailer lo fa sembrare un dramma in costume di seconda categoria, in realtà è molto di più: Sofia Coppola ha voluto rivisitare l’estetica del periodo con colori molto carichi e canzoni pop di sottofondo.
Ma non eccedendo mai in questo senso.
Anzi, il suo tocco registico ben si adatta al contesto storico, riuscendo anzi ad alleggerire la pesantezza complessiva della vicenda. Non un film non del tutto leggero o spensierato, ma un racconto profondamente autoriale e con tematiche non del tutto semplici.
Tuttavia, anche se la storia procede abbastanza speditamente, ricca di avvenimenti, manca di quel drama che potrebbe tenervi facilmente attaccati allo schermo.
Raccontare Marie Antoinette
Raccontare Marie Antoinette non è semplice.
La sua figura è stata inquinata dai fiumi di inchiostro versati degli intellettuali del tempo (e oltre): l’ultima regina di Francia divenne un capro espiatoriodella Rivoluzione Francese, fu odiata dentro e fuori Versailles perché austriaca (e quindi straniera).
E, sopratutto, divenne simbolo di tutti gli eccessi della nobiltà dell’ancien regime.
Invece, se ci informa da fonti più super partes, Maria Antonietta era quella che si vede nel film: una ragazza molto semplice, financo frivola, per nulla pronta alle responsabilità che le furono messe sulle spalle.
Inoltre, non volle mai essere una spia per la sua patria né si interessò mai di politica. Preferì invece godersi il suo lusso e i suoi privilegi, nonostante l’ambiente soffocante della corte di Francia e i suoi problemi matrimoniali.
La regista ha infatti reso la figura di Maria Antonietta il più vicino possibile alla realtà storica, andando anche a smentire i pettegolezzi che la circondarono per secoli, portando un personaggio tridimensionale e ben esplorato.
Un matrimonio disastrato?
Altra finezza della sceneggiatura è di aver raccontato nella maniera più credibile e storicamente accurata il rapporto fra Luigi XVI e Maria Antonietta.
Infatti, il loro matrimonio non andava in porto non perché il Delfino disprezzasse la moglie, ma perché aveva un blocco con lei in quanto austriaca.Per questo ho preferito vedere Luigi XVI interessato più alle sue passioni e molto meno al rapporto sessuale con la moglie.
Sarebbe stato piuttosto facile raccontare – sbagliando – un marito crudele e vendicativo che si intratteneva con altre donne, ignorando la sua sposa. Invece si mostra come la loro relazione si costruì col tempo, arrivando se non all’amore, quantomeno ad un rapporto di affetto e di rispetto reciproco.
Splendido sempre in questo senso il modo in cui viene raccontata la loro relazione sessuale: per nulla smaccato o volgare, ma anzi genuinamente divertente e sottile.
Gli eccessi della nobiltà
Altro elemento fondamentale è la rappresentazione di Versailles.
Un luogo di frivolezza, formalità al limite dell’assurdo ed un pettegolezzo continuo. Quindi la realizzazione del sogno del Re Sole, Luigi XIV, che portò tutti i nobili di Francia presso la sua corte per poterli controllare e di fatto privare del loro potere politico.
E infatti non vediamo mai questi personaggi complottare politicamente, ma solo vivere una vita dissoluta e frivolissima, interessati solo all’ultima chiacchiera e all’ultimo scandalo di corte.
Gli unici personaggi che parlano di politica, e in pochissime scene, sono Luigi XVI e i suoi collaboratori, e vagamente anche Maria Teresa alla nipote Maria Antonietta.
Tuttavia, come anticipato, non si racconta una nobiltà dissoluta al limite della volgarità, magari con scene di sesso piuttosto spinte come in altri prodotti già citati. Le scene di sesso ci sono, ma sono rese piuttosto artisticamente e ben amalgamate all’interno del contesto raccontato.
Rapunzel (2010) è un lungometraggio animato di casa Disney, il cinquantesimo fra i suoi Classici, nonché, insieme al Re Leone (2019), il film animato più costoso della storia del cinema.
E così, con un budget di 260 milioni di dollari, incassò bene: quasi 600 milioni in tutto il mondo.
Ed è fra i miei prodotti animati preferiti in assoluto.
