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Vertigo – Giù la maschera!

Vertigo (1958) – noto in Italia con un titolo ben più spoileroso – è una delle opere più importanti ed iconiche della filmografia di Hitchcock.

Un film dove questo regista cominciò davvero a sperimentare con l’elemento orrorifico, poco anni prima di approdare al suo capolavoro, Psycho (1960).

A fronte di un budget medio – 2,3 milioni di dollari, circa 26 oggi – incassò piuttosto bene: 7,3 milioni di dollari – circa 27 milioni oggi.

Tuttavia, l’accoglienza da parte di pubblico e critica fu abbastanza tiepida, e la pellicola venne rivalutata solo successivamente.

Di cosa parla Vertigo?

John Ferguson è un poliziotto in pensione, che si è ritirata per la sua terribile paura delle altezze. E improvvisamente viene coinvolto in una storia piuttosto strana e terrificante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Vertigo?

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Vertigo è una delle sperimentazioni più interessanti della filmografia di Hitchcock, in cui riesce a costruire una tensione eccezionale, e a rendere lo stesso spettatore in qualche modo complice delle vicende raccontate.

Un film in cui l’orrore, il surreale e il thriller psicologico si incontrano, per dare vita ad un’opera incredibilmente coinvolgente e piena di colpi di scena, dove niente è come sembra…

Insomma, non ve la potete perdere.

Via all’orrore

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Un inizio improvviso, orrorifico, ma anche assai rivelatorio, ci immerge immediatamente in Vertigo.

Il sogno – ma anche il ricordo – di John nella fatidica notte in cui perse non solo un collega, ma anche la sua carriera da poliziotto. Una sequenza genuinamente angosciante, che ci racconta in pochi frame la profondità della fobia del protagonista.

Segue un quadretto domestico ben più sereno, dove i colori freddi e opprimenti dell’incipit vengono sostituiti da tinte più delicate e confortevoli, in particolare sul personaggio di Midge.

Ma la tranquillità della scena, che appare quasi comica, viene spezzata sul finale: quando John vuole dimostrare di poter superare la sua paura, un’inquadratura improvvisa ci svela la sua soggettiva sulle altezze vertiginose fuori dalla finestra…

L’inspiegabile

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Il tranello di Gavin – e della regia – è messo in scena alla perfezione.

Lo stesso prima viene introdotto a parole dal marito apparentemente preoccupato, poi Kim Novak riesce efficacemente a portare in scena questa donna malinconica e sfuggente, definita anche dai numerosi particolari del suo alter ego.

Come per Notorious (1946), infatti anche in questo caso Hitchcock mette in risalto i dettagli della scena, accentuando l’intensità delle inquadrature con delle enigmatiche soggettive, che riescono ancora di più ad immergere lo spettatore nella scena.

La donna impossibile

Kim Novak in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Di solito non sono una grande fan del cosiddetto instant love.

Preferisco una costruzione più articolata della nascita dell’amore fra due personaggi, che sia basato su basi ben più solide del classico colpo di fulmine, a cui segue spesso uno sviluppo della relazione molto banale.

Nel caso di Vertigo è una scelta perfetta.

Hitchcock è riuscito a dirigere un’attrice già di una bellezza sconvolgente come Kim Novak, e a portarla in scena come la donna magnetica e irresistibile, di cui è impossibile non innamorarsi…

Per questo, la reazione del protagonista è del tutto giustificata.

Kim Novak in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Altrettanto Hitchcock abilmente riesce a distruggere questa immagine, distorcendo il volto della donna con un trucco che di per sé non la imbruttisce affatto, ma la spoglia di quel candore che la caratterizzava al momento dell’innamoramento, rendendola quasi irriconoscibile.

Il terzo atto è proprio dedicato alla ricostruzione del personaggio.

Dal momento che John si era innamorato di Madeleine per la sua folgorante bellezza, dimostra tutta la sua pericolosa ossessione nel voler toccare e vedere la stessa donna di cui si era innamorato, anche a discapito della felicità di Judy.

Una ricostruzione che è solo l’anticamera dell’inevitabile distruzione…

Giocare con lo spettatore

Barbara Bel Geddes in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

In Vertigo, forse più che in ogni altra sua pellicola, Hitchcock dialoga con lo spettatore.

Anzitutto perché alla fine lo stesso si rende conto che almeno due elementi della trama erano molto meno fondamentali di quanto sembrasse. In primo luogo, Midge, il cui aspetto è molto simile a quello di Kim Novak.

E infatti è proprio il suo personaggio ad instillare il seme del dubbio nello spettatore: e se la tanto cara e innocente amica di John fosse in realtà la stessa Madeleine sotto mentite spoglie?

E invece alla fine si rivela per quello che è: un personaggio sostanzialmente di contorno, che scompare dalla scena nel terzo atto.

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Allo stesso modo Gavin non è altro che l’artefice dell’inganno per sbarazzarsi della moglie, con una trama in cui John è stato coinvolto come mero strumento. Quindi lo stesso personaggio innesca la trama e le conseguenze per John, ma, alla fine del secondo atto, scompare anche lui.

In ultimo Hitchcock sceglie di non affidare la rivelazione del mistero al colpo di scena finale, ma di rendere lo spettatore complice del tranello di Judy, mostrandolo in un momento di debolezza della stessa, che però viene nascosto al protagonista.

In questo modo, il finale ha ancora più effetto.

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La congiura degli innocenti – L’altro Hitchcock

La congiura degli innocenti (1955), traduzione piuttosto evocativa del titolo originale The trouble with Harry, è uno dei prodotti meno noti e anche più atipici – ma tipici insieme – della filmografia di Hitchcock.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 13,5 oggi – incassò tutto sommato abbastanza bene: 3,5 milioni, circa 39 oggi.

Di cosa parla La congiura degli innocenti?

Durante una battuta di caccia, il capitano Wiles pensa di aver ucciso un uomo. Ma è solo l’inizio di un’incredibile avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La congiura degli innocenti?

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dipende.

La congiura degli innocenti è un film veramente particolare, che racconta un lato meno esplorato della filmografia di Hitchcock, pur sempre presente in sottofondo nei suoi prodotti precedenti: l’humor nero, in questo caso apertamente surreale.

Davanti al ritrovamento di un cadavere, ci si aspetterebbe una certa reazione dai personaggi di Hitchcock. In realtà, per vari motivi che vengono svelati durante la pellicola, le varie figure che si susseguono hanno delle reazioni imprevedibili, ma incredibilmente sensate…

Insomma, se vi piace il genere, lo adorerete.

The trouble with harry

Se non avete mai visto La congiura degli innocenti, vi consiglio caldamente di guardarlo in lingua originale.

Infatti la pellicola si basa su un’ironia piuttosto sagace, originata per la maggior parte da giochi di parole spesso intraducibili. Inoltre, senza conoscere il titolo originale, si perde il senso della conclusione.

Insomma, per apprezzarlo appieno, non rischiate!

Un omicidio inaspettato

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dopo un paio di inquadrature funzionali a raccontare l’ambiente – una minuscola comunità rurale – ci viene immediatamente introdotta la vicenda, con il simpatico Capitano che si accorge di aver ucciso un uomo.

