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Il secondo tragico Fantozzi – L’ultima zampata

Il secondo tragico Fantozzi (1976) è il sequel del film del 1975 dedicato al Ragioniere, sempre interpretato da Paolo Villaggio.

Di cosa parla Il secondo tragico Fantozzi?

Come nel primo film, Fantozzi è protagonista di numerose disavventure a tratti surreali, ma che lo tengono sempre fermo alla base della catena alimentare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il secondo tragico Fantozzi?

In generale, sì.

Il secondo capitolo della saga fantozziana brilla principalmente per la famosa sequenza della Corazzata Potëmkin, rimanendo per il resto ancorato ad una comicità slapstick a tratti quasi ridondante, pur con qualche guizzo di genialità.

Insomma, Il secondo tragico Fantozzi è per me il punto di arrivo della saga, proprio per la sensazione che già qui vada a perdersi la – pur non centrale – vena satirica che l’aveva reso per me così interessante, riuscendo per il resto ad intrigarmi davvero poco.

Fondo

Come da prassi, Fantozzi si trova ai margini.

In questo caso però la condizione da lacchè dei superiori è il punto di partenza per una disperata scalata sociale, che si concretizza nel grande colpo di fortuna di essere scelto come accompagnatore del conte Semenzara, con cui si instaura un racconto forse meno scontato di quanto si potrebbe pensare.

Di fatto, Fantozzi – e, più in generale, la classe sociale che rappresenta – non può cominciare la propria scalata senza rinnegare quanto si è lasciato alle spalle, non potendo neanche presentare la sua vergognosa famiglia al borioso superiore, che la esclude immediatamente dalla scena.

E infine la sua fulminante carriera si riduce al diventare una marionetta alla mercé del capriccio dei potenti, così da scalare fin troppo celermente le vette dell’azienda, ma in una posizione di tale fragilità che basta un minimo passo falso per tornare alla condizione iniziale – se non peggio.

Un racconto quindi, seppur molto ironico, di un ascensore sociale bloccato, in cui le prospettive di crescita vengono promesse alla classe media, ma la stessa si trova infine bloccata in una condizione da cui non può evadere, in quanto il successo non è nelle mani di che se lo merita, ma di chi l’ha ereditato.

E ben lo dimostra la vicenda successiva.

Occasione

Ogni occasione che Fantozzi ha per brillare diventa invece ulteriore momento per ribadire la sua inadeguatezza.

Al di là della comicità molto spicciola di tutta la dinamica della Contessa Serbelloni, la stessa cela un’amarezza di fondo nell’osservare due personaggi così fuori posto come Felini e, soprattutto, come Fantozzi che si fanno largo in un panorama in cui non hanno i mezzi per emergere.

Anzi, sono loro stessi a farne le spese, come ben dimostra tutta la dinamica delle prostitute, con cui infine i due riescono, dopo molti tentativi, ad intrattenersi – una vittoria molto magra, in quanto le peggiori sul mercato – e finendo comunque per addossarsi tutti i costi.

Non dissimile dalla dinamica del Conte Semenzara è la fuga d’amore con la Signorina Silvani: pensando di approfittarsi dell’ira della donna davanti al tradimento del marito, Fantozzi si mette totalmente al suo servizio, sperando infine di poterla conquistare.

La dinamica in scena è di fatto la già nota comicità slapstick, ma nasconde un’amarezza di fondo mai veramente risolta, in cui il protagonista si ritrova infine ad origliare i velenosi commenti della Signorina Silvani con il marito, in cui indirettamente ribadisce che il suo riscatto sociale è davvero impossibile.

E infatti anche quando ci si prova…

Ribellione

La sequenza della Corazzata Potëmkin è brillante quanto dissacrante.

Per comprendere l’ironia amara della scena, è bene ricordare che il mediometraggio in questione altro non era che uno strumento di propaganda, in cui si raccontavano le eroiche gesta del popolo che, dopo secoli di sottomissione agli zar, dava infine avvio alla Rivoluzione Comunista.

Per questo il paradosso è così piccato: un film che comunque dovrebbe parlare del riscatto del proletariato, diventa vezzo per la borghesia, rappresentata dal Professor Guidobaldo, che obbliga i suoi sottoposti ad una visione che, nonostante non siano in grado di comprendere, diventa paradossalmente il motivo della loro rivolta.

E, in questo senso, la dinamica in scena ha due significati.

Da una parte denunciare, seppur simpaticamente, i limitati orizzonti culturali della nuova classe media, che passa da un’opera comunque di grande valore artistico alle peggiori commedie erotiche con cui torturano il proprio oppressore.

Infatti la vera amarezza della scena è constatare che il ruolo da capopolo di Fantozzi non sia altro che un fuoco di paglia, tanto che gli basta poco per tornare ad essere – come d’altronde nel finale del primo film – un vezzo per l’alta borghesia che ne fa uso a suo piacimento…

…perdendo infine persino la sua forma umana per diventare prima un branzino e, infine, un umile parafulmine.

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Fantozzi – La nuova classe media

Fantozzi (1975) diretto da Luciano Salce e interpretato da Paolo Villaggio, è uno dei film più iconici della filmografia nostrana.

A fronte di un budget sconosciuto, è stato considerato un grande successo commerciale: 21 milioni di euro.

Di cosa parla Fantozzi?

Ugo Fantozzi lavora come ragioniere nella terribile Megaditta e deve farsi largo in un mondo di ricchi e potenti che lo spingono costantemente ai margini.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fantozzi?

Sì, ma…

Per quanto nella sua essenza Fantozzi sia di fatto una satira sociale piuttosto crudele e grottesca, forse rendersi più appetibile al pubblico, spesso stempera questa tendenza con non pochi momenti di comicità slapstick e facilona che oggi potrebbe risultare un po’ datata.

Tuttavia, anche nei momenti più strettamente comici, è possibile intravedere una tematica di fondo – poi esasperata nei capitoli seguenti – di una classe media che non riesce a smarcarsi dalla sua posizione, nonostante i continui e impacciati tentativi.

Insomma, un pezzo di storia di cinema che in ogni caso vale una visione.

Assorbito

Tre sono di fatto i momenti fondamentali di Fantozzi.

Fin dal suo incipit, il capostipite della saga di Villaggio racconta perfettamente il suo protagonista, introdotto dalle tremanti richieste della moglie di ritrovarlo dopo una scomparsa di diciotto giorni, a cui segue la scena di un’ironia sublimemente grottesca del segugio degli impiegati.

E questa prima apparizione da uomo murato all’interno della propria azienda è rivelatoria della sua condizione: Fantozzi, come d’altronde tutta la classe sociale che rappresenta, è assorbito all’interno del suo lavoro, tanto da definirsi con lo stesso…

…nonostante la sua azienda faccia presto a dimenticarsi di lui.

Ed è proprio attraverso questo paradosso che si articola l’esistenza del protagonista, intrappolato in un lavoro in cui è unicamente vessato, ma di cui non può fare a meno per la sopravvivenza sua e della propria famiglia, risultando così incapace di muovere la minima rivendicazione.

Per questo la sveglia di Fantozzi è ancora più rivelatoria.

Spazio

Fantozzi non ha spazio per sé stesso.

Per quanto cerchi in più momenti di evadere la propria condizione, non vediamo mai il ragioniere veramente slegato dal suo lavoro, tanto che persino i weekend sono in un certo modo lavorativi, in quanto viene costantemente incastrato nelle stramberie dell’Ingegner Filini.

Ma ogni momento è buono per riacquistare anche solo un minimo di libertà.

Così la sveglia di Fantozzi, nella sua ironia feroce, è in realtà rappresentazione di due tendenze: da una parte, il suo fallimentare tentativo di definire uno spazio di indipendenza, scegliendo di non sottostare alle tempistiche richieste dall’azienda, ma di crearne di proprie, pur tormentato dall’angoscia del cartellino.

D’altra parte, la sveglia di Fantozzi è un disperato sforzo di avere controllo su una vita che ormai non è più sua, inciampando passo dopo passo in continui e inevitabili ostacoli, per cui basta il minimo imprevisto per alimentare una catastrofica valanga di insuccessi.

E ogni tentativo di ribellione è inutile.

Divinità

Nonostante il suo totale servilismo, Fantozzi non è totalmente imbelle.

La possibilità di riscatto gli viene concessa da un inaspettato incontro con l’attivismo politico nella sua forma più estrema – il comunismo – che lo porta prima ad evadere i codici estetici dell’azienda – presentandosi con i capelli fino al collo e con una sciarpa rossa piuttosto rivelatoria…

…e, infine, compiendo l’atto di massimo sdegno: rivoltarsi violentemente contro il padrone.

Ma la risposta alla sua ribellione non è quella che si aspettava – e, per questo, è ancora più pungente: per essere riportato all’ordine, Fantozzi è condotto davanti al Mega Direttore Galattico, una figura al limite del leggendario, immersa in un ambiente che ne definisce la sacralità.

Piuttosto dissacrante infatti l’arredamento dell’ufficio, che ricalca quello di una chiesa, anzi di una chiesa povera dove servono solo due sedie: quella principale, che Sua Santità cede temporaneamente a Fantozzi, e l’inginocchiatoio, verso il quale il protagonista viene inevitabilmente spinto…

…con una dinamica che già da sola è incredibilmente esplicativa.

Fantozzi Megadirettore

Infatti tutto il discorso del Mega Direttore è incentrato non sulla punizione, ma piuttosto su una riscrittura della storia a proprio favore, prendendo le parole della ribellione di Fantozzi e sostituendole con una versione più accettabile.

E infine, davanti alla richiesta di come affrontare la situazione, il personaggio riprende il suo posto, e articola un progetto ideale – quanto di impossibile realizzazione – di pacificazione fra le classi sociali, del tutto omettendo l‘importante fattore della disparità di potere fra le stesse, ma riuscendo così a sottomettere nuovamente Fantozzi….

…che anzi chiede il permesso, ancora una volta, di essere premiato, diventando così ancora di più un oggetto d’arredamento per la sua stessa azienda.

E poi c’è tutto il resto.

Debole

Fantozzi non è di per sé una commedia malvagia…

…ma la tendenza a riproporsi come commedia all’italiana, rischiando di perdere la sua vena dissacrante, finisce per indebolire la narrazione.

Di fatto, Fantozzi è la tragedia di un emarginato a cui non gliene va bene una, un eroe comico in cui lo spettatore può facilmente rivedersi e le cui sfortune possono essere di facile intrattenimento, nonostante il sotto senso satirico rimanga – anche se più debolmente.

Purtroppo però, qui – e, soprattutto, nel successivo Il Secondo Tragico Fantozzi (1976) – ad eccezione delle situazioni di cui sopra, le situazioni messe in scena spesso non portano ad un’effettiva riflessione, ma risultano molto fine a sé stesse…

…rischiando così di far perdere Fantozzi nel marasma della commedia nostrana ben meno brillante. 

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Parasite – Ritornare sottoterra

Parasite (2019) è considerato ad oggi il capolavoro della filmografia di Bong Joon-ho, che contribuì alla riscoperta del cinema coreano in Occidente.

A fronte di un budget piccolino – 11.4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 262 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Parasite?

La famiglia Kim vive ai margini della società in una condizione di povertà devastante, districandosi nei problemi della vita fra furbizie e lavori occasionali. Ma forse la possibilità di riscatto è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Parasite?

Choi Woo-shik e Park So-dam in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

Assolutamente sì.

Parasite è uno spaccato dolorosissimo della società sudcoreana, già tratteggiato nei precedenti film della produzione di Bong Joon-ho, ma qui raccontato in maniera ancora più tagliente e devastante, creando un sottofondo comico sublime quanto ingannevole…

…che infine esplode in un thriller totalmente inaspettato, ma che svela la realtà di una dinamica apparentemente comica e irriverente, ma che risulta infine fin troppo reale e drammatica – e senza possibilità di scampo.

Insetto

La famiglia Kim in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

La famiglia Kim è un insetto.

Il paragone cardine della pellicola viene inaugurato immediatamente, e continuamente insistito perché rimanga nella mente dello spettatore per tutto il primo comicissimo atto: i protagonisti sono parassiti persino della connessione WiFi dei loro vicini…

…cannibalizzando tutto quello che possono, persino mettendo a rischio la loro stessa vita, pronti anche a farsi intossicare col veleno per le blatte pur di ottenere qualcosa gratuitamente.

Choi Woo-shik e Park So-dam in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

Una dinamica che diventa ancora più drammatica quando scopriamo progressivamente quanto la famiglia non manchi di inventiva e di conoscenze che però non ha la possibilità di mettere in pratica, frenata dalla propria condizione limitante, e capace di esprimerla esclusivamente per fini non esattamente onesti.

Eppure forse l’occasione di riscatto è a portata di mano…

Ingenuità

Choi Woo-shik e Park So-dam in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

Il primo atto è fin troppo celere.

Ancora una volta Bong Joon-ho ci incastra in una trama comica che è solamente uno specchietto per le allodole, da cui uno svolgimento piuttosto rapido e fin troppo semplice della dinamica della famiglia Kim che si intrufola nella magione dei Park.

E infatti tutta la situazione è irresistibilmente comica, e ci fa involontariamente parteggiare per la famiglia protagonista, che finalmente ottiene il suo riscatto nel fare la pelle a quella classe sociale che l’ha sempre messi ai margini, spinta sottoterra, lontano dalla loro vista.

Choi Woo-shik in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

Eppure, è tutto un grande miraggio.

La dinamica del primo atto racconta chiaramente l’illusione di una classe sociale irreversibilmente impoverita, ma che sogna di potersi smarcare anche piuttosto facilmente dalla propria situazione, riuscendo ad ingannare un sistema che invece la tiene bloccata nella propria, tragica posizione.

Una consapevolezza che è propria solamente del patriarca, Ki-taek, che prima incoraggia il figlio ad avere un piano di vita che lui invece rigetta, proprio per consapevole di come diversamente le situazioni infauste si abbattano sulla sua famiglia rispetto ai Park.

E infatti la pioggia è estremamente rivelatoria.

Posizione

La pioggia di Parasite è il momento della rivelazione.

La gita fuori porta della famiglia Park sembra l’apice del riscatto della famiglia Kim, che finalmente può godersi liberamente la casa tutta per sé, la magione che ha così furbescamente sottratto ai suoi proprietari, già sognando di potersene definitivamente impossessare.

E invece la verità viene a bussare alla porta.

Il ritorno dell’ex-governante, Moon-gwang, porta i protagonisti a ridiscendere nella realtà della loro condizione parassitaria, di una classe sociale devastata dal debito e dalla povertà che può solo raccogliere le briciole di chi sta sopra.

E, al di là della grottesca guerra fra poveri che si instaura nell’atto centrale, il momento più significativo è la rivendicazione di Geun-sae, il cui discorso è totalmente funzionale a creare un collegamento strettissimo fra la sua condizione inumana e quella della famiglia Park…

… ulteriormente ribadita dal ritorno dei veri proprietari.

La sequenza notturna della casa è il momento di sottile quanto devastante presa di consapevolezza da parte di Ki-taek: i protagonisti perdono la propria umanità, sgusciando negli anfratti della casa come insetti, nascondendosi sotto ai letti, sotto ai tavoli…

E, in questa nuova posizione, il patriarca della famiglia Kim origlia i veri sentimenti della classe che l’ha oppresso per tutta la vita, in un climax di umiliazione sempre più angosciante, passando dall’aperto disgusto – il loro odore – alla esplicita feticizzazione – le mutande di Ki-jung.

E non è finita qui.

Limite

La scena della casa allagata di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

La sequenza del ritorno a casa è estremamente rivelatoria.

La famiglia Park si ritrova a nuotare nei propri escrementi, ma, mentre la figlia si arrampica sul gabinetto per evadere – come per tutto il resto della pellicola – dal disgusto della sua condizione, al contrario Ki-taek rimane immerso nella sua posizione, non volendola più negare.

Song Kang-ho in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

E così, conseguentemente, se tutti i componenti della famiglia accettano più o meno di buon grado la proposta della famiglia Park di farsi comprare, il patriarca cova evidentemente un senso di angoscia e insofferenza, che già si intravede nella preparazione dello spettacolo, quando il Signor Park ribadisce:

Ti stiamo pagando un extra.

Ma la miccia che scatena la rivolta è quanto piu significativa: non l’aggressione dell’ormai fuori controllo Geun-sae, ma piuttosto la reazione del miliardario, totalmente disinteressato alla sorte dell’assassino, anzi apertamente disgustato per il fetore che rappresenta quella gente.

E allora tocca a Ki-taek spezzare definitivamente le apparenze e accoltellare il suo padrone, in una scintilla improvvisa di consapevolezza, di cui si pente immediatamente, ritorno ancora una volta al suo posto sotto la famiglia Park e continuando a vivere il sogno evidentemente irrealizzabile di riscatto sociale…

…adorando la figura del defunto Signor Park come salvatore e martire.

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Memorie di un assassino – Le parallele intersecate

Memorie di un assassino (2003) è il secondo film della ricca filmografia di Bong Joon-ho.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 2,8 milioni di dollari – anche grazie alla distribuzione in Occidente a quasi vent’anni dall’uscita, è stato un ottimo successo commerciale: 12 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Memorie di un assassino?

Corea del Sud, 1986. In una piccola cittadina di campagna si susseguono una serie di omicidi piuttosto efferati nei confronti di giovani donne. E i metodi di indagine della polizia sono quantomeno dubbi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Memorie di un assassino?

Song Kang-ho e Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

Assolutamente sì.

Memorie di un assassino rappresenta un punto di partenza fondamentale per ricoprire la filmografia di Bong Joon-ho, che già qui presenza la sua cifra distintiva fra comico, grottesco e drammatico, in un incontro piuttosto peculiare, ma estremamente efficace.

Di fatto il film inganna lo spettatore facendogli credere che la via verso il finale è già segnata e che lo sviluppo della storia sarà piuttosto lineare, riuscendo invece a sorprenderlo in un’evoluzione dei personaggi veramente sottile e perfettamente calibrata.

Insomma, da riscoprire.

Metodi

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

I metodi della polizia sono quantomeno discutibili.

Park Du-man si fa largo all’interno di un caso spinosissimo a colpi di intuizioni senza alcuna base logica e con un atteggiamento fin subito aggressivo e perentorio, volto a individuare immediatamente il colpevole perfetto per chiudere il caso nel minor tempo possibile.

E, in maniera davvero sorprendente, la regia rende questo aspetto della vicenda apertamente grottesco, ma senza banalizzare la questione, anzi usandola come strumento per definire caratterialmente le due figure dei detective protagonisti e del panorama in cui si muovono.

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

I due poliziotti infatti sono incastrati in un contesto sociale particolarmente gretto, in cui le investigazioni vengono condotte, nella quasi totale mancanza di mezzi, quasi totalmente alla cieca, per i sentito dire, per i pettegolezzi che si rincorrono e chiusi grazie al tribunale popolare che sembra avere sempre la meglio.

E in questo senso l’arrivo del nuovo detective è emblematico.

Parallela

Song Kang-ho e Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

Seo Tae-yun subisce immediatamente la giustizia sommaria.

In un contesto in cui il minimo indizio può portare alla condanna, il semplice chiedere indicazioni diventa stalking e la situazione precipita anche simbolicamente in un fosso, e ogni tentativo di recuperare la situazione – aiutare la donna a risalire – diventa invece la prova definitiva che lo porta ad essere ammanettato alla macchina.

E questo breve ma significativo incontro già basta per intraprendere un’indagine parallela, del tutto estranea ai disordinati tentativi di creare un caso sul primo malcapitato che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, seguendo invece la pista seminata dalla ben più attenta Kwon Kwi-ok, l’unica che trova una prova concreta.

Così finalmente il detective riesce a costruire una rete di indizi effettivamente significativa, basata su effettivi indizi, testimoni e collegamenti un minimo credibili fra i vari elementi in gioco, che lo portano in direzione di una figura apparentemente insospettabile.

Ed è a questo punto che Memorie di un assassino mi ha sorpreso.

Costretto

Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

La direzione del film appare chiara, quasi scontata.

Lo spettatore e lo stesso detective si aspettano di riuscire a seguire una linea chiara che li porterà ad inchiodare il vero colpevole, soprattutto grazie alle insperate tracce di sperma, che potrebbero essere la prova schiacciante per condannare quello che ormai sembrava il killer designato.

Questa ritrovata sicurezza conduce gradualmente Seo Tae-yoon ad avere una visione sempre meno oggettiva del caso e un’ossessione crescente verso il colpevole, che sembra scivolargli dalle mani ad ogni nuovo assassinio che non è riuscito a sventare.

Per questo l’arrivo dei test del DNA, l’unica via che ormai gli sembrava percorribile per arrestarlo, nella sua totale inutilità definisce l’ultimo atto del suo fallimento, che lo porta, di fatto, ad essere tutto quello che odiava:

esecutore di una giustizia sommaria.

Memories of a Murder finale

Il finale di Memories of a Murder è il suo punto più alto.

Nonostante Park Du-man sembra essersi lasciato il caso alle spalle, il destino lo riporta inevitabilmente nel primo luogo del delitto, dove ammette che effettivamente non c’è più niente da vedere, nonostante la regia indugi su un eloquente primo piano stretto che racconta l’aspettativa del personaggio di trovare qualcosa.

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

E infine quel solitario scalo fognario diventa il punto di incontro mai prima riuscito fra il killer misterioso e il detective, che pende dalle labbra dell’unica, nuova testimone, ancora una volta incapace di dargli la prova schiacciante per chiudere il caso.

E ora?

Ci chiede Park Doo-man guardandoci direttamente negli occhi.

Sipario.

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Nosferatu – Una bellezza già vista

Nosferatu (2024) di Robert Eggers è un remake dell’omonimo classico del cinema espressionista di Murnau.

A fronte di un budget comunque significativo – 50 milioni di dollari – ha aperto in maniera piuttosto promettente al box office statunitense: 21 milioni di dollari.

Candidature Oscar 2025 per Nosferatu (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior fotografia
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliori trucco e acconciatura

Di cosa parla Nosferatu?

Thomas Hutter vuole offrire una nuova vita alla sua neonata famiglia, e per questo accetta un incarico piuttosto particolare: visitare il misterioso conte Orlok in Transilvania.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nosferatu?

Lily Rose-Depp in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

In generale, sì.

Con Nosferatu Eggers dimostra nuovamente le sue incredibili capacità registiche, riuscendo a portare in scena atmosfere effettivamente inquietanti, incorniciate da un montaggio particolarmente indovinato, che regala un davvero indemoniato alla pellicola. 

Rimane però un po’ di amaro in bocca nel constatare la quantità di temi e di riflessioni – già esplorate da Eggers altrove – che potevano essere meglio approfondite, cercando magari di dare maggiore originalità all’opera, che per il resto rimane un piacevole omaggio al classico di partenza.

Paura

Nicholas Hoult in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

In un genere ormai oltre che saturo come l’horror, riuscire a spaventare non è semplice.

In questo senso, Nosferatu di Eggers è vincente nel caricare le atmosfere in scena, soprattutto nel primo atto, di un senso di puro terrore, basato su un abile uso del vedo-non-vedo, in cui le fattezze del Conte Orlok emergono fumose dall’oscurità della sua magione…

Nicholas Hoult in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

…e diventano sempre più agghiaccianti grazie agli altri elementi che animano la scena – i riti pagani di purificazione, i particolari gotici del castello, la carrozza fantasma… – riuscendo a far immergere lo spettatore nella corsa cieca e disperata del nostro ingenuo protagonista.

Ma non è finita qui.

Controllo

Nicholas Hoult e Lily Rose-Depp in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

Il perno centrale della narrazione di Nosferatu è la mancanza di controllo.

I protagonisti sembrano del tutto succubi ad una trama già intessuta molto tempo prima, a cui è impossibile sfuggire, come ben racconta il montaggio frenetico in cui le vicende si svolgono secondo la volontà del conte – e senza possibilità di replica alcuna.

In questo senso, altri due elementi contribuiscono al fascino della pellicola.

Nicholas Hoult in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

Il primo, è il senso di claustrofobia: proprio per la mancanza di controllo, Thomas Hutter sembra inevitabilmente imprigionato nell’ombra di Orlok, e vani sono tutti i suoi tentativi di ucciderlo e di fuggire, fino alla scelta disperata di buttarsi nell’oceano. 

A questo si aggiunge l’interessante paragone fra il vampiro e la peste, ben rappresentata dalla sfrenata corsa dei topi che scendono dalla nave e che si intrufolano in ogni angolo della città, portando con loro una malattia invisibile ed irrefrenabile.

Ma, davanti a queste scelte piuttosto convincenti, rimane per me un’amarezza di fondo.

Occasione

Come altri registi nascenti in ambito horror, fin da The Witch Eggers si è distinto nel portare un quid in più all’interno del genere.

Purtroppo, questo non è il caso di Nosferatu.

Proprio come il suo protagonista, anche Eggers sembra intrappolato all’interno dell’eredità di Murnau e del suo desiderio di omaggiarlo, senza riuscire così a portare una propria originale rilettura del film di partenza, limitandosi a confezionare un ottimo horror di atmosfere.

Lily Rose-Depp e Emma Corrin in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

In questo senso, gli spunti si sprecano: il personaggio di Ellen da solo offriva il fianco a diverse riflessioni sulla liberazione sessuale, sulla considerazione degradante delle capacità mentali delle donne – nella appena citata isteria – che poteva dare un significato ben più interessante a tutte le scene di possessione.

Per questo per me Nosferatu è una buonissima prova registica di Eggers, ma che per brillare davvero come regista dovrebbe affidarsi ad una sua storia originale – o, almeno, ad una storia originalmente riproposta – senza vivere nell’ombra di nessun altro autore, per quanto importante.

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Gremlins 2 – Il punto di non ritorno

Gremlins 2 (1990) di Joe Dante, noto anche come Gremlins 2 – La nuova stirpe, è il sequel dell’omonimo cult degli Anni Ottanta.

A fronte di un budget piuttosto ambizioso – 50 milioni di dollari – fu un disastro commerciale, non riuscendo né a coprire i costi di produzione, né ad avvicinarsi all’incasso del primo.

Di cosa parla Gremlins 2?

Pochi anni dopo il primo film, Billy lavora per un’intraprendente multinazionale che, per vie traverse, viene in possesso di Gizmo. E la minaccia dei Gremlins è ancora più pressante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins 2?

Assolutamente sì.

Per quanto mi renda conto che questo secondo capitolo possa non essere nelle corde di tutti, al contempo è secondo me una visione irrinunciabile per godere di un Joe Dante in forma smagliante, che gioca con la sua creatura in maniera sempre più fantasiosa e improbabile.

Insomma, Gremlins 2 è stato, nel bene e nel male, un apripista per il più classico sequel Anni Novanta, che prende gli elementi del primo film e li esaspera all’inverosimile, in questo caso risultando però, nella sua follia, incredibilmente brillante.

Spaccato

Come per il primo film, anche in Gremlins 2 è presente l’elemento politico.

Di fatto la cornice della storia principale – ricordiamolo, dal taglio fantascientifico, quasi fantastico – è crudelmente reale, quasi satirica, ed inquadra perfettamente la grande corsa al capitale degli Stati Uniti degli Anni Ottanta e Novanta…

…in cui ogni dipendente, ogni ingranaggio deve sottostare precisamente allo schema aziendale, in cui ogni tipo di individualismo è immediatamente soppresso, ogni tentativo, anche il più innocuo, di non seguire il regolamento, è severamente punito.

E questo grottesco quadretto è chiuso proprio l’annuncio che segue il licenziamento del dipendente ribelle:

We have a career opportunity on level seven!

Opportunità di carriera al piano sette!

Casualità

Il film sa di dover ricreare il dramma del primo…

…ma deve essere quantomeno credibile.

In questo senso funziona bene la sequenza di eventi che conduce al rincontro fra Gizmo e Billy, e il motivo per cui il protagonista non può immediatamente portarlo con sé, mentre meno convincente è il modo in cui il mogwai finisce per bagnarsi.

Fra l’altro è piuttosto curioso come Gizmo venga relegato per gran parte del tempo fuori scena, limitato nel suo simpatico arco evolutivo sulle orme del suo eroe cinematografico – Rambo – venendo quasi subito messo ai margini dagli altri Gremlins e quasi dimenticato da Billy.

Infatti il vero protagonista della scena è la diversità.

Diversi

Joe Dante con Gremlins 2 vuole stupire lo spettatore – e sé stesso.

Per questo crea terreno fertile per sperimentazioni sempre più incredibili – il laboratorio – dove i suoi personaggi non sono semplicemente delle simpatiche varianti di Gizmo, ma bensì degli esperimenti mal riusciti via via sempre più assurdi.

Così vediamo il Gremlins a cui cresce la verdura addosso, quello che diventa un ragno, un femme fatale, un conduttore radiofonico, un pipistrello e via dicendo, tutti accomunati da una totale imprevedibilità e malvagità innata.

E, proprio perché in questo frangente il regista non ha più bisogno di far credere allo spettatore che i Gremlins nati da Gizmo siano uguali a lui, li distingue fin da subito con dei ghigni distorti e caratteristici al limite del grottesco.

Ed è proprio qui il punto di non ritorno.

Fine?

Gremlins 3 non può esistere.

Al di là dell’insuccesso economico che ha chiuso le porte ad un possibile continuo, Joe Dante è arrivato con Gremlins 2 a toccare degli apici creativi che lo pongono in una posizione di precario equilibrio fra il genio e il trash…

…e, con un terzo film, probabilmente sarebbe crollato in un insostenibile camp.

Perché, obbiettivamente, come si potrebbe superare in eleganza la scena metanarrativa in cui i Gremlins prendono possesso della pellicola bucando lo schermo, per poi essere rimessi al loro posto da niente poco di meno che Hulk Hogan…

…oltre alle diverse prese in giro che Joe Dante fa a sé stesso e al precedente film, accolto da entusiasmo ma anche feroci critiche da parte di genitori totalmente sconvolti dalla tremenda violenza in un film popolare anche fra i più piccoli?

Forse, per una volta, il flop commerciale è stato una fortuna…

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Velluto Blu – La trama nascosta

Velluto Blu (1986) segnò il ritorno di David Lynch, dopo due film più hollywoodiani Elephant man (1980) e, soprattutto, Dune (1984) – ai fasti della sua opera prima.

A fronte di un budget piccolissimo – 6 milioni di dollari, circa 18 oggi – è stato un discreto insuccesso commerciale: 8,5 milioni in tutto il mondo (circa 24 oggi).

Di cosa parla Velluto blu?

Per una pura casualità, la vita del giovane Jeffrey si intreccia con le turbolente vicende della enigmatica Dorothy Vallens e del suo aguzzino, Frank Booth.

O, almeno, questo è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Velluto blu?

David Lynch e Isabella Rossellini sul set di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Assolutamente sì.

Con Velluto blu Lynch è riuscito nuovamente a sorprendermi, anche se questa volta in maniera meno plateale: un thriller con una trama apparentemente lineare, in realtà disseminato di piccoli indizi che raccontano una storia ben diversa.

Infatti, se avrete voglia davvero di ascoltare la pellicola, rimarrete rapiti dall’enigmatico simbolismo sotterraneo, che, come ogni film di Lynch che si rispetti, non vuole veramente farsi capire, ma piuttosto lasciar libera la fantasia e l’interpretazione dello spettatore.

Insomma, non potete perdervelo.

MacGuffin

L’inizio di Velluto blu è un classico McGuffin…

…oppure no?

Il malore del padre del protagonista sembra davvero pretestuoso, tanta è la velocità con cui questo personaggio esce ed entra di scena, diventando semplicemente l’occasione per dare modo a Jeffrey di trovare l’orecchio tranciato e scoprire di Dorothy.

L'orecchio di Velluto Blu (1986) di David Lynch

E questa sensazione pervade anche il resto del primo atto, in cui personaggi utili alla prosecuzione della storia sembrano apparire molto convenientemente per dare al protagonista tutti i motivi e i mezzi per avvicinarsi alla misteriosa cantante.

Altrettanto conveniente è l’ottenimento della chiave, per chi basta una banalissima scusa per introdursi nella casa di Dorothy, riuscendo nel frattempo già a mettere insieme i primi pezzi del puzzle con la breve comparsa di Frank.

E quindi…

Specchio

Kyle MacLachlan nascosto nell'armadio in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’aggressione di Jeffrey è un grottesco specchio.

Sorpreso a nascondersi nell’armadio della donna, sembra inizialmente Dorothy lo voglia umiliare, cominciando poi in realtà a sedurlo, a condurlo al suo letto, pur intimandolo ogni volta di non guardarla, come se volesse vivere all’interno di una fantasia di cui non fa veramente parte.

Una scena apparentemente incomprensibile, in realtà più chiara assistendo alle dinamiche che si susseguono in scena con l’arrivo di Frank e la sua grottesca violenza nei confronti di Dorothy, basata su un contrasto piuttosto curioso fra i protagonisti della scena.

Isabella Rossellini e Dennis Hopper in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Da una parte Frank, il classico, odioso villain, che sembra spremere le sue ultime forze vitali – come testimonia il respiratore di cui fa spesso uso – e che vuole essere considerato come un bambino, che richiede le attenzioni materne, in una sorta di rituale.

E così Dorothy, a cui è stata negata la vita familiare con il rapimento del figlio e del marito, è invece costretta a tornare nel ruolo materno, e a sopportare tutti i capricci del suo aguzzino – che, fra l’altro, non vuole essere visto in queste particolari vesti.

Ma in questo delizioso delirio onirico, ci sono due elementi che possono aiutarci a comprendere cosa davvero Lynch ci vuole raccontare.

Fantasma

Don e Donnie sono due figure evanescenti.

Come l’uno non compare mai in scena, ma rimane vincolato dietro ad una porta, per sempre nascosto dalla vista di Jeffrey – e dalla nostra – il secondo appare unicamente sul finale, come fantoccio ormai senza vita che racconta l’ultimo atto della furia omicida di Frank.

Ma proprio questa loro fumosa presenza potrebbe favorire anzitutto l’interpretazione onirica, ma soprattutto far ipotizzare che in realtà Don, Donnie e Jeffrey siano di fatto la stessa persona, la stessa figura positiva che il protagonista spalma su più personaggi con cui non condivide mai la scena.

Isabella Rossellini e Kyle MacLachlan in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Un’idea confermata sia dal fatto che ad un certo punto è proprio Dorothy a chiamare il suo giovane amante con il nome del figlio, sia dal fatto che nella stessa scena la donna lo implora di tenerla prima che crolli in questa oscurità ripetutamente evocata:

Now it’s dark…

E ora le tenebre…

Frasi apparentemente senza significato, ma che ben si incastrano con un altro elemento significativo del film.

L’orecchio.

Orecchio

Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan  e Laura Dern in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’orecchio è la chiave della storia.

Proprio nella sua funzione di far entrare Jeffrey nella vita di Dorothy, con il suo eloquente avvicinamento nel cavo uditivo, la regia ci suggerisce come se il protagonista penetrasse in una realtà sotterranea, oscura, di cui non ha veramente il controllo, ma di cui vuole disperatamente essere l’eroe.

Lo stesso orecchio è richiamato nel finale del film, ma questa volta è un orecchio vivo e parte del protagonista che si gode una giornata luminosa disteso nel giardino di casa, dove sembrano essersi raggruppati tutti i personaggi, ormai estranei ad ogni pensiero negativo e immersi in un sogno primaverile.

Così il simbolismo dell’orecchio è ribaltato con l’arrivo della rondine, che porta in bocca proprio un insettaccio nero, simile alle formiche che apprestavano l’entrata del mondo segreto che Jeffrey ormai sembra aver abbandonato, confermando la profezia che la stessa Sandy.

Ci troviamo quindi forse fra due mondi, entrambi onirici e misteriosi, fatti di simboli e precisi rituali, nessuno dei due veramente concreto se non all’interno dei limiti dell’immaginazione di Jeffrey, che, proprio come un sogno, riesce a ricollegare solo debolmente le figure in scena…

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Fratello, dove sei? – L’odissea della depressione

Fratello, dove sei? (2000) è una libera reinterpretazione dell’Odissea da parte di Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piccolino – 26 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Fratello, dove sei?

Mississippi, 1937. Nel pieno della Grande Depressione, un terzetto di galeotti tenta la fuga dai lavori forzati. Ma il loro ritorno a casa sarà un’effettiva odissea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fratello, dove sei?

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Fra i film dei Fratelli Coen è forse quello che finora mi ha meno colpito, nonostante non manchi degli elementi tipici del duo: un’avventura a sfondo criminale con protagonisti degli anti-eroi fra il comico e il grottesco, condito con una buona dose di surrealismo.

Tuttavia mi è parsa più una simpatica parentesi di una storia che funge quasi da scusa per raccontare uno spaccato di un periodo piuttosto turbolento degli Stati Uniti, attraverso un colorito gruppo di personaggi che, proprio come nell’opera omerica, sono una distrazione per il vero obbiettivo del protagonista.

Ma vale comunque la pena di dargli un’occhiata.

Destino

George Clooney in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

I tre protagonisti scoprono immediatamente il loro destino.

Riducendo fortuitamente a sfuggire dal controllo delle guardie, tentano immediatamente la via più semplice per mettersi in viaggio: un treno merci su cui sperano di incontrare qualcuno capace di rompere le loro pesanti catene…

…per essere bruscamente riportati nella realtà dell’arida terra del Mississippi, per un viaggio che potrà essere fatto solo a piedi o con mezzi di fortuna, per raggiungere il fantomatico tesoro.

E proprio il loro primo incontro con questo Omero moderno, nei panni di un vecchio cieco che percorre in cerchio la linea dei binari con la sua bizzarra draisina che non sembra portare da nessuna parte…

…ma che gli svela la verità sul loro destino: un tesoro che in realtà sarà portatore di molti guai, predizione che viene però presa e ribaltata – come molte volte nel film – a piacimento di Ulysses.

E qui si sviluppa un argomento fondante della pellicola.

Occasione

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti sono la terra delle occasioni…

…oppure no?

Il drammatico bozzetto di Fratello, dove sei? raccolta gli spasmi di un paese che arranca in una crisi senza precedenti, che ha visto negare le prospettive di crescita e di ricchezza da sempre proprie dell’immaginario comune.

Ma lo spirito non viene mai veramente abbandonato, e i personaggi farebbero di tutto pur di evadere la miseria presente…persino vendere i propri stessi familiari alla polizia, proprio per un sogno di arricchimento continuamente inseguito in un panorama umano desolante.

Ma c’è anche un’altra faccia della questione.

Come appunto la miseria è reale, le possibilità di arricchimento sono a portata di mano: proprio nel suo vivere alla giornata, Ulysses e il suo terzetto abbracciano la possibilità raccontata da Tommy Johnson, che ha venduto la sua anima al diavolo perché non ci faceva nulla – in altri termini, non gli dava da mangiare.

E così, tramutandosi continuamente all’occorrenza – da band di afroamericani a gruppetto folk di bianchi – riescono effettivamente a muovere il primo passo verso la tanto aspirata popolarità – e, ovviamente, guadagno.

Identità

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti hanno bisogno di una bandiera comune.

Ovvero, il razzismo.

In un mondo in cui il Dio è diventata ormai una moneta di scambio, vi è una realtà dietro le quinte che cerca sottilmente di affacciarsi nella politica di un paese immerso in una disperazione senza via d’uscita: il Ku Klux Klan.

Infatti non ci vuole molto per scoprire che le promesse di un futuro migliore dell’aspirante nuovo governatore nascondono un movimento reazionario profondamente razzista, che cerca di attuare un’opera quasi di purificazione.

E proprio a questo movimento estremista si intreccia in maniera piuttosto interessante il poema omerico: come Big Dan Teague è evidentemente una riproposizione moderna del mitologico Ciclope, la sua figura è anche quella del Gran Ciclope, ovvero una delle più alte cariche del Klan.

Ma davanti a questa povertà ideologica, un futuro è possibile?

Futuro

Ulysses può essere letto come una personificazione del Sogno Americano.

Incatenato, ridotto nelle peggiori condizioni possibili per sua stessa colpa, il protagonista tenta in tutti i modi di ricongiungersi con la moglie – ovvero, con il suo popolo – nonostante la stessa abbia ormai perso fiducia in lui, con una nuova generazione – le figlie – che non sa neanche della sua esistenza.

Infatti la moglie ha ormai spezzato il legame, ha ormai lo sguardo puntato verso qualcosa di più concreto – il nuovo marito – che non sia costruito su promesse vuote e senza significato, ma su una prospettiva reale di un futuro forse meno appagante, ma sicuramente più raggiungibile.

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

E infatti la riconquista della moglie avviene per due strade.

Anzitutto, grazie alla riconferma sociale: il futuro governatore rieletto nomina i Soggy Bottom Boys come suo braccio destro, prospettandogli un solido futuro lavorativo ed economico, che permette alla moglie di credere nuovamente in Ulysses.

Ma altrettanto essenziale è il recupero dell’anello, simbolo di una ricchezza promessa – e, in passato, ottenuta – che però si perde nei flutti di una inondazione biblica – la guerra? – che farà piazza pulita degli Stati Uniti…

…ma che sarà anche un’occasione per ricominciare con il Boom Economico pochi decenni dopo.

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Fargo – Una parentesi criminale

Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen è stato il primo dei grandi successi di questo talentuoso duo di registi statunitensi.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 7 milioni di dollari, circa 14 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 60 milioni di dollari in tutto il mondo – circa 120 oggi.

Di cosa parla Fargo?

Jerry è un mediocre impiegato in una concessionaria, che farebbe di tutto per cambiare la sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fargo?

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Assolutamente sì.

Fargo è stato amore a prima vista: già da questa splendida pellicola i fratelli Coen seppero distinguersi per una scrittura davvero attenta e puntuale, capace di portare in scena con pochi tratti personaggi poliedrici e incredibilmente reali.

Una storia che riesce ottimamente ad unire un lato più amaro ad una verve più strettamente ironica, fra la commedia più leggera e il puro humor nero, al limite del surreale – incontro che definirà gran parte della loro produzione successiva.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Mediocre

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

In Fargo entriamo nella vicenda quasi in medias res.

Jerry ha già da tempo meditato una sorta di riscatto segreto per ottenere con l’inganno i soldi che gli servono per il suo progetto altrimenti impossibile, utilizzando la sua sfortunata moglie come merce di scambio per pescare a piene mani nel portafoglio del suocero.

Ma già dal primo scambio con i due rapitori capiamo quando il protagonista sia vittima della sua stessa mediocrità, del suo farsi sempre mettere i piedi in testa e così non riuscire mai ad emergere dalla sua condizione di grigio impiegato, nonostante si creda invece un grande stratega.

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Quindi un potenziale personaggio da compatire che viene sempre più tratteggiato come inetto e pure meschino, soprattutto quando ci viene finalmente mostrato il panorama familiare: una moglie piacevole e accogliente, che non merita un marito del genere…

…e un patriarca sicuramente arcigno e pungente, ma che alla lunga diventa anche comprensibile nel suo non voler investire il suo patrimonio in un personaggio poco affidabile come il suo genero – come verrà poi ribadito nell’amaro incontro con gli altri investitori.

William H. Macy e Kristin Rudrüd in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Così l’incapacità di Jerry di metterci la faccia è tanto più evidente in un parallelismo sottile ma fondamentale nella scena della concessionaria: davanti ad un cliente insoddisfatto, il protagonista è incapace di far valere la sua posizione, e agisce tramite sotterfugi e mezzucci.

E non potrebbe mettersi in mani più sbagliate per il suo progetto…

Improvvisazione

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Carl e Gaear si inseriscono perfettamente nel concetto di decostruzione del fascino criminale.

Fargo uscì infatti nel periodo di tramonto del fascino dei serial killer statunitensi, che avevano imperversato la cronaca nera fra gli Anni Settanta e Ottanta, spesso diventando protagonisti di culti e ammirazioni fuori controllo per l’avventatezza del loro crimini.

Al contrario, i fratelli Coen raccontano questi personaggi proprio come due criminalucci da strada, che ricercano una conferma del loro status – particolarmente Carl – in un atteggiamento di particolare superiorità e supponenza, nonché tramite le più squallide compagnie femminili.

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

E proprio loro diventano vettori della violenza spropositata e fuori controllo che trasformerà un semplice rapimento fittizio in una passerella di morte imprevedibile e incontrollabile, alimentata da una serie di fraintendimenti e sfortune.

E proprio qui si inserisce la riflessione del più importante personaggio della storia: Marge.

Alternativa

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Marge è una protagonista piuttosto particolare.

Il suo personaggio è quello che meglio incarna lo spirito di Fargo: un racconto reale e umano, che riesce in poche pennellate ben pensate a tratteggiare perfettamente i personaggi in scena, in cui un semplice risveglio all’alba e le premure del marito, Norm, ci raccontano un matrimonio felice quanto ordinario.

E tutta l’indagine riguardo all’assurda scia di omicidi è quasi una parentesi all’interno di una vita molto semplice ma comunque soddisfacente, in cui la maggior preoccupazione è la vittoria di Norm per la sua opera d’arte, inframmezzata dai discorsi più seri riguardo invece ai killer allo sbaraglio.

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Infatti l’atteggiamento di Marge, nonostante l’avventatezza degli eventi di cui diventa testimone, è sempre sereno e solare, quasi dovesse interfacciarsi con una vicenda del tutto ordinaria, quasi ridicola – e comunque molto meno interessante di quanto gli stessi protagonisti vorrebbero farla passare.

Per questo la sua amarezza è così profonda davanti ad un crimine dettato esclusivamente dal desiderio di guadagno, di una riaffermazione del sé arrogante e destinata alla totale distruzione, con un contrasto molto sentito fra le drammatiche vicende innescate da Jerry…

…e il più semplice, quanto soddisfacente, quadretto familiare che si ricompone nel finale.

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The Substance – Poca sostanza

The Substance (2024) di Coralie Fargeat è un film horror vincitore della Miglior Sceneggiatura al Festival di Cannes 2024.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 17.5 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 76 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per The Substance (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore regista
Miglior attrice protagonista per Demi Moore
Migliore sceneggiatura originale
Miglior sonoro
Miglior trucco e acconciatura

Di cosa parla The Substance?

Elisabeth Sparkle è una ex-star del cinema ormai caduta nel dimenticatoio. Ma forse un’altra occasione per ricominciare è possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Substance?

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Dipende.

Nel complesso The Substance è un buon film horror con un cast veramente azzeccato e in splendida forma, che riesce altrettanto bene ad essere un film denuncia della fragilità dello star system, grazie anche ad un ottimo uso del body horror.

Tuttavia sul finale la pellicola vanifica in parte gli sforzi fatti fino a quel momento e l’aspettativa creata nello spettatore, con diversi inciampi di scrittura e con una struttura tematica che finisce per diventare ridondante e estremamente prevedibile.

Però, andandoci con le giuste aspettative, può essere una visione piacevolissima.

Declino

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Elizabeth è arrivata al capolinea.

Già il prologo racconta perfettamente il declino della sua carriera: la sfolgorante stella sulla Walk of Fame è prima oggetto di grande interesse dal pubblico, che però col tempo diventa progressivamente sempre più indifferente, calpestandola, insozzandola e rovinandola.

Allo stesso modo il racconto visivo del corridoio che dovrebbe mostrare la sua sfolgorante carriera televisiva si trasforma invece in una passerella della vergogna, del progressivo spegnersi della bellezza della protagonista, ultimo residuo di un’epoca ormai tramontata.

L’apice di questo drammatico climax è ovviamente l’involontario incontro con Harvey, personaggio raccontato dalla regia subito come repellente e chiassoso, elemento confermato anche dalla scena immediatamente successiva, in cui divora in maniera davvero disgustosa un piatto di crostacei…

…mentre liquida con indifferenza la protagonista, perché non ha più quel quid che le serve per essere interessante.

Ma non è finita qui.

Bozzolo

Elizabeth rinasce come da un bozzolo.

Particolarmente brillante il racconto del kit di The Substance, che non lascia nessun dubbio sul funzionamento della sostanza riuscendo così a costruire una solida mitologia, che tornerà molto utile nel prosieguo della pellicola.

E con la nascita del clone assistiamo alla prima prova di un body horror come non lo vedevamo da tanto tempo, indubbiamente debitore di classici del genere come La mosca (1986) e The Thing (1982), ma riuscendo ad essere assolutamente al passo con i tempi.

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

In questa fase particolarmente importante è stata la scelta di un cast così capace di mostrarsi nudo in scena con tutte le sue imperfezioni, creando un contrasto molto angosciante fra il corpo non più desiderabile di Elizabeth e la frizzante bellezza giovanile di Sue.

E allora è il momento di riprendersi il proprio posto.

Inizio

Margaret Qualley in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Elizabeth può cominciare da capo…

…un’altra vita infelice.

La protagonista infatti sembra del tutto incapace di accettare l’idea di allontanarsi da un mondo così ingiusto e rapace, pronto a nutrirsi fino all’osso delle star del momento, per poi liberarsene senza vergogna quando non fanno più notizia…

…ricominciando la propria scalata dallo stesso punto di trent’anni prima: un corridoio vuoto e pieno di promesse, in cui viene posta la prima pietra di un folgorante successo di pubblico, dopo che la carriera della vecchia sé è stati rimossa e dimenticata nel giro di un pomeriggio.

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Ed è proprio davanti a questa sfolgorante occasione che Sue comincia sempre di più ad odiare la sua matrice, disprezzandola per essere così imperfetta, inadatta, non riuscendo più a vederci se stessa, ma solo un ingombrante ricordo da lasciarsi alle spalle.

E proprio in questa ottica Elizabeth comincia a divorarsi da sola, a succhiare tutto il possibile dalla sua matrice e prendendone sempre più il posto – con una parabola non dissimile dallo stesso comportamento che lo star system ha avuto nei suoi confronti.

E, proprio nell’ultimo atto, The Substance fallisce.

Corpo

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Al centro di The Substance vi è il corpo.

Un corpo continuamente mostrato nella sua perfezione e imperfezione, nella sua bellezza e bruttezza, un corpo pronto a tradirci, a farci sfigurare, a farci desiderare da un mondo che pretende una perfezione eterna, pena una rovina repentina e irreprensibile.

E proprio del suo corpo, continuamente messo alla berlina, Elizabeth ha un disgusto sempre più crescente, tanto che le basta pochissimo per decidere di non farsi più vedere fuori casa in questo aspetto vergognoso, così lontano invece dalla sua nuova versione.

E proprio Sue è lo spettro che la perseguita, che odia per la sua avventatezza, ma di cui non può fare a meno…

…concetti chiarissimi, limpidi e spiegati senza bisogno di parola alcuna, che, per motivi incomprensibili, devono essere invece esplicitati proprio nel momento in cui Elizabeth accetta finalmente l’idea di liberarsi di quella odiosa copia…

…andando a vanificare un’ottima costruzione simbolica che funzionava benissimo da sola.

Ridondante

In questo senso, meglio funziona la sequenza successiva alla morte di Elizabeth, in cui Sue sceglie finalmente di liberarsi dal peso del suo passato per brillare finalmente come la star di un tempo

…finendo invece per essere perseguitata da un corpo che le si rivolta contro.

E purtroppo nel finale Coralie Fargeat sembra incapace di portare in scena qualcosa di effettivamente nuovo e interessante, di evadere o di arricchire il canovaccio classico e prevedibile su cui si è basata, puntando invece tutto su un body horror indubbiamente d’effetto…

Margaret Qualley in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

…ma che sembra, infine, l’unico elemento di effettivo interesse di The Substance, a fronte di uno scioglimento veramente banale in ogni sua parte, dalla caccia a Frankenstein in chiave splatter fino al totale decomporsi del corpo di Elisabeth sopra la sua amata stella, per essere dimenticata il giorno dopo.

Ovvero, lo stesso identico concetto espresso all’inizio.