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Ghost in the shell – La profondità travestita

Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii è un lungometraggio animato giapponese, uno dei più grandi cult dell’animazione orientale. Un prodotto che si cercò in seguito di riportare sullo schermo con il live action omonimo del 2017, che fu sommerso dalle critiche.

A fronte di un budget abbastanza contenuto di appena 2 milioni di dollari (330 milioni di yen), incassò comunque pochissimo (circa 10 milioni), ma divenne col tempo un cult, rientrando per così dire nelle spese grazie agli incassi dell’home video (43 milioni in tutto).

Un ringraziamento speciale a Carmelo, senza cui questa recensione non avrebbe potuto esistere.

Di cosa parla Ghost in the shell?

In un futuro lontano ma probabile, l’uomo si è sempre di più fuso con le macchine. Ma le divisioni politiche sono sempre le stesse…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ghost in the shell?

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Assolutamente sì.

Ghost in the shell è un film incredibile da ogni punto di vista.

Il reparto tecnico e artistico è di una bellezza che lascia senza fiato, sia nelle animazioni perfette, nei disegni e nel character design meravigliosamente pensato.

Inoltre, questa pellicola è di fatto una riflessione profonda e filosofica travestita da film action e cyberpunk. Una serie di concetti che magari non arriveranno immediatamente alla prima visione, ma che sono frutto di una scrittura profondamente immensa.

Non un film, ma un’esperienza.

Tutto cambia…

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il mondo raccontato in Ghost in the shell è assolutamente visionario, se non anche molto probabile.

Da anni i futurologi ipotizzano un futuro neanche troppo lontano in cui l’uomo vivrà sempre più compenetrato con la tecnologia.

Ma, all’interno di mondo in cui anche una macchina può essere considerata un essere vivente, l’umanità cerca di conservare la sua identità tramite l’anima, o il ghost – o il concetto della stessa – quello scintillio di consapevolezza che distingue l’uomo dalla mera macchina.

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Un concetto su cui la pellicola si interroga continuamente, in primo luogo attraverso il personaggio di Motoko, che sente di avere un’anima, si sente umana solamente perché viene trattata come tale.

Ma la risposta al suo dilemma arriva in un certo senso tramite Project 2051: un essere senza un corpo, senza un’anima, che esiste solo virtualmente, ma che ha acquisito consapevolezza, ambendo allo status di essere vivente al pari degli uomini.

E, allora, cosa è l’uomo e cos’è la macchina?

…niente cambia

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Davanti all’immensità di questi cambiamenti e avanzamento tecnologici, l’uomo non cambia la sua natura.

Continuano le divisioni politiche in un intricato gioco di potere che mi ha ricordato per molti versi 1984 (1949) e L’uomo nell’alto castello (1962). Con la sola differenza che la tecnologia avanza più veloce dell’uomo stesso, diventando sostanzialmente incontrollabile.

Un elemento alla base di tutta la fantascienza moderna: la macchina che si rivolta contro il suo stesso creatore.

Fermarsi

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Una particolarità della pellicola è che si ferma continuamente.

Diverse manciate di secondi dedicate a soffermarsi su splendide sequenze di grande potenza visiva e artistica, impreziosite da musiche lente e sibilline che raccontano un mondo lontano, eppure così vicino alla contemporaneità.

E gli infiniti momenti in cui ci si arresta, senza una parola, ad osservare i personaggi in inquadrature che sembrano delle opere d’arte.

E una continua e intensa riflessione, che tocca tantissimi concetti e li riesce organicamente a riflettere all’interno di pellicola che si propone come action, ma che di action ha ben poco.

Riflettiamo su Ghost in the shell

All’interno della pellicola si riprendono diversi concetti filosofici di grande interesse e profondità – che ho tentato di spiegare nella mia umile ignoranza.

L’angoscia singolarizzante

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Uno dei concetti più forti della pellicola si riassume nella cosiddetta angoscia singolarizzante di Heidegger.

Un processo di consapevolezza dell’uomo di fronte al nulla, in cui prova una profonda angoscia davanti alla possibilità di un’esistenza inautentica, in cui non può emergere, ma rimanere parte di una massa indistinta.

E questo lo spinge invece verso una singolarizzazione, ovvero una ricerca di un’identità che lo distingua dagli altri

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Questo concetto ben si articola nella lunga riflessione di Motoko.

Insieme a Batou, la protagonista riflette su quanto, nonostante sia forse uno degli esseri più avanzati e con l’accesso ad un numero virtualmente illimitato di informazioni, senta comunque di non aver espresso il suo pieno potenziale e che lo stesso sia lì, a portata di mano, ma irraggiungibile.

E questo sarà possibile in certa misura fondendosi con Project 2051, e creando qualcosa di nuovo e teso verso un miglioramento e un’evoluzione davvero soddisfacente.

E parlando di evoluzione…

Il darwinismo

Mokoto e Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Tutto il monologo di Project 2051 a Motoko è un riferimento alla teoria darwinista.

All’interno della teoria di Darwin l’evoluzione umana (o di una specie in questo caso) si articola in una serie di cambiamenti, per cui il cambiamento più forte e adatto all’ambiente è quello che domina.

All’interno del suo monologo il Puppet Master racconta come il miglioramento della specie e dell’individuo segua la strada del cambiamento, ma anche del sacrificio, in cui gli elementi devono unirsi per sopravvivere e raggiungere una condizione superiore.

La via di Damasco

 Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il percorso della protagonista può anche essere associato a La via di Damasco, riguardante la conversione di San Paolo.

Prima di essere un discepolo di Cristo, il santo era un persecutore di cristiani per mano dei giudei gli ebrei della sinagoga. Un giorno una luce lo fece cadere da cavallo e l’uomo sentì la voce di Cristo, che gli chiedeva perché perseguitava lui e i cristiani.

Così avvenne la sua conversione.

Allo stesso modo Motoko, dopo aver perseguitato Project 2501, si connette alla sua coscienza e si fa convincere dalle sue parole a cambiare idea e ad abbracciare la sua visione – e la sua essenza.

Così come San Paolo accetta Cristo dentro di sé, così la protagonista accetta quello che prima pensava essere il suo nemico.

Il problema del live action di Ghost in the shell

A cura di Carmelo

Nel 2017 si cercò di produrre un live action della storia, con risultati disastrosi sotto ogni punto di vista.

Oltre alle accuse (dovute) di whitewashing – che compromisero per un certo periodo la carriera di Scarlett Johansson – il film fu un disastro di critica e pubblico.

E per ottimi motivi.

Anzitutto, le grafiche e scenografie sono pacchiane e fastidiose a livello visivo: ologrammi giganti futuristici a scopo pubblicitario – lontani anni luce da quelli di classe di Blade Runner (1982) – e luci epilettiche.

