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Il caso Spotlight – Serve un villaggio per…

Il caso Spotlight (2015) di Tom McCarthy è un film che racconta l’inchiesta giornalistica che coinvolse il gruppo giornalistico Spotlight del The Boston Globe, riguardo al famoso caso di pedofilia e omertà nella Chiesa Cattolica.

A fronte di un budget veramente risicato – appena 20 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: quasi 100 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il caso Spotlight?

2001, Boston. Il gruppo di giornalisti d’inchiesta Spotlight si trova improvvisamente coinvolto in un caso di proporzioni inizialmente inimmaginabili: omertà e insabbiamento di tantissimi casi di pedofilia, e non solo a Boston…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il caso Spotlight?

In generale, sì.

Nonostante non abbia un grande valore artistico né una regia così interessante – e c’è un motivo per cui lo dico – Il caso spotlight è un film davvero avvincente e che riesce ottimamente nel suo lavoro: raccontare un caso con una tematica molto delicata come la pedofilia, riuscendo al contempo a non scadere nel facile dramma e pietismo.

Con, fra l’altro, un cast d’eccezione.

Raccontare il contesto

If it takes a village to raise a child, it takes a village to abuse one.

Se ci vuole un villaggio per crescere un bambino, ce ne vuole anche uno a molestarlo.

Per raccontare la storia de Il caso Spotlight, era fondamentale riuscire a raccontare il contesto.

Avendo in mente film dalla tematica simile, come Bombshell (2019) o il recente She said (2022), questo è a mio parere uno dei prodotti che meglio riesce ad immergere lo spettatore nell’ambiente raccontato.

Infatti, il film ben ci racconta come la problematica non fosse tanto l’omertà, quanto la presenza pressante e onnipresente della Chiesa Cattolica. Questo elemento viene esplicato in vari punti, in particolare nelle battute iniziali, quando Mary Barton, il nuovo direttore, viene invitato ad un colloquio privato con l’Arcivescovo Law.

E già in quel caso l’ambiente parla da sé: l’ufficio è ricco e quasi barocco, Law vi torreggia come un sovrano che si permette di offrire il suo aiuto al giornale, chiudendo l’incontro con un omaggio, che ben racconta le intenzioni del personaggio.

Altrettanto esplicative sono le varie interazioni con i diversi avvocati: tutti raccontano una realtà blindata e inaccessibile, in cui i colpevoli riescono a nascondersi nelle pieghe di un sistema corrotto e che fa leva sul potere inattaccabile della Chiesa.

E in cui un po’ tutti gli attori in scena sono colpevoli.

Non feticizzare

Un classico scivolone in questo tipo di racconti è il cadere nel facile dramma, mettendo esplicitamente in scena i crimini, sopratutto quelli più disturbanti.

Bombshell (2019) è esplicativo in questo senso.

In questo caso sarebbe stato semplicissimo, prendendo le dovute misure, inserire flashback che raccontassero gli abusi subiti dalle vittime. Invece, per la maggior parte, si mettono in scena personaggi già adulti che vogliono raccontare la loro storia, mentre i numerosi colpevoli non si vedono quasi per nulla.

Ma non per questo il film è meno coinvolgente.

Un’altra tensione

Il focus della tensione è tutto sui protagonisti dell’inchiesta.

Lo spettatore è fin da subito coinvolto nel mistero, che tocca una tematica indiscutibilmente delicata e disturbante, anche solo a parole. E per questo viene facilmente da fare il tifo per gli eroi e la loro strenua lotta contro un’istituzione apparentemente inattaccabile.

Al contempo, la tensione è ben distribuita all’interno della pellicola, mentre i protagonisti svelano poco a poco – a se stessi e allo spettatore – l’ampiezza del caso che hanno fra le mani e da cui, alla fine, escono vittoriosi.

Con punte drammatiche – e soddisfacenti – come la scena in cui Matty sbatte il giornale sull’uscio del prete pedofilo vicino di casa, o quando Peter, l’avvocato amico di Walter, cerchia tutti i nomi della lista di presunti pedofili.

Uno studio certosino

Avete notato che molto dei personaggi in scena hanno una loro particolarità che li rende unici e facilmente riconoscibili?

Questo perché la maggior parte degli attori protagonisti si sono premurati di venire – ed essere durante le riprese – in contatto diretto con le persone reali che stavano portando in scena.

In particolare Michael Keaton scoprì casualmente che il vero Walter Robinson abitava vicino a casa tua e lo andò a trovare. Lo stesso dichiarò, dopo aver visto il film:

Guardare Michael Keaton è stato come guardare in uno specchio, senza avere il controllo dell’immagine speculare.

Mark Ruffalo, che nella pellicola interpreta Michael Rezendes, si spinse anche oltre: non solo prese contatti con la persona reale, ma gli faceva anche leggere le battute prima di recitarle. E infatti Rezendes dichiarò:

Vedere Mark Ruffalo rimettere in scena cinque mesi della mia vita è stato come guardare in uno specchio.

Il caso Spotlight meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2016 sono ricordati principalmente per la vittoria di Leonardo di Caprio come Miglior attore per The Revenant (2015), dopo tantissime candidature andate in fumo.

Ma, più in generale, fu un’annata abbastanza particolare: nonostante Il caso Spotlight vinse Miglior film, non fu quello con maggiori nomination e neanche con le maggiori vittorie. Il grande vincitore della serata fu infatti Mad Max: Fury Road (2015) – che venne candidato a dieci statuette e ne vinse quattro – seguito da The Revenant – con dodici candidature e tre vittorie.

In effetti la pellicola vincitrice di Miglior film fu piuttosto anomala, più che altro perché, a differenza delle altre due sopra nominate, non ha grandi meriti artistici né grande profondità, nonostante sia comunque ben scritta e di grande coinvolgimento.

Infatti penso che vinse principalmente per la tematica trattata.

Non dico che non meritasse di vincere, ma, valutando da un punto di vista più oggettivo possibile, penso che meritasse di gran lunga la vittoria The Revenant – nonostante sia un film che mi annoia profondamente.

Invece, per il mio gusto personale, avrei fatto vincere quella meraviglia di Mad Max: Fury Road.

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Seven – La (non) commedia

Seven (1995) di David Fincher è la seconda pellicola da lui diretta, ma quella che lo lanciò effettivamente come regista – dopo il dimenticatissimo Alien³ (1992). Un thriller che divenne un cult per tanti motivi, fra cui la totale follia e crudezza della storia, oltre all’incredibile finale…

A fronte di un budget abbastanza risicato (appena 30 milioni di dollari), incassò tantissimo: 327 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Seven?

Il Detective Mills è stato appena riassegnato ad una nuova divisione, sotto la guida del saggio detective William Somerset. E da subito si occuperà di un caso veramente senza precedenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Seven?

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Assolutamente sì.

Seven è un cult non per caso: oltre ad una regia piuttosto sperimentale e variegata e alle ottime prove attoriali, la storia è incredibilmente coinvolgente, piena di colpi di scena, anche non poco disturbanti – pur non scadendo mai nel gore.