Di cosa parla Rapunzel?
Rapunzel è una ragazza che sta per compiere diciotto anni, passati tutti nella torre in cui è stata imprigionata da Madre Gothel, che vuole sfruttare il suo potere…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena guardare Rapunzel?
Assolutamente sì.
Rapunzel è un ottimo prodotto di animazione, che riesce facilmente ad intrattenere e a divertire.
Oltre a non avere mai dei momenti morti, presenta una narrazione incalzante, porta in scena due protagonisti con un’ottima chimica, una storia d’amore davvero coinvolgente, pur nella sua semplicità. Inoltre, una serie di personaggi secondari genuinamente divertenti e ben scritti.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Rapunzel
Rapunzel è una protagonista all’avanguardia per i tempi.
oltre ad essere, insieme a Mulan, una delle poche principesse a possedere un’arma, come Mirabel in Encanto (2021), è un personaggio intraprendente e che prende in mano la propria vita, nonostante tutti gli ostacoli che le vengono messi davanti.
Ovviamente il maggiore ostacolo è Madre Gothel e i suoi ricatti emotivi, ma anche Flynn inizialmente cerca di ingannarla e manipolarla.
Ma Rapunzel è inarrestabile.
In particolare, la protagonista della pellicola ha due punti di forza: non ha un principe e si salva da sola.
Salviamoci insieme
Non solo Rapunzel si salva da sola, ma salva anche il principe.
Una caratteristica ben poco presente per i personaggi femminili, che solitamente sono figure passive che devono essere salvate, spesso premio di una prova del personaggio maschile.
In questo caso Rapunzel decide autonomamente di intraprendere il suo viaggio e riesce, pur con qualche difficoltà, a difendersi, sia fisicamente che psicologicamente, da Flynn e infine da Madre Gothel.
Inoltre, appunto, salva Flynn in almeno due situazioni: quando stanno scappando dai gendarmi dalla taverna, quando stanno per affogare, e infine, anche se indirettamente, quando Flynn è effettivamente morto.
E l’unico momento in cui viene effettivamente salvata non è il solito salvataggio della principessa in pericolo.
Flynn
Molto spesso nella narrazione classica si portava una rappresentazione del protagonista maschile che doveva essere il sogno di ogni bambina: trovare un uomo bello e ricco da sposare, possibilmente che sapesse mettersi in gioco per salvarci la pelle.
Tuttavia le prospettive e i desideri del pubblico già dieci anni fa si erano ampliati.
Per questo Flynn Rider è stato il primo anti-principe della Disney.
A questo esperimento ne è seguita una pallida imitazione con Kristoff in Frozen, e in parte Nick in Zootropolis (2016). Quindi personaggi maschili che si affiancano le protagoniste femminili più come compagni di avventure che (solo) come interessi amorosi.
Nel caso di Flynn troviamo un personaggio assolutamente inusuale per l’epoca: viene anzitutto presentato come fondamentalmente negativo, in quanto fuorilegge, furbo e approfittatore, oltre che vanitoso (caratteristica rara nei personaggi maschili protagonisti, se non per sottosensi queer).
Nonostante tutti questi difetti, Flynn ci sta subito simpatico perché è un personaggio umano.
Uscire dallo stereotipo
A differenza di Rapunzel, che è un personaggio più tipico, Flynn è un personaggio profondamente umano.
Come ci spiega lui stesso, Flynn non è rappresenta la sua reale persona, ma è una facciata che si è costruito. Anche se non è spiegato nel dettaglio, sicuramente proviene da una realtà di grave povertà, forse persino da un orfanotrofio.
Per cui rubare non era mai stato un atto di avidità, ma un modo di sopravvivere, e anche di inseguire, seppure in maniera negativa, il sogno di una vita migliore. La validità del suo sogno viene tuttavia più volte ridimensionata, anzitutto da Uncino, che gli dice Il tuo sogno fa schifo.
Compagno di vita
Così, come nel migliore dei buddy movie, Flynn insieme a Rapunzel riesce a crescere e a migliorarsi, con un effettivo lavoro di squadra, che non sia solo unidirezionale.
Infatti Flynn non salva Rapunzel in senso stretto, ma più che altro la aiuta a compiere quell’atto finale che non riusciva a compiere lei stessa, per via lavaggio del cervello cui era stata sottoposta: tagliare definitivamente i ponti, e così il cordone ombelicale metaforico con la madre.