L’americanizzazione

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Ma la mancanza più grave è la voluta americanizzazione dell’anime di Masamune Shirow per renderlo fruibile al pubblico medio americano.

In questo senso, la filosofia e personalità dei personaggi sono ridotti a frasi da baci perugina, con alcuni personaggi resi delle pure macchiette che si vedono per tre minuti scarsi solo per aiutare i protagonisti.

E l’antagonista, a differenza dell’anime, è il villain stereotipato e scialbo che si trova in quasi tutti i film di fantascienza e cyberpunk.

Così la storia d’amore tra i personaggi è ridicola e scontata, con un sentimentalismo smielato fra personaggi inesistenti nel manga (con un loro perché narrativo), che ricordano la brutta versione di Io Robot (2004) con Will Smith.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Per fortuna che hanno inserito Takeshi Kitano, attore nipponico, messo lì per ricordare che il film si basa su un Manga, ovvero una forma d’arte orientale.

E cercando sempre di attirare il pubblico dei fan, è stata inserita una gran quantità di fanservice piuttosto fastidioso, che serve solamente per far godere i fan del manga – ma che a me ha dato solo fastidio.

Le scene violente, diventate iconiche nel Manga, sono state o censurate o trasformate in versione PEGI 6, risultando in una comicità involontaria.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Secondo questo stesso concetto, le logiche narrative più che ricordare Ghost in the Shell ricordano la brutta versione di Dragon Ball (in particolare la storia dei Cyborg C18 e C17).

L’importante messaggio dell’anime è ridotto ad una esaltazione dell’umanità in pieno stile qualunquista simil Adriano Celentano.

Insomma, se fosse stato un film cyberpunk generalista qualsiasi, sarebbe rimasto sulla soglia del guadabile.

Ma, avendo come titolo Ghost in the shell, non è assolutamente accettabile.

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Strange World – Ambientalismo generazionale

Strange world (2022) di Don Hall è un lungometraggio animato di genere avventura, con un forte elemento fantastico-fantascientifico e una piccola morale molto interessante.

Peccato che nessuno ne stia parlando.

Il film è stato infatti un disastro commerciale: a fronte di una produzione piuttosto importante di 180 milioni di dollari, ne ha incassati ad oggi 66 in tutto il mondo.

E ormai è sbarcato su Disney+ e la sua vita in sala è finita…

Di cosa parla Strange world?

Jaeger Clade e suo figlio Searcher sono due avventurieri che stanno per scoprire cosa si nasconde dietro le montagne che circondano il loro piccolo mondo. Ma qualcosa di più interessante si trova su quelle montagne, che porterà le loro strade a dividersi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Strange world?

In generale, sì.

Strange world è un film fatto apposta per essere visto con tutta la famiglia, con un cast di personaggi piuttosto corale che mette in scena tre diverse generazioni, e i rapporti che le legano.

Oltre a questo, è una piccola avventura molto simpatica e piacevole, che sicuramente potrebbe allietare un pomeriggio in compagnia, senza particolari difetti. Più che altro il grande problema del film è il fatto che è molto dimenticabile

Ed è solo uno dei motivi del suo insuccesso…

Perché Strange world è un flop?

Strange world è stato un disastro commerciale.

Si potrebbe pensare che questo insuccesso sia dovuto unicamente alla scarsissima campagna marketing e alla recente antipatia della Disney per i prodotti animati al cinema, all’interno di una crisi del genere tutto.

Sia Red (2022) quanto Lightyear (2022) sono testimoni di questa tendenza.

Tuttavia, secondo me non è l’unico motivo.

La Disney si è trovata fra le mani un prodotto non particolarmente forte, per vari motivi: per quanto sia appunto un prodotto piacevole e davvero adatto al target familiare, è purtroppo davvero dimenticabile e non è così originale e memorabile sotto nessun punto di vista.

Questo sia per la trama molto semplice, ma sopratutto per la mancanza di canzoni: come mi ha ben fatto notare il caro collega di @cangius.movie, la parte musicale resta molto più facilmente in testa ed è parte del successo di un film Disney.

E Encanto (2021) lo testimonia perfettamente.

Per cui, davanti ad un prodotto non molto forte, che forse sapevano anche non avrebbe avuto un gran profitto, hanno deciso di non promuoverlo e scaricarlo il prima possibile su Disney+.

Con le conseguenze che abbiamo visto.

Un film per tutta la famiglia

Strange world è un film confezionato alla perfezione per colpire i diversi target: il bambino o ragazzino, il padre e anche il nonno, raccontando i conflitti e rapporti che definiscono queste tre generazioni.

Per quanto in qualche misura le risoluzioni sembrano un po’ affrettate e semplicistiche, colpiscono indubbiamente al cuore e raccontano delle dinamiche in cui un po’ tutti possono ritrovarsi, ed essere per questo coinvolti e commossi.

E la rappresentazione del conflitto generazionale è tanto più interessante in riferimento al tema di fondo.

Ambientalismo intergenerazionale

Il tema di fondo diventa tanto più evidente più ci si avvicina al finale.

Strange world vuole in realtà parlare di ambientalismo, di vivere in armonia con il pianeta che abbiamo colonizzato senza pietà per millenni e del male che gli stiamo facendo con la nostra scorsa allo sfruttamento selvaggio.

E questo tema si articola nei tre personaggi protagonisti.

Jaeger Clade rappresenta la generazione più vecchia e con una volontà distruttiva: come si vede, il personaggio si fa largo nell’ambiente in maniera aggressiva e mettendo solamente la propria persona al centro, considerando nemico ogni elemento che gli si pone davanti.

Più morbido il comportamento di Searcher Clade, che rappresenta la generazione fra i Millennial e la Generazione X, che comunque sfrutta l’ambiente in cui vive, nonostante questo provochi dei danni allo stesso.

E si sente anche nel giusto nel farlo.

In quest’ottica il Pando può essere associato a tutte le risorse della Terra che sfruttiamo all’inverosimile e al conseguente inquinamento dovuto all’ipersfruttamento e all’utilizzare tutto unicamente a nostro vantaggio.

La generazione di svolta è quella di Ethan, che fin da subito si sente in colpa nello sterminare esseri viventi, per quanto aggressivi, e che alla fine riesce insieme al padre a comprendere la verità sulla situazione in cui si trova e, di conseguenza, a salvare il proprio mondo.

Con un finale in cui le generazioni si ricongiungono in un messaggio di speranza.

Una rappresentazione positiva?

Strange world ha fatto un certo rumore per la rappresentazione del protagonista come esplicitamente omosessuale.