Un evento che in altre circostanze avrebbe portato ad un picco drammatico, in questo caso porta ad una prima scenetta comica, dal sapore molto surreale: tutti gli abitanti della città – ad eccezione dello sceriffo e della bottegaia – passano vicino al cadavere.

E ognuno di questi sembra essere fondamentalmente disinteressato o per nulla preoccupato, ma ognuno con una motivazione chiara che verrà rivelata più avanti.

Oggetti (e personaggi) di valore

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Durante la pellicola diversi oggetti passano di mano in mano, ognuno con un valore preciso.

Le scarpe di Harry, il coniglio morto, l’album da disegno…

Ed insieme agli oggetti, si muovono anche i personaggi, le cui vicende si intrecciano in maniera inaspettata e sorprendente, con un susseguirsi di gustosissimi colpi di scena, che rivelano a mano a mano tutti gli elementi della vicenda.

Così l’incontro fra il Capitano e Sam porta al dialogo con Jennifer e allo scoprire l’identità di Harry, il consumarsi dell’appuntamento fra il Capitano e Miss Gravely alla vera natura del delitto, e a un continuo sotterrare e dissotterrare il corpo…

Shirley MacLaine e John Forsythe in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Di conseguenza, anche la colpa – e così il motore dell’azione – passa da personaggio in personaggio.

Prima il Capitano che deve nascondere il delitto, poi Miss Gravely che deve discolparsi, infine Sam che deve sposarsi. Ma proprio alla fine, quando quest’ultimo diventa responsabile dell’ennesimo – e per fortuna ultimo – dissotterramento del corpo, riesce a ricompensare tutti per il loro silenzio.

Infatti, invece che tenersi entrambi i premi per sé – la nuova moglie e i soldi dalla vendita dei dipinti – sceglie di premiare ognuno dei personaggi, come una sorta di premio di partecipazione per averlo aiutato nel suo obbiettivo.

Che l’ironia continui!

Royal Dano in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Soprattutto sul finale, la colonna sonora stessa racconta la natura del film.

I temi più tipici che facevano da cornice sonora ai classici thriller alla Hitchcock, vengono smorzati da delle tonalità più scanzonate. Così, l’ironia nerissima – ma nondimeno gustosa – che domina la scena sembra poter finire da un momento all’altro.

Infatti, sul finale viene introdotto un elemento di disturbo, lo sceriffo che cerca di fare luce sulla storia e, in maniera quasi metanarrativa, rovinare la festa e mettere fine all’ironia della storia.

Al punto che lo spettatore non solo non vuole che i personaggi vengano puniti, ma pretende che si mantenga fino alla fine il taglio umoristico che finora aveva dominato. E per fortuna la vicenda si chiude come si è aperta, e con una chiosa piuttosto simpatica:

The trouble with Harry is over.

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Avventura Azione Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Giallo Star Wars - Trilogia prequel

Star Wars: L’attacco dei cloni – Il capitolo della resa

Star Wars: L’attacco dei cloni (2002) di George Lucas è il secondo capitolo della cosiddetta trilogia prequel.

Il budget fu lo stesso del primo capitolo – 115 milioni – ma guadagnò quasi la metà: appena 645 milioni di dollari.

Di cosa parla Star Wars: L’attacco dei cloni?

Dieci anni dopo Episodio I, Anakin è un giovane Padawan pieno di dubbi, e che non riesce a smettere di pensare a Padmé…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Star Wars: L’attacco dei cloni?

Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Dipende.

Nonostante complessivamente abbia apprezzato un pochino di più questo capitolo rispetto al precedente, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca. In questo film infatti si intraprende definitivamente la via più banale e meno interessante per raccontare un personaggio essenziale come Anakin.

Tuttavia, perlomeno il film dedica uno spazio importante ad Obi-Wan, con una storyline complessivamente interessante – soprattutto nel complesso della lore di Star Wars. Non un elemento che riesce a risollevare il mio entusiasmo, ma sicuramente meglio della noia che mi ha procurato il primo capitolo…

Insomma, se volete affrontare la trilogia prequel fino in fondo, dovete passare anche di qua.

Manca un pezzo?

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Cominciando L’attacco dei cloni, ho avuto un senso di vuoto.

Mi è stata sostanzialmente confermata la sensazione che Episodio I sia un prodotto sprecato, almeno per quanto riguarda la caratterizzazione del protagonista – che era l’elemento centrale nella trilogia originale.

Infatti, Anakin ci racconta tutte le sue problematiche e i suoi dilemmi solamente a parole, affrontando anche questioni piuttosto importanti – il sentirsi pronto all’essere un maestro ma non poterlo diventare, il suo sentirsi sottovalutato…

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Insomma, l’idea alla base di questo capitolo centrale era di mostrare una maturazione – anche negativa – del personaggio, in particolare attraverso il tentativo di ricongiungimento tanto desiderato con la madre.

Tuttavia, neanche in questo caso a mio parere si è fatto centro: mi viene onestamente da chiedermi cosa servisse questa costruzione estremamente melodrammatica, se non a portare, ancora una volta, alla più banale caratterizzazione del personaggio come spietato e schiavo delle emozioni.

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Rimango insomma dell’idea che manchi un pezzo fondamentale, che permettesse di rendere veramente tridimensionale questo importantissimo personaggio, che è stato fondamentalmente rovinato da una scrittura poco indovinata e da una recitazione molto approssimativa.

Tanto più che di fatto Anakin non è altro che un ragazzino, pieno di emozioni e incapace di canalizzarle correttamente. Ormai purtroppo con questo capitolo mi sono arresa all’idea che questa sia la strada scelta, ma non posso che soffrire la mancanza di un approccio ben più profondo e vincente…

Un amore senza basi

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Per lo stesso motivo di cui sopra, la storia d’amore è monca.

Era evidente che Lucas avesse bisogno di questa relazione per giustificare quanto successo dopo, ma si è dimenticato di introdurla. Infatti, mi vengono i brividi anche solo a pensare che l’innamoramento sia sbocciato quando Anakin era ancora un bambino…

Ho percepito la volontà di Lucas di togliere questo pensiero dalla mente dello spettatore: all’inizio Padmé vede Anakin ancora come un bambino. Tuttavia, questo elemento si mette facilmente da parte davanti all’evidente insistenza del ragazzo – e nient’altro…

Al contempo, ho trovato del tutto ingiustificata la reazione della ragazza quando il futuro Darth Veder le racconta di aver sterminato un intero villaggio, anche di innocenti, evidente foreshadowing della sua malvagità.

Un elemento chiarissimo allo spettatore, non pervenuto per Padmé…

Per fortuna c’è Obi-Wan

Ewan McGregor in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Ma, nonostante tutto, Episodio II mi è piaciuto più del precedente.

Oltre al fatto che la trama politica sembra molto meno fine a sé stessa e già più interessante, ho trovato anche piuttosto intrigante la storyline di Obi-Wan, con la sua caccia al mistero – e ai cloni – piena di tensione e di colpi di scena.

