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Crimes of the future – (Ri)scoprire il corpo

Crimes of the future (2022) di David Cronenberg è l’ultima pellicola del maestro dell’orrore dopo quasi dieci anni di assenza dalla sala. Ed è stato anche il mio battesimo del fuoco per la sua cinematografia, che conosco molto marginalmente e che non ho mai veramente affrontato.

E, dopo la visione, non vedo l’ora di scoprirne di più.

La pellicola si è rivelata purtroppo un incredibile flop commerciale, anche se certamente non è stata pensata per un ritorno economico consistente: ha incassato appena 3.4 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di una spesa di 35 milioni.

Di cosa parla Crimes of the future?

Cosa succederebbe se il corpo non potesse più provare dolore e l’uomo si evolvesse per essere sempre più affine ad un mondo di plastica e spazzatura?

Questo è il mondo in cui vivono Saul e Caprice, due artisti performativi che portano in scena spettacoli davvero peculiari: a Saul crescono organi anomali nel suo corpo, che vengono tatuati e poi estratti dalla sua partner durante lo spettacolo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimes of the future?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Dipende.

Partiamo col dire che Crimes of the future non è un film per nulla semplice.

La trama non è di per sé centrale, ma è al contrario un veicolo per raccontare un mondo futuristico e desolante, spoglio e senza speranza. Un mondo concentrato unicamente sul corpo e sulle sue trasformazioni, senza più paura per l’orrore e per il grottesco.

Quindi, se non vi piace particolarmente il body horror e un tipo di orrore particolarmente materiale, è probabile che questo film non faccia per voi. Come prodotto lo posso in parte paragonare a Mad Max – Fury road (2015): un film incredibile, basato molto su un orrore spettacolare e corporeo, ma in cui la trama è di fatto secondaria.

Una società perduta?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Nel film vediamo un mondo spoglio, fatto di rottami, spazzatura e degrado.

E non sembra che la cosa interessi a nessuno.

L‘intero focus è sull’uomo, sulle sue trasformazioni, in una sorta di neo-umanesimo. L’evoluzione è talmente rapida che non è neanche possibile definirla e regolarla: continuamente nel film si parla di come certe cose siano concesse, altre non ancora, e sembra sempre di agire nelle zone d’ombra della legge.

La stessa tecnologia sembra vecchia e datata, e non sembra esserci altro desiderio di quello di curare il corpo, plasmarlo a proprio piacimento, non cercando per la bellezza, ma il grottesco, che diventa in qualche modo anche erotico.

Arrivando all’estremo con la cosiddetta chirurgia da tavolino, ovvero la chirurgia improvvisata, di strada.

La corporeità

La corporeità domina ogni elemento.

Perfino la tecnologia stessa sembra essere definita tramite la corporeità, non cercando delle linee eleganti e futuristiche, ma dei macchinari che sembrano delle creature fatte di pezzi di corpo, di ossa bianche e lucide.

Il desiderio di corporeità arriva fino a fare dei concorsi di bellezza per la bellezza interiore, di fatto quella degli organi interni, a creare degli spettacoli concentrati sull’estrazione dell’organo più artistico e addirittura il desiderio erotico di vedere un’autopsia dal vivo.

E un’autopsia sul corpo di un bambino.

Kristen Stewart: c’è sempre una prima volta

Kristen Stewart in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Se avete letto la mia recensione di Spencer (2021) sapete cosa ne penso di Kristen Stewart, che qui interpreta la timida impiegata Timlin. E devo dire che è la prima volta, da quando ha cominciato a recitare, che l’ho vista veramente recitare in un ruolo.

Indubbiamente non è del tutto uscita dalla sua comfort zone della ragazza timida e impacciata, elemento che spesso accomuna i suoi personaggi, anche in prove attoriali assolutamente non pessime (ma neanche grandiose) come in Spencer, appunto.

Spero sia un primo passo nella giusta direzione.

Per ora, ha la mia attenzione.

Crimes of the future spiegazione finale

Personalmente ho trovato difficile comprendere il finale, che è definitivo praticamente dal dialogo fra Saul e il Detective Cope: non riuscendo a seguirlo, complice forse il doppiaggio poco indovinato, non sono riuscita (sul momento) a capire il resto.

Se siete anche voi nella mia situazione, siete nel posto giusto.

Nel finale il detective rivela a Cope che il Vice Department ha sostituito gli organi del bambino per evitare che si scoprisse questa realtà di evoluzione umana, che si adattava a questo ideale di nutrirsi della plastica e degli scarti industriali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Per questo le due impiegate che dovrebbero apparentemente controllare il funzionamento dei macchinari, in realtà erano in combutta con la stessa polizia. E per questo hanno ucciso il dottore (che forse ci viene fatto intendere avere la stessa mutazione di Becker) e il padre del bambino ucciso.

Alla fine Saul decide di allontanarsi dalla polizia e del suo lavoro, cominciando a nutrirsi di plastica e capendo che questo è quello che il suo corpo vuole: l’ultima inquadratura mostra un Saul molto rilassato e, finalmente, felice.

Qual è il significato di Crimes of the future?

Partendo dal fatto che il film a mio parere è del tutto godibile senza dover dare alcuna interpretazione, il significato della pellicola è in realtà abbastanza intuitivo.

Cronenberg ci vuole raccontare di un futuro desolante, ma anche possibile: un futuro in cui le guerre climatiche e la distruzione delle risorse ha portato a una realtà degradante, dove l’uomo comincerà a non potersi (o non volersi) più nutrire dei prodotti naturali, ma piuttosto di quelli artificiali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Un futuro in cui si adatterà semplicemente alla distruzione che lo circonderà, concentrandosi solo su sé stesso, in maniera quasi ossessiva.

La volontà di nutrirsi di rifiuti industriali sarebbe l’ultimo passo verso questa idea di essere un tutt’uno con l’orrore che lo circonda.

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Una notte da leoni – L’impossibile franchise

Una notte da leoni è un trilogia di film uscita fra il 2009 e il 2013, scritta e diretta da Todd Philips, autore che poi è esploso con Joker (2019), ma che al tempo era noto soprattutto per film come Parto col folle (2010).

Pellicole che al tempo ebbero un ottimo successo commerciale, perfino l’ultimo capitolo, ma che furono anche un caso da manuale di come sia impossibile creare franchise con prodotti che per loro natura non si prestano.

Di cosa parla Una notte da leoni?

Una notte da leoni in originale ha un titolo ben più emblematico: Hangover, in italiano traducibile banalmente come il post-sbornia. Infatti i primi due film parlano di un gruppo di amici che si risveglia dopo una serata che doveva essere apparentemente tranquilla, ma che invece si scopre essere stata assolutamente folle.

Vi lascio il trailer del primo capitolo per farvi un’idea:

Come e se guardare Una notte da leoni

Sono personalmente affezionata a questa saga, i cui film, soprattutto in adolescenza, ho rivisto decine di volte. Ho notato che i film sono stati molto screditati nel tempo, secondo me per nulla a ragione: tralasciando l’umorismo ormai abbastanza datato, sono dei godibilissimi film di intrattenimento, pure (almeno per i primi due) costruiti in maniera molto intelligente.

Personalmente mi sento di consigliarlo abbastanza a tutti, soprattutto se si apprezza con abbastanza leggerezza un tipo di commedia di dieci e più anni fa, del tipo Bad teacher (2010) e Parto col folle (2010), appunto.

Detto questo, se siete dei neofiti a questi prodotti, vi sconsiglio di proseguire oltre al secondo film: il terzo è stato un fallimentare tentativo di dare un epico finale alla saga, prendendo una direzione del tutto diversa, quando non ce n’era alcun bisogno.

Perché Una notte da leoni ebbe così tanto successo?

Eh Helms, Bradley Cooper e Zach Galifianakis in una scena di Una notte da leoni (2009) di Todd Philips

Come anticipato, secondo me la saga di Una notte da leoni è stata col tempo ingiustamente screditata. Anzitutto, ebbe successo perché era una saga figlia dei suoi tempi, con un umorismo piuttosto tipico per il periodo, che sicuramente a dieci anni di distanza può apparire assolutamente fuori luogo.

Oltre a questo, è una storia originale e molto credibile per come è messa in scena, in cui lo spettatore stesso può in parte rispecchiarsi. Infatti un grande pregio dei primi due film fu di portare in scena una vicenda interessante e piena di sorprese, ma assolutamente credibile e di grande intrattenimento.

Anche perché una delle più tipiche tecniche per tenere attiva l’attenzione dello spettatore è porre una sorta di mistero da risolvere o un pericolo imminente e apparentemente irrisolvibile. E questo è quello che succede nelle prime due pellicole e, in parte, anche nell’ultimo capitolo.

Perché il sequel fu un’operazione vincente

Zach Galifianakis, Mason Lee, Eh Helms, Bradley Cooper e Justin Bartha in una scena di Una notte da leoni 2 (2011) di Todd Philips

Il primo film della saga fu un grande successo commerciale, a fronte di un investimento abbastanza contenuto: 35 milioni di dollari di budget con un incasso di 468 milioni. Non a caso, per il secondo capitolo si investì più del doppio (85 milioni di dollari) e fu una scommessa vinta, con 586 milioni di incasso.

E fu un scelta intelligente perché si riuscì a produrre un film che è sostanzialmente un more of the same del primo capitolo, ma che riesce a mischiare gli elementi ed a portarne di nuovi, ed anche più interessanti. E, in questo modo, l’operazione appare molto meno evidente. Anche perché, scegliendo di vedere un film del genere, che mira sostanzialmente solo ad intrattenere, non vi era neanche l’interesse del pubblico a farsi determinate domande.

Una notte da leoni 3: dichiarare il fallimento

Eh Helms, Bradley Cooper e Zach Galifianakis in una scena di Una notte da leoni 3 (2013) di Todd Philips

Come il secondo capitolo fu una scommessa vincente, lo stesso non si può dire per l’ultimo film della saga. Non a caso, nonostante l’investimento maggiore, nonostante sia stato comunque un buon successo commerciale, la pellicola non confermò l’ascesa del franchise: solo 362 milioni di dollari contro un budget di 103.

E questo definì chiaramente il mancato interesse del pubblico.

Non so sinceramente dire se si volesse mettere un punto alla saga oppure tentare una nuova direzione per costruire un franchise, come potrebbe in effetti suggerire il finale aperto. Tuttavia questo tentativo non ripagò, proprio perché, senza la dinamica centrale dei primi due film, la storia perde tutto il suo fascino.

E, mancando l’interesse del pubblico per questa nuova direzione, sarebbe diventato veramente ridondante e poco credibile riproporre la medesima trama per la terza volta.

Stu: il vero protagonista

Mentre il resto dei personaggi rimane sostanzialmente statico, Stu è l’unico che compie archi evolutivi nei film. In generale l’obiettivo di Stu nei primi due film è riconquistare la sicurezza in se stesso e così la sua mascolinità castrata.

Infatti sia nel primo che nel secondo film Stu si trova a combattere contro due figure che lo mettono in discussione: prima la fidanzata Melissa, figura classica della donna-arpia verso cui il pubblico prova una naturale antipatia; poi, nel secondo film, il padre della sua futura moglie, che lo umilia pubblicamente, ma verso cui alla fine riesce a rivalersi.

Stu è infatti quello che più di tutti porta i segni della serata su se stesso e che più di tutti scopre una parte di sé inaspettata, capace di staccarsi un dente a mani nude, avere relazioni occasionali con prostitute e farsi un tatuaggio molto vistoso, fra le altre cose.

Tutte cose che ci si sarebbe aspettati invece da un personaggio come Phil.

Phil: l’inaspettato secondario

Phil, interpretato da Bradley Cooper, è il classico cool guy del liceo troppo cresciuto. Sulla sua storia personale non viene in realtà detto molto: la moglie è un personaggio incredibilmente secondario e che rimane sempre sullo sfondo.

Da come ne parla, Phil sembra intrappolato in una vita e un matrimonio opprimente, forse vittima di una cultura statunitense dove ci si sposa e ci si sistema molto presto. E così sembra vivere una seconda giovinezza con le vicende del film. Eppure, quando lo vediamo con la moglie e i figli, appare sempre affettuoso e felice di averli intorno.

Quindi, volendo forzare forse un’interpretazione che il film non puntava a dare, è possibile che Phil semplicemente si annoiasse nella sua banale vita da maestro di scuola, e che avesse una terribile nostalgia dei fasti della giovinezza.

E, in una storia del genere, sarebbe il personaggio che ci si aspetterebbe che fosse al centro dell’azione distruttiva della serata. E invece, incredibilmente, come personaggio è commisurato a tutti gli altri, anzi quasi messo in secondo piano.

Alan: la scheggia impazzita

Il personaggio di Alan è stato quello a mio parere progressivamente peggio gestito. Ha sicuramente un’utilità complessiva nei film, ma al contempo il suo comportamento viene troppo facilmente perdonato.

In particolare nel secondo film la sua rivelazione viene superata con grande facilità. E, ancora peggio, nel terzo film il personaggio soffre di una tendenza tipica del tempo: trova una fidanzata, perché non può definirsi altrimenti, che è la sua copia.

Un tipo di racconto che è stato ampiamente parodiato a South Park in Cartman Finds Love (17×16), fra l’altro.

Nondimeno, rimane una spalla comica godibile, che però soffre appunto dell’umorismo datato e che potrebbe non essere più convincente per il pubblico odierno.

Il rapporto coi personaggi femminili

Ed Helms e Jamie Chung in una scena di Una notte da Leoni 2 (2011) di Todd Philips

Una notte da leoni è un film fondamentalmente maschile, che si rifà ad una mentalità molto machista ancora esistente, ma, in particolare, assolutamente dominante a livello cinematografico dieci anni fa. L’importanza dei personaggi femminili è infatti non solo minima, ma assolutamente appiattita.

L’unico personaggio che ha un minimo di tridimensionalità è Stacy, la moglie di Doug, che però appare sempre come la madre cui i personaggi, dei bambinoni troppo cresciuti, devono raccontare le loro malefatte.

Per il resto i personaggi femminili sono, anche abbastanza prevedibilmente, piatti e di fatto tutti uguali: molto raramente provano ad opporsi alle scelte dei personaggi maschili, e solitamente li supportano molto passivamente. Talvolta sembrano non avere alcuna voce in capitolo, come appunto la moglie di Phil, che sembra del tutto ignara di quello che succede al marito.

Altri tempi, altra mentalità.

Ma, personalmente, preferisco una rappresentazione come questa che un tokenismo forzato come in The Gray Man.

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Baywatch – Rinnovare un cult

Baywatch (2017) di Seth Gordon è stato il tentativo di rilancio dell’iconica serie omonima.

Il film non fu di per sé un flop, ma neanche un grande successo commerciale, come forse ci si aspettava per un revival di questo genere.

Infatti, davanti ad un budget di 69 milioni di dollari, ne incassò appena 177. Non a caso il sequel fu più o meno annunciato durante la prima proiezione, ma del progetto non si ebbe più notizia.

Di cosa parla Baywatch

Il tenente Mitch Buchannon è il caposquadra dei bagnini delle spiagge di Emerald Bay. Si trova improvvisamente a dover gestire Matt Brody, ex atleta olimpico e testa calda che vuole unirsi a tutti costi al gruppo. Nel frattempo la baia è minacciata dall’avida imprenditrice Victoria Leeds…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Baywatch fu un insuccesso?

Baywatch è stato un interessante tentativo di riportare in auge il franchise della serie tv iconica.

Purtroppo, si tratta di un prodotto ben poco adatto ai tempi, sia per la comicità datata, sia per il tipo di rappresentazione dei personaggi, schiacciati da un machismo e da una ipersessualizzazione insopportabile.

Per questo si è scelto una via di mezzo: circoscrivere determinati aspetti datati su pochi personaggi e mettere maggiormente in risalto i personaggi femminili.

In particolare, rendere il villain una femme fatale potente e spietata è stata la classica soluzione di compromesso.

Purtroppo Baywatch richiede molto di stare al gioco e capire che si tratta di un prodotto revival che riprende il taglio della serie. Quindi una comicità molto spicciola, machista e corporale, una trama molto cartoonesca e non particolarmente spettacolare.

Se non ci si rende conto di questo aspetto fin da subito e se si fa parte della generazione dei millennial in su, a cui il film è indirizzato, si potrebbe provare un certo imbarazzo per quello che si vede in scena e di conseguenza non sentirsi coinvolti.

Baywatch può fare per me?

Zac Efron e Jon Bass in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Dipende.

Se apprezzate i classici film con protagonista The Rock, probabilmente sì. Tuttavia, come detto, la comicità è un po’ più datata, un incontro fra la saga di Scary Movie e Magnum P.I. Tuttavia complessivamente io l’ho trovato un film godibilissimo, con una trama sicuramente semplice e piena di stereotipi, ma che riesce facilmente ad intrattenere.

Quindi se già dal trailer vi ispira, dategli un’occasione.

Sessualizzazione contestualizzata

Kelly Rohrbach in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Una questione abbastanza problematica era la sessualizzazione del corpo femminile, di cui si è ben parlato nella serie Pam & Tommy.

In questo senso, hanno scelto una via di mezzo: i personaggi femminili in generale sono messi in primo piano nella storia e non sono quasi mai sessualizzati, e soprattutto non vi è tendenzialmente una regia voyeuristica sui loro corpi.

Una parziale eccezione è rappresentata da Casey, che riprende fondamentalmente le parti di Pamela Anderson nella serie. Ma anche Casey è una scelta calibrata. Anzitutto, si è evitato di imporre la ipersessualizzazione su Stephanie, interpretata da un’attrice latina (e con tutti gli stereotipi che ne sarebbero seguiti).

Al contrario, è stata scelta un’attrice come Kelly Rohrbach, con un volto pulito e che incarna la dream girl californiana. Quindi molto diverso dalla ragazza bella e impossibile come era Pamela Anderson, appunto.

Quindi l’oggetto del desiderio del personaggio maschile, con alcune soggettive un po’ infelici sul suo seno, che è comunque molto messo in mostra. Ma al contempo, per fortuna, Casey non è appiattita nel ruolo di pixie girl, ovvero il personaggio femminile che esiste unicamente in funzione della maturazione del personaggio maschile.

Machismo distruttivo

Zac Efron e Alexandra Daddario in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Un’altra tematica molto forte della pellicola è il machismo distruttivo fra i due protagonisti maschili.

Tuttavia anche questo è stato costruito con un minimo di intelligenza: non esclusivamente un antagonismo fra Mitch e Matt, ma un tentativo di Mitch di ridimensionare Matt e fargli imparare qualcosa, pur talvolta cercando di devirilizzarlo.

Questo accade infatti quando Mitch parla della manvagina di Mitch e quando lo salva facendogli la respirazione bocca a bocca sul finale, e prendendolo in giro per questo. Ma, tutto sommato, la storia è più che altro funzionale a raccontare il percorso di crescita di Matt.

Una comicità datata

Kelly Rohrbach, Jon Bass e Hannibal Buress in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Non solo la comicità, ma in generale la storia raccontata è proprio quella di un altro periodo. È così comico e poco credibile già solamente l’esistenza di bagnini che risolvono il crimine, e soprattutto che nella baia ci siano questo tipo di problemi.

Oltre a questo, la comicità è in generale molto datata: senza dover scomodare gli Anni Ottanta, sembra molto un umorismo tipico di quelle commedie primi Anni Duemila bellissime e terrificanti come Dodgeball (2004).

E questo potrebbe aver anche allontanato il pubblico dalla sala…

Cameo a tempo perso?

Nel film ci sono due camei che dovrebbero farti rimanere a bocca aperta, ma potrebbero essere stati totalmente inutili, in quanto il pubblico che principalmente è andato in sala è quello attirato dai film di The Rock più che dalla serie di Baywatch.

È così evidente che l’apparizione di David Hasselhoff doveva stupire lo spettatore che mi sono sentita in imbarazzo quando non l’ho riconosciuto. Meno imbarazzante l’apparizione di Pamela Anderson, che ho riconosciuto, ma che purtroppo non mi ha dato l’emozione che dovrebbe dare ai fan storici della serie.

Il film insomma strizzare l’occhio ai fan di Baywatch, che però è possibile che non fossero neanche in sala…

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Avventura Cinema per ragazzi Commedia Dramma familiare Film Giallo La mia infanzia

Candleshoe – La mia infanzia

Candleshoe (1977) di Norman Tokar è un’avventura per ragazzi di produzione Disney con una giovanissima Jodie Foster. In Italia tradotto con un titolo piuttosto improbabile, ma nondimeno simpatico, ovvero Una ragazza, un maggiordomo e una lady.

Ma per me è molto di più: uno degli improbabili cult della mia infanzia, non appartenente neanche alla mia generazione, ma che avrò visto decine di volte. Lo trovai casualmente nella sezione bambini della mia biblioteca, e cominciai a noleggiarlo continuamente.

Un film fondamentalmente sconosciuto, ma che vale la pena di riscoprire.

Di cosa parla Candleshoe?

Casey, interpretata da una quattordicenne Jodie Foster, è un’orfana e una piccola delinquente che passa da una casa famiglia all’altra. Verrà inaspettatamente coinvolta in una truffa, per cui dovrà impersonare la nipote perduta di una vecchia nobildonna inglese, nella cui casa dovrebbe nascondersi un tesoro…

Candleshoe può fare per me?

Jodie Foster e Leo McKern in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Ovviamente essendo il film della mia infanzia è per me difficile essere oggettiva. Tuttavia secondo me Candleshoe è una deliziosa commedia avventurosa per ragazzi, con un bel mistero e una trama ben costruita.

Ha la durata standard di un film del genere (appena 100 minuti) ed intrattiene stupendamente, pur nella sua semplicità. Soprattutto se vi piacciono i film per ragazzi un po’ datati, come Stand by me e I Goonies, potrebbe facilmente piacervi.

Una protagonista diversa?

Jodie Foster in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Casey è un’ottima protagonista perché il suo personaggio ha un taglio molto realistico e sentito. Non è infatti scontato che la protagonista di un prodotto per ragazzi sia un personaggio così tanto grigio.

Una povera orfana che ha già visto il peggio dalla vita, che non ha mai avuto l’amore di una famiglia vera, e che ha preso facilmente la via della delinquenza.

Infatti, con stupore di Harry, Casey non è per nulla una marionetta nella sue mani, ma cerca invece subito di capire cosa può guadagnarci e riesce ad ingannare la Lady più di quanto Harry stesso fosse capace.

E allo stesso modo sembra infine rassegnata a non voler mentire ulteriormente alla sua presunta nonna, che la accetta come sua nipote, anche se non ha alcuna sicurezza che lo sia, in un bellissimo e toccante finale.

La lady e il maggiordomo: una irresistibile coppia

David Niven in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Della parte centrale del film la parte che ho sempre preferito era quella del maggiordomo e la lady, con la loro bellissima dinamica.

Infatti la loro linea narrativa non aggiunge nulla alla trama principale, ma riesce a dare una maggiore tridimensionalità ai personaggi e di fatto a rendere credibile e divertente la storia di Candleshoe.

Altrettanto splendida è la rivelazione finale della lady al maggiordomo, che non appiattisce il personaggio della prima alla sola vecchietta ingenua, ma da un tocco di romanticismo e commozione che ho sempre adorato.

Harry e Clara: che sagome!

Funzionano altrettanto bene i due villain, sia per l’ottima recitazione, sia per il loro phisique du role assolutamente perfetto. Sono due personaggi che già a pelle risultano sgradevoli, quasi grotteschi in alcune scene.

Il loro piano poi non lascia niente al caso, portando una simpaticissima scena di scontro sul finale che riguardo sempre con piacere.

In certi momenti i due fanno quasi paura, per come si gettano come arpie su Casey, una presenza minacciosa per l’intera pellicola.

Lode al budino di riso

Una cosa che mi è sempre rimasta impressa è il disgusto di Casey quando assaggia il budino di riso (rice pudding) la prima volta che arriva a Candleshoe.

In realtà per puro caso l’ho assaggiato recentemente, smentendo una convinzione che ho avuto per tutta la vita: il budino di riso è buonissimo.

Quindi, lode al budino di riso!

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Super 8 – Un film fuori dal tempo

Super 8 (2008) è un film prodotto, scritto e diretto da J.J. Abrams, autore e produttore che ha le mani un po’ ovunque quando si tratta di revival in ambito sci-fi.

Una pellicola che ebbe anche un buon successo, con 50 milioni di dollari di budget e 260 di incasso.

Di cosa parla Super 8?

1979, Joe Lamb è un quattordicenne che ha appena perso la madre in un tragico incidente e deve riallacciare i rapporti col padre. Lui e i suoi amici, mentre sono intenti a girare un film amatoriale, diventano testimoni di un tragico e misterioso incidente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super 8?

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Assolutamente sì.

Super 8 è un film piuttosto semplice, un’avventura sci-fi per ragazzi di stampo classico, che si rifà massicciamente ai topos degli Anni Ottanta.

Sia che siate appassionati dei classici, come Stand by me (1986) e E.T. (1982), sia dei revival nostalgici come Stranger Things, non potete perdervelo.

Una costruzione da manuale

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

La costruzione della trama è davvero da manuale, nel senso migliore possibile.

Tutti gli elementi che portano al finale sono sapientemente costruiti fin dall’inizio e in maniera funzionale al finale.

Così per esempio Donny, che alla fine accompagna i ragazzi alla scuola, si è dimostrato interessato alla sorella di Charlie fin dall’inizio. E così Joe sa dove è la tana della creatura perché in precedenza è andato al cimitero a trovare la madre.

E questa costruzione così intelligente non è per niente scontata, in quanto in prodotti di ben più grandi produzioni capita spesso che, per far arrivare i personaggi ad un punto, si scelgono soluzioni forzate e poco credibili.

Allo stesso modo il mistero è un continuo crescendo, partendo da una scena improvvisa, seguendo un sentiero di briciole che ci vengono snocciolate a poco a poco.

La creatura

Secondo lo stesso principio, la creatura viene svelata secondo precise tappe e con una costruzione molto abile. Prima è un’ombra, poi una figura sfocata sullo sfondo, poi ne scopriamo la sagoma, e nel finale ne vediamo il volto.

Molto furbo fra l’altro cercare di umanizzarla, svelandone a sorpresa gli occhi piuttosto espressivi, per dare quello slancio emozionale che ci permette di empatizzare.

Soprattutto perché si cerca di raccontare un nemico che in realtà è vittima degli stessi protagonisti e che, come E.T., vuole solo tornare a casa.

Un character design fra l’altro semplice, ma d’impatto.

Semplicemente Elle Fanning

Elle Fannings in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per via anche del suo budget limitato, il film ha puntato su attori giovanissimi e fondamentalmente sconosciuti. La recitazione non è esattamente brillante, ma comunque di livello accettabile.

Fra tutti però si distingue Elle Fanning, che interpreta Alice, al tempo ancora poco conosciuta, ma che ha lavorato negli anni con autori come Woody Allen e David Fincher.

In questa pellicola troviamo una recitazione ancora acerba, ma che sa comunque destreggiarsi in diversi momenti più complessi della narrazione.

E il fatto che una scena sia basata solamente sul mettere in evidenza le sue capacità recitative è tutto un programma.

Pallidi comprimari

Riley Griffiths  in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Un difetto del film è di non riuscire a far risaltare i comprimari del protagonista.

Come per il miglior film per ragazzi Anni Ottanta, Joe è infatti circondato da un gruppetto di personaggi che gli fanno da contorno, e che sono al contempo il comic relief della pellicola.

Purtroppo, gli stessi sembrano essere dimenticati nel corso del film, al punto che si utilizzano diversi stratagemmi per lasciarne il più possibile indietro in occasione dello scontro finale.

Allo stesso modo questi personaggi per la maggior parte non hanno una caratterizzazione precisa, ma limitata a pochi elementi.

Abrams e Gioacchino: che coppia!

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per quanto magari Abrams non possa essere considerato un grande autore, la sua regia è ben più di quella di un mestierante qualunque.

In questa pellicola è innamorato dei suoi personaggi: li inquadra spesso fra il mezzo primo piano e il primo piano, facendoli avvicinare alla macchina da presa mentre guardano misteriosamente all’orizzonte.

Così anche bellissime le sequenze in cui i personaggi sono coinvolti in discussioni concitate e la macchina da presa gli gira intorno, regalando una splendida dinamicità alla scena.

La regia è inoltre impreziosita da un’ottima colonna sonora, composta dall’iconico Gioacchino, autore di colonne sonore di grande successo e valore come quella di Up (2010) e della nuova trilogia di Star Trek.

Cos’è il Super 8?

Il super 8 millimetri che dà il titolo al film è un formato cinematografico, un tipo di pellicola utilizzata proprio per il cinema amatoriale.

Ed è infatti quello che i protagonisti utilizzano per girare il loro film.

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Avventura Dramma familiare Drammatico Film Giallo Horror Thriller Un Jim Carrey Diverso

Number 23 – Storia di un’ossesione

Number 23 (2007) è un film di Joel Schumacher con Jim Carrey che si imbarcò in un genere che non aveva mai sperimentato: il thriller psicologico.

L’attore ebbe infatti ancora una volta la fortuna di trovarsi sotto l’egida di un regista capace in un prodotto complesso e intenso. Schumacher è infatti un autore molto divisivo, soprattutto per l’assurdità di Batman & Robin (1997), cui viene sempre associato, ma è in realtà un regista con un’estetica profonda e potente.

Il film ebbe un riscontro economico decisamente deludente: anche se non fu un flop, incassò 77 milioni contro un budget di 30. Tuttavia, col passare degli anni, entrò nel cuore di molti cinefili.

Di cosa parla Number 23?

Walter è un accalappiacani che vive una vita tranquilla con la sua famiglia. Improvvisamente viene in possesso di uno strano libro, intitolato appunto Number 23. Il protagonista si ritroverà così stranamente ad identificarsi nella storia narrata, che sembra avere una strana vicinanza con gli eventi della propria vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Number 23?

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dipende.

Number 23 è un film per nulla semplice, sia per gli argomenti trattati, sia perché gioca anche con il genere horror, con alcune scene piuttosto sanguinose e non adatte a cuori sensibili. Oltre a questo, la regia è piuttosto particolare, anche se perfettamente in linea con l’estetica di Schumacher.

Insomma, se sguazzate nel genere gore e thriller, ma anche nel noir hard boiled, probabilmente vi piacerà moltissimo. Al contrario, se siete facilmente impressionabili e vi angosciate con poco, statene alla larga.

Un andamento inaspettato

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Devo ammettere che verso la metà del film ho cominciato ad annoiarmi, perché il film mi sembrava voler raccontare il climax ascendente del protagonista, che diventa definitivamente ossessionato dal libro e alla fine uccide la sua famiglia. Insomma, mi aspettavo un andamento piuttosto tipico.

Al contrario, sono stata sorpresa: verso la metà del film Walter comincia ad essere effettivamente supportato dalla sua famiglia, innescando un effettivo climax con una gustosa trama investigativa, per svelare infine il mistero dietro al libro.

E così si sfocia nella rivelazione finale, che chiude perfettamente il cerchio su una storia che sarebbe risultata altrimenti banale, con un twist che mi ha ricordato molto quello di Shutter Island (2010) e che per questo non ho potuto non apprezzare.

Schumacher: amore e odio

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Joel Schumacher è quel tipo di regista con un’estetica e una poetica così particolare che non può non essere divisivo.

Ed è anche lo stesso che ha girato Batman & Robin, film unanimemente criticato per l’ovvio motivo di essere tremendo, ma che esprimeva appieno l’estetica distintiva di questo regista, che gioca moltissimo col camp e col cattivo gusto voluto.

E in Number 23 non è da meno: io ho amato alcune inquadrature, che ho trovato estremamente scioccanti, come il volto della Bionda Suicida che si specchia nella pozza del suo stesso sangue dopo il suicidio (ed è uno fra tanti).

Al contempo non ho apprezzato il taglio eccessivo delle scene del racconto del libro, con queste inquadrature estremamente contrastate e scene di sesso e violenza quasi morbose, con un taglio eccessivamente realistico che mi ha disturbato.

Ma forse era anche quello l’obbiettivo.

Di certo, per me, senza questa regia, questo film non sarebbe valso un’unghia.

Jim Carrey: la maturità attoriale

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dopo aver esplorato la maggior parte della filmografia di Carrey, per me la sua maturità artistica come attore comico si può trovare in Una settimana da Dio (2003), mentre in questo film mostra ancora le sue capacità sull’altro versante.

Non tanto in ambito drammatico, per cui aveva già dato prova in Eternal Sunshine of the spotless mind (2004), ma sperimentando con consapevolezza in un genere mai provato prima.

In questo film infatti Carrey riesce ad essere al contempo spaventoso, con un’occhiata riesce a trasmetterti un’infinità di sentimenti e passioni, e a destreggiarsi perfettamente nelle scene anche più estreme e intense.

In questo film non ci sono, come in altre pellicole di Carrey, attori diventati famosi dopo, ma comunque ritroviamo dei volti già noti.

Il figlio di Walter, Robin, è Logan Lerman, divenuto brevemente (e sfortunatamente) famoso per i film di Percy Jackson usciti fra il 2010 e il 2013.

Walter da bambino è interpretato da Paul Butcher, che se siete della generazione Anni Novanta lo ricorderete sicuramente per essere il fratello di Zoe in quella meraviglia (si fa per dire) di Zoey 101.

Il Dr. Miles, il professore a cui Walter chiede aiuto e che crede che lo tradisca con la moglie, è Danny Huston, già visto in diversi prodotti, in particolare come fratello della protagonista in Marie Antoinette (2006).

Cameo a sorpresa quello di Troy Kotsur, attore sordomuto che ha recentemente vinto l’Oscar come Miglior Attore non Protagonista per CODA (2021). Qui interpreta il padrone del cane che perseguita Walter, Ben.

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Il Padrino: Parte II – La grande eredità

Il Padrino: Parte II (1974) è il secondo capitolo dell’iconica trilogia di Francis Ford Coppola con protagonista Al Pacino e, in questo film, anche l’allora stella nascente di Robert De Niro. Nonostante De Niro abbia un minutaggio decisamente minore rispetto a Pacino, il film fu un buon trampolino di lancio per l’attore, pochi anni prima di cominciare il proficuo sodalizio con Scorsese nell’iconico Taxi Driver (1976).

Con un budget più che raddoppiato (13 milioni contro i 6 del primo film), la pellicola incassò decisamente di meno rispetto al precedente capitolo (solo 47 milioni, contro l’incasso di 243 milioni de Il Padrino). Fu tuttavia acclamato dalla critica e vinse sei Oscar con 11 candidature, fra cui il primo Oscar di De Niro come Miglior attore non protagonista.

Purtroppo, ancora una volta, la grandezza dell’interpretazione di Al Pacino non ottenne il risultato previsto: venne candidato come Miglior attore protagonista, ma non si portò a casa la statuetta.

Di cosa parla Il Padrino: Parte II

Il Padrino: Parte II è ambientato a circa sette anni di distanza dal primo capitolo, raccontando le vicende di Michael Corleone, che ha ormai assodato il proprio potere come nuovo Padrino, ma è comunque continuamente insidiato da nemici interni ed esterni. Al contempo, pur con un minutaggio molto più ridotto, si raccontano le origini di Vito Corleone, da quando venne mandato ancora bambino negli Stati Uniti alla sua scalata al potere a New York.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di guardare Il Padrino: Parte II?

Assolutamente sì, soprattutto se vi è piaciuto Il Padrino (1972). Per me Il Padrino: Parte II è un’ottima conferma delle capacità di Coppola di portare in scena una storia complessa e avvincente, all’interno di un film dalla durata monumentale. A questo proposito, il mio consiglio è di guardarlo quando avete tempo da spenderci, in quanto non è un film semplice da seguire e da digerire, oltre ad avere appunto una durata piuttosto importante.

Tuttavia è ancora una volta un film che non può mancare nel vostro bagaglio cinefilo. Tuttavia, prima delle visione, è bene che siate coscienti di un problema non da poco.

La mia terribile esperienza con Prime Video

Qui si apre una polemica fra me e la sottoscritta, ma che può essere utile a chi si approccia per la prima volta alla pellicola. Ho guardato il film su Prime Video e ho avuto immense difficoltà a seguire le parti in cui i personaggi, in particolare De Niro, parlano in italiano con forte accento dialettale. Potete immaginare, con tutto lo sforzo che indubbiamente ci ha messo De Niro, come possa suonare un americano che cerca di parlare in italiano dialettale: una combo micidiale.

Il problema è che non solo queste parti all’interno del film rappresentano interi ed importanti dialoghi, ma, almeno sulla piattaforma di Prime Video, in quelle scene non sono presenti i sottotitoli. Con la poco piacevole conseguenza che ho trovato al limite dell’impossibile seguire certe scene.

Non so se sia una scelta autoriale del regista stesso e non ho idea del tipo di distribuzione che avuto questo film ai tempi e su altre piattaforme. Tuttavia, è bene arrivare alla visione con la consapevolezza di questo problema.

Perché Il Padrino: Parte II è anche migliore del primo film

Al Pacino nei panni di Micheal Corleone in una scena de Il Padrino: Parte II (1974) diretto da Francis Ford Coppola

Per quanto abbia apprezzato Il Padrino, ho trovato il seguito addirittura superiore: oltre all’altissimo livello della recitazione, la storia è ancora più intrigante, in quanto arricchita da un maggiore trasporto emotivo per via del tradimento non più di un nemico esterno, ma del fratello di Michael stesso.

Una vicenda ancora più intricata, spezzata da uno sguardo (meno ampio di quanto mi aspettassi) sulle origini di Vito Corleone e dell’impero da lui creato. Una regia sempre di altissimo livello, cadenzata da momenti al cardiopalma e una violenza cruda e ben dosata, che rende le scene vive e indimenticabili.

Michael Corleone

Per quanto sia stata al tempo maggiormente apprezzata la recitazione di Robert De Niro, per me Al Pacino in questa pellicola è mostruoso. Riesce infatti a dosare la sua recitazione per questo personaggio spietato e calcolatore, con il suo iconico sguardo gelido e omicida. Tuttavia, non un uomo senza sentimenti: poche ma fondamentali le scene in cui perde la calma, di solito quando non ha il controllo sulla situazione.

Così ha una reazione terribile quando Kay gli rivela di aver abortito alle sue spalle, altrettanto perde il controllo quando gli annunciano la perdita del suo nascituro e infine stampa un bacio ferocissimo sul volto sconvolto del fratello Fredo quando gli rivela che conosce il suo tradimento.

Ma ancora più terribile è come allontana da sé le persone, con una freddezza terrificante e frasi lapidarie: così chiude la porta in faccia a Kay quando torna per rivedere i figli, così congeda Fredo, dicendogli Tu non sei più nulla per me.

Ma in fondo è un uomo che soffre terribilmente, rimasto solo dopo aver assassinato il fratello che aveva finto di perdonare. La pellicola si chiude un commovente flashback con cui Michael ricorda quando la sua famiglia era ancora viva e unita.

Ora, invece, è un uomo solo.

Vito Corleone

Per quanto Robert De Niro sia un attore che apprezzo moltissimo e che in questa pellicola ci regali una performance più che ottima, non mi ha del tutto convinto la sua scelta per questo ruolo. Al tempo delle riprese De Niro aveva già trent’anni, mentre avrebbe dovuto essere massimo uno sbarbato ventenne. E, in generale, non sono riuscita ad associare il suo volto a quello del Vito Corleone di Marlon Brando.

Tuttavia ho apprezzato la sua recitazione, perfettamente coerente rispetto a quella di Marlon Brando nel precedente capitolo. A differenza del figlio, Vito Corleone, soprattutto all’inizio, si pone come un boss assolutamente bonario, furbo e convinto delle sue capacità di ottenere il rispetto degli altri.

Così riesce ad ingannare Don Fanucci e ucciderlo a sangue freddo, così accoltella senza pietà Don Ciccio, il boss siciliano che aveva attentato alla sua famiglia quando era ancora un bambini indifeso. Un momento di passaggio al pari di quello del figlio nel primo capitolo della trilogia, con l’omicidio Sollozzo.

Fredo Corleone

La figura di Fredo emerge prepotentemente rispetto al fratello, da cui non potrebbe essere più diverso. Come Michael è abile e calcolatore, Fredo si getta all’interno di un disgustoso tradimento per pura gelosia del fratello minore, che ha inaspettatamente preso potere a suo svantaggio.

Si vede la sua inettitudine quando cerca di scappare disordinatamente dal fratello a Cuba, così si fida dello stesso quando, al funerale della madre, lo abbraccia come un bambino, fingendo di perdonarlo.

In seguito a questo evento, Fredo non sembra avere il minimo sospetto che Michael stia cercando infine di attentare alla sua vita. E pronuncia la sua ultima preghiera, del tutto inconsapevole di star celebrando la sua estrema unzione.

Cosa non mi ha convinto, nonostante tutto

Al di là della questione linguistica, non sono stata del tutto convinta dalla scelta della storia da raccontare. Non mi ha infastidito il fatto che la trama fosse fondamentalmente identica a quella del primo capitolo, ma più che altro non ho trovato del tutto vincente l’inserimento della storia delle origini di Vito Corleone.

Infatti mi aspettavo che la sua storia avesse decisamente più spazio, mentre è contenuta in un minutaggio piuttosto limitato e, anche per questo, mi è sembrata molto accessoria. Avrei preferito piuttosto che il film non la includesse, parlando solamente della storia di Michael. Tuttavia, come detto, non per questo non l’ho apprezzata.

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Ace Ventura – A briglia sciolta

Ace Ventura – L’acchiappanimali (1994) per la regia di Tom Shadyac fu, insieme a The Mask (1994), una delle prime pellicole che fecero conoscere Jim Carrey al grande pubblico.

Lo stesso attore tornò sotto alla guida del regista anche per Bugiardo Bugiardo (1997) e Una settimana da Dio (2003).

Il film fu un discreto successo al botteghino: con circa 15 milioni di budget, ne incassò 72 a livello internazionale, portando ad un sequel, Ace Ventura Missione Africa (1995) che ne incassò anche di più: 108 milioni di dollari contro un budget di 30.

Si tentò anche un rilancio del brand nel 2009, senza coinvolgere Carrey, con Ace Ventura 3, che fu però stroncato da pubblico e critica.

Di cosa parla Ace ventura – L’acchiappanimali

Ace Ventura è un pet detective, ovvero un detective specializzato nella ricerca e nel salvataggio di animali scomparsi o rapiti. Verrà coinvolto nel turbolento caso di rapimento di Snowflake, la mascotte dalla squadra di football dei Dolphins, alla vigilia del Super Bowl.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ace Ventura?

Jim Carrey in una scena di Ace Ventura - L'acchiappanimali (1994) di Tom Shadyac

In generale, sì.

Altri tempi, altra recitazione: a differenza di The Mask, nel quale la prova attoriale di Carrey è più contenuta, almeno per le scene in cui non indossa la maschera, in Ace ventura l’attore è lasciato totalmente a briglia sciolta, nelle mani di un regista assolutamente innamorato della sua espressività scoppiettante.

Per questo Ace Ventura è un film irrinunciabile se si apprezza Jim Carrey: non vedrete mai l’attore così tanto libero di recitare e di esprimere tutte le sue capacità comiche, anche al limite del grottesco. La storia nel complesso è ben strutturata e intrattiene facilmente, grazie anche alla sua semplicità, con dei colpi di scena ben costruiti.

Personalmente ho trovato questo film meno divertente di Una settimana da Dio, con una comicità un po’ più piatta, pur cercando di spingerla al limite dell’assurdo, ma non riuscendo a strapparmi quasi mai una risata.

Innamorarsi di un attore

Jim Carrey in una scena di Ace Ventura - L'acchiappanimali (1994) di Tom Shadyac

Come anticipato, Tom Shadyac fu uno dei primi registi ad innamorarsi profondamente di Jim Carrey, scegliendolo anche negli anni successivi come protagonista di altri suoi film.

La recitazione di Jim Carrey in questa pellicola o la ami o la odi. È infatti praticamente impossibile trovare un’inquadratura in cui l’attore protagonista non abbia un’espressione assolutamente bizzarra e fuori di testa.

Dà davvero il meglio (o il peggio) di sé nella scena del manicomio, dove deve volutamente essere pazzo. In realtà il suo atteggiamento non cambia molto rispetto al resto della pellicola, tanto che mi piace pensare che le reazioni sbigottite e sconvolte dei personaggi che gli stanno intorno siano quelle genuine degli attori sul set.

Io, personalmente, l’ho piuttosto apprezzata.

Polemiche insensate

Jim Carrey e Sean Young in una scena di Ace Ventura - L'acchiappanimali (1994) di Tom Shadyac

Questo film è stato bersagliato, soprattutto in tempi recenti, da diverse polemiche riguardo alla rappresentazione delle persone trans.

In effetti la pellicola da questo punto di vista è assolutamente offensiva, già solamente per il fatto che Ace Ventura a più riprese non accetta l’identità di Lois, ribadendo più volte che in realtà sia un uomo.

Tuttavia, additare questo film di transfobia è controproducente: se la pellicola si permette di fare questo tipo di comicità, anche piuttosto spinta, è perché questa negli Anni Novanta era fondamentalmente la norma.

E, a meno che non ce la vogliamo prendere con il periodo tutto, è ben più utile riflettere su come quella scena di assoluta umiliazione di una persona trans sia specchio di una società (si spera) diversa da quella odierna.

All’interno del film sono presenti due attori diventati famosi successivamente per due serie tv di grande successo.

Anzitutto Courteney Cox, nel film Melissa, che divenne famosa a solo un anno dopo per essere una dei protagonisti della serie cult degli Anni Novanta, Friends, dove interpreta Monica.

Poi l’indimenticabile Mark Margolis, in Ace Ventura il proprietario di casa del protagonista, oggi famoso per la sua incredibile performance come Hector Salamanca prima in Breaking Bad poi in Better Call Saul.

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Cip & Ciop agenti speciali – Attivare parental control

Cip e Ciop: Agenti speciali (2022) è una delle ultime pellicole in tecnica mista uscite su Disney+ e che sta facendo parlare molto di sé. Il motivo è semplice: se pensavate che fosse un film per bambini, dovete ricredervi.

Io per prima pensavo quanto sopra, ma, grazie al passaparola positivo che ho ricevuto da diverse persone, mi sono convinta a recuperarlo. E non è nulla di quanto mi sarei mai potuta immaginare. Mi è sembrato di tornare a tanti anni fa, allo splendido Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), cult assoluto della mia infanzia, con tutto quello che ne consegue.

Di cosa parla Cip & Ciop agenti speciali

Cip e Ciop sono amici fin dall’infanzia e riescono a diventare protagonisti di uno show televisivo (che dà il nome al film e che è stato veramente trasmesso fra il 1989-90), ma si dividono inaspettatamente per il desiderio di Ciop di smarcarsi dall’ombra di Cip.

I due dovranno riunirsi molti anni dopo per salvare Monterey Jack, il loro ex-collega della serie.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Cip & Ciop agenti speciali non è niente che potreste aspettarvi

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Come anticipato, io avevo bollato (ingiustamente) questo film come il solito revival di prodotti del passato per farli apprezzare alle nuove generazioni, come era stato appunto per il recente Tom & Jerry (2021) e altri prodotti simili. E mai come in questo caso ringrazio con tutto il mio cuore il buon passaparola che ho ricevuto.

Cip & Ciop agenti speciali è fondamentalmente un buddy movie nel senso più classico del termine, richiamando anche direttamente uno dei prodotti pionieristici del genere, 48 ore (1982). Due personaggi che partono come antagonisti (in questo caso divisi da un vecchio rancore) e che riusciranno a ricostruire il loro rapporto. Detto così, potrebbe sembrare un film innocuo. Niente di più sbagliato.

In realtà questo film non è minimamente pensato per un pubblico infantile, e forse neanche per un pubblico di ragazzini, ma principalmente per il target dei figli degli Anni Ottanta e Novanta, che conoscono i vari meme di internet e che sono cresciuti con i cartoni animati dell’epoca.

Nessuno pensa ai bambini!

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Per quanto non sia detto esplicitamente, in Cip & Ciop agenti speciali si parla di dipendenza dalle droghe, quindi spaccio e traffico di esseri umani. Già questo getta un’ombra sul film, ancora più aggravato da scene non tanto spaventose, ma sottilmente disturbanti.

Oltre a questo, un bambino rischia di annoiarsi: per la maggior parte delle battute sono riferite a meme di internet e a prodotti degli Anni Novanta e Anni Duemila. Il massimo che potrebbe intrattenerlo sarebbe la storia raccontata, ma è impossibile (e per fortuna) che la capisca fino in fondo.

Perché dovreste vedere assolutamente Cip & Ciop agenti speciali

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Fatte queste dovute premesse, Cip & Ciop agenti speciali è un film sorprendentemente geniale. La vera trama appunto riguarda temi abbastanza pesanti, cui si aggiunge il tema evergreen, già ben sperimentata in Bojack Horseman, ovvero quella riguardante la crudeltà dello show business hollywoodiano.

Un film profondo e maturo, pur con qualche ingenuità nel riprendere dei topoi molto abusati. Oltre a questo, soprattutto all’inizio, ci sono delle battute assolutamente geniali in riferimento a prodotti ormai entrati nella cultura popolare, in cui la Disney arriva a parodizzare sé stessa (e non solo). Un film gustoso e divertente, che dovreste assolutamente recuperare, soprattutto se fate parte della generazione che è cresciuta con questi personaggi.

Cos’è il genio?

Ugly Sonic in una scena del film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

That weird animation style in the early 2000s where everything looked real but nothing looked right

Quello stile di animazione all’inizio degli Anni Duemila quando tutto era realistico ma sembrava sbagliato

Riuscire a mettere così tanti riferimenti alla cultura pop di un certo periodo non era semplice, ma è Cip & Ciop agenti speciali ci è riuscito alla perfezione.

Per me le battute più geniali sono state sicuramente quelle dell’animazione anni 2000 e soprattutto Ugly Sonic, uno dei casi cinematografici più discussi in tempi recenti. Per non parlare della quantità di riferimenti di prodotti animati, Disney e non.

Riuscire poi ad edulcorare tematiche pesantissime come il traffico di organi e di essere umani, lo sfruttamento di Hollywood e la dipendenza dalle droghe, riuscendo al contempo a contestualizzare tutto perfettamente nel contesto raccontato, non è cosa da tutti. Ma, ancora, questo film ci riesce perfettamente.

Il rapporto fra Cip e Ciop

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Ho davvero adorato come il rapporto fra i due non sia affatto appiattito, non limitandosi a raccontare una banalissima dinamica da buddy movie.

Cip e Ciop erano due bambini molto soli e incompresi, in particolare Cip non riusciva ad avere amici e finalmente ha trovato un compagno di vita in Ciop: il suo racconto alla fine sul corpo esanime di Cip è uno schiaffo emotivo.

Un bellissimo racconto di amicizia, di come i rapporti possono essere guastati da una semplice parola non detta, accecati da un senso di inferiorità ingiustificato verso i propri amici, anche più stretti.

La scelta del rilascio in streaming

Il film è stato rilasciato direttamente sulla piattaforma Disney+, senza quindi passare per la sala. In questo caso, potrebbe non essere stata la scelta peggiore: probabilmente altri come me si saranno fermati davanti al titolo, bollandolo come un film per bambini.

Così il pubblico infantile e i genitori si sarebbero fiondati in sala, convinti di vedere un film pensato per loro. E, vista l’eccelsa capacità di rating dell’Italia (vi ricordo The Suicide Squad era classificato come film per tutti), probabilmente avremmo avuto una generazione di bambini traumatizzati per la vita.

Per questo probabilmente avrebbe avuto un pessimo passaparola e sarebbe stato un flop. Invece, rilasciandolo subito in streaming e rendendolo così più accessibile, ha permesso che fosse più facile che i vari influencer (adulti) lo vedessero e creassero un ottimo passaparola. E così è successo.

E non sarà né la prima né l’ultima pellicola che vivrà di migliore salute in streaming piuttosto che in sala.

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Assassinio sul Nilo o la saga maledetta

Una recente uscita nelle nostre sale, Assassinio sul Nilo (2022) è una pellicola maledetta sotto molti punti di vista. In senso più ampio, questa intera operazione di revival di Poirot si porta dietro un’aurea oscura: due film su due di questo franchise hanno hanno fra gli attori principali personaggi travolti da scandali sessuali. Per Assassinio sull’Orient Express (2017) c’era Johnny Depp, ancora oggi in un intricatissimo caso di violenza domestica (apparentemente) subita e data dalla ex-moglie Amber Heard, scoppiato poco prima dell’uscita del film. Questo scandalo ha portato fino al licenziamento di Depp dal cast del franchise di Animali Fantastici. In questo caso, però, il film non ne era stato toccato, anzi era stato un successo non indifferente al botteghino (352 milioni contro 55 di budget).

Per Omicidio sul Nilo, invece, lo scandalo sessuale di Harmie Hammer (tutto ancora da chiarire), ha danneggiato fortemente la pellicola. Il film sarebbe infatti dovuto uscire a fine 2019, poi, fra la pandemia e il caso Hammer, è arrivato in sala solamente all’inizio di quest’anno. Tuttavia, la pellicola sta andando abbastanza bene al botteghino: nonostante l’alto budget di 90 milioni, ne ha già incassati 38. E chissà dove può arrivare.

Incrociamo le dita.

Di cosa parla Assassinio sul Nilo (2022)

Assassinio sul Nilo (2022) porta in scena un noto caso di Erculè Poirot, il fortunatissimo personaggio di Agatha Christie. Questa volta il famoso detective si trova in Egitto, testimone prima di un particolare triangolo amoroso e poi di un misterioso omicidio.

Un cast abbastanza scoppiettante, anche se non stellare come in Assassinio sull’Orient Express: la fascinosa Gal Gadot, per la prima volta in un ruolo rilevante sul grande schermo dopo Wonder Woman, la stella nascente Emma Mackey, nota soprattutto come Maive in Sex Education, e, appunto, Harmie Hammer, prima dello scandalo noto soprattutto per Chiamami con il tuo nome (2017).

Lascio la parola al trailer per farvi un’idea.

Cosa funziona

Una cosa che proprio non mi aveva convinto dello scorso film era la plasticosità degli ambienti, che sembravano veramente cartoonesschi, complice anche la fotografia a mio parere poco azzeccata. Al contrario, questa pellicola, forse anche per il budget quasi raddoppiato, porta sullo schermo della ambientazioni convincenti e dal grande fascino. Una regia piuttosto indovinata e che non manca di qualche guizzo e soluzione scenica interessante.

La vicenda è intrigante e, nonostante tutto, lo spettatore (a differenza del primo) può diventare facilmente investigatore lui stesso e risolvere il mistero prima della rivelazione finale.

Un plus del film, che davvero non mi aspettavo, è la bravura di Emma Mackey, che supera di molte lunghezze la sua ben più famosa collega Gal Gadot, soprattutto nelle scene dove recitano insieme. Davvero promossa.

Farà strada.

Cosa non funziona

In qualche modo il film soffre dello stesso problema del suo predecessore, ovvero la sua fedeltà all’opera di partenza: una trama che ci mette parecchio a partire sulla parte investigativa. Non annoia per forza, ma parte pre-omicidio potevano essere tolti almeno un quindici minuti. Una sottotrama che sembra apparire di punto in bianco e che interessa fino ad un certo punto. Una messinscena piuttosto caricata e irrealistica (dico solo, la passerella alla fine).

Gal Gadot, ma meno di quello che mi aspettavo: considero personalmente l’attrice di Wonder Woman come davvero poca talentuosa, con una bella presenza scenica, ma una capacità recitativa davvero scarsa. Le devo riconoscere però un miglioramento evidente rispetto al primo Wonder Woman, complice forse anche la buona direzione di Branagh, ma Emma Mackay recitativamente la seppellisce.

La risoluzione è piuttosto fantasiosa, e può piacere o non piacere. A me ha convinto a metà. Ma non mi voglio mettere a discutere con Agatha Christie e le sue scelte di trama.

Assassinio sul Nilo fa per me?

Gal Gadot e Emma Mackay in una scena del film Assassinio sul nilo 2021 diretto da Kenneth Branagh

Per apprezza Assassinio sul Nilo deve piacere un certo tipo di narrazione delle investigazioni vecchio stile, simile a Knives Out (2019). Non sono una lettrice di Agatha Christie, quindi non mi posso esprimere per i fan dei romanzi, ma ho notato un fandom molto diviso.

In generale, penso possa essere un film abbastanza piacevole per tutti.