Durante la pellicola Ethan racconta più volte di essere interessato a Diazo, e tutti i personaggi accettano pacificamente, anzi felicemente, questa potenziale relazione. E tutta la rappresentazione del loro rapporto è molto tenera e naturale.

Tuttavia, io non sono del tutto convinta.

Mi rendo perfettamente conto che stiamo parlando della Disney che va con i piedi di piombo su questo argomento, ma a me sembra che ancora non sia abbastanza e che forse non sia la migliore rappresentazione auspicabile.

Il mio dubbio sta anzitutto nel character design sia di Ethan che di Diazo: volevano dare una rappresentazione del maschile che si sente più libero di avere una aspetto non rigidamente e stereotipicamente di genere, oppure stavano semplicemente giocando con uno stereotipo?

E qui sta tutta la differenza.

Oltre a questo, nonostante alla fine abbiamo una relazione, non si vede mai che si scambiano effusioni, a differenza di quanto succede piuttosto esplicitamente fra Searcher e Meridian.

Io personalmente, più che una buona rappresentazione, vedo ancora dei contentini e delle mani messe avanti…

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Avatar – La via dell’acqua – Dieci anni dopo

Avatar – La via dell’acqua (2022) di James Cameron è il sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo Avatar (2009).

Un film che prometteva grande innovazione tecnica. E c’è stata.

Ma per me, come per il precedente, non basta.

Forse non arriverà agli incassi del primo film, ma ha aperto in maniera molto promettente: 435 milioni di dollari in tutto il mondo, arrivando ad oggi a 441 milioni.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Avatar – La via dell’acqua (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Migliore scenografia
Miglior sonoro
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Avatar La via dell’acqua?

Dieci e più anni dopo, Jake Sully è riuscito a costruirsi una felice famiglia su Pandora. Ma l’incubo dell’invasione torna a palesarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Avatar – La via dell’acqua?

Sì, ma dipende.

Con questo intendo dire che se Avatar non vi ha entusiasmato, non aspettatevi niente di diverso da Avatar – La via dell’acqua, anzi. Lo scheletro narrativo è molto simile, si riciclano anche delle storyline, e la trama ha sempre lo stesso livello molto medio.

Se invece siete quelli che si sono lasciati e si lasciano conquistare dagli effetti visivi, non potete assolutamente perdervelo: è indubbiamente il punto forte del film ed è gestito ottimamente.

E non preoccupatevi per la durata importante: se lo prendete per il verso giusto, riesce a tenere sempre alta l’attenzione.

Vivere del punto forte

Sigourney Weaver (Kiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Guardando a posteriori, sembra davvero che il film sia stato costruito attorno agli effetti visivi e alle scene di impatto, e non il contrario. Perché è evidente che James Cameron avesse tutto l’interesse a portare elementi di grande innovazione tecnica.

E per questo ringraziamo.

La tecnica è sublime, curata nei minimi dettagli, tutto sommato molto credibile e semplicemente davvero bella da vedere, facendo anche un interessante passo avanti rispetto al primo film.

E infatti su questo non ho nulla da dire, anzi.

La trama, un elemento accessorio

Kate Winslet (Rolan) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Purtroppo, se si vanno invece a guardare più da vicino gli elementi della trama, la stessa si rivela in tutta la sua debolezza.

E per me è un elemento molto importante da considerare.

Personalmente ho preferito la narrazione del primo film: più semplice, lineare, e dritta al punto. E che infatti mi sono sentita di difendere. In questo caso, i difetti sono molteplici, ma il cuore del problema sta proprio nella volontà di voler gestire una struttura corale, ma non riuscire a dare il giusto spazio a nessuno dei personaggi portati in scena.

Ma andiamo con ordine.

Due fratelli, un fratello

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Un grande problema che ho riscontrato è stata la questione di Neteyam e Lo’ak, i due figli di Jake.

All’inizio li trovavo praticamente indistinguibili, e purtroppo ritengo che nessuno dei due abbia avuto lo spazio che si meritava. Il più lacunoso è indubbiamente Neteyam, il fratello maggiore, che doveva essere il grande dramma del film (che ovviamente non poteva mancare), ma che non ha uno screentime sufficiente per farti affezionare a lui.

Tanto che, arrivando alla fine, mi chiedevo sinceramente perché avrei dovuto dispiacermi della sua morte.

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Discorso diverso per Lo’ak, il minore: molto più protagonista rispetto al fratello, coinvolto in dinamiche interessanti, anche se molto prevedibili, ma al contempo caricato eccessivamente in ruolo non adeguatamente sviluppato.

La sua storia dovrebbe essere quella di un outsider, che si ritrova con qualcuno di simile a lui. Ma, obiettivamente, cosa ha fatto Lo’ak per essere raccontato come tale?

Semplicemente è molto avventato e si fa facilmente tirare in mezzo per così dire, ma sembra partire già con un conflitto con il padre, che però non sono riuscita a percepire per nulla nella sua effettiva gravità.

Tuttavia, ammetto che la scena dell’incontro con Payakan, il tolkun emarginato, l’ho apprezzata molto e mi ha emotivamente coinvolto.

Il miracolo dimenticato

Sigourney Weaver (Kiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Una storyline che andava decisamente più esplorata era quella di Kiri.

Gli indizi riguardo alla sua connessione con Ewya ci sono fin dall’inizio e sono anche ben posizionati. Tuttavia, dopo il picco drammatico della sua storyline, ovvero quando il personaggio si connette all’Albero delle Anime e rischia di morire, per un buon venti minuti ci si dimentica totalmente di lei.

E si arriva direttamente ad un pacifico scioglimento del problema, senza che ci sia stato il passaggio fondamentale in cui lo stesso veniva risolto.

Insomma, come se mancasse un pezzo…

L’inutile Spider

Jack Champion (Spider) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Per la maggior parte della pellicola mi sono chiesta quale fosse il ruolo e l’utilità di Spider.

Sono rimasta anzi abbastanza contraddetta da come, da una scena all’altra, Spider sembri aiutare e quasi assecondare l’azione dei villain. Per poi tornare sui suoi passi poco dopo, ma rimanendo per la maggior parte del tempo una figurina sullo sfondo.

Finché non arriviamo sul finale e il personaggio diventa artefice della mia personale frustrazione.

Incapaci di rinnovarsi

Stephen Lang (Miles Quaritch) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La storia del Colonnello Miles è stata per me un vero tormento.

Riproporre lo stesso inutile, ridicolo villain per la seconda volta l’ho trovata una scelta veramente poco indovinata e per nulla interessante.

Perché parte con l’idea che, prima di tutto, bisogna uccidere Jake per cominciare a mettere fine al popolo dei Na’vi. Poi la questione diventa totalmente una vendetta privata del personaggio, che fa completamente sparire di scena l’obbiettivo principale degli umani nella pellicola.