Una pellicola davvero imperdibile, da vedere sapendone il meno possibile, pur con qualche trigger alert. Infatti, nonostante il film non contenga scene effettivamente disturbanti, racconta nondimeno delle dinamiche non poco inquietanti, che potrebbero non farvi dormire la notte.

Ma ne vale davvero la pena.

Un tragico viaggio

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

David Fincher si ispira evidentemente al viaggio ultraterreno dantesco, che viene fra l’altro continuamente citato all’interno della pellicola. Al punto che in una scena si vedono anche le splendide litografie di Gustave Dorè, che illustrarono il capolavoro della nostra letteratura.

Con la grande differenza che il viaggio di Dante era una commedia in quanto – secondo le parole dello stesso autore – aveva un lieto fine, con la redenzione del protagonista e, infine, la visione di Dio. Al contrario, il viaggio di Mills è tragico in ogni suo aspetto.

Ma per questo si crea un interessante parallelismo.

Detective Mills in Seven

Mills è un personaggio superbo e pieno di rabbia, una rabbia incontrollabile.

E, per questo, è insalvabile.

Per tutto il tempo si vuole mettere prepotentemente in gioco, in prima linea, ignorando le regole o anche il semplice buonsenso, del tutto insensibile agli ammonimenti di Somerset. Un personaggio che si sente superiore a tutti gli altri, che è convinto di sapere il fatto suo e che vive il caso in maniera davvero impetuosa e superficiale.

Morgan Freeman e Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ad ogni occasione si arrende davanti agli inganni apparentemente più insolvibili del killer, vuole a tutti i costi prendere in mano il caso, si rifiuta di seguire gli ammonimenti del suo collega e irrompe prepotentemente nella casa di John Doe – una sorta di foreshadowing di quello che poi succederà nel finale.

E la sua superbia si vede in particolare nel dialogo con John Doe, in cui è del tutto sicuro di averlo finalmente in pugno e per questo cerca di umiliarlo.

In realtà lo sta solo sottovalutando.

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Allo stesso modo Dante era un personaggio afflitto da un grande peccato capitale, anche se diverso da quello di Mills: la lussuria.

Per questo il suo viaggio, soprattutto quello purgatoriale, serviva per metterlo davanti ai sette peccati capitali, da cui si liberava salendo ogni cornice. In particolare passava attraverso il fuoco purificatore della lussuria con grande paura, ma riuscendo infine ad essere liberato da ogni peccato.

Invece, anche se a Mills viene data la possibilità di domare il suo peccato, fallisce.

William Somerset in Seven

Il Detective Somerset dovrebbe essere la guida per Mills.

Un personaggio disilluso, che vuole sottrarsi all’angoscia della vita di poliziotto in una realtà così violenta e degradata. È l’unico davvero consapevole di quello che sta accadendo, che capisce la natura seriale del caso e che riesce davvero ad orientarsi all’interno della rete di indizi del killer.

William è un personaggio saggio e riflessivo, che per tutto il film cerca di tenere a bada ed educare l’irriverente Mills, che invece si vuole buttare subito sul caso e nell’azione. Il suo gesto in extremis di salvare il suo giovane compagno e non far vincere John Doe, però, va in fumo.

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Al contempo William è l’unico che davvero capisce il killer.

Come John Doe cerca continuamente di esaltarsi nella figura di prescelto, superuomo, salvatore e punitore, il detective cerca insistentemente di ridimensionarlo, di riportarlo alla sua natura strettamente umana, anche e soprattutto agli occhi di Mills.

La sua figura può essere facilmente paragonata a quella di Virgilio nella Commedia: una guida saggia e autorevole che conduce l’eroe nel suo viaggio, che lo protegge e lo assiste, riuscendo vittoriosamente nella sua missione.

Purtroppo, il finale per William non è altrettanto favorevole.

E, forse anche per questo, decide infine di non andare in pensione…

John Doe in Seven

La forza di John Doe è il suo annullamento.

Il motivo per cui questo killer è così sfuggente è perché distrugge totalmente la sua persona, in primo luogo spellandosi le dita per evitare di lasciare impronte digitali, poi privandosi di un nome – John Doe è il termine poliziesco per indicare un uomo non identificato – e, infine, riducendo sé stesso ad un semplice peccatore.

La missione di John Doe – che sia quella data da Dio o la sua personale – è quella di ripulire almeno in parte il mondo della sporcizia che lo domina, una bruttura così profonda che ormai fa parte dell’assoluta normalità.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ed è per questo che, in parte, l’operato di John Doe è inattaccabile: prende di mira veramente quello che da alcuni può essere considerato il peggio della società – l’avvocato colluso, lo spacciatore, la prostituta… – come lo stesso personaggio sottolinea.

Ma in questo peggio è anche lui coinvolto: non tanto dalla superbia, ma dall’invidia che il personaggio ammette di provare nei confronti di Mills, nei confronti della sua vita normale che, nel dover portare avanti la sua missione, si è totalmente precluso.

Kevin Spacey in Seven

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

In questo senso è emblematica la scena dell’arresto: dopo che John Doe si è presentato trionfalmente agli occhi dei due detective, viene ridotto a terra, quindi si lascia abbassare ad un livello più terreno, e poi alza gli occhi verso Mills.

E qui mostra la sua apparentemente invidia, costretto a guardare dal basso chi gli sta sopra, in condizione di inferiorità dove spesso sono ridotte le anime purganti, in particolare quelle dei superbi – il suo vero peccato.

Il casting del killer di Seven fu piuttosto travagliato, anche per la natura del prodotto.

David Fincher in prima battuta avrebbe voluto Ned Beatty, per la sua incredibile somiglianza con lo Zodiac Killer – o il suo identikit – fra l’altro con un interessante foreshadowing per la carriera dello stesso Fincher, che tornò più di dieci anni dopo con Zodiac (2007).

Tuttavia l’attore rifiutò, affermando che la sceneggiatura del film era la cosa più diabolica che avesse mai letto.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Seguirono diversi tentativi di casting, fra cui quello di Kevin Spacey, che venne però inizialmente rifiutato perché richiedeva un cachet troppo elevato.

Per questo inizialmente le scene con il killer vennero girate da un attore ignoto, ma in poco tempo si scelse di rimpiazzarlo e venne nuovamente negoziato il contratto di Spacey, che girò le sue scene nel giro di soli dodici giorni.

Lo stesso attore scelse appositamente di non essere inserito né nel marketing né nei titoli di testa del film, così da rendere veramente funzionale il colpo di scena finale.

Heath Leadger

Un elemento metanarrativo di grande interesse, che rendeva senza nome il killer per lo spettatore stesso, proprio a ricalcare il suo aspetto anonimo e non riconoscibile, quasi invisibile – come era stato sia per il killer dello Zodiaco quando per l’ancora misterioso attentatore D. B. Cooper.

Entrambi casi reali di criminali che vinsero per il loro aspetto anonimo.