Oltre a questo, Rapunzel riesce a tirare fuori il meglio da lui, portandolo ad abbandonare Flynn per tornare ad Eugene, ovvero una persona che si interessa a qualcun altro oltre che a sé stesso, e che ha mire definitivamente più oneste e positive.
Ovviamente all’interno di un finale molto semplice e prevedibile, ma del tutto funzionale.
L’innamoramento
Un grande pregio del film è che il rapporto Flynn e Rapunzel, nonostante sia basato sui più classici e funzionali tropoi di enemy to lovers, è ben costruito.
Inizialmente entrambi, appena si scoprono, sono quantomeno colpiti. Soprattutto Flynn, che rimane sbigottito vedendola per la prima volta, anche perché in quella scena la ragazza è disegnata in maniera più adulta.
Immediatamente, sono entrambi sulla difensiva davanti all’ignoto: Rapunzel si difende disordinatamente con la padella, Flynn con i suoi stupidissimi metodi di approccio, che potrebbero funzionare con altre donne, ma non con Rapunzel.
Poi ci riprova, vedendola in difficoltà, usando trappole emotive al pari di Madre Gothel, anche se ovviamente non in maniera così diabolica.
L’ultimo inganno a cui la sottopone è quello decisivo: alla taverna, invece di arrendersi definitivamente, Rapunzel si dimostra nuovamente capace di gestire la situazione, portandola a suo vantaggio.
E così è anche la prima volta che Flynn è genuinamente interessato a lei, come si vede dal mezzo sorriso che le rivolge mentre sono nel tunnel sotto alla caverna. Da questo momento in poi comincerà a non considerarla più una ragazzina sprovveduta.
Ed è anche la prima volta in cui Rapunzel si rende conto delle sue capacità, e di non essere una buona a nulla come raccontava Madre Gothel.
Le ultime tappe
La scena del falò è un altro momento decisivo.
Finalmente entrambi si svelano l’uno all’altro, in maniera in cui nessuno dei due aveva mai fatto con nessuno. A quel punto Rapunzel è già evidentemente già innamorata, ma Flynn non può concedersi questo passo: la guarda ammaliato, poi abbassa lo sguardo, genuinamente sorpreso, e si allontana con una scusa.
E in quel momento Rapunzel fa la mossa finale: dimostra di accettarlo per chi davvero è, e non per la facciata che Flynn ha dovuto usare tutta la vita. E da come lo guarda si vede che è definitivamente innamorata.
Lo stesso sguardo è negli occhi di Flynn quando in città vede Rapunzel con i capelli intrecciatidi fiori. Ma, ancora una volta, davanti allo sbeffeggiamento di Maximus, cerca di allontanare quel pensiero.
L’amore fra i due è finalmente rivelato prima quando si trovano mano nella mano durante la danza nella città, e infine sulla barca, quando si dichiarano vicendevolmente, senza più imbarazzo.
Così il breve distanziamento fra i due, che per fortuna non viene eccessivamente drammatizzato ed è anzi occasione per Rapunzel di avere la sua rivalsa su Madre Gothel, viene risolto con la dichiarazione reciproca dell’amore di entrambi.
E non con un semplice ti amo, ma con una dichiarazione più profonda.
Madre Gothel
Madre Gothel è villain da manuale.
un antagonista piuttosto tipizzato, ovvero quel tipo di cattivo la cui cattiveria non è particolarmente esplorata.
Tuttavia, leggendo più a fondo il suo personaggio, si scopre che non è così superficiale come potrebbe sembrare. Anzitutto, le sue motivazioni: non cattiva perché cattiva, ma perché ossessionata non tanto dalla vita eterna, ma proprio dalla bellezza.
Non a caso Madre Gothel è una donna fascinosa e magnetica, che utilizza anche questo suo potere a suo vantaggio.
Così ammalia uno dei delinquenti della taverna per sapere dove sbuca il tunnel sotterraneo, così inganna i due compari di Flynn Rider per utilizzarli a suo vantaggio.
E sempre sulla bellezza punta quando vuole sminuire Rapunzel, sia durante la canzone Mother knows best, quando le dice che è trasandata, persino grassa (a little chubby).