Infine, viene di nuovo riesumato per essere riportato in un eventuale sequel, quando è così evidente che non abbia più niente da dire.

E dopo fra l’altro un incredibile girotondo narrativo sul finale…

Appiattimento

Zoe Saldana (Neytiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La mia più grande delusione della pellicola è stata sicuramente Neytiri.

Come l’avevo apprezzata nello scorso film, non posso dire lo stesso in questo caso, dove il personaggio perde totalmente la testa e si appiattisce anche parecchio, sempre vittima del poco screentime.

E la cosa peggiore è quando minaccia di morte Spider e la cosa non sembra così fondamentale per i personaggi, ad ulteriore dimostrazione che sono gli stessi protagonisti a schifare il suo personaggio…

Colmare vuoti logici

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La questione della poca furbizia dei Na’vi nel combattere, che non si rendono conto di essere dei giganti rispetto agli uomini e con abilità di combattimento molto più avanzate, era una questione che mi ero sempre posta per il primo film.

Ma non ci ho insistito, perché tutto sommato poteva anche tornare.

Invece ho preferito che questo problema fosse superato in questa pellicola, dove i Na’vi sono invece abili e capaci di utilizzare tutte le proprie risorse: veloci e in grado di schivare i proiettili, precisi nella mira con frecce che sono praticamente delle lance, imbattibili nel corpo a corpo.

E soprattutto finalmente capaci di rivolgere le armi da fuoco contro i loro nemici…

retcon, che passione! in Avatar – La via dell’acqua

Come ampiamente prevedibile, la pellicola è piena di retcon.

Alcune che tutto sommato funzionano, altre che mi hanno convinto proprio poco.

Complessivamente mi hanno convinto quelle riguardanti i figli: anche se la questione non è mai stata raccontata prima, il fatto che la Dottoressa Grace e il Colonnello Miles abbiano avuto dei figli off screen non è neanche così male.

Per certi versi un’inutile complicazione, ma non mi ha dato fastidio.

Molto meno convincente il fatto che si dichiari apertamente che gli enzimi dei toluk siano il nuovo oggetto del desiderio che tenga insieme tutta l’operazione, mentre ci sia dimenticati del tutto dell’unobtainium, che sembrava così fondamentale nella prima pellicola…

Autocitazionismo e checklist in Avatar – La via dell’acqua

Ad ulteriore conferma di una sceneggiatura poco pensata, si può notare che per molti versi la trama proceda per riciclo di idee e autocitazionismo.

Già lo scheletro narrativo è abbastanza simile: parte iniziale con introduzione della colonizzazione, parte centrale concentrata nella scoperta del mondo, lunga battaglia finale. Così i figli di Jake riprendono le sue orme del padre, mostrandosi assolutamente speciali e unici.

Oltre a questo, la questione del materiale prezioso che tiene tutto insieme è ribadita in maniera identica al primo, con anche il personaggio del Dottor Garvin, biologo marino della nave che caccia i toluk, che è la pallida ombra della Dottoressa Grace.

Per non parlare del finale assolutamente identico, una pura citazione…

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Avatar – Un capolavoro?

Avatar (2009) di James Cameron è l’ultima pellicola di questo regista (finora) e anche il maggiore incasso della storia del cinema. Infatti più che di film possiamo parlare di un effettivo fenomeno di costume, dovuto anche (ma non solo) all’incredibile lancio della tecnica del 3D.

La pellicola incassò infatti quasi 3 miliardi di dollari in tutto il mondo, a fronte comunque di un budget piuttosto consistente di 237 milioni di dollari, rischiando di essere scalzato solo da un altro incredibile evento cinematografico, Avengers Endgame (2019).

Da molti è considerabile un capolavoro.

Ma è così?

Di cosa parla Avatar?

In un futuro imprecisato, Jake Sully sostituisce il fratello defunto in un’ambiziosa operazione di colonialismo sul pianeta di Pandora, dove si trova un ambito giacimento di un metallo preziosissimo. E per questo deve farsi accettare dalla tribù locale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Avatar?

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

In generale, sì.

Col tempo ammetto che la mia opinione su questa pellicola si è molto ammorbidita, passando da un sincero odio fino ad un pacifico apprezzamento.

Non troverete in me una fanatica di questo film: lo considero un gran film di intrattenimento, con indubbiamente una tecnica innovativa e ambiziosa come quella del 3D, ma che io personalmente (anche al di là di questa pellicola) non apprezzo.

Se siete fra quelle pochissime persone che non hanno mai visto questa pellicola, vi consiglio di dargli una possibilità, senza aspettarvi niente di così clamoroso. Per me è un prodotto che per certi versi andrebbe ridimensionato, soprattutto davanti ad una tecnica che sicuramente era all’avanguardia, ma che non è invecchiata così bene come ci si potrebbe aspettare.

E forse ad un neofita oggi non farebbe lo stesso effetto…

Tuttavia, nonostante una lunghezza leggermente eccessiva, si parla di un film che intrattiene facilmente e che vale sicuramente la pena di recuperare.

Jake Sully: un protagonista perfetto

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Jake Sully è il protagonista più azzeccato fra quelli di Cameron.

Molto banalmente perché questo regista era ormai specializzato nel creare personaggi funzionali, e in questo caso ha fatto assolutamente centro con un protagonista che è incredibilmente accessibile, fallibile al limite del comico, ma che al contempo ha il coraggio di mettersi in gioco, anche nelle maniere più stupide e irresponsabili.

Insomma, un personaggio in cui lo spettatore può facilmente rivedersi e per cui viene facile fare il tifo.

Oltre a questo, presenta un’evoluzione, soprattutto emotiva, molto lineare e digeribile, quasi prevedibile, che non manca del classico racconto su come il nostro eroe sia speciale. E così, anche se impreparato, riesce a gestire le sfide meglio degli altri.

Oltre a questo, è un ottimo accompagnamento per lo spettatore nella scoperta di Pandora.

Raccontare la disabilità

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come ho avuto il piacere di scoprire recuperando la filmografia di questo regista, Cameron è molto attento a diverse tematiche sociali, soprattutto in Avatar.

In particolare ho particolarmente apprezzato la scelta di mettere al centro della vicenda un personaggio disabile, che soprattutto non ricadesse in quella sorta di patetismo molto tipico nel cinema occidentale – e anche di cattivo gusto.

In questo caso invece la disabilità del protagonista è un elemento importante della trama: anzitutto per una scena molto emozionante in cui il protagonista, dopo tanto tempo, può di nuovo godere dell’uso delle gambe e corre felicemente fuori dal laboratorio.