Un aspetto di grande interesse che venne ripreso in maniera pedissequa dal Joker di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (2008): un criminale molto intelligente, ma senza nome e senza identità.

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Metropolis – Riscrivere un classico

Metropolis (2001) di Rintarō è un lungometraggio animato nipponico, ispirato al classico della cinematografia omonimo del 1927.

Come la maggior parte dei prodotti di questo tipo, ebbe un costo sostanzioso (¥1.5 miliardi) e un incasso misero (¥ 100 in Giappone e 4 milioni di dollari in tutto il mondo).

Di cosa parla Metropolis?

Il giovane Kenichi e lo zio Shunsaku Ban sono sulle tracce in uno scienziato criminale, che sembra coinvolto in uno strano progetto che ha come mandante il misterioso Duke Red…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Metropolis?

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Assolutamente sì.

Oltre a racchiudere al suo interno concetti di grande interesse e profondità, Metropolis riesce anche ad essere una pellicola piacevolissima, con una costruzione intrigante e una regia piena di fascino.

Si viene infatti facilmente coinvolti in dinamiche anche piuttosto semplici, ma in una costruzione della storia e della mitologia davvero avvincenti.

Un recupero obbligato.

Vivere di contrasti

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Metropolis è una pellicola che vive di contrasti.

Lo stile di animazione è piuttosto peculiare, e sembra molto più tipico di prodotti rivolti ad un pubblico infantile – per certi versi mi hanno ricordato i disegni del classico per ragazzi Tintin.

Tuttavia, la regia e l’animazione sono in questo senso davvero sorprendenti, riuscendo a mettere in contrasto la delicatezza dei disegni dei protagonisti con la crudezza dei temi trattati.

Non mancano infatti diverse scene di morte e violenza, anche piuttosto esplicite – fra tutte la morte di Pero, con la testa spappolata per terra. E così, più in generale, la trattazione dei robot, uccisi continuamente senza pietà e trattati alla stregua di schiavi.

Un contrasto piuttosto peculiare, che non mi aspettavo.

Una regia sorprendente

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

La regia è stato l’elemento forse più sorprendente della pellicola.

Una messinscena piuttosto variegata, che gioca molto sui già detti contrasti, con un uso magistrale delle luci e della costruzione della tensione. Particolarmente avvincente sono le scene di duello, con piccoli tocchi registici che riescono a tenere per tutto il tempo col fiato sospeso.

Una regia inoltre che lascia profondamente respirare il mondo trattato, vivendo di tantissimi particolari e scene piene di vita.

Raccontare il mondo

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Quando si vuole raccontare un mondo nuovo, soprattutto se complesso e intricato, si possono percorrere diverse strade.

Metropolis sceglie una strategia simile a quella de La compagnia dell’Anello (2001): inserire piccole ma significative didascalie all’interno dei dialoghi stessi dei personaggi, che permettono allo spettatore di muoversi con facilità all’interno del mondo raccontato.

E, anche di più, costruendo molto bene la mitologia e i misteri del film, svelandoli a poco a poco allo spettatore quanto ai protagonisti stessi, che si vedono fin da subito interrogare sulle questioni principali della storia, rimanendo all’oscuro per la maggior parte della pellicola.

Il mito della Torre di Babele

Il mito della Torre di Babele è più volte citato all’interno della pellicola.

Una costruzione che si perde nella leggenda, ma che in generale – metaforicamente parlando – racconta la superbia umana nel voler sfidare i suoi limiti e gli dei in particolare.

In Metropolis questa metafora è riletta intrecciandosi col tema sempreverde della fantascienza moderna: la macchina che si rivolta – e supera – il suo creatore, in maniera anche simile a Ghost in the shell (1995).

Così il Duca Red vuole superare i limiti umani mettendo a capo della sua creazione un superumano, capace di controllare ogni arma e ogni elemento, così da poter distruggere ogni cosa, per – secondo la sua folle idea – ricreare e migliorare.

Il confronto con Metropolis (1927)

Nonostante Metropolis sia un film a sé stante, non mancano ovviamente i riferimenti all’opera originale di Fritz Lang.

Oltre alla costruzione della città simile – sempre distinta in tre livelli – in entrambe le pellicole si cita il mito di Babele, ed in entrambe un’enorme torre domina la città.

Altrettanto simile è la scena della rivolta e in generale la rappresentazione della classe più umile e dei robot trattati come schiavi: sicuramente l’ispirazione è la famosissima scena degli operai che vanno al lavoro, muovendosi quasi come automi.

In ultimo, una citazione visiva: la scena del risveglio di Tima avviene con le stesse dinamiche del risveglio della Maria-robot nel film del 1927:

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Paprika – Il potere dell’incubo

Paprika (2006) di Satoshi Kon è l’ultimo lungometraggio animato diretto da questo visionario regista, autore di splendidi prodotti dal sapore onirico come l’indimenticabile Perfect blue (1997).

A fronte di un budget molto esiguo (300 milioni di yen, circa 2,6 milioni di dollari), incassò meno di un milione in tutto il mondo.

Niente di sorprendente, visto il tipo di prodotto.

Di cosa parla Paprika?

In un futuro non troppo lontano, il DC Mini, dispositivo che permette di vedere i propri sogni, viene rubato. E il mistero è piuttosto fitto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Paprika?

Assolutamente sì.

Se avete visto l’opera prima di Satoshi Kon – Perfect blue – avete un’idea del tipo di film che vi troverete davanti. In questo caso il regista gioca a carte scoperte, introducendoci in una storia che fin dalle prime battute gioca profondamente con l’elemento onirico.

Un prodotto che lavora per sottrazione, in cui è facile perdersi.

Ma che vale assolutamente la pena di scoprire.

Il doppio

Una delle maggiori tematiche di Paprika è il doppio.

La maggior parte dei personaggi in scena vivono di doppi: Paprika e Chiba, Tokita e Himuro, Konakawa e il misterioso amico del suo passato. E in qualche modo ogni personaggio si definisce tramite la sua controparte.

Anzitutto Tokita, un bambinone geniale che si sente fondamentalmente incompreso, ma che ricerca la sua controparte in Himuro, a cui assomiglia anche fisicamente. Con il suo perduto amico vorrebbe ritrovare una connessione che sembra ormai recisa, ma che lui sente ancora molto vicina.

In questo senso interessante il parallelismo fra il caos della casa di Himuro e lo stesso nella casa di Tokita: anche se con giocattoli diversi, il comportamento infantile è sempre lo stesso.

Discorso più complesso quello riguardo al Detective Konakawa.

L’uomo sembra costantemente vittima di sé stesso – come ben testimonia il sogno ricorrente in cui viene aggredito da personaggi con la sua faccia – e in qualche modo sente di aver ucciso un suo alter ego, una parte di sé, ovvero il suo vecchio amico venuto a mancare.

In realtà, prendendo consapevolezza della sua mancanza, Konakawa riesce a riabbracciare quella parte di sé e del suo passato che aveva insistentemente seppellito.

Paprika e Chiba

Ma lo sdoppiamento più profondo è quello fra Paprika e Chiba.