Forse uno degli elementi più vincenti della trilogia prequel è stato infatti il riuscire ad approfondire questo personaggio – che aveva uno screentime piuttosto limitato in Una nuova speranza e – finora – un passato assai misterioso.

Al contempo però ho poco apprezzato il continuo e costante contrasto, quasi velenoso, fra Obi-Wan e il suo Padawan: ne comprendo la funzione, ne comprendo i fini, ma mi sembra ancora una volta scegliere la via più facile e banale…

Sempre alla fine…

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Come per il precedente, tutta l’azione è concentrata nel finale.

E ancora una volta mi sono trovata davanti ad un lungo ed impegnativo combattimento conclusivo, che ho trovato personalmente sempre troppo dispersivo e troppo lungo, risvegliando il mio interesse effettivamente solo negli ultimi momenti.

In particolare, con lo scontro fra Yoda e Doku.

Uno duello davvero emozionante e pieno di colpi di scena, che riporta al centro della scena uno dei miei personaggi preferiti – Yoda – che purtroppo arriva dopo una sequela combattimenti molto meno soddisfacenti, financo ridicoli pensando al comportamento di Anakin…

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Caccia al ladro – Un mistero amaro

Caccia al ladro (1955) è uno dei titoli meno noti di Hitchcock, che si differenzia dal resto della sua produzione anche per non avere al centro della trama un omicidio, ma una serie di furti.

Con un budget abbastanza contenuto – 2,5 milioni di dollari, circa 28 milioni oggi – ebbe un riscontro buono, ma abbastanza contenuto: circa 9 milioni di dollari – circa 100 milioni oggi.

Di cosa parla Caccia al ladro?

Una serie di furti terrorizza la Costa Azzurra, e tutti i sospetti riconducono all’ex topo di appartamento, John Robie. Ma lui si dichiara innocente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Caccia al ladro?

In generale, sì.

Anche se non la considero personalmente una delle opere più brillanti della produzione hitchcockiana, è un film incredibilmente piacevole e intrigante, grazie soprattutto al magnetismo dei due attori protagonisti, Cary Grant e Grace Kelly.

Forse l’elemento che mi ha meno convinto è lo scioglimento della vicenda: con una costruzione del mistero e della tensione tale da tenere lo spettatore incollato allo schermo, la rivelazione finale l’ho trovata un po’ sbrigativa…

Ma comunque ve lo consiglio.

E un urlo squarciò la scena…

L’inizio di Caccia al ladro mi ha piuttosto sorpreso.

Mentre stavo seguendo, anche leggermente annoiata, gli infiniti titoli di testa, mi aspettavo un’apertura che mantenesse la stessa atmosfera languida e serena. Niente di più sbagliato: un urlo terribile squarcia la scena, e ci immerge subito nella tensione della storia.

Un susseguirsi di momenti rapidissimi, che ci permettono di inquadrare perfettamente la scena e la situazione, con i diversi furti che terrorizzano la Costa Azzurra. In chiusura, un articolo di giornale ci introduce il protagonista, John Robie – nomen omen – ex-galeotto.

E uno splendido aggancio visivo – il gatto nero che vediamo sia sul tetto, sia sul divano del protagonista – accompagna all’effettiva introduzione protagonista, di cui sappiamo già moltissimo senza che sia ancora entrato in scena.

E, anche quando appare, il suo atteggiamento, osservatore e schivo, lo avvicina alla figura del felino. Ma subito mostra anche la furbizia di una volpe, riuscendo ad orchestrare un’abilissima fuga, articolata in diversi ed imprevedibili – per noi e la polizia – colpi di scena.

Una MacGuffin?

Dopo La finestra sul cortile (1954), Hitchcock tornò a lavorare con Grace Kelly, scrivendole un personaggio anche più interessante rispetto al precedente film.

Forse anche troppo.

Francie è una coprotagonista che viene introdotta a piccolissimi passi: prima appare come misteriosa donna che osserva il protagonista in spiaggia, poi riappare alla cena dell’hotel, rimanendo in silenzio per molto tempo…

Non so se fosse effettivamente nelle intenzioni di Hitchcock, ma portare in scena un personaggio così enigmatico, ma anche fortemente intraprendente – da ogni punto di vista – me l’ha resa fin da subito il principale sospettato per il nuovo Gatto.

Soprattutto per la intrigantissima e perfettamente orchestrata scena dell’inseguimento in macchina, che si conclude con il primo colpo di scena: Francie conosce la vera identità di John.

Ma la vera rivelazione…

Una rivelazione poco interessante

Nonostante, ripensandoci a posteriori, effettivamente ha perfettamente senso che Danielle sia la colpevole, il finale mi è risultato poco soddisfacente.

Infatti, nonostante tutta la costruzione sia coerente e logica, con anche il colpo di scena sul fatto che sia una donna – come nessuno aveva prima sospettato – e con anche la creazione di una tensione perfetta sul finale…

…non si lascia abbastanza spazio per raccontare meglio la rivelazione, magari facendo anche un puntuale riepilogo di tutti gli indizi che hanno portato a smascherarla, un racconto del suo destino e delle sue intenzioni.

Insomma, sarei rimasta più soddisfatta se avessero meglio approfondito l’elemento centrale della trama…

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La finestra sul cortile – Spiare un delitto

La finestra sul cortile (1954) è uno dei film più noti della filmografia di Hitchcock, nonché uno dei miei preferiti.

In maniera piuttosto prevedibile, dato i pochi spazi utilizzati e il cast di principali piuttosto ridotto, il budget è di appena 1 milione di dollari (circa 12 milioni oggi). E incassò veramente benissimo: 37 milioni in tutto il mondo (circa 463 oggi).

Di cosa parla La finestra sul cortile?

L’avventuroso fotoreporter Jeff è costretto sulla sedia a rotelle dopo un brutto incidente. Nella sua ultima settimana di ricovero in casa, nota qualcosa di strano che accade nell’appartamento di fronte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La finestra sul cortile?

Assolutamente sì.

La finestra sul cortile è una delle sperimentazioni più interessanti di Hitchcock, che aveva già in parte messo in scena nel precedente Nodo alla gola (1948) – con protagonista sempre James Stewart, ormai attore feticcio.

Il film si svolge all’interno di un unico ambiente, esplorando il circondario tramite un abilissimo uso della soggettiva, con l’inserimento di piccole storie autoconclusive dal forte sapore umoristico.

Inoltre, la costruzione della tensione è superba, narrativamente e registicamente integrata in maniera eccellente nella storia, rendendo questa pellicola il perfetto esempio di thriller alla Hitchcock.

Inquadrare il protagonista

L’incipit de La finestra sul cortile è uno dei migliori di tutta la filmografia hitchcockiana.

Anzitutto una carrellata rivelatoria ci racconta, in pochi secondi, moltissimo del protagonista: un fotoreporter d’assalto, particolarmente appassionato del suo lavoro, ma che rischia continuamente la sua vita per ottenere scatti spettacolari.