Al contempo, si accompagna ad un lato più drammatico, sia per le promesse del Colonnello per delle nuove gambe in cambio della sua collaborazione, sia quando Sully entra per la prima volta nella capsula e Grace cerca di aiutarlo, ma Sully sbotta faccio da solo.

Una rappresentazione molto genuina, che racconta le eccessive e inutili attenzioni che un disabile, magari del tutto autosufficiente come Sully, deve vivere ogni giorno.

Neytiri: una controparte non scontata

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Neytiri è allo stesso modo uno dei migliori personaggi femminili creati da Cameron.

Solitamente in questo tipo di prodotti, soprattutto se guardiamo a dieci anni fa, i personaggi femminili hanno un ruolo molto marginale e definito da pochi stereotipi molto ripetitivi. Invece Neytiri è un’ottima controparte del protagonista, che racconta in maniera davvero vincente le tradizioni e il sentimento del popolo a cui appartiene.

Oltre a questo, è un personaggio attivo, intraprendente, che ha un ottimo ruolo in tutta la vicenda e particolarmente negli scontri, dove mostra tutte le sue capacità, senza che questo appaia forzato.

Oltre a questo, ho particolarmente apprezzato che la relazione romantica con Jake non sia centrale alla vicenda: l’ho piacevolmente riscoperta, trovandola molto meno pesante e invadente rispetto ad altri prodotti.

Villain da barzelletta ma…

Stephen Lang in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non penso che molti avranno da ridire sul fatto che i villain di Avatar sono davvero una barzelletta.

Abbiamo da una parte il durissimo e temibile colonnello, con le sue ferite di guerra e i pettorali guizzanti, paragonabile per certi versi a Tiberius di Atlantis (2001), cattivo e piatto all’inverosimile. Dall’altra abbiamo il villain più politico, Parker: lo stereotipo nauseante del colonizzatore statunitense che non ha altro interesse che il guadagno.

Detto questo, sento di spezzare una lancia verso questi personaggi.

Perché è altrettanto evidente che sono assolutamente funzionali al dramma della trama: ci troviamo davanti a nemici terribili, con cui è impossibile discutere e che hanno un potere totalmente distruttivo, che si può solo sconfiggere.

E, soprattutto, come al solito Cameron ha privilegiato il lato estetico più che la profondità psicologica o la capacità attoriale degli interpreti.

Colonialismo e ecologismo in Avatar

Avatar può vantare due tematiche molto importanti: il colonialismo e l’ecologismo.

La parte riguardante il colonialismo è molto evidente: gli invasori, strettamente statunitensi, cercano di mettere le mani su un nuovo territorio con l’unica volontà di trarne il maggior profitto possibile. Ed è anche così evidente l’etnocrazia imperante del personaggio di Parker, quando dice:

Gli abbiamo costruito una scuola, gli abbiamo insegnato la nostra lingua

Sempre con l’idea che la società di provenienza, quella incredibilmente avanzata, sia l’unica giusta che deve cercare di portare un po’ di civiltà anche presso i selvaggi (come vengono ripetutamente chiamati).

Oltre a questo, a chiudere il cerchio la chiosa di Jake verso il finale:

Quando qualcuno è seduto su quello che vuoi, diventa il nemico

Ecologismo in avatar

Una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Altrettanto interessante il racconto dell’ecologismo.

Jake dice chiaramente che dal pianeta da cui veniva non c’era più verde, rappresentando quindi un approccio totalmente attuale (e coerente con la trama) in cui l’uomo ha spremuto la Terra quanto più poteva, così da trarne il maggior ricavo possibile.

E andando di conseguenza distruggerla.

Davvero una grande distanza rispetto alla popolazione dei Na’vi, che vivono in totale armonia con il loro pianeta, rispettandolo fino anche quasi all’ossessione.

Una concezione forse un po’ semplicistica, ma che funziona.

Avatar è un film invecchiato bene?

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Parto col dire che a me, del reparto tecnico di Avatar – né di altri prodotti – importa più di tanto.

Banalmente perché non è un aspetto che rappresenti un grande valore di un’opera, per vari motivi, anzitutto perché è un elemento che si può facilmente ridimensionare nel tempo, a differenza di altri aspetti.

Infatti secondo me complessivamente il reparto tecnico di Avatar è invecchiato bene – già solitamente i Na’vi sono incredibili – ma non manca di qualche elemento che non ha retto alla prova del tempo – e che magari ho notato solo io perché sono troppo pignola.

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Le due visioni recenti mi hanno confermato come nel primo atto percepisca un drammatico senso di horror vacui, nel senso più letterale del termine: la foresta mi sembra troppo spoglia e per certi versi sembra più preveniente da un videogioco che da un film.

Una sensazione che non ho più sentito per il resto della pellicola, ma che mi è rimasta molto impressa anche per il design dei Thanator, che in certe scene hanno quel fastidioso effetto lucido, tipico di un certo tipo di CGI non invecchiata benissimo.

E sono fortemente convinta che il lato tecnico di questo film sarà – anche involontariamente – ridimensionato con Avatar La via dell’acqua (2022).

E per ovvi motivi.

Perché il paragone fra Avatar e Pocahontas non ha senso

Questa è una delle polemiche più note e abusate riguardo a questa pellicola.

Per chi fosse vissuto sotto ad un sasso, molti accusano questa pellicola di avere una trama troppo esile e banale, troppo simile ad altri prodotti come appunto Pocahontas (1995) e Balla coi lupi (1990).

Ma per me è una polemica molto sterile.

Una trama semplice non rende un film di minore valore, perché il tutto dipende come la stessa si incasella all’interno del progetto complessivo e che tipo di profondità narrativa possiede.

Secondo me, come anche per la maggior parte dei film di Cameron, in Avatar la trama non gode di una particolare profondità narrativa – che non significa che sia un film piatto – ma è assolutamente funzionale al contesto.

E va bene così.

Per questo vi consiglio di provare a decontestualizzare le trame da film anche considerati universalmente capolavori, come per esempio Manhattan (1979).

Vi accorgerete che è un gioco ben più pericoloso di quanto sembri…

Avatar è un capolavoro?

Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con una persona che ha un’opinione opposta alla mia, così da presentare due punti di vista diversi sulla questione.

L’opinione de Il cinema semplice

Ho già ampiamente spiegato il mio punto di vista su cosa sia un capolavoro – concetto che, ribadisco, è molto fumoso e che non può essere definito in maniera netta e oggettiva. Stringendo molto il discorso, per me un capolavoro è un’opera che si distingue nettamente dal punto di vista artistico dal resto delle produzioni.

Per me Avatar, per quanto sia un ottimo film di intrattenimento e molto meno banale di quanto si racconti, non è un capolavoro.