Ma soprattutto durante la scena del falò, quando le afferra i capelli per sbeffeggiarla e le dice Pensi che sia rimasto impressionato? ribadendo quanto la figlioccia sia strana, trasandata e per nulla attraente.
Ma, soprattutto, Madre Gothel è definita nella dicotomia luce – buio, in contrapposizione con Rapunzel.
Essere inghiottiti dall’oscurità
Secondo un topos molto semplice, ma non per questo meno efficace, Madre Gothel è strettamente collegata al concetto di oscurità. Anzitutto per i colori del suo personaggio, molto intensi e scuri appunto, così per la maggior parte delle scene in cui compare, sempre in ombra o penombra.
Inoltre, questa dicotomia si trova nella già citata canzone Mother knows best: tutta la scena è la donna che cerca di togliere la luce alla figlioccia, sia in senso metaforico che effettivo.
Come le spegne le candele che Rapunzel cerca di accendere per fare luce, così Madre Gothel utilizza la luce a suo vantaggio, facendo vedere quello che vuole lei, e ottenebrando la mente della ragazza con paure insensate.
Un’ombra
L’ombra di Madre Gothel accompagna Rapunzel anche quando non è presente in scena.
Quando la ragazza è profondamente divisa sul da farsi, avendo paura di deludere la madre, nelle scene di spensieratezza l’ambiente è luminoso e con colori pieni, quando è invece triste e preoccupata la vediamo in ambienti nell’ombra o nella penombra.
Altrettanto importante per questo simbolismo è l’incontro del falò: la donna abbraccia Rapunzel, non per affetto ma per ingabbiarla nuovamente, la afferra per un polso e cerca di trascinarla con sé, lontano dal falò e quindi dalla luce, verso la foresta nera da cui è emersa.
E così tutta la canzone, che serve a sbeffeggiare la figlioccia e impiantare in lei il seme del dubbio, si svolge nell’ombra.
Ancora la tematica della luce quandoRapunzel acquisisce consapevolezza: in inglese nella canzone delle lanterne dice Now I see the light, ovvero Ora vedo la luce, in senso sia letterale, sia metaforico.
E il parallelismo è scontato è quando assume la definitiva consapevolezza della sua identità, vedendo proprio i soli simbolo della sua famiglia nella sua stanza, e quindi la luce e la verità che gli era sempre stata nascosta.
Ma Rapunzel si fa anche tentare da una luce ingannevole: quando finalmente (e per fortuna temporaneamente) Madre Gothel la fa tornare a sé dopo averle fatto credere al tradimento di Flynn, è accanto ad una lanterna.
Ma è una lanterna di una luce fredda, verdognola, di un colore solitamente associato al veleno e all’inganno.
E si potrebbe andare avanti…
Non solo il tuo animaletto
Per quanto si sarebbe potuto desiderare un villain più profondo, che non fosse limitato alla sua cattiveria apparentemente superficiale, la spietatezza con cui Madre Gothel tratta Rapunzel è da brividi.
Non c’è mai un momento in cui dimostra qualche tipo di effettivo affetto verso la figlioccia, che considera sempre invece come uno strumento, come una risorsa per sé stessa ed il suo tornaconto.
Non solo uno strumento, ma anche un animale: nella sua prima canzone, Mother knows best, Madre Gothel chiama Rapunzel proprio pet, e in più di un’occasione le tocca la testa come si fa con gli animali da compagnia appunto.
Questo gesto è ribadito nell’ultimo atto, quando Rapunzel le si ribella, prendendola violentemente per il polso e impedendole di farlo.
E finalmente torreggia su di lei.
Personaggi secondari indovinati
Un altro merito di questo film sono sicuramente i personaggi di contorno.
Anzitutto i malviventi incontrati alla taverna, che nel finale diventano fondamentali. Soprattutto per la loro canzone dove vengono presentati, non sono altro che un’estensione di Flynn: criminali ma dal cuore d’oro e con altre passioni oltre al crimine di per sé.
Tra l’altro spassosissima la loro sfilza di interessi assolutamente anacronistici per il periodo rappresentato.
Altra punta di diamante della pellicola è Maximus.