La sua situazione viene anche meglio inquadrata dalla telefonata con il suo caporedattore: con una simpatica gag, scopriamo che Jeff è all’ultima, noiosissima settimana di ricovero domestico.

In ultimo, l’arrivo di Stella, l’infermiera, ci racconta le intenzioni del protagonista, continuamente indaffarato a spiare – con un gusto non poco voyeuristico – i suoi vicini e a seguire le loro vicende, fra il comico e grottesco.

Ma dal loro dialogo emerge anche un altro elemento importante.

Una donna in posa?

Avere fra le mani un’attrice così magnetica come Grace Kelly non era cosa da poco.

Il suo personaggio viene introdotto dallo scambio fra Stella e Jeff, in cui l’infermiera rimprovera il protagonista per non essere in grado di suggellare la relazione con la ragazza – da subito definita meravigliosacon il tanto sospirato matrimonio.

All’inizio sembra insomma che il rapporto fra Jeff e Lisa sia antagonistico.

Ma la prima apparizione del personaggio racconta anche altro: a livello sentimentale e – soprattutto – sessuale, Jeff e Lisa hanno un’intesa profonda ed evidente, complice anche l’aspetto così delicato, ma anche fortemente attraente, della ragazza.

Il conflitto riemerge da alcuni scambi fra i due, in cui entrambi raccontano il loro rifiuto di abbandonare il proprio stile di vita attuale: da una parte un’esistenza abbastanza superficiale e mondana, dall’altra una vita avventurosa e piena di pericoli.

Apparentemente, i due sono incompatibili.

Sulle prime Hitchcock sembra sfruttare l’incredibile presenza scenica di Grace Kelly, mettendola in non poche scene in posa. E così sembra anche che il suo personaggio sia ridotto ad un mero vezzo estetico…

Per fortuna non è così.

Il loro rapporto si risolve perché Lisa – anche abbastanza indipendentemente da Jeff – si dimostra davvero intraprendente: va a caccia di indizi, fornisce al protagonista delle informazioni fondamentali, rischia la sua stessa vita infilandosi nell’appartamento dell’assassino, arrivando persino ad ingannarlo.

Insomma, la ragazza si dimostra ben più intelligente, acuta e intraprendente di quanto Jeff avrebbe mai immaginato – anche sottovalutandola, evidentemente. E, nella migliore delle ipotesi, questa piccola avventura sancirà un loro ricongiungimento.

Tante piccole storie

La costruzione narrativa de La finestra sul cortile è di rara eleganza.

Hitchcock non vuole introdurre immediatamente – e smaccatamente – il delitto e il colpevole, ma lo nasconde in un folto gruppo di personaggi secondari, le cui vicende continuano per tutta la pellicola.

Troviamo diverse figure, meno tipizzate di quanto potrebbe sembrare: l’ape regina – che in realtà è sposata con un militare – la donna solitaria – che ritrova l’amore tanto cercato nell’altrettanto solitario pianista – la coppia focosa

La presenza di queste storyline, apparentemente del tutto accessoria, è in realtà fondamentale: oltre ad offrire maggiore profondità allo spazio scenico, regala qualche momento di leggerezza e elegante ironia.

E in una storia così ricca di tensione, è un comic relief essenziale.

Costruire la tensione

Inizialmente la storia di Lars non sembra tanto diversa da quella dei suoi vicini: una velenosa vicenda matrimoniale, in cui la moglie, indisposta a letto, bullizza e deride il marito, che sulle prime sembra anche incapace di tenerle testa.

Il punto di svolta è quella fatidica notte, che, in linea con i migliori noir, racconta un delitto che si consuma nell’ombra, e le cui prove sono del tutto indiziarie. E la tensione è già perfetta proprio in questa sequenza, in cui il protagonista cerca di non addormentarsi per seguire i movimenti di Lars…

Il mistero è dinamico ed intrigante: il protagonista continua a osservare attentamente le azioni del suo sospettato, sentendosi pronto all’azione e all’intervento a parole, ma impossibilitato fisicamente.

E la bellezza della costruzione narrativa sta anche nella costante difficoltà del protagonista – in cui lo spettatore può rispecchiarsi – nel riuscire a farsi credere dagli altri personaggi, in particolare dal suo amico poliziotto.

E proprio quando sembra essersi convinto che era tutto frutto della sua immaginazione, un altro delitto riapre il mistero: l’avventato omicidio del cagnolino troppo curioso, il cui colpevole emerge proprio dalla sua assenza in scena…

Allora continua un crescendo di tensione, con un abilissimo uso della soggettiva…

La finestra sul cortile soggettiva

Le sperimentazioni con la soggettiva sono uno dei marchi di fabbrica del cinema di Hitchcock, con il picco che si vedrà in Psycho (1960).

In particolare, questa specifica inquadratura è al centro de La finestra sul cortile: la maggior parte delle vicende sono mostrate filtrate dallo sguardo del protagonista stesso, che permette fra l’altro allo spettatore di immergersi nella scena ed identificarsi con l’eroe.

E l’abilità di Hitchcock sta proprio nell’utilizzarla per mostrare il colpo di scena della pellicola: quando Lars finalmente si accorge di essere osservato, guarda direttamente negli occhi Jeff – e, da un certo punto di vista, sta guardando anche noi…

Come se non bastasse, il momento dello scontro fra l’eroe e l’antagonista è proprio definito dalla soggettiva, con il punto di vista che rimbalza fra l’uno e l’altro.

Infatti, come Jeff vede Lars emergere minacciosamente dall’ombra, vediamo anche l’effetto stordente che le mosse dell’eroe hanno sugli occhi del suo assalitore, con una tecnica semplicemente perfetta.

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Nodo alla gola – Un omicidio da appartamento

Nodo alla gola (1948), talvolta noto anche come Cocktail per un cadavere, è la prima pellicola in Technicolor girata da Alfred Hitchcock.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 2 milioni di dollari, circa 25 oggi – ebbe un riscontro altrettanto contenuto, corrispondente agli stessi costi di produzione (fra i 2,2 milioni e i 2,8 milioni).

Di cosa parla Nodo alla gola?

Poco prima di una festa da loro organizzata, i due giovani Brandon e Phillip uccidono un loro “amico”. E per tutto il party il cadavere sarà presente in scena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nodo alla gola?

John Dall e Farley Granger in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Nodo alla gola è una delle opere meno conosciute di Hitchcock, ma è anche un’interessante sperimentazione di questo straordinario regista, per la prima volta con una pellicola a colori e con l’utilizzo di diversi ed abili piani sequenza.

Inoltre, non manca anche di un’ironia piuttosto sottile, profondamente dark, che ho personalmente molto apprezzato – la più interessante sperimentazione in questo senso finora, dopo alcuni accenni in altri prodotti, ad esempio in Rebecca (1940).

Cominciamo subito!

L’elemento sicuramente più interessante della pellicola è l’incipit.

Vediamo fin da subito l’omicidio, rappresentato anche in maniera piuttosto esplicita e violenta. E conosciamo immediatamente anche i colpevoli, una coppia piuttosto singolare di giovani rampolli della buona società.