E questo perché, pur essendo all’interno di una costruzione molto ambiziosa, presenta una trama che è ottimamente funzionale, ma che manca di profondità narrativa, personaggi – soprattutto i villain – che sono abbastanza piatti e prevedibili, e come pellicola non ha particolari meriti artistici.

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non posso neanche parlare di capolavoro di genere, perché non appartiene così nettamente ad un genere e, soprattutto, non sarebbe neanche così innovativo, lato tecnico permettendo, se volessimo confrontarlo col resto della produzione di film action, di avventura o di fantascienza.

Secondo questo stesso concetto, potrei parlare di un capolavoro tecnico – ma per me è un discorso che non ha senso, perché è un concetto totalmente aleatorio e ridimensionabile nel tempo.

Insomma, ne riconosco l’innovazione e l’assoluta importanza storica che ha avuto, ne riconosco il valore, ma non vado oltre.


L’opinione di Intothenerdverse

Perché Avatar è un capolavoro?

Questa la domanda a cui mi è stato chiesto di rispondere da Il.cinema.semplice, che ringrazio per avermi concesso questo piccolo spazio sul suo sito. 

So che molti hanno una loro idea di cos’è un capolavoro, quindi prima di andare avanti penso sia necessario dirvi la mia. 

Reputo un capolavoro un’opera che ha settato un nuovo standard, un prodotto che riesce ad imporsi nel suo ambiente di riferimento come spartiacque. Per forza di cose, davanti ad un capolavoro ci troviamo davanti ad un prima del capolavoro e un dopo il capolavoro, essendo un’opera che si pone a capo di tutto ciò che c’è stato prima e che diventa modello e fonte d’ispirazione per ciò che ci sarà dopo. 

Il capolavoro è qualcosa a cui ambire, qualcosa da prendere come modello e che insegna. Un’opera che sconfigge la prova del tempo, riuscendo a suscitare sempre lo stesso effetto anche visto dopo anni e anni dalla sua prima uscita e a stupire per l’incredibile forza prorompente che ha avuto nel suo ambito.

Il capolavoro porta nel cinema novità e cambiamenti che ne scuotono le fondamenta e lo cambiano per sempre. 

Perché Avatar è un capolavoro

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come con Jurassic Park a suo tempo, con l’uscita di Avatar cambia per sempre il modo di concepire l’effetto visivo: Cameron ha introdotto tecniche che hanno modificato il modo di pensarli e realizzarli, realizzando un film avanguardista che guardava al futuro con almeno dieci anni d’anticipo.

Guardato oggi, Avatar sembra un film girato domani. 

E sono veramente pochi al giorno d’oggi (e ci devo davvero pensare per trovarne) i film che riescono a raggiungere un livello di cura e resa tale sul grande schermo. Il mondo dell’effetto visivo è cambiato grazie ad Avatar, e, probabilmente, muterà ulteriormente con il successivo capitolo di questa saga.  

Avatar è un capolavoro per il modo in cui ha impattato l’industria cinematografica, aggiungendosi a quel gruppo di film che sono riusciti ad innovare e cambiare il modo di fare film e riuscendo ancora oggi ad insegnare che l’effetto visivo di oggi è solo un’evoluzione del cinema artigianale degli inizi.

Il cinema è stupore, meraviglia, intrattenimento e magia.

E Avatar, dopo anni dalla sua uscita, riesce ancora a farci rimanere di stucco, rimanendo increduli di fronte a ciò che il cinema è in grado di offrire.

E non importa tra quanti anni rivedrete questo film. 

Non smetterà mai di farlo.

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Avventura Azione Cult rivisti oggi Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Il cinema di James Cameron Recult Terminator

Terminator – Nato per un ruolo

Terminator (1984) di James Cameron è il primo capitolo della duologia omonima diretta dall’iconico regista, che portò poi ad altri quattro seguiti e tentativi di rilancio, non sempre vincenti…

Un film che è diventato facilmente iconico, grazie alla straordinaria scelta di un interprete come Arnold Schwarzenegger, che sembra veramente nato per il ruolo, e che al tempo era noto soprattutto nella scena culturista.

Un film prodotto con veramente pochissimo, appena 6,4 milioni di dollari, e che, per questo, fu un ottimo successo commerciale: 78 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator?

Un misterioso killer sembra prendere di mira donne dal nome Sarah Connor. Ma il suo vero obiettivo è piuttosto inusuale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terminator?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

In generale, sì.

Ammetto che è un film che mi ha entusiasmato meno di quanto mi aspettassi, ma sono stata colpita dagli elementi che l’hanno reso un cult, ovvero l’infinita tamarraggine e convinzione di Arnold Schwarzenegger.

Per il resto, è un film che può indubbiamente entusiasmare i patiti di film action, soprattutto datati, ma narrativamente parlando è abbastanza debole e leggermente ridondante. Tuttavia, non mi sento assolutamente di sconsigliarlo.

Potrebbe sorprendervi.

Nato per un ruolo

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

L’assoluto punto di forza della pellicola è proprio il suo villain, il Terminator. E, come detto, non poteva esserci un attore più adatto di Arnold Schwarzenegger per questo ruolo.

Sembra genuinamente che non stia neanche recitando, tanto che, quando il suo personaggio deve dimostrare la sua forza sovrumana, mi viene il dubbio che non ci fosse niente di finto…

D’altronde, l’attore era innanzitutto una star nel mondo del culturismo, e si era già fatto notare a livello internazionale per un ruolo non dissimile, nella duologia di Conan. Insomma, le sue scene, anche quelle più sopra le righe, le ho assolutamente adorate.

Una protagonista insipida

Linda Hamilton in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

La sua controparte positiva non si può dire altrettanto vincente.

L’attrice, Linda Hamilton, era al tempo giovanissima e ancora molto alle prime armi. La sua carriera, fra l’altro, non è mai decollata, restando sempre molto vincolata alla saga di Terminator.

Purtroppo, come protagonista fallisce soprattutto dal punto di vista dell’evoluzione: per la maggior parte della pellicola Sarah Connor è un personaggio indifeso e da salvare, che non ha fondamentalmente una volontà propria, ma che si lascia trasportare dagli eventi.

Il suo momento di evoluzione avviene troppo in fretta e troppo tardi, senza un’adeguata costruzione, portandoci ad una caratterizzazione finale poco credibile e che non giustifica quello che è stato raccontato sul suo futuro.

Fare molto con poco

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

Terminator è un altro ottimo esempio di quanto basta poco per fare molto.

Il tocco registico di Cameron si vede ampiamente nella messinscena affascinante, la fotografia suggestiva e la direzione delle scene di azione di grande impatto.