Paprika è una ragazza frizzante e piacevole, che si veste di colori brillanti; al contrario Chiba è una donna molto più austera e riflessiva, caratterizzata da colori più scuri e spenti. Le due sono in qualche modo una la parte dell’altra, anche se si presentano come sostanzialmente indipendenti.

E infatti molto spesso Chiba si scontra con il suo alter ego, cercando di sottometterlo, ma riuscendo a raggiungere la sua forma completa solamente quando davvero lo assorbe, lo accetta dentro di sé, diventando un essere capace di sconfiggere Tokita.

E proprio quella scena offre un ulteriore spunto.

La pluralità dell’uomo

Oltre al doppio, in Paprika si racconta la pluralità dell’individuo.

Abbastanza rivelatorio in questo senso il momento in cui Paprika entra nel famoso quadro rappresentante la sfida di Edipo, e prende le vesti della Sfinge. La Sfinge è già di per sé un essere che racchiude una pluralità – donna, leone e uccello – che ben si riassume nel famoso indovinello:

Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?

Ovvero l’uomo, all’interno delle diverse fasi della sua vita.

E infatti troviamo diversi riferimenti a questa pluralità all’interno del film, a cominciare proprio da Tokita, più volte definito un genio nel corpo di un bambino, ma in particolare nella scena sopracitata in cui Chiba accetta Paprika dentro di sé e diventa un neonato, poi una ragazza, fino a diventare una donna.

L’inviolabilità del sogno

Le motivazioni di Tokita sono meno banali di quanto potrebbero apparire.

Se apparentemente potrebbe sembrare che abbia un sogno di potenza tipico del più classico villain, in realtà a guidarlo effettivamente sono i suoi più profondi principi, che riguardano l’inviolabilità del mondo del sogno.

Come ben spiega fin dalla sua prima apparizione, il Presidente è profondamente contrario a questa volontà di onnipotenza dell’uomo, che cerca di controllare qualcosa che dovrebbe essere assolutamente incontrollabile, perché in qualche modo irrazionale.

E solo in seguito sogna di impossessarsi del potere dell’onirico.

La potenza dell’onirico

L’elemento onirico è esplosivo, strabordante, inarrestabile.

Ed è ben rappresentato dalla parata in continua espansione, in cui ogni personaggio prima o poi viene coinvolto. Una parata che non ha delle regole, che sembra avere una vita propria e che raccoglie ogni tipo di elemento fantastico, anche il più surreale e inimmaginabile.

E questo potere fa davvero gola a Tokita, che riesce progressivamente a superare la sua disabilità in vari modi – trasformando le sue gambe in radici, prendendo il possesso del corpo di Osanai e infine esplodendo nel suo massimo potenziale all’interno del sogno finale.

Chi è Paprika?

Se volessimo semplificare molto, potremmo dire che Paprika è semplicemente l’alter ego onirico di Chiba.

Ma Paprika è molto più di questo.

Come vediamo fin dall’inizio, è una figura che non vive assolutamente in funzione di Chiba – anche se forse è Chiba stessa che l’ha creata. Anzi, è un personaggio del tutto autonomo, che riesce a muoversi all’interno delle varie realtà – non solamente quelle oniriche – e in qualche modo essere sempre presente.

Possiamo semplicemente dire che è un elemento virtuale?

Non proprio.

Paprika è quasi come se fosse un’entità, che vive all’interno del sogno e si muove liberamente all’interno dello stesso, potendo trasformarsi a suo piacimento. Un elemento oltre la realtà più materiale, un fantasma inafferrabile e indefinibile.

Cosa rappresenta la bambola?

L’elemento più enigmatico del film è l’inquietante bambolina che si vede per la prima volta a casa di Himuro, che ha sul comodino anche una foto che la rappresenta.

Un personaggio che non parla mai, se non scoppiando nella risata zuccherina sul finale, quando diventa gigantesca. A livello materiale, probabilmente non è né più né meno che una bambola, che Himuro e Tokita avevano visto all’interno del parco di divertimenti abbandonato.

A livello simbolico, può essere facilmente letta come la rappresentazione del sogno stesso, il sogno delirante che trasforma degli elementi della realtà, magari anche appartenenti alla sfera infantile, in qualcosa di assurdo e mostruoso.

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Ghost in the shell – La profondità travestita

Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii è un lungometraggio animato giapponese, uno dei più grandi cult dell’animazione orientale. Un prodotto che si cercò in seguito di riportare sullo schermo con il live action omonimo del 2017, che fu sommerso dalle critiche.

A fronte di un budget abbastanza contenuto di appena 2 milioni di dollari (330 milioni di yen), incassò comunque pochissimo (circa 10 milioni), ma divenne col tempo un cult, rientrando per così dire nelle spese grazie agli incassi dell’home video (43 milioni in tutto).

Un ringraziamento speciale a Carmelo, senza cui questa recensione non avrebbe potuto esistere.

Di cosa parla Ghost in the shell?

In un futuro lontano ma probabile, l’uomo si è sempre di più fuso con le macchine. Ma le divisioni politiche sono sempre le stesse…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ghost in the shell?

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Assolutamente sì.

Ghost in the shell è un film incredibile da ogni punto di vista.

Il reparto tecnico e artistico è di una bellezza che lascia senza fiato, sia nelle animazioni perfette, nei disegni e nel character design meravigliosamente pensato.

Inoltre, questa pellicola è di fatto una riflessione profonda e filosofica travestita da film action e cyberpunk. Una serie di concetti che magari non arriveranno immediatamente alla prima visione, ma che sono frutto di una scrittura profondamente immensa.

Non un film, ma un’esperienza.

Tutto cambia…

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il mondo raccontato in Ghost in the shell è assolutamente visionario, se non anche molto probabile.

Da anni i futurologi ipotizzano un futuro neanche troppo lontano in cui l’uomo vivrà sempre più compenetrato con la tecnologia.

Ma, all’interno di mondo in cui anche una macchina può essere considerata un essere vivente, l’umanità cerca di conservare la sua identità tramite l’anima, o il ghost – o il concetto della stessa – quello scintillio di consapevolezza che distingue l’uomo dalla mera macchina.

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Un concetto su cui la pellicola si interroga continuamente, in primo luogo attraverso il personaggio di Motoko, che sente di avere un’anima, si sente umana solamente perché viene trattata come tale.

Ma la risposta al suo dilemma arriva in un certo senso tramite Project 2051: un essere senza un corpo, senza un’anima, che esiste solo virtualmente, ma che ha acquisito consapevolezza, ambendo allo status di essere vivente al pari degli uomini.

E, allora, cosa è l’uomo e cos’è la macchina?

…niente cambia

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Davanti all’immensità di questi cambiamenti e avanzamento tecnologici, l’uomo non cambia la sua natura.

Continuano le divisioni politiche in un intricato gioco di potere che mi ha ricordato per molti versi 1984 (1949) e L’uomo nell’alto castello (1962). Con la sola differenza che la tecnologia avanza più veloce dell’uomo stesso, diventando sostanzialmente incontrollabile.