La tensione è palpabile fin dal primo momento, definita proprio dal contrasto fra i due: mentre Brandon si sente brillante ed invincibile, al contrario Philip è evidentemente preoccupato, sicuro di essere scoperto da un momento all’altro.

E sembra che lo svelamento del mistero sia chiamato fin dall’inizio…

Il vero protagonista

James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Anche se apparentemente la coppia omicida è la protagonista, in realtà il vero focus della pellicola è il personaggio di James Stewart.

Dopo un piccolo susseguirsi di figure di contorno che animano la festa, Rupert compare improvvisamente in scena, dopo essere stato annunciato dai protagonisti stessi con una discreta tensione: Philip rimprovera l’amico di aver invitato il loro ex insegnante, essendo questo una persona molto sospettosa.

In realtà il professore è molto di più: mentre i due conversano amabilmente del più e del meno, mentre Brandon si sente particolarmente acuto nelle sue battute piene di doppi sensi, l’uomo osserva attentamente la scena, e coglie tutti gli indizi che lo portano allo svelamento del mal celato delitto.

Non a caso, la camera si sofferma in un paio di momenti fondamentali ad inquadrarlo per diversi secondi, mentre i due si stanno tradendo con le loro stesse mani, anche se nessuno, a parte il professore, sembra essersene accorto…

Il gioco è finito

John Dall e James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Nell’ultimo atto è chiaro sia allo spettatore che ai due assassini che Rupert ha capito il loro gioco.

A questo punto, il professore e il suo allievo cominciano a giocare, raccontando una storia a parole assurda, ma che mostra in realtà come Rupert sia perfettamente consapevole delle dinamiche del loro delitto. E, proprio per questo tono leggero, Brandon pensa di poter avere l’approvazione del suo maestro.

Ma è il suo più grave errore.

Nel momento dell’effettivo svelamento, il giovane cerca di convincere il professore di aver solo messo in pratica le teorie da lui stesso promosse, ma Rupert lo respinge violentemente, annullando i suoi sogni di superiorità quasi con disprezzo, e rimettendolo così al suo posto.

E il finale è piuttosto esplicativo in questo senso.

Nodo alla gola finale

Il finale è particolarmente indovinato.

E finalmente, come anche per il precedente Notorious (1946), in questa fase Hitchcock comincia a gestire in maniera ottimale le chiusure delle sue pellicole.

Infatti, dopo una costruzione perfetta della tensione, con Rupert svela l’arma del delitto e Philip che cerca di aggredirlo, la scena si ricompone.

Osserviamola.

John Dall, Farley Granger e James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Philip e Brandon cercano di riprendere le loro posizioni, di riacquistare il loro safe space: Philip si ritira al pianoforte, dove si era continuamente rifugiato durante la festa, ma dove comunque Rupert era riuscito ad insidiarlo.

Invece Brandon sceglie di versarsi un altro drink e di rimanere al centro della scena, come se la festa che tanto l’aveva divertito fosse ancora in corso, e lui potesse mantenere il suo status di giovane brillante ed innocente.

James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Per Rupert è tutto il contrario.

Dopo aver ristabilito la sua autorità a voce, la ridefinisce anche a livello visivo: ha in mano sia l’arma del delitto che la pistola, e diventa una sorta di custode del cadavere, la prova decisiva per incastrare i due (ex) allievi indisciplinati.

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Notorious – Caccia al dettaglio!

Notorious (1946) è una delle pellicole più note della produzione di Alfred Hitchcock, fra l’altro con due attori protagonisti di grande talento e richiamo: Cary Grant e Ingrid Bergman.

A fronte di un budget non esorbitante – 2 milioni di dollari, circa 30 milioni oggi – incassò molto bene: 24,5 milioni in tutto il mondo – circa 377 milioni oggi.

Di cosa parla Notorious?

Conclusosi il processo contro la spia tedesca John Huberman, la figlia Alicia viene coinvolta dal governo statunitense per una missione piuttosto particolare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Notorious?

Ingrid Bergman e Cary Grant in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Notorious è uno dei miei titoli preferiti di Hitchcock, e uno dei primi con cui mi sono avvicinata alla sua produzione. Pur non mancando di qualche ingenuità narrativa, è un’opera davvero coinvolgente e piena di tensione, costruita con una maestria registica di rara bellezza.

Inoltre, i due interpreti protagonisti di altissimo valore riescono a regalare ai loro personaggi una perfetta tridimensionalità: né buoni né veramente cattivi, ma profondamente umani, imperfetti, fallibili.

Insomma, non potete perdervelo.

Attenzione ai dettagli!

Ingrid Bergman in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

Il focus della pellicola sono i dettagli.

Hitchcock in questo caso lavora su inquadrature piuttosto peculiari, che si concentrano soprattutto sui particolari della scena e sulle mani dei personaggi, che si muovono abilmente per nascondere l’oggetto dell’interesse.

In particolare la chiave.

La chiave è un elemento che ritorna costantemente nella pellicola: porte chiuse e inaccessibili, chiavi richieste, chiavi rubate, momenti di grande pericolo in cui la chiave viene passata da una mano all’altra, nascosta frettolosamente, riportata al suo posto in maniera molto ingenua…

Nel terzo atto, invece il focus è sulla tazza di caffè, con cui Alicia viene avvelenata, con degli zoom improvvisi per catturare l’attenzione dello spettatore, ma anche con inquadrature concentrate sempre sulle mani dei personaggi, mentre la tazzina viene passata di mano in mano, fino ad arrivare alla vittima…

Un amore…troppo tormentato?

Ingrid Bergman e Cary Grant in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

Un elemento mi sta dando un discreto fastidio nella produzione di Hitchcock è la storia romantica.

In questo caso la gestione non è assolutamente malvagia, anche se, secondo me, più per la bravura degli attori che per la scrittura degli stessi, che è per certi versi abbastanza scontata: un classico avanti e indietro di una storia di enemy to lovers.

Insomma, non mi ha fatto lo stesso effetto di Io ti salverò (1945), ma…

Anche se il prodotto va naturalmente contestualizzato nel suo contesto storico, mi ha comunque leggermente infastidito come per certi versi Alicia risulti meno brillante proprio per questo amore travolgente che quasi la istupidisce…

Un fallimento credibile?

Ingrid Bergman e Cary Grant in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

I protagonisti di Notorious sono incredibilmente fallibili.

Il piano che mettono in scena è incredibilmente pericoloso e facilmente fallimentare, con tantissime trappole lungo la strada. E la bellezza del prodotto sta proprio nell’apparente arguzia dei personaggi, che però inciampano molto facilmente proprio in questi errori.

Quasi tutta la risoluzione del mistero è in mano al caso e ai puri colpi di fortuna, mentre i protagonisti devono fare e disfare le proprie macchinazioni per adeguarsi alle situazioni e ai cambiamenti improvvisi.

Infine, con una perfetta costruzione della tensione, Alicia si fa anche troppo facilmente incastrare nel piano del nuovo marito e della madre. E sembra che sia inevitabile che risulti sconfitta, intrappolata nella sua stessa casa, senza che nessuno possa aiutarla…

Il finale di Notorious

Fino a questo momento i finali dei film di Hitchcock non mi avevano convinto del tutto.