Era forse dai tempi di Mushu che non si vedeva un animale così ben raccontato ed animato, con una mimica al limite della perfezione, che lo fa sembrare prima un uomo, poi un cane (nella scena in cui incontra Rapunzel). Maximus è proprio una storia a parte.
Nota a margine per Pascal: sembra un personaggio molto secondario, e invece ha un ruolo chiave nella vicenda. Infatti, fino alla fine, Madre Gothel neanche sa che esista e Rapunzel glielo nasconde volutamente.
Pascal è infatti la voce della ragione, una figura enigmatica e silenziosa che invita subito Rapunzel ad uscire, che veglia su di lei, riuscendo ad addomesticare Maximus e accettando tacitamente la sua relazione con Flynn.
E non è un caso che è Pascal stesso che interviene per rendere definitiva la dipartita di Madre Gothel.
Rapunzel: un’altra interpretazione
Il potere di Rapunzel è luminoso e puro e, una volta tagliato, perde il suo valore.
Non sarò la prima né l’ultima a dirvi che Rapunzel può essere letto in un’altra ottica.
Il dono di Rapunzel è in realtà la sua verginità, in una visione ovviamente molto tradizionalista. Così Madre Gothel la promette ai malviventi, in maniera davvero inquietante, così dice a Rapunzel che Flynn vuole solo una cosa da lei, come se dovesse sedurla per avere un rapporto sessuale e poi abbandonarla.
Una narrazione piuttosto utilizzata e radicata profondamente nell’immaginario collettivo, anche odierno. E il fatto che si parli di Rapunzel e del suo potere legato al fiore e della preziosità della corona, l’unico interesse di Flynn secondo Madre Gothel, non fanno che confermare questa visione.
Così, quando alla fine si baciano sulla torre e l’inquadratura si allontana, senza far mai vedere che escono o altro, i più maliziosi potrebbero intendere quello come effettivamente il momento in cui portano il loro rapporto ad un altro livello.
Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, è un piccolo cult di inizio Anni 2000.
Non a caso, a fronte di un budget risicatissimo – appena 8 milioni di dollari – sbancò i botteghini internazionali con 108 milioni di incasso, e fu candidato a tre premi Oscar, vincendone due.
Di cosa parla Little Miss Sunshine?
Una piccola famiglia della classe media affronta un viaggio improvviso per accompagnare la piccola Ollie. In questa occasione ogni personaggio svilupperà il proprio percorso, con piccoli e grandi drammi personali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Little Miss Sunshine?
Assolutamente sì.
Little Miss Sunshine divenne un cult all’epoca per tanti motivi.
Prima di tutto, è un film davvero ben scritto, che porta in scena alternativamente momenti incredibilmente divertenti, sia sequenze assai drammatiche, con sempre un’importante riflessione di fondo.
Un prodotto da recuperare assolutamente, per ridere, piangere e appassionarsi sinceramente alle storie dei personaggi, oltre che per venire vicino ad un mondo e ad una cultura che sono dominanti nel panorama internazionale, ma molto diversi dalla nostra cultura europea.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Vincere e perdere
La bellezza di Little Miss Sunshine risiede soprattutto la sua capacità di raccontare una storia davvero corale, dove ogni personaggio è tridimensionale e ha un’evoluzione avvincente.
Non a caso il film si apre con una piccola carrellata di scene di presentazione di tutti i personaggi ed il loro arco narrativo.
La piccola Olive e il suo sogno, il padre e il suo corso di life coaching, il fratello e la sua sfida, il nonno e la dipendenza dalle droghe, la madre che è il suo rapporto difficile col fratello, e infine il fratello suicida.
Il tema principale, come anticipato, è la cultura della vittoria. Vincere, vincere per forza, unica cosa che conta, come ben si vede dalle prime due scene: Olive che guarda e sogna la vittoria come reginetta di bellezza e il padre che racconta come si può essere o vincitori o perdenti. E bisogna essere vincitori.
E infatti ogni personaggio riesce a vincere e a perdere la sua battaglia personale.
Olive Little Miss Sunshine
Olive è una bambina di appena sette anni, eppure è il perno dell’intera pellicola.
Vediamo molto spesso il tutto dal suo punto di vista, che riesce ad empatizzare, nonché a venire in aiuto degli altri personaggi: Frank e il suo dramma personale, così il fratello Dwayne e la sua sconfitta.