Un elemento alla base di tutta la fantascienza moderna: la macchina che si rivolta contro il suo stesso creatore.

Fermarsi

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Una particolarità della pellicola è che si ferma continuamente.

Diverse manciate di secondi dedicate a soffermarsi su splendide sequenze di grande potenza visiva e artistica, impreziosite da musiche lente e sibilline che raccontano un mondo lontano, eppure così vicino alla contemporaneità.

E gli infiniti momenti in cui ci si arresta, senza una parola, ad osservare i personaggi in inquadrature che sembrano delle opere d’arte.

E una continua e intensa riflessione, che tocca tantissimi concetti e li riesce organicamente a riflettere all’interno di pellicola che si propone come action, ma che di action ha ben poco.

Riflettiamo su Ghost in the shell

All’interno della pellicola si riprendono diversi concetti filosofici di grande interesse e profondità – che ho tentato di spiegare nella mia umile ignoranza.

L’angoscia singolarizzante

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Uno dei concetti più forti della pellicola si riassume nella cosiddetta angoscia singolarizzante di Heidegger.

Un processo di consapevolezza dell’uomo di fronte al nulla, in cui prova una profonda angoscia davanti alla possibilità di un’esistenza inautentica, in cui non può emergere, ma rimanere parte di una massa indistinta.

E questo lo spinge invece verso una singolarizzazione, ovvero una ricerca di un’identità che lo distingua dagli altri

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Questo concetto ben si articola nella lunga riflessione di Motoko.

Insieme a Batou, la protagonista riflette su quanto, nonostante sia forse uno degli esseri più avanzati e con l’accesso ad un numero virtualmente illimitato di informazioni, senta comunque di non aver espresso il suo pieno potenziale e che lo stesso sia lì, a portata di mano, ma irraggiungibile.

E questo sarà possibile in certa misura fondendosi con Project 2051, e creando qualcosa di nuovo e teso verso un miglioramento e un’evoluzione davvero soddisfacente.

E parlando di evoluzione…

Il darwinismo

Mokoto e Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Tutto il monologo di Project 2051 a Motoko è un riferimento alla teoria darwinista.

All’interno della teoria di Darwin l’evoluzione umana (o di una specie in questo caso) si articola in una serie di cambiamenti, per cui il cambiamento più forte e adatto all’ambiente è quello che domina.

All’interno del suo monologo il Puppet Master racconta come il miglioramento della specie e dell’individuo segua la strada del cambiamento, ma anche del sacrificio, in cui gli elementi devono unirsi per sopravvivere e raggiungere una condizione superiore.

La via di Damasco

 Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il percorso della protagonista può anche essere associato a La via di Damasco, riguardante la conversione di San Paolo.

Prima di essere un discepolo di Cristo, il santo era un persecutore di cristiani per mano dei giudei gli ebrei della sinagoga. Un giorno una luce lo fece cadere da cavallo e l’uomo sentì la voce di Cristo, che gli chiedeva perché perseguitava lui e i cristiani.

Così avvenne la sua conversione.

Allo stesso modo Motoko, dopo aver perseguitato Project 2501, si connette alla sua coscienza e si fa convincere dalle sue parole a cambiare idea e ad abbracciare la sua visione – e la sua essenza.

Così come San Paolo accetta Cristo dentro di sé, così la protagonista accetta quello che prima pensava essere il suo nemico.

Il problema del live action di Ghost in the shell

A cura di Carmelo

Nel 2017 si cercò di produrre un live action della storia, con risultati disastrosi sotto ogni punto di vista.

Oltre alle accuse (dovute) di whitewashing – che compromisero per un certo periodo la carriera di Scarlett Johansson – il film fu un disastro di critica e pubblico.

E per ottimi motivi.

Anzitutto, le grafiche e scenografie sono pacchiane e fastidiose a livello visivo: ologrammi giganti futuristici a scopo pubblicitario – lontani anni luce da quelli di classe di Blade Runner (1982) – e luci epilettiche.

L’americanizzazione

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Ma la mancanza più grave è la voluta americanizzazione dell’anime di Masamune Shirow per renderlo fruibile al pubblico medio americano.

In questo senso, la filosofia e personalità dei personaggi sono ridotti a frasi da baci perugina, con alcuni personaggi resi delle pure macchiette che si vedono per tre minuti scarsi solo per aiutare i protagonisti.

E l’antagonista, a differenza dell’anime, è il villain stereotipato e scialbo che si trova in quasi tutti i film di fantascienza e cyberpunk.

Così la storia d’amore tra i personaggi è ridicola e scontata, con un sentimentalismo smielato fra personaggi inesistenti nel manga (con un loro perché narrativo), che ricordano la brutta versione di Io Robot (2004) con Will Smith.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Per fortuna che hanno inserito Takeshi Kitano, attore nipponico, messo lì per ricordare che il film si basa su un Manga, ovvero una forma d’arte orientale.

E cercando sempre di attirare il pubblico dei fan, è stata inserita una gran quantità di fanservice piuttosto fastidioso, che serve solamente per far godere i fan del manga – ma che a me ha dato solo fastidio.

Le scene violente, diventate iconiche nel Manga, sono state o censurate o trasformate in versione PEGI 6, risultando in una comicità involontaria.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Secondo questo stesso concetto, le logiche narrative più che ricordare Ghost in the Shell ricordano la brutta versione di Dragon Ball (in particolare la storia dei Cyborg C18 e C17).

L’importante messaggio dell’anime è ridotto ad una esaltazione dell’umanità in pieno stile qualunquista simil Adriano Celentano.

Insomma, se fosse stato un film cyberpunk generalista qualsiasi, sarebbe rimasto sulla soglia del guadabile.

Ma, avendo come titolo Ghost in the shell, non è assolutamente accettabile.

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Glass onion – La ricetta vincente

Glass onion – A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson è il sequel di quel piccolo successo che fu al tempo Knives out (2019). Un riscontro di pubblico tale, per una produzione comunque non particolarmente impegnativa, da far acquisire i diritti a Netflix e ordinare due sequel.

Un prodotto che mi ha colpito così tanto tanto da vederlo due volte di fila senza annoiarmi neanche un minuto.

Tuttavia, vanno fatte delle giuste premesse.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Glass onion (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliore sceneggiatura non originale

Di cosa parla Glass onion?

Il detective Blanc viene coinvolto in un nuovo mistero, con al centro un eccentrico miliardario, che però non è ancora morto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Glass onion?

Daniel Craig, Kate Hudson, Madelyn Cline e Leslie Odom Jr. in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Per me, assolutamente sì.

Tuttavia, ci sono diverse mani da mettere avanti.

Anzitutto, ovviamente, se non vi è piaciuto Knives out, non guardate il sequel: non aspettatevi niente di diverso. Oltre a questo, Glass onion gioca ancora di più in maniera sperimentale con il genere whodunit, sostanzialmente snaturandolo. Per questo, se invece cercate le classiche dinamiche del genere, non è il film che fa per voi.