In generale, non amo molto i finali che sembrano più degli epiloghi, ovvero che vanno a chiudere delle sottotrame o fanno vedere il destino del protagonista a vicenda conclusa.

Preferisco invece i finali che magari non concludono del tutto la vicenda, ma che sono altresì davvero efficaci.

Come in questo caso.

Claude Rains in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

Devlin, nonostante l’evidente pericolo, va a cercare Alicia e la conduce in salvo fuori casa, trovando a metà strada un insolito accompagnatore: Alexander, che viene convinto a seguire la spia verso una salvezza desiderabile tanto dalla moglie quanto da lui.

Ma, arrivati alla macchina, Devlin lo lascia indietro.

E Alex ripercorre la scalinata da cui era venuto, buttandosi nelle braccia di quelle ombre minacciose che fanno da guardia all’ingresso della sua stessa casa…

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2022 Avventura Azione Comico Commedia Film Giallo

See how they run – Un delizioso meta-giallo

See how they run (2022) di Tom George, in Italia noto col titolo molto più blando di Omicidio nel West End, è una pellicola di genere giallo whodunit, con una spruzzata di metanarrativa che irride il genere di riferimento.

Una pellicola che purtroppo, come tanti altri film di piccola produzione in questo periodo, è stato un sonoro flop: a fronte di un budget di 40 milioni di dollari, ne ha incassati appena 22 in tutto il mondo.

Di cosa parla See how they run?

Londra, 1953. Durante i festeggiamenti per la centesima rappresentazione teatrale di Trappola per topi, uno dei titoli minori di Agatha Christie, il regista viene assassinato nel backstage. E l’indagine sarà nelle mani di una coppia di poliziotti piuttosto improbabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere See how they run?

In generale, sì.

La pellicola è molto forte su alcuni punti, più debole su altri. I punti di forza sono sicuramente l’ambientazione e i personaggi: atmosfere molto curate, dal sapore vintage, che ricordano tanto un film di Wes Anderson e del giallo classico degli Anni Cinquanta.

Al contempo, personaggi piacevoli sul filo del macchiettistico, con due ottimi attori protagonisti: Saoirse Ronan e Sam Rockwell.

Tuttavia, See how they run non vuole essere solamente un giallo, ma in qualche modo giocare con il genere, inserendo elementi metanarrativi anche interessanti, ma che nel complesso risultano abbastanza deboli e non perfettamente congegnati.

Ma nulla che guasti veramente la piacevolezza della pellicola.

Cosa significa il titolo See how they run

Il titolo originale, See how they run, è fondamentalmente incomprensibile se non si è inglesi.

Si riferisce infatti ad un verso di una nursery rhyme, una canzoncina per bambini, Three Blind Mice:

Three blind mice. Three blind mice.
See how they run. See how they run.
They all ran after the farmer's wife,
Who cut off their tails with a carving knife.
Did you ever see such a sight in your life
As three blind mice?
Tre topolini ciechi, tre topolini ciechi
Guarda come corrono, guarda come corrono
Corrono tutti dietro alla moglie del fattore,
che gli ha tagliato la coda con un coltello
Hai mai visto niente di simile nella tua vita
Come tre topolini ciechi?

E probabilmente allude anche all’omonima pièce teatrale del 1944, una farsa dal sapore comico basata su scambi di identità ed incomprensioni.

Quindi il titolo in entrambi descrive la natura stessa della storia: un insieme di situazioni comiche e paradossali, proprio come quella di tre topolini ciechi che inseguono la donna che gli ha appena tagliato la coda.

E questo riferimento nella pellicola si intreccia perfettamente con lo spettacolo teatrale che è al centro della storia: Trappola per topi, appunto.

Atmosfere travolgenti

Le atmosfere e l’estetica della pellicola sono ottimamente congegnate

Soprattutto per le prime scene, mi hanno ricordato Grand Budapest Hotel (2014) – e sicuramente Wes Anderson è stato d’ispirazione per il film. Un’estetica davvero curata sia negli ambienti – che sembrano quasi teatrali – sia nei personaggi e nei costumi, perfettamente in linea con le atmosfere e il tono della pellicola.

Anche gli esterni sono piuttosto suggestivi: vicoli fumosi e strade nella penombra, in cui la brillantezza dei colori si scontra con le lunghe ombre che si allungano sulla scena, minacciando i personaggi e al contempo apparendo come irraggiungibili…

Un semplice buddy movie

Nelle dinamiche, See how they run riprende il taglio del buddy movie.

Una scelta che ha favorito anche l’ovvio inserimento di un personaggio femminile come protagonista, che risulta così ben contestualizzato nel contesto temporale: l’unica donna del corpo di polizia che deve farsi largo in un mondo di uomini che la sottovalutano.

In particolare, Stoppard la sottovaluta moltissimo, cerca costantemente di metterla al suo posto ed è quasi infastidito dalla sua eccessiva emozione nel condurre un caso, da cui cerca sistematicamente di escluderla.

Ma entrambi i personaggi hanno due picchi drammatici che raccontano l’evoluzione del loro rapporto: quando il detective mente alla ragazza dicendo di dover andare dal dentista – e viene scoperto – e quando Stalker lo accusa ingiustamente dell’omicidio.

Ma alla fine è la stessa ragazza a salvare il burbero detective.

Don’t jump to conclusions!

L’elemento metanarrativo che meglio funziona è quello del don’t jump to conclusions!

Questo è infatti l’ammonimento che Stoppard fa alla giovane poliziotta, ma in realtà anche allo spettatore: non saltiamo subito alle conclusioni! Infatti è molto tipico di questo tipo di gialli whodunit essere articolati in un susseguirsi di interviste dei sospettati.

E, per ognuno di loro, il flashback mostrato racconta la loro totale colpevolezza, ricalcata in questo caso proprio dall’irruenza di Stalker. Ma siamo appunto anche noi spettatori a saltare subito a queste conclusioni.

E infatti il film riesce comunque a prenderci bonariamente in giro: l’accusa a Stoppard è davvero credibile!

Una metanarrativa debole

Purtroppo la pellicola, volendo così entusiasticamente giocare con il genere, finisce a perdersi in se stessa.

Funziona molto meglio quando questo elemento è sottile – come abbiamo appena visto – molto meno quando la conclusione del film è stata già praticamente raccontata nella prima parte della pellicola, ovvero tramite la sceneggiatura che Leo Köpernick voleva mettere in scena.

E vederla avvenire esattamente come era stata descritta, poteva apparire sulla carta come un’idea brillante e la conclusione più metanarrativamente interessante per la pellicola stessa, ma in realtà mi è parsa solo piuttosto goffa e semplicistica.

Tuttavia, è l’unico vero difetto che mi sento di segnalare.