Il sogno di Olive non è realmente quello di vincere per essere bella, ma di vincere per divertirsi. Tuttavia non è, pur ingenuamente, estranea a tutte le pressioni sociali che vogliono che lei sia bella, magra e già perfetta.
Emblematica in questo senso la scena in cui il padre cerca di convincerla a non mangiare il gelato per non ingrassare, così come quelle in cui si guarda allo specchio, più di una volta, preoccupandosi di non essere abbastanza bella.
Sono bella?
Effettivamente Olive non è una ragazzina convenzionalmente bella: è una bambina come tante, con un aspetto nella media, che non cerca di essere niente di più bello o di diverso dalla sua età.
Ma è comunque appunto influenzata dagli stimoli esterni del mondo degli adulti, tanto che chiede al nonno se lei è effettivamente bella e se riuscirà a vincere. Tuttavia, solo delle ansie derivate esternamente, non qualcosa che nasce naturalmente da lei.
La drammatica realtà è che se Olive non avesse le influenze positive di alcuni membri della sua famiglia, in poco tempo sarebbe caduta in un disturbo alimentare, come altre ragazzine prima di lei.
Frank Little Miss Sunshine
Frank è un perdente, sia per come si sente, sia perché non riesce a vincere il suo onore e andare avanti con la propria vita.
Non riesce a lasciare da parte il più grande traguardo della propria vita, l’unica cosa con cui riesce a definirsi.
E infatti alla fine il motivo vero del suo tentato suicidio non è né un amore fallito né aver perso il lavoro, ma aver perso il suo riconoscimento, che ribadisce (anche se scherzosamente), in altri momenti della pellicola.
La vittoria di Frank è riuscire a trovare una nuova identità, a capire di essere una persona completa anche senza essere riconosciuto come vincente. E riesce a riconoscersi in un nuovo contesto e un nuovo obbiettivo: la sua famiglia.
Non a caso è il primo a correre verso l’hotel del concorso.
E, non a caso, quando vede sul giornale il suo rivale riconosciuto con il premio che lui pensa che gli sia dovuto, lo mette via con solo una smorfia di disappunto, ma, infine, di accettazione.
Dwayne Litte Miss Sunshine
Dwayne è in una crisi esistenziale estrema.
Sente di odiare profondamente la sua famiglia e porta testardamente avanti l’obbiettivo di liberarsi dalla stessa.
Ma, in realtà, c’è una persona a cui non può odiare: Olive. Non è un caso infatti che sia Dwayne sia quello che si accorge della mancanza della sorella quando questa viene dimenticata alla stazione di servizio
E così Olive è l’unica persona che riesce veramente, e senza una parola, a convincerlo a tornare dalla famiglia quando Dwayne ha la sua crisi. E infine il ragazzo, come Frank, accetta che, anche se non verrà riconosciuto come quello che vorrebbe essere dagli altri, potrà comunque fare quello che lo renderà felice.
E questo senza doversi isolare da tutti, anzi preoccupandosi sinceramente per la sorella.
Il nonno Litte Miss Sunshine
Il nonno vuole vincere la sua libertà.
La libertà di vivere come vuole, anche in modo non accettato dalla società purista americana. E continua a farlo, nonostante le conseguenze, e fino alla fine. E alla fine muore, ma felicemente.
Insieme a Sheryl, il nonno è uno degli elementi di unione e un motore dell’azione, sia da vivo che da morto. Infatti il climax finale del ballo della famiglia, una danza gioiosa di unione, è merito della sfacciataggine del nonno.
La famiglia riesce a proseguire il viaggio, nonostante il cadavere nel bagagliaio, per le riviste pornografiche che il nonno ha acquistato. E tutta la vicenda è messa in moto dallo stesso, che aiuta la nipote nel suo spettacolo.
Richard Little Miss Sunshine
Richard è l’elemento più problematico del film.
Impulsivo, ossessionato dal sogno americano di vincere o perdere.
Senza vie di mezzo.
Durante la pellicola deve tuttavia prendere delle decisioni importanti, che gli fanno mettere in discussione i suoi valori. In particolare il momento di consapevolezza avviene durante il concorso di bellezza.