Quasi altrettanto vincente è il comparto trucco e degli effetti speciali: molto bella e credibile la sequenza in cui Terminator si cura il braccio, un pochino meno quando si apre l’occhio, quando è evidente (per ovvi motivi) che l’attore avesse addosso una maschera di gomma.

Non male anche Terminator nella sua forma metallica, anche se in certe scene sembra molto bidimensionale.

Nel complesso, un’ottima prova di un regista capace di rendere di valore anche un prodotto mainstream.

Un racconto ridondante

La trama di Terminator è purtroppo molto ridondante: è fondamentalmente un infinito inseguimento, puntellato da alcuni elementi di trama e dai grandi momenti di Arnold Schwarzenegger.

Soprattutto sul finale mi rimbombava nella testa uno degli insegnamenti fondamentali di Scream:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

Infatti, da certi punti di vista, la struttura narrativa è simile a quella di uno slasher, con il protagonista imbattibile e che sembra non morire mai.

Anche il recente Halloween Ends (2022) insegna…

I sequel dovuti

A differenza di altri prodotti che portarono ad infiniti sequel senza che ce ne fosse il minimo bisogno, come Lo squalo (1975) e Scanners (1981), questa pellicola è una miniera d’oro per sequel e spin-off.

Infatti, la trama del futuro è incredibilmente affascinante, e, soprattutto fatta con budget più consistenti, poteva portare a dei prodotti spettacolari. Ammetto di avere solo un vago ricordo di Terminator Salvation (2009) e abbastanza un buon ricordo di Terminator 2 (1991), quindi non posso giudicare nella sua interezza.

Ma i numeri parlano chiaro: fra i sequel, quelli andati meglio furono il secondo e il terzo, mentre i successivi, anche per via di un budget ben più consistente, ebbero risultati medi, fino a abbastanza mediocri con l’ultimo, Terminator – Destino Oscuro (2019).

Personalmente mi sarei aspettata risultati più vicini a quelli del recente rilancio di Jurassic Park

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eXistenZ – Are we still in the game?

eXistenZ (1999) è uno dei film minori di Cronenberg, che alla fine degli Anni Novanta e con decisamente meno budget raccontava un mondo non tanto dissimile da quello di Ready Player One (2018).

Il tutto, sempre con lo stile inconfondibile del regista.

Davanti ad un budget comunque non risicato (30 milioni di dollari), incassò, come tipicamente nella sua produzione, appena 2,8 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla eXistenZ?

In un mondo futuristico, le console di videogiochi sono diventate biologiche e si attaccano direttamente al corpo dei giocatori. In occasione dell’anteprima del nuovo gioco, la vita di Allegra Geller, la designer del videogioco, viene attentata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere eXistenZ?

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In generale, sì.

Personalmente è il film della produzione di Cronenberg che mi hanno meno convinto. In generale l’ho trovata una pellicola che, togliendo il suo principale elemento di fascino, è abbastanza sottotono.

Al contempo, è anche uno di quei prodotti che, se siete veramente innamorati dell’estetica di Cronenberg e della sua fantascienza corporea, è probabile che vi piaccia molto. Tuttavia, manca del mordente dal punto di vista tecnico (pochi elementi di effetti speciali materiali) e di profondità narrativa.

Raccontare un videogioco…a metà

Jennifer Jason Leigh in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

Un elemento non propriamente a mio parere ben sfruttato è quello della realtà del videogioco.

Per quanto complessivamente la storia sia credibile, pecca nella verosimiglianza del racconto dei cosiddetti NPC (Non Player Characters), ovvero quei personaggi dei videogiochi con cui il giocatore interagisce ma che sono di fatto dei bot.

Non so quanto fosse profonda la conoscenza del regista al riguardo e quanto di fatto gli interessasse, ma avendo in mente altri prodotti con storie analoghe mi è personalmente dispiaciuta questa mancanza. Più che altro sembra che i protagonisti siano immersi in una sorta di storia di spy story piuttosto intricata, più che all’interno di un effettivo videogioco.

Così il fatto che tutti i personaggi fossero a modo loro dei giocatori è indubbiamente funzionale alla narrazione, ma poco credibile sempre nel contesto videoludico: il videogiocatore vive per essere il protagonista, non il personaggio secondario.

Insomma, da questo punto di vista si poteva fare decisamente di meglio.

La costruzione a scatole cinesi

Willem Dafoe in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

La costruzione a scatole cinesi, per cui non si sa mai quando i personaggi sono nella realtà e quando nel videogioco, l’ho trovato al contrario molto interessante. Ed è un elemento che funziona così bene anche perché il contrasto fra illusione e realtà è il pane quotidiano di Cronenberg fin da Videodrome (1983).

Di fatto i personaggi (e di conseguenza anche lo spettatore) non hanno mai la sicurezza di essere nella realtà vera, ma al contrario si perdono in diversi livelli di realtà virtuale, in un labirinto da cui sembra impossibile uscire.

E per lo stesso motivo il cliffhanger finale l’ho trovato anche molto indovinato.

Ancora il corpo

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In questa pellicola ho poco apprezzato gli effetti speciali e la gestione della corporeità in generale.

Per come è messo in scena, per certi versi questo film mi è sembrato il sogno di un feticista, sia per i game pod, che sono accarezzati e trattati quasi sessualmente (e infatti sembrano quasi dei seni), ma soprattutto la bioporta.

Fra tutti i modi in cui avrebbero potuto mostrarle, chissà come mai le bioporte hanno una forma così caratteristica e sono proprio vicino al fondo schiena, oltre ad essere penetrati da un elemento dalla forma così fallica.

E soprattutto il modo in cui il gamepod è preparato per essere inserito nella bioporta.

Signor Cronenberg, anche meno.

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Videodrome – Un sogno complottista

Videodrome (1983) è un film di David Cronenberg, fra i più famosi della sua produzione. A soli due anni dal precedente Scanners (1981), il regista portava in scena un altro film destinato a diventare un piccolo cult di genere, per il suo incontro vincente fra lo sci-fi e il body-horror.

Una produzione con un budget sempre risicatissimo (intorno ai 5 milioni), che però, a differenza del precedente, fu un pesante flop commerciale: appena 2,4 milioni di dollari d’incasso.

E i motivi non sono difficili da capire.

Di cosa parla Videodrome?

Max è a capo di Channel 83, un canale di porno e soft-porn. La sua vita sembra procedere normalmente, andando alla ricerca di programmi ancora più spinti da proporre, fra cui il misterioso Videodrome…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Videodrome?

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

È un film che indubbiamente non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, soprattutto se siete interessati alla cinematografia di Cronenberg.

Tuttavia, aspettatevi di trovarvi davanti ad un prodotto con un intreccio e dei significati ben più complessi di Scanners e molto meno immediatamente comprensibile, con tante scene enigmatiche e dal sapore surreale.