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Accadde quella notte... Drammatico Film Giallo Notte degli Oscar True Crime

Il caso Spotlight – Serve un villaggio per…

Il caso Spotlight (2015) di Tom McCarthy è un film che racconta l’inchiesta giornalistica che coinvolse il gruppo giornalistico Spotlight del The Boston Globe, riguardo al famoso caso di pedofilia e omertà nella Chiesa Cattolica.

A fronte di un budget veramente risicato – appena 20 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: quasi 100 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il caso Spotlight?

2001, Boston. Il gruppo di giornalisti d’inchiesta Spotlight si trova improvvisamente coinvolto in un caso di proporzioni inizialmente inimmaginabili: omertà e insabbiamento di tantissimi casi di pedofilia, e non solo a Boston…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il caso Spotlight?

In generale, sì.

Nonostante non abbia un grande valore artistico né una regia così interessante – e c’è un motivo per cui lo dico – Il caso spotlight è un film davvero avvincente e che riesce ottimamente nel suo lavoro: raccontare un caso con una tematica molto delicata come la pedofilia, riuscendo al contempo a non scadere nel facile dramma e pietismo.

Con, fra l’altro, un cast d’eccezione.

Raccontare il contesto

If it takes a village to raise a child, it takes a village to abuse one.

Se ci vuole un villaggio per crescere un bambino, ce ne vuole anche uno a molestarlo.

Per raccontare la storia de Il caso Spotlight, era fondamentale riuscire a raccontare il contesto.

Avendo in mente film dalla tematica simile, come Bombshell (2019) o il recente She said (2022), questo è a mio parere uno dei prodotti che meglio riesce ad immergere lo spettatore nell’ambiente raccontato.

Infatti, il film ben ci racconta come la problematica non fosse tanto l’omertà, quanto la presenza pressante e onnipresente della Chiesa Cattolica. Questo elemento viene esplicato in vari punti, in particolare nelle battute iniziali, quando Mary Barton, il nuovo direttore, viene invitato ad un colloquio privato con l’Arcivescovo Law.

E già in quel caso l’ambiente parla da sé: l’ufficio è ricco e quasi barocco, Law vi torreggia come un sovrano che si permette di offrire il suo aiuto al giornale, chiudendo l’incontro con un omaggio, che ben racconta le intenzioni del personaggio.

Altrettanto esplicative sono le varie interazioni con i diversi avvocati: tutti raccontano una realtà blindata e inaccessibile, in cui i colpevoli riescono a nascondersi nelle pieghe di un sistema corrotto e che fa leva sul potere inattaccabile della Chiesa.

E in cui un po’ tutti gli attori in scena sono colpevoli.

Non feticizzare

Un classico scivolone in questo tipo di racconti è il cadere nel facile dramma, mettendo esplicitamente in scena i crimini, sopratutto quelli più disturbanti.

Bombshell (2019) è esplicativo in questo senso.

In questo caso sarebbe stato semplicissimo, prendendo le dovute misure, inserire flashback che raccontassero gli abusi subiti dalle vittime. Invece, per la maggior parte, si mettono in scena personaggi già adulti che vogliono raccontare la loro storia, mentre i numerosi colpevoli non si vedono quasi per nulla.

Ma non per questo il film è meno coinvolgente.

Un’altra tensione

Il focus della tensione è tutto sui protagonisti dell’inchiesta.

Lo spettatore è fin da subito coinvolto nel mistero, che tocca una tematica indiscutibilmente delicata e disturbante, anche solo a parole. E per questo viene facilmente da fare il tifo per gli eroi e la loro strenua lotta contro un’istituzione apparentemente inattaccabile.

Al contempo, la tensione è ben distribuita all’interno della pellicola, mentre i protagonisti svelano poco a poco – a se stessi e allo spettatore – l’ampiezza del caso che hanno fra le mani e da cui, alla fine, escono vittoriosi.

Con punte drammatiche – e soddisfacenti – come la scena in cui Matty sbatte il giornale sull’uscio del prete pedofilo vicino di casa, o quando Peter, l’avvocato amico di Walter, cerchia tutti i nomi della lista di presunti pedofili.

Uno studio certosino

Avete notato che molto dei personaggi in scena hanno una loro particolarità che li rende unici e facilmente riconoscibili?

Questo perché la maggior parte degli attori protagonisti si sono premurati di venire – ed essere durante le riprese – in contatto diretto con le persone reali che stavano portando in scena.

In particolare Michael Keaton scoprì casualmente che il vero Walter Robinson abitava vicino a casa tua e lo andò a trovare. Lo stesso dichiarò, dopo aver visto il film:

Guardare Michael Keaton è stato come guardare in uno specchio, senza avere il controllo dell’immagine speculare.

Mark Ruffalo, che nella pellicola interpreta Michael Rezendes, si spinse anche oltre: non solo prese contatti con la persona reale, ma gli faceva anche leggere le battute prima di recitarle. E infatti Rezendes dichiarò:

Vedere Mark Ruffalo rimettere in scena cinque mesi della mia vita è stato come guardare in uno specchio.

Il caso Spotlight meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2016 sono ricordati principalmente per la vittoria di Leonardo di Caprio come Miglior attore per The Revenant (2015), dopo tantissime candidature andate in fumo.

Ma, più in generale, fu un’annata abbastanza particolare: nonostante Il caso Spotlight vinse Miglior film, non fu quello con maggiori nomination e neanche con le maggiori vittorie. Il grande vincitore della serata fu infatti Mad Max: Fury Road (2015) – che venne candidato a dieci statuette e ne vinse quattro – seguito da The Revenant – con dodici candidature e tre vittorie.

In effetti la pellicola vincitrice di Miglior film fu piuttosto anomala, più che altro perché, a differenza delle altre due sopra nominate, non ha grandi meriti artistici né grande profondità, nonostante sia comunque ben scritta e di grande coinvolgimento.

Infatti penso che vinse principalmente per la tematica trattata.

Non dico che non meritasse di vincere, ma, valutando da un punto di vista più oggettivo possibile, penso che meritasse di gran lunga la vittoria The Revenant – nonostante sia un film che mi annoia profondamente.

Invece, per il mio gusto personale, avrei fatto vincere quella meraviglia di Mad Max: Fury Road.

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Avventura Azione Cult rivisti oggi David Fincher Drammatico Film Giallo Noir Thriller

Seven – La (non) commedia

Seven (1995) di David Fincher è la seconda pellicola da lui diretta, ma quella che lo lanciò effettivamente come regista – dopo il dimenticatissimo Alien³ (1992). Un thriller che divenne un cult per tanti motivi, fra cui la totale follia e crudezza della storia, oltre all’incredibile finale…

A fronte di un budget abbastanza risicato (appena 30 milioni di dollari), incassò tantissimo: 327 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Seven?

Il Detective Mills è stato appena riassegnato ad una nuova divisione, sotto la guida del saggio detective William Somerset. E da subito si occuperà di un caso veramente senza precedenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Seven?

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Assolutamente sì.

Seven è un cult non per caso: oltre ad una regia piuttosto sperimentale e variegata e alle ottime prove attoriali, la storia è incredibilmente coinvolgente, piena di colpi di scena, anche non poco disturbanti – pur non scadendo mai nel gore.