Guardando quelle bambine truccate e sessualizzate all’inverosimile, capisce che non vale sempre la pena vincere sempre, che sua figlia non deve per forza gareggiare, se sono queste le condizioni.
E infine anche lui sceglie la propria famiglia, proteggendo la figlia e intervenendo per primo per aprire la danza finale, nonostante sa che così verrà definitivamente escluso ed umiliato.
Ma ormai non è più importante.
Sheryl Little Miss Sunshine
Sheryl è una donna forte, coi piedi ben piantati a terra, che cerca di unire la famiglia.
La sua vittoria, alla fine, è riuscire a riportare insieme i suoi familiari, come cerca di fare per tutta la pellicola: riprende Richard quando intimorisce Olive, cerca di aiutare Frank, cerca in tutti i modi di ricongiungersi con Dwayne quando perde la testa e, alla fine, sostiene tutti sulle sue spalle.
È davvero il collante del gruppo.
È forse il personaggio che vince di più di tutti: riesce a vedere la famiglia finalmente e davvero unita, come avrebbe voluto, e per questo chiude le danze, correndo felice verso la figlia.
Vincere da subito
Il tema principale della pellicola è ben esplicitato dal concorso stesso, che rappresenta l’atto conclusivo nonché il punto di arrivo del climax dell’intera pellicola.
Può sembrare eccessivo ed esagerato, ma è invece tremendamente reale.
L’ultimo tassello nel mosaico della cultura della vittoria a tutti i costi degli Stati Uniti, quando fin da giovanissimi si viene messi in competizione. Vestiti da adulti, costretti a diventare degli oggetti di scena, principalmente a favore dei genitori stessi e del ritorno economico che ne può derivare.
Ci sono state molte discussioni, soprattutto ai tempi, sulla questione dei concorsi di bellezza.
La maggiore questione è che queste occasioni rappresentavano (e rappresentano) perfettamente il sogno americano. Non seguono infatti grandi capitali per accedervi, basta essere abbastanza belli e saper fare qualcosa di interessante, soprattutto nei circuiti più bassi.
E infatti le facce delle persone del pubblico sono facce assolutamente normali e ordinarie.
L’ipocrisia
Little Miss Sunshine mette bene in scena la sessualizzazione rasente alla pedofilia di questi concorsi, con ragazzine truccate e acconciate come modelle, eroicizzate al limite del sopportabile ed estremamente ammiccanti.
Non a caso è emblematica la faccia del padre quando vede lo spettacolo, profondamente a disagio, come ogni persona di buon senso si sentirebbe.
E così lo spettatore con lui.
E quindi l’ipocrisia sta nel fatto che, quando una bambina fa qualcosa di effettivamente erotico e apparentemente volgare, in realtàsemplicemente divertendosi nella sua ingenuità dei sette anni, è assolutamente inaccettabile.
Vivere di espedienti
Come la maggior parte della classe media statunitense e delle persone che partecipano a questo tipo di concorsi, la famiglia della pellicola è in difficoltà economica. Deve sempre vivere di espedienti e soluzioni dell’ultimo minuto per andare avanti, faticosamente, perdendo ogni energia.
Perché se ci si arrende si è, appunto, dei perdenti.
Così non possono lasciare Frank in ospedale per farsi curare adeguatamente perché non c’è l’assicurazione sanitaria adatta. Non possono prendere un aereo per andare in California, non possono permettersi un’alternativa all’auto rotta. In ogni modo devo mettersi insieme, mettersi in strada.
Il viaggio e tutti i suoi ostacoli rappresentano perfettamente come è la loro vita: un imprevisto dietro l’altro, a cui non sono sempre pronti a rispondere.
Bonus
Breaking bad, sei tu?
In Little Miss Sunshine ci sono dei collegamenti involontari alla serie Breaking bad, che esordì sui nostri schermi due anni dopo.
Anzitutto, la famiglia abita ad Albuquerque, dove si svolge anche la serie tv. Inoltre nel film appaiono per dei camei Bryan Cranston come Stan, il collega del padre e Dean Norris, come il poliziotto che li ferma in autostrada.
Rispettivamente Walter White e Hank Schrade, due dei personaggi principali della serie cult, che i fan di Breaking bad non potranno non riconoscere.