È giusto segnalare che all’interno della pellicola le scene più disturbarti non sono tanto quelle di sesso, ma quelle di tortura. Niente di troppo esplicito, ma comunque neanche digeribile da tutti.

Ma voi provateci.

E se avete dubbi sul finale, potete sempre tornare qui.

Perché Videodrome è stato un flop?

All’interno di una produzione di Cronenberg ancora con budget molto ridotti, è davvero curioso che questo film ebbe un riscontro così scarso, tanto da portarlo ad un flop.

Tuttavia, una volta visto il film, non è neanche tanto strano.

Oltre alle scene di violenza non facilmente digeribili, ci sono molte sequenze di body horror non poco disturbanti, e che sembrano tutto tranne che finte. E, come se tutto questo non bastasse, il finale è incredibilmente enigmatico.

Il tutto da un autore già conosciuto per far dei film molto sui generis, e quindi non per tutti i palati.

E, per questo, il passaparola negativo potrebbe davvero averlo affossato.

Il potere del trucco prostetico

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

Il livello degli effetti speciali di questa pellicola, che, ricordiamo è stata prodotta con pochissimo, è devastante: in tutte le scene in cui sono utilizzati, soprattutto in quelli più surreali, non ho mai avuto un momento in cui non credevo a quello che vedevo in scena.

Sembra tutto così realistico e credibile, anche in scelte più impegnative come quelle in cui Max si apre il petto e diverse volte viene penetrato, da mani e da videocassette, momenti in cui ho sentito veramente tutto il dolore del personaggio.

Per non parlare degli effetti della mano-pistola.

Tuttavia, proprio riguardo a questo, l’unico momento in cui ho fatto fatica a sospendere l’incredulità è stato quando gli si forma effettivamente la mano-pistola, dove si vede abbastanza chiaramente che (come è ovvio) non è la sua vera mano e che poi nella scena successiva, è effettivamente la mano vera:

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano che si trasforma

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano trasformata

Un ottimo protagonista

Come ero rimasta perplessa dalla recitazione e in generale dal personaggio protagonista di Scanners, sono rimasta invece piacevolmente sorpresa da James Woods in questa pellicola.

Questo attore, oltre ad avere la faccia proprio da uomo comune assolutamente credibile, riesce a reggere perfettamente la scena in tutti i momenti diversi che deve affrontare il suo personaggio, con un’ottima capacità espressiva che mi ha davvero conquistato.

Cosa succede nel finale di Videodrome?

Il finale di Videodrome è assolutamente aperto alle interpretazioni.

Quella che preferisco è pensare che Nicki in realtà non sia mai esistita, ma sia sempre stata un’allucinazione di Max (almeno per la loro relazione), che racconta il suo lato più estremo, che il protagonista cerca di sfuggire.

Alla fine, Nicki diventa nient’altro che una sorta di sua voce della coscienza: Max si trova senza poter più fare niente, ricercato per omicidi che compiuto per ordine di altri. Quindi vuole definitivamente liberarsi della vecchia carne ed entrare in questo immaginario (?) televisivo che rappresenta la sua più estrema fantasia sessuale.

E lo confermerebbe il primo epilogo, poi tolto dalla versione finale, dove Max e Nicki si trovavano nel Videodrome.

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Il dormiglione – La distopia comica

Il dormiglione (1973) è uno dei primi film di Woody Allen, il primo in cui cercò di portare un’opera più strutturata rispetto ai film precedenti.

Fu anche la pellicola che inaugurò il duraturo sodalizio artistico (e amoroso) fra il regista e Diane Keaton, che sarà protagonista di molti altri progetti, fra cui Io e Annie (1977) e Manhattan (1979).

Questo film fu anche la conferma positiva del riscontro di pubblico di Allen: a fronte di un budget di 2 milioni, incassò 18,3 milioni di dollari, proprio come il precedente Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972).

Di cosa parla Il dormiglione?

Miles Monroe si sveglia a 200 anni di distanza in un mondo totalmente cambiato, e vive la sua nuova vita fra i tentativi di ambientarsi in questa realtà alienante e la volontà di partecipare alla ribellione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il dormiglione?

Woody Allen in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

In generale, sì.

Il dormiglione è un film dal sapore distopico, ma fondamentalmente è un prodotto umoristico, con pesanti influenze del cinema muto.

Anche se la trama si presterebbe, non ci si deve tanto aspettare un film di avventura o con tinte drammatiche, ma in tutto e per tutto un’avventura comica, per certi versi simile a Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971).

Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, è un film molto simpatico e piacevole, soprattutto se ci si aspetta un tipo di comicità tipica del primo Allen, che ben si adatta al contesto fantascientifico e futuristico.

Una comicità ancora limitata

Woody Allen in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

Personalmente non apprezzo in toto la comicità della prima produzione di Woody Allen.

Mi intrattiene quando ha dei toni più surreali come in Prendi i soldi e scappa (1969), meno quando è più semplice e che mima appunto la comicità dei film muti, come il già citato in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere).

Queste piccole inserzioni ispirate proprio a quel genere di film le ho trovate leggermente ridondanti alla lunga, anche se non per questo non apprezzabili e sicuramente ben realizzate. D’altronde sono lo strumento principale con cui Allen cerca di sdrammatizzare i toni in questa pellicola, che potrebbe averne di molto più drammatici.

Devo però ammettere che ho riso di gusto sul finale quando Miles prova a sparare al naso del dittatore.

Un’esplosiva Diane Keaton

Diane Keaton in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

Come detto, questo fu il primo film del sodalizio fra Allen e Keaton. Ed è incredibile vedere due attori che sono sulla stessa lunghezza d’onda: straordinariamente espressioni, sperimentali, senza freni.

Come mi ero abituata all’esplosività del regista come attore, Diane Keaton mi ha piacevolmente sorpreso.

Anche se forse era ancora un in parte attorialmente acerba (fino a quel momento la sua interpretazione più importante era nella saga de Il Padrino), riesce perfettamente a destreggiarsi nei vari aspetti del suo personaggio.

Insomma, un ottimo inizio.

Una fantascienza minimale

La fantascienza di questo film è ancora lontana da quella più creativa e piena di prodotti successivi, come in parte Star Wars (1977) e poi di cult come Alien (1979) e Blade runner (1982).

Al contrario troviamo un’estetica meno fantasiosa e meno alienante, che non vuole raccontare un mondo tanto diverso da quello presente dello spettatore, aggiungendo solo degli elementi paradossali con un preciso effetto comico.

In generale la pellicola si diverte ad esplorare questo nuovo mondo e le sue bizzarrie, prendendosi ampio tempo anche a discapito della trama.