Una pellicola davvero imperdibile, da vedere sapendone il meno possibile, pur con qualche trigger alert. Infatti, nonostante il film non contenga scene effettivamente disturbanti, racconta nondimeno delle dinamiche non poco inquietanti, che potrebbero non farvi dormire la notte.

Ma ne vale davvero la pena.

Un tragico viaggio

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

David Fincher si ispira evidentemente al viaggio ultraterreno dantesco, che viene fra l’altro continuamente citato all’interno della pellicola. Al punto che in una scena si vedono anche le splendide litografie di Gustave Dorè, che illustrarono il capolavoro della nostra letteratura.

Con la grande differenza che il viaggio di Dante era una commedia in quanto – secondo le parole dello stesso autore – aveva un lieto fine, con la redenzione del protagonista e, infine, la visione di Dio. Al contrario, il viaggio di Mills è tragico in ogni suo aspetto.

Ma per questo si crea un interessante parallelismo.

Detective Mills in Seven

Mills è un personaggio superbo e pieno di rabbia, una rabbia incontrollabile.

E, per questo, è insalvabile.

Per tutto il tempo si vuole mettere prepotentemente in gioco, in prima linea, ignorando le regole o anche il semplice buonsenso, del tutto insensibile agli ammonimenti di Somerset. Un personaggio che si sente superiore a tutti gli altri, che è convinto di sapere il fatto suo e che vive il caso in maniera davvero impetuosa e superficiale.

Morgan Freeman e Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ad ogni occasione si arrende davanti agli inganni apparentemente più insolvibili del killer, vuole a tutti i costi prendere in mano il caso, si rifiuta di seguire gli ammonimenti del suo collega e irrompe prepotentemente nella casa di John Doe – una sorta di foreshadowing di quello che poi succederà nel finale.

E la sua superbia si vede in particolare nel dialogo con John Doe, in cui è del tutto sicuro di averlo finalmente in pugno e per questo cerca di umiliarlo.

In realtà lo sta solo sottovalutando.

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Allo stesso modo Dante era un personaggio afflitto da un grande peccato capitale, anche se diverso da quello di Mills: la lussuria.

Per questo il suo viaggio, soprattutto quello purgatoriale, serviva per metterlo davanti ai sette peccati capitali, da cui si liberava salendo ogni cornice. In particolare passava attraverso il fuoco purificatore della lussuria con grande paura, ma riuscendo infine ad essere liberato da ogni peccato.

Invece, anche se a Mills viene data la possibilità di domare il suo peccato, fallisce.

William Somerset in Seven

Il Detective Somerset dovrebbe essere la guida per Mills.

Un personaggio disilluso, che vuole sottrarsi all’angoscia della vita di poliziotto in una realtà così violenta e degradata. È l’unico davvero consapevole di quello che sta accadendo, che capisce la natura seriale del caso e che riesce davvero ad orientarsi all’interno della rete di indizi del killer.

William è un personaggio saggio e riflessivo, che per tutto il film cerca di tenere a bada ed educare l’irriverente Mills, che invece si vuole buttare subito sul caso e nell’azione. Il suo gesto in extremis di salvare il suo giovane compagno e non far vincere John Doe, però, va in fumo.

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Al contempo William è l’unico che davvero capisce il killer.

Come John Doe cerca continuamente di esaltarsi nella figura di prescelto, superuomo, salvatore e punitore, il detective cerca insistentemente di ridimensionarlo, di riportarlo alla sua natura strettamente umana, anche e soprattutto agli occhi di Mills.

La sua figura può essere facilmente paragonata a quella di Virgilio nella Commedia: una guida saggia e autorevole che conduce l’eroe nel suo viaggio, che lo protegge e lo assiste, riuscendo vittoriosamente nella sua missione.

Purtroppo, il finale per William non è altrettanto favorevole.

E, forse anche per questo, decide infine di non andare in pensione…

John Doe in Seven

La forza di John Doe è il suo annullamento.

Il motivo per cui questo killer è così sfuggente è perché distrugge totalmente la sua persona, in primo luogo spellandosi le dita per evitare di lasciare impronte digitali, poi privandosi di un nome – John Doe è il termine poliziesco per indicare un uomo non identificato – e, infine, riducendo sé stesso ad un semplice peccatore.

La missione di John Doe – che sia quella data da Dio o la sua personale – è quella di ripulire almeno in parte il mondo della sporcizia che lo domina, una bruttura così profonda che ormai fa parte dell’assoluta normalità.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ed è per questo che, in parte, l’operato di John Doe è inattaccabile: prende di mira veramente quello che da alcuni può essere considerato il peggio della società – l’avvocato colluso, lo spacciatore, la prostituta… – come lo stesso personaggio sottolinea.

Ma in questo peggio è anche lui coinvolto: non tanto dalla superbia, ma dall’invidia che il personaggio ammette di provare nei confronti di Mills, nei confronti della sua vita normale che, nel dover portare avanti la sua missione, si è totalmente precluso.

Kevin Spacey in Seven

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

In questo senso è emblematica la scena dell’arresto: dopo che John Doe si è presentato trionfalmente agli occhi dei due detective, viene ridotto a terra, quindi si lascia abbassare ad un livello più terreno, e poi alza gli occhi verso Mills.

E qui mostra la sua apparentemente invidia, costretto a guardare dal basso chi gli sta sopra, in condizione di inferiorità dove spesso sono ridotte le anime purganti, in particolare quelle dei superbi – il suo vero peccato.

Il casting del killer di Seven fu piuttosto travagliato, anche per la natura del prodotto.

David Fincher in prima battuta avrebbe voluto Ned Beatty, per la sua incredibile somiglianza con lo Zodiac Killer – o il suo identikit – fra l’altro con un interessante foreshadowing per la carriera dello stesso Fincher, che tornò più di dieci anni dopo con Zodiac (2007).

Tuttavia l’attore rifiutò, affermando che la sceneggiatura del film era la cosa più diabolica che avesse mai letto.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Seguirono diversi tentativi di casting, fra cui quello di Kevin Spacey, che venne però inizialmente rifiutato perché richiedeva un cachet troppo elevato.

Per questo inizialmente le scene con il killer vennero girate da un attore ignoto, ma in poco tempo si scelse di rimpiazzarlo e venne nuovamente negoziato il contratto di Spacey, che girò le sue scene nel giro di soli dodici giorni.

Lo stesso attore scelse appositamente di non essere inserito né nel marketing né nei titoli di testa del film, così da rendere veramente funzionale il colpo di scena finale.

Heath Leadger

Un elemento metanarrativo di grande interesse, che rendeva senza nome il killer per lo spettatore stesso, proprio a ricalcare il suo aspetto anonimo e non riconoscibile, quasi invisibile – come era stato sia per il killer dello Zodiaco quando per l’ancora misterioso attentatore D. B. Cooper.

Entrambi casi reali di criminali che vinsero per il loro aspetto anonimo.

Un aspetto di grande interesse che venne ripreso in maniera pedissequa dal Joker di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (2008): un criminale molto intelligente, ma senza nome e senza identità.