Invece se, come me, non siete particolarmente appassionati dei racconti di genere giallo, sopratutto nelle sue dinamiche che, pur indubbiamente vincenti, risultano ridondanti alla lunga per i non appassionati, potrebbe piacervi. E anche molto.

L’importante è partire con il giusto mindset.

Mantenere la ricetta…

Daniel Craig in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Glass onion gode di una grande furbizia di scrittura.

Rian Johnson si è trovato davanti all’impresa di dover portare un sequel ad un film autoconclusivo, non snaturando l’opera originale e creando un prodotto che fosse altrettanto avvincente per il pubblico che aveva apprezzato il primo film.

E così ha scelto di utilizzare uno scheletro narrativo piuttosto simile, ma esplorandolo in direzioni diverse e cambiando radicalmente la caratterizzazione di alcuni personaggi, che pure hanno un ruolo molto simile rispetto al primo capitolo.

Ed è stata una strada vincente, con risultati inaspettati.

…per uscire dal genere

Kate Hudson e Madelyn Cline in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Sopratutto alla seconda visione, mi sono resa conto di quanto la pellicola esca dai canoni del giallo whodunit.

Infatti, se il primo film complessivamente si poteva considerare un giallo classico, che poteva però infastidire gli appassionati per la profonda ironia e la mancanza di volontà di rimanere nel seminato, in questo caso possiamo felicemente parlare di un’uscita dal genere di riferimento.

Non ci sono colpi di scena che rivelano il vero colpevole, tutti gli indizi sono mostrati allo spettatore, e, nonostante in qualche misura sembri seguire le strade più classiche, sul finale rivela tutto il contrario.

In particolare tramite il gioco metanarrativo della glass onion.

Glass onion: un gioco metanarrativo

Kathryn Hahn, Kate Hudson e Madelyn Cline in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Come per il primo Knives out, Glass onion è un film assolutamente democratico.

Infatti tutti gli indizi necessari per risolvere il mistero sono già in scena, e sono tanto più evidenti tanto più si entra nella logica metanarrativa della glass onion.

La pellicola gioca ampiamente con lo spettatore e con le sue aspettative: io stessa per tutta la durata mi aspettavo un grande colpo di scena finale che rivelasse chissà quali misteri. E invece, per ammissione dello stesso Blanc, il mistero è tanto semplice quanto stupido.

E infatti la questione si risolve su più livelli, per cui sia il mistero che Miles sono come una cipolla di vetro: apparentemente complessa e stratificata, in realtà evidente e sotto gli occhi di tutti. Lo stesso miliardario basa la sua identità su una serie di stratificazioni ingannevoli e fragili, mentre la sua vera natura è palese e insignificante.

Il simbolismo di Mona Lisa

Janelle Monáe in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Dal versante totalmente opposto, troviamo il personaggio di Helen, che viene più volte associato alla figura di Monna Lisa.

Infatti sia il suo personaggio che la misteriosa donna di Leonardo condividono una personalità e uno sguardo tanto più enigmatico e intrigante, e così anche per la sorella gemella: difficili da leggere e da comprendere. E ben più sottili e interessanti di quanto appaia all’esterno.

E infatti il dipinto di Mona Lisa è una sorta di simbolo di quello che Miles vorrebbe essere, e dell’immagine che cerca di costruirsi per diventare altrettanto intrigante e enigmatico. Ma, appunto, come la stessa glass onion rivela, non è nulla di tutto questo.

Un finale migliore

Kathryn Hahn, Kate Hudson e Madelyn Cline, Edward Norton in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

In prima battuta il finale mi aveva deluso.

Poi, ho capito di essere caduta nella mia stessa trappola: considerare questa pellicola per quello che non era, e aspettarmi delle dinamiche che non sono nella sua natura. E infatti, come molti altri come me, mi aspettavo un grande colpo di scena finale o una rivalsa più classica in cui il villain veniva incastrato.

E invece non è così, ma è meglio così.

Infatti, se ci si ragiona un attimo, Helen non avrebbe avuto nessun vantaggio ad incastrare Miles a livello legale: con le sue connessioni e con l’omertà diffusa, il miliardario se la sarebbe comunque cavata. Invece, riuscire a distruggere il suo impero dalle fondamenta, rivelarne tutta la sua fragilità, è la mossa perfetta per mettere davvero in scena una vendetta vincente.

Ancora attuali

Dave Bautista in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Anche più della scorsa pellicola, Glass onion riesce ad essere incredibilmente attuale.

Già l’idea di ambientarlo nel 2020 era intrigante, ma lo è stata tanto più in quanto non ci si è fossilizzati su questo elemento, che poteva già apparire datato. Al contrario, si dedica ampio spazio al discorso della cosiddetta woke culture e in generale degli scandali nati su internet.

Per fortuna il discorso non è banalizzato per nulla, anzi si mostra, senza raccontarlo esplicitamente, di come personaggi stupidi e fondamentalmente negativi giustifichino il loro comportamento sbagliato con quello che noi chiameremmo il politicamente corretto.

Un argomento tanto attuale, quanto raccontato in maniera interessante e quasi grottesca.

La delicatezza

Hugh Grant in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Il cameo di Hugh Grant merita un discorso a parte.

L’attore appare all’improvviso nella seconda parte della pellicola, e ci rivela un elemento del tutto inaspettato, ma raccontato con una tale delicatezza che non ho potuto smettere di pensarci. Nonostante Blanc non sia una macchietta né uno stereotipo – anzi non lo diresti mai – è in una relazione con un uomo.

Molti dovrebbero prendere spunto da come è stato introdotto questo elemento nella pellicola, senza feticizzarlo, senza drammatizzarlo, ma rendendolo un elemento assolutamente organico nella trama.

Tanto più che la rappresentazione di coppie omosessuali di uomini adulti più avanti con gli anni è quasi totalmente assente nel cinema contemporaneo…

Sherlock sei tu?

Con la preziosa collaborazione di Irene

All’interno della pellicola, non mancano i riferimenti a Sherlock Holmes.

Anzitutto nella scena del bagno in cui Blanc sta giocando ad Among us con i suoi colleghi, fa un discorso che riprende molto le mosse di Sherlock: come il famoso detective, il protagonista afferma di aver bisogno di casi interessanti per combattere la noia.

Questo elemento è presente sia nell’opera originale, sia nelle trasposizioni: nel romanzo per combattere la noia fa utilizzo di eroina, nella serie tv Sherlock utilizza i cerotti di nicotina.

Così anche nella stessa scena, nella vasca da bagno regna il disordine più totale: così al 221B Baker Street, nei romanzi come nei prodotti derivati, l’ambiente è dominato dal caos.

Più in generale, il personaggio di Blanc sembra un interessante incontro fra le versioni televisive e cinematografiche Poirot quanto di Sherlock.

