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Misery – Un thriller claustrofobico

Misery (1990) è un piccolo cult dell’horror – thriller, diretto da Rob Reiner e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, fra l’altro uscendo pochi anni dopo la sua pubblicazione.

Il titolo italiano è molto spoileroso, quindi, anche se lo conoscete già, eviterò di riportarlo qui.

Un film prodotto con un budget molto limitato, appena 20 milioni, ma che incassò molto bene: 61 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Misery?

Paul Sheldon è uno scrittore di successo, che si ritira in una piccola città di montagna per scrivere il suo nuovo romanzo. Ma questa volta rimarrà coinvolto in una bufera, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Misery?

Assolutamente sì.

Misery è un piccolo thriller ottimamente confezionato – cosa per nulla scontata per un prodotto derivato da King. Ma, d’altronde, da questo regista, già autore di Harry ti presento Sally (1989), non mi aspettavo niente di meno.

Per certi versi è più un thriller che un horror, anche se non mancano le componenti orrorifiche. Più che altro si punta sulla psicologia dei personaggi, già abbastanza spaventosa di suo, ma senza mai eccedere.

Anzi, le scene più violente sono di impatto, ma mai esagerate.

Un’attrice poliedrica

Per una simpatica coincidenza, proprio il giorno prima della mia visione avevo visto Titanic (1997), dove Kathy Bates, qui interprete della terribile Annie, portava in scena un personaggio totalmente diverso.

E mi ha piacevolmente sorpreso come sia un’attrice assolutamente poliedrica.

Nonostante la sua recitazione poteva probabilmente essere smussata, è indubbio che ci abbia regalato una prova attoriale di grande impatto e che riesce a reggere la terrificante dualità del personaggio.

Non a caso, fu premiata come Miglior attrice non protagonista agli Oscar 1991.

L’abito fa il monaco

Quando Annie nostra la sua vera natura maligna e incontrollabile, non è in realtà una grande sorpresa per lo spettatore.

Già il suo character design, se così vogliamo chiamarlo, è di per sé rivelatorio: le camicie e i maglioni stretti fino al collo, i capelli perfettamente pettinati, la croce d’oro al collo. Tutti indizi di una donna che vive per il piacere del controllo e delle sue ossessioni.

E viene anche più arricchito da elementi puramente grotteschi, come il maiale da compagnia e l’arredamento della sua stanza che sembra quello di un’adolescente troppo cresciuta…

Un senso di claustrofobia

Per tutta la pellicola siamo pervasi da un senso di profonda claustrofobia, sopratutto perché per la maggior parte le scene si svolgono in un unico ambiente.

E anche l’esplorazione degli spazi della casa trasmette comunque un importante senso di impotenza e di trappola: come il personaggio, neanche che noi possiamo esplorare al di fuori di quelle quattro pareti.

E, con un paio di plot twist ben posizionati, ecco la ricetta perfetta per un thriller psicologico davvero appassionante.

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Grand Budapest Hotel – Il picco artistico

Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson è per me il miglior film diretto da questo autore, in cui riesce ad unire la sua estetica peculiare con una piccola storia giallo.

Nonostante un budget abbastanza contenuto (25 milioni di dollari), ebbe un ottimo successo commerciale, con 172 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Grand Budapest Hotel?

All’interno di una complessa cornice narrativa, la storia racconta di Zero, un giovane lobby boy che viene coinvolto in un intrigato intrigo con M. Gustave, il direttore del Grand Budapest Hotel…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Grand Budapest Hotel?

Tony Revolori e Saroise Ronan in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Come detto, Grand Budapest Hotel è il mio film preferito di Anderson, quello dove, per me, ha raggiunto il suo picco artistico, riuscendo a conciliare la sua folle passione per la simmetria e i dettagli con una piacevole storia mistery.

Se vi piace Wes Anderson, ovviamente non ve lo potete perdere. Se invece non vi siete mai interessati a questo regista, è un buon film per mettere un piede nella porta della sua regia.

Io ho cominciato proprio da qui.

Due attori incredibili (fra i tanti)

Tony Revolori e Ralph Fiennes: in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Più di ogni altro film di Anderson, questo raccoglie una pletora di attori più o meno famosi, alcuni già feticci di Anderson, come Jason Schwartzman, Owen Wilson e ovviamente Bill Murray.

Ma le perle di diamante sono Ralph Fiennes e Adrien Brody.

Ralph Fiennes è assolutamente perfetto per il suo ruolo, riuscendo ad interpretare ottimamente un personaggio particolarissimo, un tipico personaggio andersiano. Preciso, severo, innamorato del suo lavoro e del mondo in cui è totalmente immerso.

Adrien Brody è uno dei miei attori preferiti, e in questa pellicola correva il rischio di rendere il suo personaggio quasi macchiettistico. E invece è la perfetta controparte di Fiennes: un avido e maligno approfittatore, disposto a tutto per mettere le mani sull’eredità della madre.

Un piacevole intrigo

Tony Revolori e Saroise Ronan in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

L’intrigo è un elemento onnipresente della trama, che si srotola perfettamente per l’intera durata della pellicola. E ogni tappa della storia è assolutamente irresistibile nelle sue dinamiche e nei suoi personaggi, anche quelli più secondari.

In particolare, ho adorato i diversi plot twist e le varie scene di omicidio dirette con la sublime tecnica regista di Anderson, con anche qualche momento più splatter e violento, come la strage alla prigione o lo strangolamento del maggiordomo alla chiesa.

E fin da I Tenenbaum (2000) il regista ha dimostrato di non andarci troppo per il sottile in questo senso…

E con un finale premiante per i protagonisti.

Anche se…

Il finale malinconico

Ralph Fiennes: in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Un tratto piuttosto tipico di Anderson è di portare elementi di una certa malinconia all’interno delle sue pellicole, soprattutto sul finale.

In questo caso la lacrima scende facilmente davanti al racconto di Zero da adulto, soprattutto quando ha come sfondo l’hotel ormai in decadenza, con uno stile evidentemente da Unione Sovietica.

Ma entrambe le storie sia di Agatha che di M. Gustave finiscono tragicamente, evitando quei finali dal sapore quasi fiabesco che molto spesso caratterizzano questo tipo di prodotti.

Ma non in un film di Anderson.

La costruzione a scatole cinesi di Grand Budapest Hotel

Un elemento piuttosto peculiare della pellicola è l’utilizzo delle cornici narrative in una costruzione a scatole cinesi.

Si comincia in un contesto forse contemporaneo in cui una ragazza senza nome si avvicina alla statua dell’autore del libro che sta leggendo; poi entriamo nel libro con la prefazione dell’opera in cui parla lo stesso autore; e poi si passa al racconto di come incontrò Zero; per poi vedere il racconto di Zero con anche la sua voce fuori campo.

Un finale tanto più malinconico per raccontare una storia davvero passata

Essere Wes Anderson

Un aspetto che trovo sempre incredibile della filmografia di Wes Anderson, tanto più in Grand Budapest Hotel, è la come siano sempre pieni di cameo e interpretazioni di attori di un certo livello.

Da attori più di nicchia come i già citati Jason Schwartzman e Owen Wilson, ad effettive star come Adrien Brody e Ralph Fiennes, tutti pronti a portare la loro fantastica presenza nei suoi film, anche per screentime davvero contenuti.

Wes Anderson è probabilmente il regista più popolare di Hollywood.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia nera Drammatico Film Giallo Horror Humor Nero Scream - Il secondo rilancio Scream Saga Thriller

Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto
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Scream 4 – Now streaming

Scream 4 (2011) è il quarto capitolo della saga omonima, arrivato a più di dieci anni di distanza da Scream 3, che chiude la trilogia originale.

L’ultimo film del compianto Wes Craven, che ci ha lasciato in eredità un prodotto che non solo era al passo coi tempi, ma che anticipava alcune dinamiche della società stessa.

Questo film ebbe un budget abbastanza sostanzioso (40 milioni), ma non ebbe il grande riscontro che ci si aspettava, con solo 97 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Scream 4?

A dieci anni dalle vicende di Scream 3, si torna a Woodsboro, con un cast di protagonisti rinnovato, che rappresentano la nuova generazione. Fra queste anche la cugina di Sidney, Jill, che dovrà cercare di riappacificarsi con la famosa parente, mentre la scia di omicidi sembra di nuovo prendere piede…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 4?

Ghostface in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, Scream 4 è il miglior film della saga, secondo solamente al primo capitolo.

Riesce con grande freschezza a riportare in scena le dinamiche tipiche fin dal primo film, riuscendo ad aggiornarle al nuovo decennio, con anche delle grandi novità che rompono gli schemi classici.

Un film dove l’elemento horror diventa quasi comico a suo modo, mettendosi in linea con l’horror più violento che andava di moda in quel periodo, ovvero quello della saga di Saw, che al tempo ancora furoreggiava (e che infatti è pure citata nel film). Ma senza mai scadere nel torture porn.

Insomma, da recuperare assolutamente.

Questo inizio ha troppi livelli

Lucy Hale in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You gotta have an opening sequence that blows the door off

La sequenza iniziale deve essere qualcosa di incredibile

L’inizio di Scream 4 credo che sia una delle cose più geniali mai concepite nel cinema horror.

Si comincia con un inizio che sembra l’effettivo inizio del film, in cui fra l’altro la pellicola si mette in linea con tutte le novità sia del genere, sia della società di dieci anni dopo: Facebook, i cellulari, le nuove saghe di successo come Saw.

Ed è la classica sequenza iniziale in cui le due ragazze in casa da sole sono le prime vittime di Ghostface (o di qualsiasi altro killer in uno slasher).

Tuttavia, il film ci catapulta in un altro inizio, che sembra ancora quello vero, con una coppia di ragazze che stava vedendo Stab 6, andando poi a screditarne la validità, perché banale e ripetitivo. Ma una delle due difende la saga per essere diversa dal solito che esce, e a sorpresa accoltella l’amica perché parla troppo.

E questo è l’inizio di Stab 7.

E poi si arriva all’effetto inizio del film che è di fatto quello che sembrava l’inizio all’inizio, in un meraviglioso cortocircuito mentale che ho semplicemente adorato.

Essere drammaticamente attuali

Ghostface in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

The killer should be filming the murders

Il killer dovrebbe filmare i suoi omicidi

La grande novità di questa pellicola è l’idea che il killer ora sia sostanzialmente un vlogger, quando questa era ancora una realtà emergente nella nascente cultura di internet e dei social.

Oltre ad essere un elemento di grande freschezza, che raggiunge un interessante apice nel finale, è una questione drammaticamente attuale anche oggi: senza andare a scavare troppo nel torbido, sappiate solo che, in tempi recenti, dei terroristi hanno fatto cose simili.

Ma più in generale, quello che al tempo sembrava una cosa strana o comunque molto nuova, è diventata quasi la quotidianità nel nostro tempo, anche prendendo strade diverse, con vlogger che spopolano su TikTok.

In questo senso, da capogiro lo scambio fra Sidney e Robbie:

– You film your entire high school experience and what, post it on the net?
– Everybody’ll doing it someday, Sid.

Registri la tua intera vita del liceo e poi che fai, lo posti su internet? – Tutti lo faranno in futuro, Sid.

Vecchi moventi, nuovi moventi

Emma Roberts in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You have your 15 minutes, now I want mine!

Hai avuto il tuo momento di gloria, ora è il mio turno!

La genialità del finale sta nel fatto di riprendere un movente simile del primo Scream, ma al contempo riuscendo a renderlo molto più attuale per il suo tempo. Nel primo film la vera radice del movente era la vendetta personale, in questo caso è l’invidia e il desiderio di essere al centro della scena.

Un sentimento tanto più comprensibile oggi, quando la popolarità sembra sempre dietro l’angolo e a portata di mano, tanto è semplice prendere in mano un cellulare e diventare, anche solo per poco tempo, famosi sui social.

In questo caso eravamo ancora all’inizio di questa ubriacatura di popolarità, ma non di meno questo sentimento esisteva.

Come infatti dice la stessa Jill:

We all live in public now, we’re all on the internet

Siamo tutti esposti oggi, siamo tutti su internet

Saper funzionare, 10 anni dopo

Una scena di Stab in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You forgot the first rule of remakes, Jill. Don’t fuck with the original.

Hai dimenticato la regola più importante dei remake, Jill. Non puoi fottere l’originale

Un elemento che mi ha sempre dato da pensare di Scream è il personaggio di Sidney e in generale la volontà di creare una storia tutta in continuità, con il rischio di fare gli stessi errori della saga di Saw, che è andata inutilmente ad incartarsi. E, anche per questo, avevo paura di trovarmi davanti ad una trama ripetitiva.

Ovviamente, non potevo più sbagliarmi.

Sidney è un personaggio che funziona sempre, proprio perché è un personaggio femminile che funziona e che non ricade nella dinamica da Mary Sue. È una giovane donna con tante fragilità, ma che sa sempre rimettersi in piedi, affermare la sua posizione e lottare senza mai arrendersi contro Ghostface.

E in una maniera sempre credibile.

La violenza comica

The kills gotta be way more extreme

Le uccisioni devono essere molto più estreme

Le morti nel film sono tanto estreme da diventare quasi comiche per la loro originalità: abbiamo i poliziotti uccisi con un coltello piantato nel cervello, una ragazza con le budella fuori, tantissimo sangue, fino ad arrivare alla mia preferita:

La madre di Jill uccisa alle spalle col coltello che passa attraverso la buca delle lettere.

Ed è proprio una risposta ad un tipo di cinema e di violenta orrorifica inaugurata proprio da Saw, che fra l’altro non sono mai riuscita ad apprezzare. E infatti non potrei più essere d’accordo con quello che si dice all’inizio del film:

It’s not scary, it’s gross. I hate all that torture porn shit.

Non fa paura, è imbarazzante. Odio tutto quella merda di torture porn.

Il casting pazzesco di Scream 4

Una delle cose che più mi hanno sorpreso è quanto siano riusciti a castare praticamente tutti gli attori più famosi e popolari delle serie tv e film mainstream dall’inizio degli Anni 2000 fino circa a metà del decennio successivo.

Anzitutto Lucy Hale, che interpreta una delle due ragazze di Stab 6, e che era appena sbocciata come star per Pretty Little Liars. Poi Kristen Bell, la voce di Gossip Girl fino al 2011 e che interpreta una delle due ragazze in Stab 7.

Fra le protagoniste, Hayden Panettiere, che interpreta Kirby, che io ricordo soprattutto per Malcolm in the middle, ma che al tempo era molto conosciuta per la serie Heroes. E poi ovviamente Emma Roberts, che bivacchiava fra molti prodotti teen di secondo livello come Wild Child (2008).

Nota di merito anche alla presenza di Adam Brody, attore amatissimo al tempo per O.C. e che qui interpreta uno dei poliziotti, oltre a Rory Culkin, fratello del ben più famoso Macaulay Culkin, che qui interpreta Charlie, uno dei due Ghostface.

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Bullet train – Perché gli action movie sono noiosi?

Bullet train (2022) di David Leitch è un action movie uscito recentemente in sala. O, meglio, uno dei migliori action movie che potreste vedere negli ultimi tempi. Non è un caso che alla regia ci sia l’autore di due dei migliori film d’azione degli ultimi anni: John Wick (2014) e Atomica Bionda (2017). E, per non farsi mancare nulla, è stato anche regista di Deadpool 2 (2018).

E si vede.

Ad oggi ha incassato 213 milioni in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90: rientrati pienamente nel budget, anche se meritava di più.

Di cosa parla Bullet train?

La trama ruota intorno a diversi personaggi, accomunati dall’essere invischiati con i peggiori boss del crimine al mondo. Fra colpi di scena e voltafaccia, come sempre nulla è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché guardare Bullet train?

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Bullet train è un film da vedere per vari motivi, anzitutto per il fatto che prende i maggiori problemi degli action movie e li supera egregiamente. Quindi ve lo consiglio particolarmente se non vi piace particolarmente il genere.

La pellicola è incredibilmente divertente e intrattenente, costruendo anche un piccolo ma avvincente mistero che serpeggia per tutta la sua durata. Una bella sorpresa, per un autore di valore, che vale assolutamente la pena di recuperare.

Perchè gli action movie sono noiosi

Non me ne vogliano gli appassionati del genere: se non vi piace semplicemente (e anche giustamente) vedere la gente menarsi con grandi frasi ad effetto, è facile che vedendo molti action movie, soprattutto quelli poco ispirati, vi annoierete a morte.

Un film come The Gray Man, per capirci.

I due più importanti problemi degli action movie puri sono la mancanza di originalità (e chiarezza) nelle scene di azione e il prendersi incredibilmente sul serio.

E Bullet train supera entrambi questi problemi.

Anzitutto, come ci si potrebbe facilmente aspettare da questo regista, le scene di azione non solo sono piuttosto originali, ma spesso anche divertenti e, soprattutto, dirette con una regia dinamica, frizzante e chiarissima.

Inoltre, il film scherza spesso con se stesso e con gli stereotipi del genere a cui appartiene, non prendendosi mai veramente sul serio, ma riuscendo ad ironizzare su tutto, alleggerendo la situazione nei momenti giusti.

Mettere insieme i pezzi

Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Una colonna portante di Bullet train, nonché uno degli aspetti che gli impedisce di essere un pallido film action, è la sua componente mistery. Un elemento che non è affrontato dai personaggi come se dovessero effettivamente investigare la questione, andando anzi a tentoni e mettendo insieme i pezzi quasi casualmente.

Infatti chi deve mettere insieme gli indizi, anche prima dei personaggi stessi, è lo spettatore stesso, cui viene fornita una pista visiva inequivocabile. Così come il figlio di Morte Bianca è morto piangendo sangue, così anche tutti gli invitati al matrimonio di Wolf muoiono nella stessa maniera.

E qui il film dà la prima finta soluzione: il cameriere che urta Wolf al matrimonio e che di fatto gli impedisce di bere il vino è Ladybug. Ma, differentemente da quello che si pensa, non l’ha fatto appositamente. E, soprattutto, il veleno non era nel vino che Wolf non ha bevuto, ma nella torta che Hornet aveva preparato.

Tutti i pezzi vanno al loro posto quando si racconta la fuga del serpente e poi l’introduzione di Honert, che chiude il cerchio.

Creare un universo di ironia

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Quando si scrive un film comico, o quando comunque si vuole inserire una linea comica all’interno di un prodotto, la strategia migliore è quella di farlo affezionare alla comicità del film.

Nel caso di Bullet train con pochi tocchi e scelte indovinate si è riuscito a creare un universo di ironia perfettamente funzionante.

Già l’immagine di Lemon, un uomo adulto che giudica le persone tramite un cartone per bambini, anche portandosi dietro gli stickers della serie, è esilarante. Ma questo elemento viene ancora più intelligentemente sviluppato in due direzioni.

Da una parte le battute comiche, che incredibilmente non smettono mai di far ridere. Dall’altra, con un effetto anche drammatico e funzionale alla storia: sul treno sono tutti dei Diesel, perché bluffano.

E ha anche una funzione nella trama: Lemon lascia lo sticker di Diesel su Prince per far capire all’amico che non è una persona di cui fidarsi. E, nel piccolo monologo dopo la sua morte, gli dice che lui era come Thomas.

Personaggi mai banali

Brad Pitt e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Complessivamente i personaggi del film sono tutti a loro modo interessanti, mai banali e con la loro unicità. Infatti, a differenza di altri film di questo genere in cui i personaggi sono solo figurine sullo sfondo, ognuno ha i suoi tratti caratteristici. Tangerine è iroso e impulsivo, Lemon è un uomo semplice ma anche spietato, LadyBug è la linea comica ed un uomo ossessionato dalla sua crescita personale.

E così via.

La sceneggiatura riesce insomma a mettere in scena un piccolo universo di personaggi che riescono perfettamente ad incastrarsi fra loro in maniera mai banale e scontata, ma in continuo cambiamento e in maniera sempre interessante.

Con splendide eccezioni…

I pochi difetti?

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

I pochi difetti del film si concentrano tutti intorno ai momenti in cui si prende sul serio. In particolare, riguardo ai personaggi di Morte Bianca e The Prince. La figlia di Morte Bianca non è di per sé un personaggio poco interessante, ma alla lunga l’ho trovata leggermente ridondante nei suoi comportamenti. E ha una fine non soddisfacente, ma distrutta dall’elemento comico: per quanto abbia riso quando Lemon la investe per vendicarsi della morte del fratello, mi aspettavo una conclusione più interessante.

Ancora meno convincente ho trovato Morte Bianca, che è un personaggio fortemente costruito all’interno del film, arrivando ad un reveal finale che ho trovato complessivamente poco soddisfacente. Il suo personaggio mi è parso troppo stereotipato e poco tridimensionale per l’importanza che gli era stata data nel film.

Insomma, tutti i momenti in cui il film è troppo attaccato al suo genere mi è piaciuto di meno.

Pochi tocchi di David Leitch

Zazie Beetz in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

In questo film troviamo diversi elementi quasi tipici di questo regista: eredita anzitutto da Deadpool 2 il cameo di Ryan Reynolds, nonchè l’attrice di Hornet, Zazie Beetz, che in Deadpool 2 intepretava Domino, la ragazza fortunata.

Dallo stesso film conferma il suo gusto nell’inserire cameo di attori famosi: come nel cinecomic aveva messo Tom Cruise, qui vediamo anche Channing Tatum e il già citato Ryan Reynolds.

Ovviamente poi conferma la sua capacità di raccontare scene d’azione in maniera appassionante e mai banale, fra l’altro ancora con la splendida scelta di sparatoria dalle macchine come in John Wick.

Cosa succede in Bullet train?

Se non siete sicuri di aver compreso tutta la trama di Bullet Train, ecco una spiegazione per voi.

La trama prende le mosse dal piano di Morte Bianca, che ha portato a bordo del treno le diverse persone che considerava come colpevoli della morte della moglie. Anzitutto Lemon e Tangerine, che dovevano salvare il figlio, che sono gli stessi autori della strage in Bolivia degli uomini del boss, che ha dovuto andare a gestire la situazione e quindi non essere sulla macchina in cui c’era la moglie.

Al contempo la moglie è morta perchè l’unico chirurgo che doveva salvarla era stato avvelenato da Hornet, che quindi Morte Bianca ha ingaggiato per uccidere il figlio, promettendogli i soldi della cauzione per il rapimento dello stesso. E l’omicidio del figlio era voluto perchè la sua ulteriore bravata era stato il motivo per cui la moglie era sulla macchina in cui poi è stato uccisa. Infine LadyBug era sul treno al posto di Carver, che era l’autore della morte della donna.

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

The Prince non fa parte del piano di Morte Bianca, ma aveva un piano tutto suo: ha attirato il figlio di Yuichi sul tetto di un centro commerciale per spingerlo giù e poi rivelare al padre che era stata lei a mandarlo in ospedale, riuscendo così ad attirarlo sul treno.

Infatti Yuichi gli serve per uccidere Morte Bianca: l’uomo avrebbe dovuto cercare di uccidere il boss, con un tentativo che sarebbe ovviamente andato a vuoto come tutti i precedenti, e a quel punto Morte Bianca l’avrebbe ucciso, come sua abitudine, tramite la stessa arma dell’attentato. E quell’arma conteneva un meccanismo per cui, premendo il grilletto, scoppiava in faccia al malcapitato.

La valigetta con il meccanismo analogo serviva come piano di riserva per lo stesso fine.

Il bullet train esiste veramente?

Sì, il bullet train esiste veramente.

Inoltre, come viene mostrato nel film, in Giappone vi è una rete di treni ad alta velocità che collega le maggiori città. La velocità si aggira sui 320 km/h: per fare un paragone, un nostro Frecciarossa può raggiungere i 400 km/h.

Però no, in cinquant’anni di servizio, non vi è stato un solo incidente a bordo di questi treni.

E alla fine arriva Sandra Bullock a rovinarmi il film. E vabbè.

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Crimes of the future – (Ri)scoprire il corpo

Crimes of the future (2022) di David Cronenberg è l’ultima pellicola del maestro dell’orrore dopo quasi dieci anni di assenza dalla sala. Ed è stato anche il mio battesimo del fuoco per la sua cinematografia, che conosco molto marginalmente e che non ho mai veramente affrontato.

E, dopo la visione, non vedo l’ora di scoprirne di più.

La pellicola si è rivelata purtroppo un incredibile flop commerciale, anche se certamente non è stata pensata per un ritorno economico consistente: ha incassato appena 3.4 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di una spesa di 35 milioni.

Di cosa parla Crimes of the future?

Cosa succederebbe se il corpo non potesse più provare dolore e l’uomo si evolvesse per essere sempre più affine ad un mondo di plastica e spazzatura?

Questo è il mondo in cui vivono Saul e Caprice, due artisti performativi che portano in scena spettacoli davvero peculiari: a Saul crescono organi anomali nel suo corpo, che vengono tatuati e poi estratti dalla sua partner durante lo spettacolo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimes of the future?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Dipende.

Partiamo col dire che Crimes of the future non è un film per nulla semplice.

La trama non è di per sé centrale, ma è al contrario un veicolo per raccontare un mondo futuristico e desolante, spoglio e senza speranza. Un mondo concentrato unicamente sul corpo e sulle sue trasformazioni, senza più paura per l’orrore e per il grottesco.

Quindi, se non vi piace particolarmente il body horror e un tipo di orrore particolarmente materiale, è probabile che questo film non faccia per voi. Come prodotto lo posso in parte paragonare a Mad Max – Fury road (2015): un film incredibile, basato molto su un orrore spettacolare e corporeo, ma in cui la trama è di fatto secondaria.

Una società perduta?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Nel film vediamo un mondo spoglio, fatto di rottami, spazzatura e degrado.

E non sembra che la cosa interessi a nessuno.

L‘intero focus è sull’uomo, sulle sue trasformazioni, in una sorta di neo-umanesimo. L’evoluzione è talmente rapida che non è neanche possibile definirla e regolarla: continuamente nel film si parla di come certe cose siano concesse, altre non ancora, e sembra sempre di agire nelle zone d’ombra della legge.

La stessa tecnologia sembra vecchia e datata, e non sembra esserci altro desiderio di quello di curare il corpo, plasmarlo a proprio piacimento, non cercando per la bellezza, ma il grottesco, che diventa in qualche modo anche erotico.

Arrivando all’estremo con la cosiddetta chirurgia da tavolino, ovvero la chirurgia improvvisata, di strada.

La corporeità

La corporeità domina ogni elemento.

Perfino la tecnologia stessa sembra essere definita tramite la corporeità, non cercando delle linee eleganti e futuristiche, ma dei macchinari che sembrano delle creature fatte di pezzi di corpo, di ossa bianche e lucide.

Il desiderio di corporeità arriva fino a fare dei concorsi di bellezza per la bellezza interiore, di fatto quella degli organi interni, a creare degli spettacoli concentrati sull’estrazione dell’organo più artistico e addirittura il desiderio erotico di vedere un’autopsia dal vivo.

E un’autopsia sul corpo di un bambino.

Kristen Stewart: c’è sempre una prima volta

Kristen Stewart in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Se avete letto la mia recensione di Spencer (2021) sapete cosa ne penso di Kristen Stewart, che qui interpreta la timida impiegata Timlin. E devo dire che è la prima volta, da quando ha cominciato a recitare, che l’ho vista veramente recitare in un ruolo.

Indubbiamente non è del tutto uscita dalla sua comfort zone della ragazza timida e impacciata, elemento che spesso accomuna i suoi personaggi, anche in prove attoriali assolutamente non pessime (ma neanche grandiose) come in Spencer, appunto.

Spero sia un primo passo nella giusta direzione.

Per ora, ha la mia attenzione.

Crimes of the future spiegazione finale

Personalmente ho trovato difficile comprendere il finale, che è definitivo praticamente dal dialogo fra Saul e il Detective Cope: non riuscendo a seguirlo, complice forse il doppiaggio poco indovinato, non sono riuscita (sul momento) a capire il resto.

Se siete anche voi nella mia situazione, siete nel posto giusto.

Nel finale il detective rivela a Cope che il Vice Department ha sostituito gli organi del bambino per evitare che si scoprisse questa realtà di evoluzione umana, che si adattava a questo ideale di nutrirsi della plastica e degli scarti industriali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Per questo le due impiegate che dovrebbero apparentemente controllare il funzionamento dei macchinari, in realtà erano in combutta con la stessa polizia. E per questo hanno ucciso il dottore (che forse ci viene fatto intendere avere la stessa mutazione di Becker) e il padre del bambino ucciso.

Alla fine Saul decide di allontanarsi dalla polizia e del suo lavoro, cominciando a nutrirsi di plastica e capendo che questo è quello che il suo corpo vuole: l’ultima inquadratura mostra un Saul molto rilassato e, finalmente, felice.

Qual è il significato di Crimes of the future?

Partendo dal fatto che il film a mio parere è del tutto godibile senza dover dare alcuna interpretazione, il significato della pellicola è in realtà abbastanza intuitivo.

Cronenberg ci vuole raccontare di un futuro desolante, ma anche possibile: un futuro in cui le guerre climatiche e la distruzione delle risorse ha portato a una realtà degradante, dove l’uomo comincerà a non potersi (o non volersi) più nutrire dei prodotti naturali, ma piuttosto di quelli artificiali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Un futuro in cui si adatterà semplicemente alla distruzione che lo circonderà, concentrandosi solo su sé stesso, in maniera quasi ossessiva.

La volontà di nutrirsi di rifiuti industriali sarebbe l’ultimo passo verso questa idea di essere un tutt’uno con l’orrore che lo circonda.

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Una notte da leoni – L’impossibile franchise

Una notte da leoni è un trilogia di film uscita fra il 2009 e il 2013, scritta e diretta da Todd Philips, autore che poi è esploso con Joker (2019), ma che al tempo era noto soprattutto per film come Parto col folle (2010).

Pellicole che al tempo ebbero un ottimo successo commerciale, perfino l’ultimo capitolo, ma che furono anche un caso da manuale di come sia impossibile creare franchise con prodotti che per loro natura non si prestano.

Di cosa parla Una notte da leoni?

Una notte da leoni in originale ha un titolo ben più emblematico: Hangover, in italiano traducibile banalmente come il post-sbornia. Infatti i primi due film parlano di un gruppo di amici che si risveglia dopo una serata che doveva essere apparentemente tranquilla, ma che invece si scopre essere stata assolutamente folle.

Vi lascio il trailer del primo capitolo per farvi un’idea:

Come e se guardare Una notte da leoni

Sono personalmente affezionata a questa saga, i cui film, soprattutto in adolescenza, ho rivisto decine di volte. Ho notato che i film sono stati molto screditati nel tempo, secondo me per nulla a ragione: tralasciando l’umorismo ormai abbastanza datato, sono dei godibilissimi film di intrattenimento, pure (almeno per i primi due) costruiti in maniera molto intelligente.

Personalmente mi sento di consigliarlo abbastanza a tutti, soprattutto se si apprezza con abbastanza leggerezza un tipo di commedia di dieci e più anni fa, del tipo Bad teacher (2010) e Parto col folle (2010), appunto.

Detto questo, se siete dei neofiti a questi prodotti, vi sconsiglio di proseguire oltre al secondo film: il terzo è stato un fallimentare tentativo di dare un epico finale alla saga, prendendo una direzione del tutto diversa, quando non ce n’era alcun bisogno.

Perché Una notte da leoni ebbe così tanto successo?

Eh Helms, Bradley Cooper e Zach Galifianakis in una scena di Una notte da leoni (2009) di Todd Philips

Come anticipato, secondo me la saga di Una notte da leoni è stata col tempo ingiustamente screditata. Anzitutto, ebbe successo perché era una saga figlia dei suoi tempi, con un umorismo piuttosto tipico per il periodo, che sicuramente a dieci anni di distanza può apparire assolutamente fuori luogo.

Oltre a questo, è una storia originale e molto credibile per come è messa in scena, in cui lo spettatore stesso può in parte rispecchiarsi. Infatti un grande pregio dei primi due film fu di portare in scena una vicenda interessante e piena di sorprese, ma assolutamente credibile e di grande intrattenimento.

Anche perché una delle più tipiche tecniche per tenere attiva l’attenzione dello spettatore è porre una sorta di mistero da risolvere o un pericolo imminente e apparentemente irrisolvibile. E questo è quello che succede nelle prime due pellicole e, in parte, anche nell’ultimo capitolo.

Perché il sequel fu un’operazione vincente

Zach Galifianakis, Mason Lee, Eh Helms, Bradley Cooper e Justin Bartha in una scena di Una notte da leoni 2 (2011) di Todd Philips

Il primo film della saga fu un grande successo commerciale, a fronte di un investimento abbastanza contenuto: 35 milioni di dollari di budget con un incasso di 468 milioni. Non a caso, per il secondo capitolo si investì più del doppio (85 milioni di dollari) e fu una scommessa vinta, con 586 milioni di incasso.

E fu un scelta intelligente perché si riuscì a produrre un film che è sostanzialmente un more of the same del primo capitolo, ma che riesce a mischiare gli elementi ed a portarne di nuovi, ed anche più interessanti. E, in questo modo, l’operazione appare molto meno evidente. Anche perché, scegliendo di vedere un film del genere, che mira sostanzialmente solo ad intrattenere, non vi era neanche l’interesse del pubblico a farsi determinate domande.

Una notte da leoni 3: dichiarare il fallimento

Eh Helms, Bradley Cooper e Zach Galifianakis in una scena di Una notte da leoni 3 (2013) di Todd Philips

Come il secondo capitolo fu una scommessa vincente, lo stesso non si può dire per l’ultimo film della saga. Non a caso, nonostante l’investimento maggiore, nonostante sia stato comunque un buon successo commerciale, la pellicola non confermò l’ascesa del franchise: solo 362 milioni di dollari contro un budget di 103.

E questo definì chiaramente il mancato interesse del pubblico.

Non so sinceramente dire se si volesse mettere un punto alla saga oppure tentare una nuova direzione per costruire un franchise, come potrebbe in effetti suggerire il finale aperto. Tuttavia questo tentativo non ripagò, proprio perché, senza la dinamica centrale dei primi due film, la storia perde tutto il suo fascino.

E, mancando l’interesse del pubblico per questa nuova direzione, sarebbe diventato veramente ridondante e poco credibile riproporre la medesima trama per la terza volta.

Stu: il vero protagonista

Mentre il resto dei personaggi rimane sostanzialmente statico, Stu è l’unico che compie archi evolutivi nei film. In generale l’obiettivo di Stu nei primi due film è riconquistare la sicurezza in se stesso e così la sua mascolinità castrata.

Infatti sia nel primo che nel secondo film Stu si trova a combattere contro due figure che lo mettono in discussione: prima la fidanzata Melissa, figura classica della donna-arpia verso cui il pubblico prova una naturale antipatia; poi, nel secondo film, il padre della sua futura moglie, che lo umilia pubblicamente, ma verso cui alla fine riesce a rivalersi.

Stu è infatti quello che più di tutti porta i segni della serata su se stesso e che più di tutti scopre una parte di sé inaspettata, capace di staccarsi un dente a mani nude, avere relazioni occasionali con prostitute e farsi un tatuaggio molto vistoso, fra le altre cose.

Tutte cose che ci si sarebbe aspettati invece da un personaggio come Phil.

Phil: l’inaspettato secondario

Phil, interpretato da Bradley Cooper, è il classico cool guy del liceo troppo cresciuto. Sulla sua storia personale non viene in realtà detto molto: la moglie è un personaggio incredibilmente secondario e che rimane sempre sullo sfondo.

Da come ne parla, Phil sembra intrappolato in una vita e un matrimonio opprimente, forse vittima di una cultura statunitense dove ci si sposa e ci si sistema molto presto. E così sembra vivere una seconda giovinezza con le vicende del film. Eppure, quando lo vediamo con la moglie e i figli, appare sempre affettuoso e felice di averli intorno.

Quindi, volendo forzare forse un’interpretazione che il film non puntava a dare, è possibile che Phil semplicemente si annoiasse nella sua banale vita da maestro di scuola, e che avesse una terribile nostalgia dei fasti della giovinezza.

E, in una storia del genere, sarebbe il personaggio che ci si aspetterebbe che fosse al centro dell’azione distruttiva della serata. E invece, incredibilmente, come personaggio è commisurato a tutti gli altri, anzi quasi messo in secondo piano.

Alan: la scheggia impazzita

Il personaggio di Alan è stato quello a mio parere progressivamente peggio gestito. Ha sicuramente un’utilità complessiva nei film, ma al contempo il suo comportamento viene troppo facilmente perdonato.

In particolare nel secondo film la sua rivelazione viene superata con grande facilità. E, ancora peggio, nel terzo film il personaggio soffre di una tendenza tipica del tempo: trova una fidanzata, perché non può definirsi altrimenti, che è la sua copia.

Un tipo di racconto che è stato ampiamente parodiato a South Park in Cartman Finds Love (17×16), fra l’altro.

Nondimeno, rimane una spalla comica godibile, che però soffre appunto dell’umorismo datato e che potrebbe non essere più convincente per il pubblico odierno.

Il rapporto coi personaggi femminili

Ed Helms e Jamie Chung in una scena di Una notte da Leoni 2 (2011) di Todd Philips

Una notte da leoni è un film fondamentalmente maschile, che si rifà ad una mentalità molto machista ancora esistente, ma, in particolare, assolutamente dominante a livello cinematografico dieci anni fa. L’importanza dei personaggi femminili è infatti non solo minima, ma assolutamente appiattita.

L’unico personaggio che ha un minimo di tridimensionalità è Stacy, la moglie di Doug, che però appare sempre come la madre cui i personaggi, dei bambinoni troppo cresciuti, devono raccontare le loro malefatte.

Per il resto i personaggi femminili sono, anche abbastanza prevedibilmente, piatti e di fatto tutti uguali: molto raramente provano ad opporsi alle scelte dei personaggi maschili, e solitamente li supportano molto passivamente. Talvolta sembrano non avere alcuna voce in capitolo, come appunto la moglie di Phil, che sembra del tutto ignara di quello che succede al marito.

Altri tempi, altra mentalità.

Ma, personalmente, preferisco una rappresentazione come questa che un tokenismo forzato come in The Gray Man.

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Baywatch – Rinnovare un cult

Baywatch (2017) di Seth Gordon è stato il tentativo di rilancio dell’iconica serie omonima.

Il film non fu di per sé un flop, ma neanche un grande successo commerciale, come forse ci si aspettava per un revival di questo genere.

Infatti, davanti ad un budget di 69 milioni di dollari, ne incassò appena 177. Non a caso il sequel fu più o meno annunciato durante la prima proiezione, ma del progetto non si ebbe più notizia.

Di cosa parla Baywatch

Il tenente Mitch Buchannon è il caposquadra dei bagnini delle spiagge di Emerald Bay. Si trova improvvisamente a dover gestire Matt Brody, ex atleta olimpico e testa calda che vuole unirsi a tutti costi al gruppo. Nel frattempo la baia è minacciata dall’avida imprenditrice Victoria Leeds…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Baywatch fu un insuccesso?

Baywatch è stato un interessante tentativo di riportare in auge il franchise della serie tv iconica.

Purtroppo, si tratta di un prodotto ben poco adatto ai tempi, sia per la comicità datata, sia per il tipo di rappresentazione dei personaggi, schiacciati da un machismo e da una ipersessualizzazione insopportabile.

Per questo si è scelto una via di mezzo: circoscrivere determinati aspetti datati su pochi personaggi e mettere maggiormente in risalto i personaggi femminili.

In particolare, rendere il villain una femme fatale potente e spietata è stata la classica soluzione di compromesso.

Purtroppo Baywatch richiede molto di stare al gioco e capire che si tratta di un prodotto revival che riprende il taglio della serie. Quindi una comicità molto spicciola, machista e corporale, una trama molto cartoonesca e non particolarmente spettacolare.

Se non ci si rende conto di questo aspetto fin da subito e se si fa parte della generazione dei millennial in su, a cui il film è indirizzato, si potrebbe provare un certo imbarazzo per quello che si vede in scena e di conseguenza non sentirsi coinvolti.

Baywatch può fare per me?

Zac Efron e Jon Bass in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Dipende.

Se apprezzate i classici film con protagonista The Rock, probabilmente sì. Tuttavia, come detto, la comicità è un po’ più datata, un incontro fra la saga di Scary Movie e Magnum P.I. Tuttavia complessivamente io l’ho trovato un film godibilissimo, con una trama sicuramente semplice e piena di stereotipi, ma che riesce facilmente ad intrattenere.

Quindi se già dal trailer vi ispira, dategli un’occasione.

Sessualizzazione contestualizzata

Kelly Rohrbach in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Una questione abbastanza problematica era la sessualizzazione del corpo femminile, di cui si è ben parlato nella serie Pam & Tommy.

In questo senso, hanno scelto una via di mezzo: i personaggi femminili in generale sono messi in primo piano nella storia e non sono quasi mai sessualizzati, e soprattutto non vi è tendenzialmente una regia voyeuristica sui loro corpi.

Una parziale eccezione è rappresentata da Casey, che riprende fondamentalmente le parti di Pamela Anderson nella serie. Ma anche Casey è una scelta calibrata. Anzitutto, si è evitato di imporre la ipersessualizzazione su Stephanie, interpretata da un’attrice latina (e con tutti gli stereotipi che ne sarebbero seguiti).

Al contrario, è stata scelta un’attrice come Kelly Rohrbach, con un volto pulito e che incarna la dream girl californiana. Quindi molto diverso dalla ragazza bella e impossibile come era Pamela Anderson, appunto.

Quindi l’oggetto del desiderio del personaggio maschile, con alcune soggettive un po’ infelici sul suo seno, che è comunque molto messo in mostra. Ma al contempo, per fortuna, Casey non è appiattita nel ruolo di pixie girl, ovvero il personaggio femminile che esiste unicamente in funzione della maturazione del personaggio maschile.

Machismo distruttivo

Zac Efron e Alexandra Daddario in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Un’altra tematica molto forte della pellicola è il machismo distruttivo fra i due protagonisti maschili.

Tuttavia anche questo è stato costruito con un minimo di intelligenza: non esclusivamente un antagonismo fra Mitch e Matt, ma un tentativo di Mitch di ridimensionare Matt e fargli imparare qualcosa, pur talvolta cercando di devirilizzarlo.

Questo accade infatti quando Mitch parla della manvagina di Mitch e quando lo salva facendogli la respirazione bocca a bocca sul finale, e prendendolo in giro per questo. Ma, tutto sommato, la storia è più che altro funzionale a raccontare il percorso di crescita di Matt.

Una comicità datata

Kelly Rohrbach, Jon Bass e Hannibal Buress in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Non solo la comicità, ma in generale la storia raccontata è proprio quella di un altro periodo. È così comico e poco credibile già solamente l’esistenza di bagnini che risolvono il crimine, e soprattutto che nella baia ci siano questo tipo di problemi.

Oltre a questo, la comicità è in generale molto datata: senza dover scomodare gli Anni Ottanta, sembra molto un umorismo tipico di quelle commedie primi Anni Duemila bellissime e terrificanti come Dodgeball (2004).

E questo potrebbe aver anche allontanato il pubblico dalla sala…

Cameo a tempo perso?

Nel film ci sono due camei che dovrebbero farti rimanere a bocca aperta, ma potrebbero essere stati totalmente inutili, in quanto il pubblico che principalmente è andato in sala è quello attirato dai film di The Rock più che dalla serie di Baywatch.

È così evidente che l’apparizione di David Hasselhoff doveva stupire lo spettatore che mi sono sentita in imbarazzo quando non l’ho riconosciuto. Meno imbarazzante l’apparizione di Pamela Anderson, che ho riconosciuto, ma che purtroppo non mi ha dato l’emozione che dovrebbe dare ai fan storici della serie.

Il film insomma strizzare l’occhio ai fan di Baywatch, che però è possibile che non fossero neanche in sala…

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Candleshoe – La mia infanzia

Candleshoe (1977) di Norman Tokar è un’avventura per ragazzi di produzione Disney con una giovanissima Jodie Foster. In Italia tradotto con un titolo piuttosto improbabile, ma nondimeno simpatico, ovvero Una ragazza, un maggiordomo e una lady.

Ma per me è molto di più: uno degli improbabili cult della mia infanzia, non appartenente neanche alla mia generazione, ma che avrò visto decine di volte. Lo trovai casualmente nella sezione bambini della mia biblioteca, e cominciai a noleggiarlo continuamente.

Un film fondamentalmente sconosciuto, ma che vale la pena di riscoprire.

Di cosa parla Candleshoe?

Casey, interpretata da una quattordicenne Jodie Foster, è un’orfana e una piccola delinquente che passa da una casa famiglia all’altra. Verrà inaspettatamente coinvolta in una truffa, per cui dovrà impersonare la nipote perduta di una vecchia nobildonna inglese, nella cui casa dovrebbe nascondersi un tesoro…

Candleshoe può fare per me?

Jodie Foster e Leo McKern in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Ovviamente essendo il film della mia infanzia è per me difficile essere oggettiva. Tuttavia secondo me Candleshoe è una deliziosa commedia avventurosa per ragazzi, con un bel mistero e una trama ben costruita.

Ha la durata standard di un film del genere (appena 100 minuti) ed intrattiene stupendamente, pur nella sua semplicità. Soprattutto se vi piacciono i film per ragazzi un po’ datati, come Stand by me e I Goonies, potrebbe facilmente piacervi.

Una protagonista diversa?

Jodie Foster in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Casey è un’ottima protagonista perché il suo personaggio ha un taglio molto realistico e sentito. Non è infatti scontato che la protagonista di un prodotto per ragazzi sia un personaggio così tanto grigio.

Una povera orfana che ha già visto il peggio dalla vita, che non ha mai avuto l’amore di una famiglia vera, e che ha preso facilmente la via della delinquenza.

Infatti, con stupore di Harry, Casey non è per nulla una marionetta nella sue mani, ma cerca invece subito di capire cosa può guadagnarci e riesce ad ingannare la Lady più di quanto Harry stesso fosse capace.

E allo stesso modo sembra infine rassegnata a non voler mentire ulteriormente alla sua presunta nonna, che la accetta come sua nipote, anche se non ha alcuna sicurezza che lo sia, in un bellissimo e toccante finale.

La lady e il maggiordomo: una irresistibile coppia

David Niven in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Della parte centrale del film la parte che ho sempre preferito era quella del maggiordomo e la lady, con la loro bellissima dinamica.

Infatti la loro linea narrativa non aggiunge nulla alla trama principale, ma riesce a dare una maggiore tridimensionalità ai personaggi e di fatto a rendere credibile e divertente la storia di Candleshoe.

Altrettanto splendida è la rivelazione finale della lady al maggiordomo, che non appiattisce il personaggio della prima alla sola vecchietta ingenua, ma da un tocco di romanticismo e commozione che ho sempre adorato.

Harry e Clara: che sagome!

Funzionano altrettanto bene i due villain, sia per l’ottima recitazione, sia per il loro phisique du role assolutamente perfetto. Sono due personaggi che già a pelle risultano sgradevoli, quasi grotteschi in alcune scene.

Il loro piano poi non lascia niente al caso, portando una simpaticissima scena di scontro sul finale che riguardo sempre con piacere.

In certi momenti i due fanno quasi paura, per come si gettano come arpie su Casey, una presenza minacciosa per l’intera pellicola.

Lode al budino di riso

Una cosa che mi è sempre rimasta impressa è il disgusto di Casey quando assaggia il budino di riso (rice pudding) la prima volta che arriva a Candleshoe.

In realtà per puro caso l’ho assaggiato recentemente, smentendo una convinzione che ho avuto per tutta la vita: il budino di riso è buonissimo.

Quindi, lode al budino di riso!

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Super 8 – Un film fuori dal tempo

Super 8 (2008) è un film prodotto, scritto e diretto da J.J. Abrams, autore e produttore che ha le mani un po’ ovunque quando si tratta di revival in ambito sci-fi.

Una pellicola che ebbe anche un buon successo, con 50 milioni di dollari di budget e 260 di incasso.

Di cosa parla Super 8?

1979, Joe Lamb è un quattordicenne che ha appena perso la madre in un tragico incidente e deve riallacciare i rapporti col padre. Lui e i suoi amici, mentre sono intenti a girare un film amatoriale, diventano testimoni di un tragico e misterioso incidente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super 8?

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Assolutamente sì.

Super 8 è un film piuttosto semplice, un’avventura sci-fi per ragazzi di stampo classico, che si rifà massicciamente ai topos degli Anni Ottanta.

Sia che siate appassionati dei classici, come Stand by me (1986) e E.T. (1982), sia dei revival nostalgici come Stranger Things, non potete perdervelo.

Una costruzione da manuale

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

La costruzione della trama è davvero da manuale, nel senso migliore possibile.

Tutti gli elementi che portano al finale sono sapientemente costruiti fin dall’inizio e in maniera funzionale al finale.

Così per esempio Donny, che alla fine accompagna i ragazzi alla scuola, si è dimostrato interessato alla sorella di Charlie fin dall’inizio. E così Joe sa dove è la tana della creatura perché in precedenza è andato al cimitero a trovare la madre.

E questa costruzione così intelligente non è per niente scontata, in quanto in prodotti di ben più grandi produzioni capita spesso che, per far arrivare i personaggi ad un punto, si scelgono soluzioni forzate e poco credibili.

Allo stesso modo il mistero è un continuo crescendo, partendo da una scena improvvisa, seguendo un sentiero di briciole che ci vengono snocciolate a poco a poco.

La creatura

Secondo lo stesso principio, la creatura viene svelata secondo precise tappe e con una costruzione molto abile. Prima è un’ombra, poi una figura sfocata sullo sfondo, poi ne scopriamo la sagoma, e nel finale ne vediamo il volto.

Molto furbo fra l’altro cercare di umanizzarla, svelandone a sorpresa gli occhi piuttosto espressivi, per dare quello slancio emozionale che ci permette di empatizzare.

Soprattutto perché si cerca di raccontare un nemico che in realtà è vittima degli stessi protagonisti e che, come E.T., vuole solo tornare a casa.

Un character design fra l’altro semplice, ma d’impatto.

Semplicemente Elle Fanning

Elle Fannings in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per via anche del suo budget limitato, il film ha puntato su attori giovanissimi e fondamentalmente sconosciuti. La recitazione non è esattamente brillante, ma comunque di livello accettabile.

Fra tutti però si distingue Elle Fanning, che interpreta Alice, al tempo ancora poco conosciuta, ma che ha lavorato negli anni con autori come Woody Allen e David Fincher.

In questa pellicola troviamo una recitazione ancora acerba, ma che sa comunque destreggiarsi in diversi momenti più complessi della narrazione.

E il fatto che una scena sia basata solamente sul mettere in evidenza le sue capacità recitative è tutto un programma.

Pallidi comprimari

Riley Griffiths  in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Un difetto del film è di non riuscire a far risaltare i comprimari del protagonista.

Come per il miglior film per ragazzi Anni Ottanta, Joe è infatti circondato da un gruppetto di personaggi che gli fanno da contorno, e che sono al contempo il comic relief della pellicola.

Purtroppo, gli stessi sembrano essere dimenticati nel corso del film, al punto che si utilizzano diversi stratagemmi per lasciarne il più possibile indietro in occasione dello scontro finale.

Allo stesso modo questi personaggi per la maggior parte non hanno una caratterizzazione precisa, ma limitata a pochi elementi.

Abrams e Gioacchino: che coppia!

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per quanto magari Abrams non possa essere considerato un grande autore, la sua regia è ben più di quella di un mestierante qualunque.

In questa pellicola è innamorato dei suoi personaggi: li inquadra spesso fra il mezzo primo piano e il primo piano, facendoli avvicinare alla macchina da presa mentre guardano misteriosamente all’orizzonte.

Così anche bellissime le sequenze in cui i personaggi sono coinvolti in discussioni concitate e la macchina da presa gli gira intorno, regalando una splendida dinamicità alla scena.

La regia è inoltre impreziosita da un’ottima colonna sonora, composta dall’iconico Gioacchino, autore di colonne sonore di grande successo e valore come quella di Up (2010) e della nuova trilogia di Star Trek.

Cos’è il Super 8?

Il super 8 millimetri che dà il titolo al film è un formato cinematografico, un tipo di pellicola utilizzata proprio per il cinema amatoriale.

Ed è infatti quello che i protagonisti utilizzano per girare il loro film.