Per le modalità dello svelamento del mistero e sopratutto la rivelazione del finto omicidio di Miles ricorda in particolare lo Sherlock di Benedict Cumberbatch nella serie omonima, che desidera svelare immediatamente le sue deduzioni, quasi per vanità…

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Knives out – Not a classic whodunit

Knives out (2019) di Rian Johnson fu una piccola scoperta di qualche anno fa: un classico giallo whodunit, che però era molto meno scontato di quanto si potesse pensare.

Un genere che ormai si vede molto raramente al cinema, e che ebbe un successo inaspettato, tanto da portare Netflix ad acquistarne i diritti e ordinare due sequel, di cui uno in prossima uscita.

Infatti, a fronte di un budget tutto sommato contenuto di 40 milioni di dollari, incassò molto bene: 312 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Knives out?

Davanti all’apparente suicidio di Harlan Thrombey, il detective Benoit Blanc è chiamato a risolvere un mistero ben più complesso di quanto sembri…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Knives out?

Assolutamente sì.

Come genere è un po’ di nicchia, ma può facilmente essere apprezzato anche dai non appassionati. Aspettatevi un piccolo giallo pieno di colpi di scena, ma che gioca con lo spettatore in maniera molto corretta. Infatti solitamente questo tipo di prodotti ci sbattono in faccia una serie di false piste, per depistarci e sfruttare i colpi di scena.

Una tecnica che Scream parodizzava già negli Anni Novanta, per intenderci.

Ma per fortuna niente di tutto questo in Knives out, che invece offre allo spettatore tutti gli indizi per risolvere il mistero, diventando parte attiva della storia.

E non dirò di più.

Cosa significa Knives out?

Capire l’espressione knives out rende la pellicola ancora più godibile.

Letteralmente significa Fuori i coltelli, ma è corrispondente alla nostra espressione italiana Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli, ad indicare quindi una situazione familiare piuttosto spinosa e in cui tutti si vogliono pugnalare alle spalle.

Ma fate anche caso a quanti coltelli effettivi sono presenti in scena, proprio a raccontare una situazione sempre sul filo del rasoio…

La falsa pista del falso inetto

L’unica effettiva falsa pista della storia è quella di Blanc come un detective inetto che non si rende conto che Marta lo stia costantemente ingannando.

Tuttavia, se lo spettatore è abbastanza attento, si rende conto subito della discrepanza fra il suo comportamento all’inizio e per il resto della pellicola. Se infatti all’inizio il detective appare piuttosto sottile e capace nelle sue deduzioni, al contrario per il resto del tempo è così evidente, sopratutto ad una seconda visione, che stia fingendo di non vedere cosa sta succedendo.

Quindi è una falsa pista tanto per dire, che in realtà racconta un personaggio molto intrigante con un interprete d’eccezione, che non vedo l’ora di rivedere in azione.

Un cast esplosivo

Oltre al fantastico Daniel Craig, la pellicola gode di un cast stellare.

Fra tutti i personaggi secondari, per me spiccano due attrici che sono meravigliose praticamente in ogni ruolo – e non a caso sono fra le mie interpreti preferite: Jamie Lee Curtis e Toni Collette.

Da una parte Jamie Lee Curtis nel ruolo della ricca ereditiera che vive nella favola della self made woman, dall’altra Toni Collette come l’arrampicatrice sociale e approfittatrice. Entrambe incredibilmente in parte, oltre ad uno spettacolo visivo e interpretativo.

Menzione d’onore alla povera Katherine Langford, che a me era tanto piaciuta nella prima stagione di Thirteen reasons why (e non oltre), ma che dopo questo film è praticamente scomparsa dalle scene.

Ma, anche qui, fa il suo.

Una stella nascente

Ovviamente parlando di Knives out non si può non parlare di quella che al tempo era una stella nascente e che fu un po’ lanciata proprio da questo prodotto.

La splendida Ana De Armas.

Perfetta nella parte della ragazza tormentata dagli eventi, genuinamente impaurita e di assoluta bontà, che si trova messa in mezzo in una situazione che è emotivamente e fisicamente troppo da sopportare, ma che comunque si rivela capace di tirarsi fuori da sola.

Come attrice ha un volto che si presta benissimo a questo tipo di ruoli, come infatti anche nel recente Blonde (2022).

Da parte mia spero che non si affossi in questo tipo di ruoli, ma ne esplori anche di diversi.

Una nuova strada

Knives out fu veramente un vivaio di stelle nascenti: fu anche la prima volta che Chris Evans si smarcò veramente dal personaggio di Captain America.

So che molti non sono d’accordo, ma, anche con film beceri come The Gray Man (2022), io sto profondamente apprezzando la nuova strada che ha preso questo attore, preferendo i personaggi negativi e sarcastici, a volte anche molto sopra le righe.

In questo caso il suo personaggio è tenuto in caldo per quasi la metà della pellicola, per poi essere tirato fuori a sorpresa in una scena in cui, alla seconda visione, mi stavo veramente sbellicando.

E i cui indizi della sua colpevolezza sono quanto mai evidenti…

Il tema attuale

Un elemento che mi è molto piaciuto di questa pellicola è la sua vicinanza con la stretta attualità.

Anzitutto per il discorso riguardo all’immigrazione, tema sempre molto caldo negli Stati Uniti, e sopratutto quando uscì il film, ovvero nell’America trumpiana.

E infatti la famiglia protagonista è la stessa che si scandalizza davanti alle pratiche disumane di gestione dei migranti da parte del governo in carica, ma rivela tutta la sua ipocrisia nel suo rapporto con Maria.

Infatti per tutta la pellicola continuano a trattarla con sufficienza, evidentemente considerandola a loro inferiore, e cercando di circuirla sulla questione dell’eredità che spetta loro di diritto, nonostante siano stati dei totali parassiti verso il padre.

E diventa al limite del grottesco quando si scopre che la cara casa di famiglia non ha neanche delle radici così antiche…

Il trucco del Tenente Colombo?

Un piccolo appunto in vista dell’arrivo del sequel, Glass onion (2022).

Come detto, una delle false piste di questa pellicola è come il detective Blanc si finga incapace e inetto, così da farsi sopravvalutare e manovrare i personaggi a suo piacimento.

E non vorrei che nel sequel, con un cast rinnovato, si rinnovi questa falsa pista, non a favore dello spettatore, ma dei personaggi.

Proprio come era tipico della serie de Il tenente Colombo, che veniva costantemente sottovalutato dai personaggi.

Nel caso, sarà interessante vedere come la gestiranno…

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Avventura Cinema gelido Cult rivisti oggi Drammatico Film Giallo Horror Recult Thriller

Misery – Un thriller claustrofobico

Misery (1990) è un piccolo cult dell’horror – thriller, diretto da Rob Reiner e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, fra l’altro uscendo pochi anni dopo la sua pubblicazione.

Il titolo italiano è molto spoileroso, quindi, anche se lo conoscete già, eviterò di riportarlo qui.

Un film prodotto con un budget molto limitato, appena 20 milioni, ma che incassò molto bene: 61 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Misery?

Paul Sheldon è uno scrittore di successo, che si ritira in una piccola città di montagna per scrivere il suo nuovo romanzo. Ma questa volta rimarrà coinvolto in una bufera, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Misery?

Assolutamente sì.

Misery è un piccolo thriller ottimamente confezionato – cosa per nulla scontata per un prodotto derivato da King. Ma, d’altronde, da questo regista, già autore di Harry ti presento Sally (1989), non mi aspettavo niente di meno.

Per certi versi è più un thriller che un horror, anche se non mancano le componenti orrorifiche. Più che altro si punta sulla psicologia dei personaggi, già abbastanza spaventosa di suo, ma senza mai eccedere.

Anzi, le scene più violente sono di impatto, ma mai esagerate.

Un’attrice poliedrica

Per una simpatica coincidenza, proprio il giorno prima della mia visione avevo visto Titanic (1997), dove Kathy Bates, qui interprete della terribile Annie, portava in scena un personaggio totalmente diverso.

E mi ha piacevolmente sorpreso come sia un’attrice assolutamente poliedrica.

Nonostante la sua recitazione poteva probabilmente essere smussata, è indubbio che ci abbia regalato una prova attoriale di grande impatto e che riesce a reggere la terrificante dualità del personaggio.

Non a caso, fu premiata come Miglior attrice non protagonista agli Oscar 1991.

L’abito fa il monaco

Quando Annie nostra la sua vera natura maligna e incontrollabile, non è in realtà una grande sorpresa per lo spettatore.

Già il suo character design, se così vogliamo chiamarlo, è di per sé rivelatorio: le camicie e i maglioni stretti fino al collo, i capelli perfettamente pettinati, la croce d’oro al collo. Tutti indizi di una donna che vive per il piacere del controllo e delle sue ossessioni.

E viene anche più arricchito da elementi puramente grotteschi, come il maiale da compagnia e l’arredamento della sua stanza che sembra quello di un’adolescente troppo cresciuta…

Un senso di claustrofobia

Per tutta la pellicola siamo pervasi da un senso di profonda claustrofobia, sopratutto perché per la maggior parte le scene si svolgono in un unico ambiente.

E anche l’esplorazione degli spazi della casa trasmette comunque un importante senso di impotenza e di trappola: come il personaggio, neanche che noi possiamo esplorare al di fuori di quelle quattro pareti.

E, con un paio di plot twist ben posizionati, ecco la ricetta perfetta per un thriller psicologico davvero appassionante.

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Avventura Cinema gelido Comico Commedia Commedia nera Drammatico Film Giallo Wes Anderson

Grand Budapest Hotel – Il picco artistico

Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson è per me il miglior film diretto da questo autore, in cui riesce ad unire la sua estetica peculiare con una piccola storia giallo.

Nonostante un budget abbastanza contenuto (25 milioni di dollari), ebbe un ottimo successo commerciale, con 172 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Grand Budapest Hotel?

All’interno di una complessa cornice narrativa, la storia racconta di Zero, un giovane lobby boy che viene coinvolto in un intrigato intrigo con M. Gustave, il direttore del Grand Budapest Hotel…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Grand Budapest Hotel?

Tony Revolori e Saroise Ronan in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Come detto, Grand Budapest Hotel è il mio film preferito di Anderson, quello dove, per me, ha raggiunto il suo picco artistico, riuscendo a conciliare la sua folle passione per la simmetria e i dettagli con una piacevole storia mistery.

Se vi piace Wes Anderson, ovviamente non ve lo potete perdere. Se invece non vi siete mai interessati a questo regista, è un buon film per mettere un piede nella porta della sua regia.

Io ho cominciato proprio da qui.

Due attori incredibili (fra i tanti)

Tony Revolori e Ralph Fiennes: in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Più di ogni altro film di Anderson, questo raccoglie una pletora di attori più o meno famosi, alcuni già feticci di Anderson, come Jason Schwartzman, Owen Wilson e ovviamente Bill Murray.

Ma le perle di diamante sono Ralph Fiennes e Adrien Brody.

Ralph Fiennes è assolutamente perfetto per il suo ruolo, riuscendo ad interpretare ottimamente un personaggio particolarissimo, un tipico personaggio andersiano. Preciso, severo, innamorato del suo lavoro e del mondo in cui è totalmente immerso.

Adrien Brody è uno dei miei attori preferiti, e in questa pellicola correva il rischio di rendere il suo personaggio quasi macchiettistico. E invece è la perfetta controparte di Fiennes: un avido e maligno approfittatore, disposto a tutto per mettere le mani sull’eredità della madre.

Un piacevole intrigo

Tony Revolori e Saroise Ronan in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

L’intrigo è un elemento onnipresente della trama, che si srotola perfettamente per l’intera durata della pellicola. E ogni tappa della storia è assolutamente irresistibile nelle sue dinamiche e nei suoi personaggi, anche quelli più secondari.

In particolare, ho adorato i diversi plot twist e le varie scene di omicidio dirette con la sublime tecnica regista di Anderson, con anche qualche momento più splatter e violento, come la strage alla prigione o lo strangolamento del maggiordomo alla chiesa.

E fin da I Tenenbaum (2000) il regista ha dimostrato di non andarci troppo per il sottile in questo senso…

E con un finale premiante per i protagonisti.

Anche se…

Il finale malinconico

Ralph Fiennes: in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Un tratto piuttosto tipico di Anderson è di portare elementi di una certa malinconia all’interno delle sue pellicole, soprattutto sul finale.

In questo caso la lacrima scende facilmente davanti al racconto di Zero da adulto, soprattutto quando ha come sfondo l’hotel ormai in decadenza, con uno stile evidentemente da Unione Sovietica.

Ma entrambe le storie sia di Agatha che di M. Gustave finiscono tragicamente, evitando quei finali dal sapore quasi fiabesco che molto spesso caratterizzano questo tipo di prodotti.

Ma non in un film di Anderson.

La costruzione a scatole cinesi di Grand Budapest Hotel

Un elemento piuttosto peculiare della pellicola è l’utilizzo delle cornici narrative in una costruzione a scatole cinesi.

Si comincia in un contesto forse contemporaneo in cui una ragazza senza nome si avvicina alla statua dell’autore del libro che sta leggendo; poi entriamo nel libro con la prefazione dell’opera in cui parla lo stesso autore; e poi si passa al racconto di come incontrò Zero; per poi vedere il racconto di Zero con anche la sua voce fuori campo.

Un finale tanto più malinconico per raccontare una storia davvero passata

Essere Wes Anderson

Un aspetto che trovo sempre incredibile della filmografia di Wes Anderson, tanto più in Grand Budapest Hotel, è la come siano sempre pieni di cameo e interpretazioni di attori di un certo livello.

Da attori più di nicchia come i già citati Jason Schwartzman e Owen Wilson, ad effettive star come Adrien Brody e Ralph Fiennes, tutti pronti a portare la loro fantastica presenza nei suoi film, anche per screentime davvero contenuti.

Wes Anderson è probabilmente il regista più popolare di Hollywood.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia nera Drammatico Film Giallo Horror Humor Nero Scream - Il secondo rilancio Scream Saga Thriller

Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto