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L’ora del lupo – L’incubo privato

L’ora del lupo (1968) è un’opera minore della filmografia di Ingmar Bergman, in cui il regista svedese sperimenta con l’elemento fantastico e orrorifico.

A fronte di un budget sconosciuto – ma come sempre probabilmente piuttosto basso – incassò 250 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’ora del lupo?

Johan Borg è un pittore ossessionato dal suo passato. E il suo soggiorno in un’isola sperduta non migliora la situazione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ora del lupo?

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

In generale, sì.

Non posso dire che L’ora del lupo sia uno dei titoli più memorabili della filmografia di Bergman: il regista sembra trovarsi in un momento di passaggio, in cui deve scegliere che taglio dare all’apparato simbolico che caratterizza ogni sua opera.

Tuttavia, il voler sperimentare in maniera così importante con il fantastico e il grottesco, rende questo film una classica opera del regista, ma mancante della brillantezza tematica e filosofica che caratterizzava le sue precedenti pellicole – in particolare, Il posto delle fragole (1957)

Eden

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Il primo approccio all’isola è promettente.

Inizialmente infatti Johan sembra riuscire ad apprezzare l’atmosfera idilliaca e bucolica del luogo, come testimoniano i brevi quadretti in cui si intrattiene con la moglie, in scambi di affetto e dialoghi spensierati e sognanti.

Ma l’elemento fondamentale è proprio la pittura, lo strumento con cui il protagonista effettivamente esprime sé stesso e i propri sentimenti: sulle prime, le sue opere sono ispirate alla stessa moglie, Alma, proprio all’interno di quello che è ancora un piacevole eden.

Ma basta poco perché il sogno si spezzi.

Incubo

Liv Ullmann e Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Già nel giro di poche scene il protagonista appare turbato e scostante, sempre più lontano da quella spensieratezza che l’aveva caratterizzato fino pochi momenti prima, angosciandosi via via sempre maggiormente con l’avvicinarsi delle tenebre.

Così, nella macabra oscurità, comincia a raccontare il suo conflitto interiore, rappresentato da creature deformi ed inspiegabili, dalle forme più strane e raccapriccianti, fra l’umano e il mostruoso.

E in questo modo si inizia anche a delineare l’incolmabile distanza fra il pittore e Alma, che a tratti appare turbata, a tratti prova a dare ascolto alle paranoie di Johan, nonostante queste rimangano per lo più incomprensibili…

Diario

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Anche Alma è all’interno dell’incubo.

Su consiglio di uno dei tanti spettri che popolano l’isola – e la mente del marito – sceglie infine di provare a comprenderne i più profondi segreti, proprio andando a scavare nel luogo in cui più direttamente Johan si esprime.

Il diario.

E la memoria più bruciante riguarda Veronica Vogler.

In passato Johan era stato protagonista di uno scandalo di costume, che l’aveva portato negli anni ad essere non tanto ossessionato dalla donna in sé, ma dal suo ruolo nella vicenda, in quella realtà mondana così lontana dal luogo in cui ora si è rifugiato.

E proprio nel diario Alma trova anche il passaggio in cui Johan racconta di essere stato chiamato a far nuovamente parte di quel circolo di personaggi mostruosi, gli stessi che furono – e saranno anche poi – il pubblico di quel particolare episodio.

Fuggire

Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Fuggire è impossibile.

Nonostante la stessa Alma abbia espresso le sue inquietudini, Johan non riesce a distaccarsi da quella realtà, a cui viene nuovamente e in breve tempo invitato, a rappresentazione proprio del suo desiderio quasi inconscio di farne parte.

Il ritorno sui suoi passi è tanto più destabilizzante quanto segue allo svelamento di un altro segreto, ancora più raccapricciante: l’uccisione del bambino, apparentemente una figura innocente, in realtà un altro personaggio mostruoso del suo tormentato passato.

L’ultima sequenza nel castello è quella più strettamente teatrale.

Johan viene rivestito e riplasmato, come se dovesse prendere parte proprio ad uno spettacolo, uno spettacolo che lui stesso stava ossessivamente cercando, ma che lo rende anche inquieto, proprio per il taglio grottesco, surreale e quasi orrorifico dell’atmosfera che lo circonda.

In questo senso, è emblematico l’incontro con Veronica, prima morta, poi viva, poi mostruosa, che cerca di assalire il protagonista con un amore vorace, fino a renderlo deforme, ma ben adatto alla commedia dell’assurdo di cui ha scelto di far parte.

Colpevole

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Alma si sente colpevole.

Nonostante fosse stata ferita e cacciata dal marito a colpi di pistola, ha scelto comunque di stargli accanto mentre riversava sconvolto le sue memorie nel diario, per poi inseguirlo nel bosco, ancora decisa a salvarlo.

E davanti all’impossibilità di scacciare i suoi demoni, davanti all’impossibilità di strapparlo da quell’incubo, comunque nel presente la donna si domanda pensierosa se la sua colpa fosse di non averlo amato abbastanza…

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Requiem for a dream – Dipendenti e soli

Requiem for a dream (2000) è forse l’opera più profondamente sperimentale di Darren Aronofsky.

A fronte di un budget molto contenuto – 4,5 milioni di dollari – non fu un grande successo commerciale, con appena 8 milioni di incasso.

Di cosa parla Requiem for a dream?

Harry è un tossicodipendente che sembra vivere la vita perfetta piena di eccitazione e pericolo. Ma il dramma è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Requiem for a dream?

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Sì, ma…

Requiem for a dream è un film splendidamente scritto e diretto, con una tecnica incredibilmente sperimentale e una rappresentazione degli USA dei primi Anni Duemila piuttosto disincantata e tragicamente realistica.

Tuttavia, è anche un progetto per lunghi tratti estremamente disturbante, proprio nel suo spietato realismo, che però lavora molto più sul trasmettere emozioni che sul mostrare contenuti espliciti e scioccanti.

Insomma, da vedere, ma arrivandoci preparati.

Sogno

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Inizialmente Requiem for a dream sembra effettivamente un sogno.

Per quanto ci siano delle piccole crepe nel rapporto fra Harry e la madre, in realtà la donna gli vuole talmente bene da derubricare i suoi continui furti per comprarsi la droga a delle marachelle di quello che, purtroppo, è il suo unico figlio – e unico affetto ancora vivo.

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

E così Harry continua a fare uso di stupefacenti che rendono ancora più eccitante e quasi onirica la storia d’amore con Mary: i due appaiono sulle prime come una coppia giovane e immacolata, che vive fra la droga e le sciocche ragazzate.

Momenti impreziositi da una regia incalzante e frenetica, perfetta per raccontare l’immediatezza dell’eccitazione data dall’uso dell’eroina, che appena entra in vena rilassa, eccita, emoziona.

Ma è un sogno fragile.

Vuoto

Jared Leto in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Harry e Mary non sono solo dipendenti dalle droghe.

Più la storia prosegue, più appare evidente come i due siano ingenuamente immersi in un sogno che non sembra aver fine, avendo vissuto solamente del lato più eccitante e travolgente dell’esperienza…

…ma ignari di vivere in una realtà estremamente provvisoria, in quanto del tutto dipendente dalla presenza dell’ingrediente magico – l’eroina – che da un momento all’altro può uscire dalle loro vite, costringendoli a esperire un costante senso di vuoto.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Ma la caduta è progressiva.

Convinti di dover solo momentaneamente rimediare all’assenza della droga, Harry spinge Mary nelle braccia di un uomo che da sempre voleva approfittarsi di lei, in cambio dei soldi ormai necessari per ripristinare il sogno perduto.

Tuttavia, la complicata situazione politica dello spaccio rende la vicenda sempre più difficoltosa, la droga sempre più introvabile, e i modi per ottenerla sempre più disperati e umilianti.

Ma l’eroina non è l’unica droga.

Vincente

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Anche se inconsapevolmente, Sara è dipendente dalla televisione.

O, meglio, dal sogno del vincente che la televisione propone.

In maniera non tanto dissimile ai cori animaleschi che inciteranno Mary sul finale, la televisione è un mondo magico, i cui protagonisti – i vincenti – diventano modelli da seguire, acclamati da un pubblico festante e incontenibile.

E, proprio quando Sara ha la possibilità di mettere piede in quel mondo, si rende conto di non averne i requisiti.

Segue così una drammatica caduta nel precipizio della diet culture e della società dell’apparire, prima costringendosi alla fame per una dieta impossibile, poi diventando dipendente da pillole miracolose, che assume via via in maniera sempre più disordinata ed ossessiva.

Uno slancio sempre più disperato verso un sogno da cui infine si aliena, finché quell’alter ego perfetto per lo schermo viene a fargli visita, deridendola apertamente perché non adatta ad essere una vincente, ma invece perfetta per essere l’oggetto del ludibrio generale.

Aiuto

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

I personaggi di Requiem for a dream sono irrimediabilmente soli.

Potente e spietata in questo senso la critica al sistema sanitario statunitense, incapace di aiutare persone che hanno così evidentemente bisogno d’aiuto, prima spingendo Sara a cure sempre più drastiche e destabilizzanti…

…poi ignorando del tutto le richieste sia di Harry che di Tyrone, se non all’ultimo momento, quando l’unica soluzione rimasta è l’amputazione, e quindi, più in generale, l’eliminazione dell’individuo scomodo dal tessuto sociale.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Paradossalmente, la persona che viene più aiutata è Mary.

Totalmente lasciata da sola nella sua dipendenza e ossessione, alla ragazza non rimane che contattare il suo prossimo carnefice, che intuisce subito la possibilità di utilizzare questo corpo a suo piacimento, in quanto possessore dell’unica cosa di cui ha bisogno.

Così, nel disturbante quanto elegante montaggio finale, si racconta il sofferto e distruttivo punto di arrivo dei protagonisti, in cui spicca una Mary del tutto succube dalla folla di animali per cui si sta esibendo, ma infine rannicchiata felice che stringe come un feticcio il panetto di droga…

…proprio come Sara, ormai persa nel sogno del successo mai arrivato, e, forse, mai veramente possibile.

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2023 Avventura Commedia nera Dramma romantico Drammatico Fantascienza Fantastico Film Grottesco La musa Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione Satira Sociale Yorgos Lanthimos

Poor Things – La femme sauvage

Poor Things (2023) rappresenta la seconda collaborazione dopo La Favorita (2018) fra Tony McNamara e Yorgos Lanthimos, regista greco ormai affermato nel panorama hollywoodiano.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 35 milioni di dollari – dopo un mese di programmazione negli Stati Uniti ha incassato appena 17 milioni…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Poor Things (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista
Miglior sceneggiatura non originale
Migliore attrice protagonista a Emma Stone
Migliore attore non protagonista a Mark Ruffalo
Miglior montaggio
Migliore fotografia
Migliore scenografia
Migliori costumi
Miglior colonna sonora
Miglior trucco e acconciatura

Di cosa parla Poor Things?

In una Londra vittoriana ucronica, Godwin Baxter è un chirurgo di grande fama, particolarmente avvezzo alla sperimentazione umana…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Poor Things?

Dipende.

Poor Things è un film incredibilmente ambizioso e squisitamente provocatorio, facilmente avvicinabile a Barbie (2023) per tematiche e dinamiche, pur con un taglio molto più maturo e sfacciato, soprattutto per l’importante presenza di nudi e di scene erotiche.

Per questo, non la considero una pellicola esattamente per tutti i palati.

In generale, il messaggio di fondo è ben raccontato, pur inciampando in certi momenti in un didascalismo quasi pedante – ma pur sempre ben contestualizzato – e in qualche sbavatura di eccessivo virtuosismo che non mi ha del tutto convinto.

Ma, se questi elementi non vi disturbano, lo potreste facilmente amare.

Nascita

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Poor Things è quasi del tutto sorretto dalla splendida recitazione vocale e corporea di Emma Stone.

Soprattutto nel primissimo atto era fondamentale rendere credibile il comportamento di Bella, una bambinona incapace di muoversi senza barcollare, con un vocabolario limitato a poche parole e un linguaggio sgrammaticato e stentato.

Particolarmente in questo senso efficace la messinscena dei suoi capricci, propri di un qualunque bambino che cerca costantemente di capire i propri limiti sociali, e che per questo si comporta in maniera quasi selvaggia pur di ottenere quello che vuole.

Willem Dafoe in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Ovvero, nel caso di Bella, la libertà.

Piccata e piuttosto graffiante la sua scoperta della sessualità – in un contesto in cui nessuno si è preoccupato di spiegargliela – fra l’altro rappresentata da un simbolo piuttosto eloquente e che ben si integra nella simbologia piuttosto intuitiva del Paradiso Terrestre prima della Caduta.

Non a caso Bella, novella Eva, si masturba per la prima volta con una mela, simbolo della Conoscenza, mentre sia il suo creatore – che lei chiama God, Dio – sia il futuro marito, Max – Adamo – cercano di limitarla e rinchiuderla all’interno di uno stringente regolamento sociale.

Scoperta

Il secondo atto è il momento della scoperta.

Del tutto ignara delle dinamiche sociali che le impedirebbero di vivere al di fuori del futuro matrimonio, Bella si sottrae all’eden di Godwin – che le concede benevolmente il libero arbitrio – e si lascia conquistare dalle tentazioni di Duncan, che le promette la tanto ricercata libertà.

In realtà, questo ingannevole casanova vorrebbe solamente approfittarsi di lei, usandola come la classica amante usa-e-getta, cercando fra l’altro fin da subito di porre un ulteriore controllo su di lei – piuttosto tipico per le figure femminili di oggi e di ieri.

Ovvero, il controllo sul cibo.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Non a caso, fra le prime esperienze che Bella si concede mentre vaga nella città, vi è il rimpinzarsi di quei dolci che Duncan gli aveva negato, finendo per utilizzare il suo amante solamente come strumento per esplorare e godere delle meraviglie dell’esperienza sessuale.

Ma al di sotto della maschera da bambina capricciosa, la protagonista è semplicemente una donna che si rifiuta sistematicamente di sottostare a qualunque tipo di norma sociale – nel sesso quanto nelle chiacchiere futili – desiderando solamente esplorare il mondo terreno ed erotico.

Per questo, Duncan cerca ancora di più di rinchiuderla.

Recinto

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Facendola entrare con l’inganno dentro ad un baule, Duncan cerca di riportare Bella in un recinto.

In realtà la crociera è il momento di maggiore esplorazione di Bella, che comincia anche il suo viaggio intellettuale, arrivando fino alla scoperta del lato più marcio di una società macchiata da un profondo e apparentemente insanabile classismo.

Tuttavia, in questa sequenza si trova anche uno dei pochi elementi che non mi hanno convinto nel film.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Per quanto evidentemente Poor Things voglia abbracciare un femminismo intersezionale e anticapitalista, fallisce nel portare una narrazione incisiva al riguardo, soprattutto considerando quanto spazio invece concede al tema dell’esplorazione sessuale.

La perdita dei soldi sembra infatti quasi un meccanismo della trama per passare all’atto successivo, ripreso solamente dai discorsi proto-socialisti in cui la protagonista si imbatte, ma che vengono affrontati in maniera molto superficiale e senza un adeguato approfondimento.

Identità

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Il penultimo atto è per certi versi quello più difettoso.

Il punto più interessante è rappresentato dalla varietà delle esperienze di Bella, che si sottrae ancora una volta alla dicotomia sociale che la vorrebbe incasellare solamente in un ruolo – o madre di famiglia o troia – scegliendo invece di utilizzare il suo corpo come fonte di guadagno – e senza alcuna vergogna.

Così il film ci mette davanti ad una delle sue più graffianti provocazioni.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Secondo Poor Things, se non vivessimo in una società così bigotta, la prostituzione – in questo caso ovviamente idealizzata – potrebbe essere lo strumento attraverso il quale le donne otterrebbero la propria libertà – sessuale e, soprattutto, economica.

Messaggio indubbiamente interessante – articolato anche nelle ulteriori rivendicazioni di Bella riguardo la scelta del partner – che però è stato forse eccessivamente diluito all’interno di un atto che a tratti sembra quasi un intermezzo non così essenziale all’economia narrativa…

Vendetta

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

L’ultimo atto è il momento della verità.

Bella si ricongiunge con la sua famiglia, soprattutto con i due goffi personaggi maschili – Godwin e Max – che si rivelano benevoli nei suoi confronti, riuscendo infine ad arrivare al matrimonio, ma finalmente con condizioni non opprimenti come quelle inizialmente pensate.

Questo momento di apparente ricongiunzione viene però interrotto dall’inizio dell’avventura definitiva della protagonista, che sceglie volontariamente di reimmergersi nel suo misterioso quanto doloroso passato, pur decisa di non farsi nuovamente sottomettere dallo stesso.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Infatti, il suo alter ego viveva il più classico dei drammi di una nobildonna dell’epoca.

Ovvero, essere intrappolata in matrimonio violento ed opprimente, con un marito crudele ed oppressivo, a cui si era trovata ancora più legata per via del parto imminente, riuscendo a salvare sé stessa solo tramite il suicidio.

La sua condizione – come quella di Bella – era ancora più aggravata dal peso della colpa che le veniva messa sulle spalle, legata prima e dopo alla sua sessualità, talmente esuberante da essere considerata sostanzialmente isterica e, per questo, da domare.

Tuttavia, lo scioglimento della vicenda sembra più che altro ideologico.

Morale

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Se fino a questo momento Bella era un personaggio sostanzialmente positivo, diventa incredibilmente grigio quando sceglie di sparare al marito ed infine di sottoporlo ad un trattamento simile a quello che lei stessa aveva subito, ma in maniera molto più crudele.

Anche se questo finale narrativamente parlando è del tutto coerente, rappresenta anche una scelta che, soprattutto nel contesto del finale in cui evidentemente il femminile è infine dominante, offre forse il fianco ad un tipo di femminismo più radicale e vendicativo che non mi sento di accogliere…

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Al riguardo, si viaggia nel periglioso terreno dell’interpretazione personale.

Se infatti da una parte si potrebbe dire che non è corretto considerare Bella come un personaggio effettivamente positivo e rappresentativo del femminile, proprio per la sua apatia e a tratti anche crudeltà…

…allo stesso modo sarebbe stato molto più intelligente inserire un elemento veramente mancante nella pellicola.

Ovvero, un’effettiva maturazione di Bella dal punto di vista relazionale, non solo attraverso la liberazione sessuale, ma anche con la presa di consapevolezza del rispetto necessario fra le parti all’interno di una relazione sana.

Invece alla fine sembra che Bella voglia più sminuire Max che riappacificarsi con lui, in un finale in cui i ruoli sembrano definiti all’interno di una gerarchia, e non di uno stato di parità…

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Il posto delle fragole – La vacuità dell’esistenza

Il posto delle fragole (1957) è uno dei film più importanti della filmografia di Ingmar Bergman: oltre ad ottenere numerosi riconoscimenti – fra cui l’Orso d’oro alla Berlinale – la pellicola influenzò diversi autori successivi, fra cui Woody Allen in Crimini e misfatti (1989)

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto contenuto – incassò 60 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il posto delle fragole?

Isak è un vecchio dottore che sta per essere premiato per la sua prolifica carriera. Nel viaggio in macchina ripensa alla sua vita e al suo sconcertante egoismo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il posto delle fragole?

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio come per il poco precedente Il settimo sigillo (1957), anche in Il posto delle fragole Bergman imbastisce una profonda riflessione sulla morte, sia tramite i pensieri del protagonista, sia all’interno del mondo del sogno, pur tramite un simbolismo piuttosto immediato.

Non manca anche in questo caso una buona dose di ironia ed autoironia, per ammorbidire i toni di una narrazione piuttosto angosciante ed esistenziale, che trova il suo sfogo più felice nella rappresentazione speranzosa del mondo familiare.

Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre, ma che ero io in tutto e per tutto

I. Bergman

Solitudine

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni.

Queste parole sono fra quelle più significative del breve monologo che apre la pellicola, in cui esplicitamente – e in maniera sorprendentemente neanche pedante – il protagonista racconta sé stesso e la consapevolezza della freddezza della sua esistenza.

In modo simile a Antonius Block ne Il settimo sigillo, Isak deve affrontare il pensiero della morte imminente, in una scena onirica che racconta già moltissimo sui sentimenti del personaggio e sulla sua condizione attuale.

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Con questo incubo Isak viene messo per la prima volta davanti all’angosciosa consapevolezza di star vivendo la sua vita passivamente, in un mondo vuoto, popolato solo da un fantoccio e un orologio senza lancette – che poi rappresenterà l’eredità verso il figlio – e in cui lui, di fatto, è già morto.

Questo turbamento iniziale non muta sulle prime il comportamento del protagonista, anche se lo spinge a vivere più attivamente la propria vita, a diventarne il conducente: scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in aereo, Isak diventa improvvisamente alla guida della sua esistenza…

…e non più solo un osservatore.

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Il primo momento del viaggio è ancora più rivelatorio della personalità del protagonista, con il velenoso quanto amaramente ironico scambio con Marianne, che in un certo senso imputa al suocero il fallimento del proprio matrimonio, proprio per aver trasmesso al figlio il suo medesimo nichilismo.

Ancora di più, Marianne vanifica la maschera dietro a cui Isak nasconde il suo egoismo, beandosi dei suoi successi professionali che lo fanno apparire quasi come un filantropo, ma che non possono ingannare quelle che dovrebbero essere le persone veramente significative della sua vita.

Non puoi ingannarci.

Radici

La prima tappa è anche il primo momento in cui il presente del protagonista si intreccia col suo passato.

Isak infatti cerca di riconnettersi alle sue radici, da cui il senso del titolo, Il posto delle fragole, che nella simbologia svedese rappresenta sia la primavera della vita – la giovinezza – sia, più in generale, le radici della propria esistenza.

In questo quadretto bucolico Isak ci introduce ad un ricordo sempre più angoscioso, in cui sente sostanzialmente di aver perso l’occasione di conquistare l’amore della sua vita, andandosi piuttosto ad incastrare in un matrimonio avvelenato e infelice.

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Questo ricordo lo turba al punto da portarsi inconsapevolmente con sé il passato stesso, rappresentato dal divertito triangolo amoroso fra la giovane ragazza con le sembianze di Sara e i due giovani che la accompagnano, rappresentanti del protagonista stesso e il cugino Sigfrid in giovane età.

Mentre il viaggio prosegue, Isak si ritrova sempre più travolto dall’ottimismo e dall’affetto crescente soprattutto della ragazza, che ha ancora davanti a sé una vita tutta da scrivere, in particolare dal punto di vista relazionale.

Spettatore

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

L’incidente è rivelatorio del lato più disperato del suo passato.

Il rapporto con la moglie.

Nell’incontro con coppia con cui il gruppo quasi si scontra, Isak diventa per la prima volta spettatore della tragedia che era stata il suo matrimonio, fatto di dispetti e rimbeccamenti crudeli, che l’hanno portato proprio alla condizione di profonda solitudine e chiusura in sé stesso.

Davanti allo sgradevole litigio dei due, persino Isak infatti si sente a disagio, e sceglie per questo di farli scendere dalla macchina, in un certo senso allontanando dalla sua vita il comportamento egoista e spiacevole che ha avuto fino a questo momento…

…rappresentato proprio dall’orologio senza lancette che la madre vorrebbe regalare ad Evald.

Questa angoscia si traduce nel secondo incubo, in cui Isak si trova dall’altra parte, ovvero come studente piuttosto che come dottore formato e rinomato, mentre cerca di inseguire quel frammento di ricordo di Sarah che gli ha annunciato la sua morte e il prossimo matrimonio con Sigfrid.

In questo surreale esame Isak si trova davanti alle sue colpe più tragiche, raccontate proprio da quella moglie morta, ma così sorprendentemente viva nella sua memoria, fino ad essere condannato alla solitudine del presente senza possibilità di salvarsi, se non da sé stesso.

L’esaminatore infatti, davanti alla richiesta di clemenza del protagonista, sentenzia:

Non lo chieda a me. Non è compito mio.

Eredità

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio quando Isak perde il controllo della vettura, diventa effettivamente attivo nella sua vita.

L’epifania conclusiva è infatti rappresentata dal racconto di Marianne, che gli mostra quanto pesantemente il suo comportamento abbia influito sulla vita del figlio, il quale, pur ancora giovane, è già freddo, arido e profondamente cinico, soprattutto nel non voler costruire una famiglia con la donna.

Il protagonista vede però ancora una possibilità di salvezza per la coppia e una vita migliore per il figlio, in cui non debba né operare la sua stessa chirurgica operazione di tagliare i ponti con ogni affetto, né negarsi le gioie di un matrimonio il cui successo è tutto nelle sue mani.

Arrivato alla fine della giornata – e della sua vita – Isak riesce finalmente a ricongiungersi con il suo passato e il suo presente, prima venendo salutato affettuosamente dalla frizzante ragazza con le sembianze di Sara, che, proprio come l’amata di cui porta l’aspetto, si congeda per sempre da lui, pur promettendo di continuare ad amarlo.

Allo stesso modo, Isak riesce ad abbandonarsi in un sonno felice dopo che infine il figlio gli rivela di voler risanare i rapporti con Marianne, e mentre ripensa al modello felice di matrimonio – quello dei suoi genitori – che forse potrà finalmente rivedere anche in Evald.

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Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Grottesco La musa Racconto di formazione Yorgos Lanthimos

La Favorita – Pennellate di distruzione

La Favorita (2018) è la prima produzione di Yorgos Lanthimos in cui non appare anche come sceneggiatore e la prima collaborazione con la sua futura musa, Emma Stone.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 15 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla La Favorita?

Inghilterra, 1708. Sul trono siede la Regina Anna, insidiata dalla sua vecchia amica e amante Lady Marlborough, che tiene in mano le redini del regno. Ma qualcosa sta per cambiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La Favorita?

Emma Stone in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

In generale, sì.

Per quanto l’abbia in generale rivalutato ad una seconda visione, non è un film che comunque mi entusiasma, ma se riuscirete a lasciarvi rapire dall’estetica barocca e da una storia per molti versi estremamente trucida, lo apprezzerete molto.

Personalmente per un period drama io preferisco una rappresentazione più romantica e dall’estetica più ricercata come in Marie Antoinette (2006), ma è indubbio che questo prodotto sia un passo avanti per l’opera di Lanthimos a livello di scrittura.

Peccato che non l’abbia scritto.

Controllo

Olivia Colman in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

La Favorita si basa sulla naturale debolezza che definiva la scena politica con al centro il potere regale.

Si poteva avere una regina che comandava con consapevolezza come un secolo prima Elisabetta I, oppure un personaggio molto più fragile come Anna Stuart, costantemente in balia dagli stimoli di personaggi esterni come Lady Marlborough, che di fatto governa al suo posto.

Olivia Colman e Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

E sono inutili i tentativi di Robert Harley di prendere di petto questa intraprendente nobildonna, e altrettanto futile provare a far ragionare una regnante del tutto incapace di comprendere la scena politica che dovrebbe essere in grado di governare.

Ma, come ci ricorda lo stesso Harley, il favore è un vento che facilmente cambia direzione…

Pennellata

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Come per tutto il terzetto di protagonisti, Lady Marlborough non è un personaggio del tutto negativo.

Sulle prime sembra abbozzato come il villain della storia, come una serpe che si approfitta dalle debolezze di Anna, lusingandola con l’attrattiva sessuale e approfittandosene per guidare le sorti del regno a vantaggio della sua famiglia.

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Al contempo, la sua posizione sembra talmente inscalfibile che può persino permettersi di maltrattare e insultare la sua stessa regina, con un comportamento che stupidamente rende spesso infelice la stessa, che vorrebbe essere semplicemente adorata e coccolata come una bambina.

E proprio in questo problema si insidia Abigail.

Insidia

Emma Stone in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Inizialmente, Abigail è un personaggio passivo.

Una nobile decaduta ridotta ad essere una sguattera della cucina, costantemente vessata, nonostante le sue buone intenzioni, riuscendo a salvarsi grazie alla sua inventiva e alla sua intelligenza, che le permette di diventare improvvisamente interessante per Lady Marlborough.

Comincia così un’apparentemente timida risalita, in cui, come una bambina, la donna osserva attentamente le dinamiche e le tattiche della sua nuova padrona, e rimane sulle prime restia, anzi quasi imbarazzata dalla malignità e i sotterfugi che affiggono la corte.

Infatti, sulle prime non vuole partecipare.

 Robert Harley la tenta immediatamente al suo grande gioco politico, avvertendola anche sulla fragilità della sua posizione, su come i modi per rafforzarla e renderla definitiva ci sono, se solo li volesse accettare – altrimenti…

L’ultimo atto di questa resistenza è il confronto con Lady Marlborough, che, sorprendentemente si mostra del tutto allergica a questa presunta fedeltà della sua sottoposta, e la minaccia in maniera non dissimile dal suo nemico.

E allora è il momento di cambiare.

Spazio

Abigail deve trovare il suo spazio.

E la sua tattica è rendersi prima di tutto un’alternativa allettante all’attuale favorita della Regina, sia per l’amabilità del suo carattere – mai ostile né punitivo come quello di Lady Marlborough – sia per la sua attrattiva sessuale – mostrandosi casualmente nuda davanti alla sua preda.

E se la sua padrona cerca di cacciarla in fondo alle scale, la giovane donna non ci sta, e tenta il tutto e per tutto: mostrarsi anche lei vittima delle angherie della terribile Lady Marlborough, rendendosi uno specchio doloroso,- ma al contempo allettante – della condizione stessa della regina.

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Ma la Favorita non è un ruolo facile da ottenere.

Proprio quando sembra essersi presa il suo posto accanto alla Regina, Abigail si rende facilmente conto che non sarà semplice scalzare la sua contendente, che può godere di una relazione profonda e duratura con Anna.

Così sceglie di metterla forzatamente fuori scena, diventando la protagonista della vita della Regina, acquisendo alleati politici fruttuosi che le permettono di ottenere quello che ormai sente di possedere di diritto: il titolo che gli è stato rubato.

E ormai fa parte del gioco.

Status

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Abigail e Lady Marlborough non hanno gli stessi obbiettivi.

Nell’ultimo atto le loro posizioni assumono dei contorni più netti: per quanto il principale risultato del suo status favorito per la Regina fosse una posizione politica chiave per la sua famiglia, Lady Marlborough aveva anche altri interessi in gioco.

Nella sua apparentemente malvagità e sfacciataggine, era evidentemente legata con un rapporto di profondo affetto per Anna, che sceglie infine di allontanarla non tanto per le sue ruberie, ma per averla costantemente tradita, per non aver mai cercato di risaldare i rapporti – o almeno così sembra…

Olivia Colman in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Invece Abigail è fin troppo sicura.

Mentre si gode la sua nuova posizione nell’ultimissima scena del film, la donna dimostra un’assoluta predominanza della situazione, che la porta fisicamente a schiacciare uno dei figli di Anna – e, per estensione, Anna stessa – semplicemente perché può farlo.

A questo punto arriva la drammatica realizzazione della Regina, spogliata del suo status e derubata di un effettivo affetto al suo fianco, che cerca di riportare al suo posto quella terribile sanguisuga, in un disperato tentativo di rivalsa…

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Saltburn – Il labirinto

Saltburn (2023) è la seconda opera dell’ambiziosa regista Emerald Fennell, che aveva già trovato il suo riconoscimento internazionale con Una donna promettente (2020).

A fronte di un budget complessivamente molto contenuto – appena 10 milioni di dollari – il film avuto complessivamente un buon riscontro al botteghinoquasi 20 milioni di dollari – considerando, fra l’altro, che in diversi paesi è stato distribuito direttamente in streaming.

Di cosa parla Saltburn?

Oliver Quick è un giovane e timido studente di Oxford, dove deve farsi largo fra i rampolli di importanti famiglie. In particolare, la sua attenzione è sull’affascinante Felix…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Saltburn?

Barry Keogan in Saltburn (2023) di Emerald Fennell

In generale, sì.

Personalmente considero Saltburn una pellicola leggermente più debole rispetto all’ottimo Una donna promettente, nonostante condivida con l’opera prima di Emerald Fennell una regia precisa ed un’interessante costruzione simbolica.

L’aspetto che potrebbe disturbare alcuni spettatori sono alcuni inserimenti piuttosto spinti – ma tutto tranne che fine a sé stessi – tanto che il film è stato pubblicizzato e raccontato come un’opera scandalosa – mentre non lo è assolutamente…

L’effettivo difetto della pellicola è una scrittura non sempre solida, carente soprattutto nel raccontare con precisione le motivazioni del protagonista – lasciate all’immaginazione dello spettatore – e per alcuni snodi narrativi che presentano deboli fondamenta.

Ma, in generale, ve lo consiglio.

Spinta

Barry Keogan e Archie Madekwe in Saltburn (2023) di Emerald Fennell

Inizialmente sembra che Oliver debba trovare il suo posto nel mondo.

In una realtà incredibilmente classista come quella di Oxford, il protagonista è strattonato da una parte e dall’altra: se l’emarginato Michael Gray cerca di trascinarlo con una certa veemenza nel suo angolo buio, d’altra parte l’affascinante Felix sembra catturarlo nella sua rete…

Jacob Elordi in Saltburn (2023) di Emerald Fennell

Infatti, fin dal primo momento in cui Oliver ha un contatto con lui, il rampollo gli offre tutte le occasioni per avvicinarglisi sempre di più – mostrando però nei suoi confronti un affetto apparentemente più fraterno che erotico

Al punto che, davanti alla drammaticità della sua storia familiare, infine Felix sceglie di prenderlo sotto la sua protezione, invitandolo nel suo ambiente naturale: la tenuta di famiglia di Saltburn, in cui Oliver entra come suo nuovo favorito.

Labirinto

Saltburn è un labirinto – fisico e relazionale.

La tenuta viene presentata proprio come una scatola cinese di stanze, che si susseguono una dentro l’altra, e in cui Oliver viene trascinato fino ad arrivare al cuore della tenuta – la sua stanza – fra l’altro, un interessante foreshadowing sulla morte di Felix.

Così, in maniera neanche troppo sottile, il protagonista capisce il suo ruolo: essere la novità del momento, e prendere piuttosto celermente il posto della sofferente Pamela, personaggio che viene gentilmente spinto fuori scena appena Oliver vi entra.

Alison Oliver in Saltburn (2023) di Emerald Fennell

Saltburn è insomma una corte.

La famiglia Catton è il nucleo intorno al quale ruotano una serie di personaggi, che cercano il più possibile di trarre il meglio nel breve periodo che possono godere del favore dei signori locali: come Pamela e Oliver si contendono il ruolo di dama di compagnia – e di letto…

…così Farleigh rappresenta una sorta di piccola nobiltà che vuole sfruttare il debole collegamento con una casata piuttosto ricca e potente, in particolare dal punto di vista economico, per poi essere esiliato nel momento in cui si permette di morderle la mano.

Burattinaio

Barry Keoghan in Saltburn (2023) di Emerald Fennell

Ma Oliver non vuole essere una novità temporanea.

Per questo sceglie di penetrare più o meno abilmente questa famiglia, con l’unica arma che può effettivamente utilizzare: la seduzione e l’erotismo, spingendo più o meno in questo senso a seconda del personaggio che ha di fronte.

Se infatti per Lady Elspeth bastano poche parole seducenti e alcune indiscrezioni ben raccontate, per Venetia e Farleigh è necessaria la dominazione sessuale – in cui, fra l’altro, Oliver non si trova mai nel ruolo di ricevente, ma solo di datore della prestazione.

Barry Keoghan in Saltburn (2023) di Emerald Fennell

Infatti, l’atto completo e penetrativo è un’esclusiva per Felix.

Con i due personaggi minori della famiglia il protagonista non vuole altro che avere un controllo mentale su di loro, dandogli dei premi per accompagnare la loro educazione e sottomissione.

Ma il vero obbiettivo è esclusivamente la conquista di Felix, diventare una presenza costante ed irrinunciabile nella sua vita, un amico e forse persino un amante, riuscendo però ad assaporare l’incontro sessuale desiderato solo in maniera nascosta e indiretta.

Minotauro

Barry Keoghan in Saltburn (2023) di Emerald Fennell

Ma Felix non è così ingenuo.

Lo svelamento dell’inganno di Oliver racconta molto del protagonista: non un ingenuo trovatello in cerca di un protettore, ma un annoiato borghese con una vita del tutto ordinaria, che cerca un modo per riscriverla.

In un certo senso, la caduta di Oliver è simile a quella di Farleigh: entrambi non hanno voluto piegarsi alle regole di Saltburn, essere delle mere marionette dal destino incerto, scegliendo invece di ribaltare la situazione per una sicura vittoria.

Una volta smascherato, Oliver cambia forma e obbiettivo.

Se prima il suo scopo era la conquista del rampollo di Saltburn, ora il suo fine ultimo è la conquista di un’identità nuova, proprio tramite Saltburn stessa: così, dall’emblematica scena del labirinto, il protagonista diventa il Minotauro, che uccide insaziabile persino Felix, il novello Icaro…

La sua morte è l’unico atto per cui Oliver ha un sincero pentimento, andando anzi a ricercare quell’unione sessuale che era stata impossibile in vita, come a saziare quell’ultimo desiderio che lo limitava dal cambiare definitivamente forma…

…e mettere fuori gioco uno ad uno gli altri ostacoli alla sua ascesa, ovvero i due personaggi che mettono in dubbio la sua nuova posizione: Farleigh viene eliminato semplicemente rivoltandogli contro le sue colpe, mentre Venetia affoga nel simbolo stessa della lussuria da cui si era fatta sedurre.

Ma il piano deve ancora attendere.

Nudo

Barry Keoghan in Saltburn (2023) di Emerald Fennell

L’atto conclusivo è l’elemento che mi ha meno convinto.

Oliver si deve fare temporaneamente da parte, nonostante avesse tutte le carte in mano per rendere fin da subito definitiva la sua permanenza a Saltburn, allontanato per colpa di un’inedita consapevolezza di Sir James.

Forse il senso di questa scelta era mostrare come il piano di Oliver fosse molto più debole e improvvisato di quanto lui stesso pensasse – e volesse raccontare – anche per come facilmente era stato mascherato da Felix.

Tuttavia, le dinamiche conclusive sono perfettamente coerenti.

Oliver ripesca nella sua rete l’ingenua Lady Elspeth, facendosi riportare nella tanto desiderata Saltburn, riuscendo così a diventare unico erede della sua fortuna, andando proprio a spogliare sé stesso – e così anche la donna – dell’ultimo velo di finzione che la teneva ancora in vita.

E così infine Oliver può vagare felicemente per le stanze di Saltburn, raccontando con la sua nudità il suo desiderio di non nascondersi più, sentendosi ormai onnipotente mentre osserva eccitato quelle marionette che finalmente ha messo al loro posto…

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Gremlins – La commedia dei cattivi sentimenti

Gremlins (1984) è uno dei maggiori cult del cinema per ragazzi Anni Ottanta, per la direzione di Joe Dante e la fantastica sceneggiatura di Chris Columbus.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 11 milioni di dollari, circa 32 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 213 milioni di incasso (circa 621 oggi).

Di cosa parla Gremlins?

Lo stravagante inventore Rand visita una piccola bottega delle stranezze a Chinatown, dove trova un animaletto molto particolare, un mogwai

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins?

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Assolutamente sì.

Gremlins è un horror per ragazzi di grande valore, che gode di una scrittura veramente ottima e puntuale, che introduce gradualmente gli eventi con un raro equilibrio fra l’orrore e il grottesco, riuscendo al contempo ad ammorbidire i toni per renderlo adatto al target.

Oltre a questo, il character design dei gremlins è incredibile e così anche la loro messinscena, che riesce a farli passare non come dei meri pupazzoni, ma come delle creature vive ed incredibilmente espressive.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La minaccia sotterranea

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Per quanto il primo atto sembri raccontare una storia piacevole ed accogliente, diversi elementi in scena mostrano tutt’altro.

I personaggi sono totalmente immersi in questo sogno del nuovo animaletto domestico – il cui character design ricorda l’unione fra un coniglio, un orsetto e un pipistrello – che sembra totalmente innocuo, una piacevole aggiunta al quadro familiare.

Questa sensazione di apparente tranquillità rende i personaggi umani del tutto sbadati e poco attenti alla cura dello stesso, agendo più volte in maniera molto ingenua, tanto da essere loro stessi i fautori dell’incubo che verrà.

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Ma ci sono diversi indizi di quello che sta per succedere.

L’elemento più palese è l’inserimento di diverse scene del classico della fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956), che parla proprio di un’invasione segreta di alieni che si moltiplicano e si sostituiscono gli umani.

Ma l’indizio più sottile, ma assolutamente perfetto, è il siparietto comico in cui Rand sta testando la sua nuova invenzione: inizialmente le carte escono ordinatamente e sono controllate…ma poi la situazione gli sfugge di mano, e cominciano a moltiplicarsi fin troppo velocemente…

…proprio quando il figlio sta per venirgli a raccontare dei gremlins che si stanno riproducendo.

Introdurre il mostro

La maestria di Gremlins è anche il saper raccontare coi giusti tempi il villain della storia.

Anzitutto, i nuovi arrivati si dimostrano fin da subito ben diversi dal loro genitore – Gizmo – molto più irruenti e dispettosi – come dimostra, fra gli altri, il brutto scherzo nei confronti del cane, Barney.

E per questo il punto di svolta è così rivelatorio.

Infatti, quando Billy offre ai gremlins le cosce di pollo, questi ci banchettano felicemente, mentre Gizmo, come se fosse consapevole della situazione, le rifiuta…

Billy in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

La trasformazione dei gremlins è, fra l’altro, una bellissima citazione al suddetto L’invasione degli ultracorpi, ma anche ad Alien (1979): oltre ai gusci molto simili alle uova dello xenomorfo, anche il comportamento degli umani è simile.

Infatti, come nel cult di Ridley Scott, i personaggi umani sono anche fin troppo entusiasti di questa nuova situazione – particolarmente il professor Hanson – fino ad arrivare all’inquietante sottofondo della proiezione scientifica, che apre le porte alla trasformazione…

Così, come nei migliori film del genere, il mostro è tenuto fuori dalla scena per molto tempo, ma la sua presenza è costante: dall’assassinio del professore fino all’improvviso attacco ai danni di Billy.

Infine, la rivelazione effettiva avviene nella cucina, in cui la madre del protagonista, quasi come una novella Ripley, è la prima ad affrontare e riuscire in parte a sconfiggere questi orribili mostri.

E anche qui il film riesce a stupire.

Un film per bambini?

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

L’atto centrale, quanto quello conclusivo, godono di una rara maestria di scrittura.

In questo caso si mostra ancora più evidentemente la doppia natura del film, che riesce a mantenersi adatto per il target, pur mettendo in scena una violenza veramente sorprendente, a partire dai modi in cui la madre di Billy elimina i mostriciattoli…

Più volti al lato comico sono invece i vari siparietti degli scherzi dei gremlins e il loro comportamento incredibilmente caotico: dall’assalto al bar con Kate, in cui sbevazzano e fumano – e persino la importunano! – fino alla mia scena preferita: il coro di Natale.

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

I gremlins si rivelano insomma per quello che sono: mostriciattoli dispettosi, financo particolarmente spietati – tanto da distruggere una casa – ma, al contempo, anche la perfetta evoluzione di Gizmo.

Infatti, i suoi figli ne riprendono i caratteri, ma li mutano in maniera mostruosa: dalle orecchie da coniglio a quelle di un pipistrello, dai tratti dolci del viso e gli occhioni liquidi agli occhi rossi ed ai lineamenti serpentini…

Una deformazione particolarmente sottolineata quando gli stessi vengono messi a confronto con i nani durante la visione di Biancaneve e i sette nani (1937), di cui i gremlins imitano perfino le canzoni…

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

E questa dicotomia fra l’essere dei futuri giocattoli per bambini al riprendere le fattezze dei più famosi villain dei classici della fantascienza li accompagna fino alla fine, soprattutto nella sequenza del negozio per bambini…

Così anche nel finale: se la morte di Ciuffo Bianco richiama involontariamente l’iconica scena di Terminator (1984), la chiusura del film cerca di ammorbidire i toni, raccontandosi come la conclusione di una favola di Natale, ma con troppi elementi horror per davvero poterla considerare tale…

E a questo proposito…

Un Natale diverso

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Un aspetto che davvero sorprende di Gremlins è quanto poco sia associabile ad un film di Natale.

Nonostante il clima festivo sia presente fin dall’inizio, è disturbato da moltissimi elementi che raccontano un Natale davvero diverso, quasi malinconico: dalla cattiveria gratuita della Signora Deagle alla triste storia della morte del padre di Kate.

Una scelta che può sembrare banale, ma che in realtà è un modo intelligente per equilibrare i toni della pellicola, senza voler mostrare una disparità troppo grande fra l’orrore dei gremlins e l’atmosfera delle feste.

Peculiare in particolare la mancanza di una ricongiunzione finale dei personaggi, ma che non stupisce se si pensa al film di cui Chris Columbus si occuperà una decina di anni dopo: Mamma ho perso l’aereo (1990), per molti versi l’apoteosi della commedia dei cattivi sentimenti.

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La morte ti fa bella – Un’ossessione eterna

La morte ti fa bella (1992) è uno dei film forse più particolari della prolifica carriera di Robert Zemeckis, che poté godere di un terzetto di protagonisti incredibili: Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn.

A fronte di un budget abbastanza importante – 50 milioni di dollari – fu complessivamente un buon successo commerciale: 149 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La morte ti fa bella?

Madeline è un’attrice senza talento e con un solo punto di forza: la bellezza. E farebbe di tutto per mantenerla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La morte di fa bella?

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

La morte ti fa bella è un piccolo cult della filmografia di Zemeckis, in cui sceglie delle strade già percorse in parte con Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), con un umorismo profondamente grottesco, quasi orrorifico, ma che impreziosisce un importante tema di fondo.

Una pellicola che brilla in particolare per il terzetto di attori protagonisti, che riescono a gestire una recitazione molto caricata, ma mai eccessiva, all’interno di un reparto di effettistica davvero incredibile.

Insomma, da non perdere.

Un prologo improvviso

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’incipit di La morte ti fa bella viaggia a due velocità.

Il personaggio di Mad e la sua nomea vengono introdotti fuori scena, con uno scambio piuttosto aspro fra due spettatori scontenti per la sua prestazione attoriale, seguito dall’inquadratura su un volantino abbandonato sotto alla pioggia battente…

E, all’interno del teatro, la situazione non è differente: nonostante la baldanzosa performance della protagonista, buona parte degli spettatori è annoiata, addirittura addormentata, abbandona in massa la sala in uno scontento generale.

Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Tutti tranne uno.

L’entusiasmo travolgente di Ernest lo accompagna fino al camerino di una Madeline che già si dimostra ossessionata del suo aspetto, che però basta perché i due si scambiano sguardi languidi davanti ad una Helen terrorizzata – e, a posteriori, scopriremo anche il perché.

Il matrimonio improvviso, introdotto dalla rassicurazione di Ernest ad Helen – Non ha alcun interesse per Madeline! – introduce perfettamente il personaggio: un uomo che, anche per la sua professione, si fa facilmente e superficialmente ammaliare dalla bellezza e dal fascino di una donna che conosce appena.

I due estremi

Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

La condizione di Helen sette anni più tardi è rivelatoria della natura delle protagoniste.

Le due amiche si nutrono di due ossessioni: la ricerca ostinata della bellezza e del vivere eternamente giovani, e il profondo odio covato per anni l’una verso l’altra, raccontato perfettamente dal godurioso entusiasmo di Helen mentre guarda la scena in cui Madeline viene strangolata.

Al contempo questo lasciarsi totalmente andare rivela come entrambe siano di fatto incapaci di prendersi cura di sé stesse, tanto da limitare la loro esistenza solamente a due estremi: o l’obesità impossibile o la bellezza ricercata ad ogni costo.

Per questo all’interno di questo contrasto omicida, Ernest è infine solamente un trofeo, la prova di essere effettivamente riuscite a raggiungere un grado di desiderabilità tale da poter conquistare un uomo neanche così tanto desiderabile…

Il ribaltamento

Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’atto centrale è caratterizzato da un continuo ribaltamento di ruoli.

Una Helen tirata a lucido si ripropone agli occhi dell’ex-fidanzato, cominciando a muovere le prime pedine del suo piano omicida, in cui Ernest, ancora una volta, non è altro che un mezzo per la realizzazione di una personale vendetta.

Interessante in questo senso la sequenza che rappresenta il piano di Helen, in cui Madeline ne prende simbolicamente il suo posto – indossa infatti il vestito rosso – mentre Madeline e Ernest sono vestiti di bianco, come se si stessero finalmente sposando…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Questo incontro è anche il momento che mette davvero in crisi Madeline, attonita davanti ad un marito che, per quanto non sia neanche più così interessante, è un simbolo sociale troppo importante per lasciarselo sfuggire dalle mani dell’arcinemica.

Il picco drammatico è rappresentato dalla disastrosa fuga in macchina: dopo essere stata respinta persino dal suo giovane amante – trofeo sostitutivo del marito – una Madeline disperata getta uno sguardo al suo volto devastato dal pianto…

…e lancia un urlo di terrore.

Segue la splendida sequenza dell’elisir di lunga vita, che sembra risolvere tutti i problemi della protagonista, che anzi non avrà neanche più bisogno della conferma del marito per considerarsi bella, in quanto il suo aspetto parlerà già da sé.

Il momento della trasformazione è anche quello in cui il film comincia a dare sfoggio del suo splendido reparto di effettistica, che funziona ottimamente e con pochissime sbavature -l’unico momento poco credibile è quando Madeline ha la testa rivoltata.

L’arco evolutivo…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Il terzo atto è il più sorprendente.

L’unico personaggio che gode effettivamente di un arco evolutivo è Ernest, che sceglie di liberarsi della moglie autonomamente rispetto al piano di Helen, nonostante sia inizialmente pronto a salvarla dalla caduta dalle scale, ricredendosi immediatamente quando la donna si rivela nuovamente per la sua acidità.

Allo stesso modo, l’uomo ricomincia a prendersi cura di lei non tanto per un ritrovato amore, ma per riuscire finalmente a tornare a praticare la sua professione, iniziativa che però lo porterà ad essere nuovamente l’oggetto del desiderio delle due donne – anche se per motivi diversi…

Bruce Willis in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Ma più si immerge nel sogno folle della vita eterna delle due donne, che pur essendo morte, pur cadendo a pezzi, vogliono continuare ad essere ricostruite e messe a posto – una rappresentazione piuttosto sagace dell’inseguimento perfezione estetica tramite la chirurgia plastica – più se ne vuole allontanare.

Addirittura, scegliendo di togliersi la vita.

Pur in maniera molto semplicistica, nel finale il film racconta come la ricerca della bellezza e della vita eterna può essere ricercata al di fuori della mera realtà materiale ed estetica, riscoprendo la nuova vita di Ernest nei suoi ultimi trentasette anni di vita.

…e involutivo

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Invece, nel loro arco involutivo, le due protagoniste dimostrano tutta la loro ristrettezza mentale.

Se fino ad un momento prima cercavano di distruggersi a vicenda, appena si rendono conto della reciproca immortalità, si ricongiungono per un motivo puramente egoistico: sostenersi in questa fragile vita eterna.

Allo stesso modo, l’interesse a tenersi vicino Ernest è del tutto dettato dalla paura di non poter effettivamente essere belle per sempre, dando anzi per scontato che questa orrenda vita eterna sia un desiderio condiviso anche dall’uomo.

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Infatti, in diversi momenti si nota come la ruggine fra le due non sia mai stata risanata, al punto che, con un piacevolissimo parallelismo, Madeline lascia che Helen cada giù dalle scale, pensando finalmente di aver vinto…

…ma la sua ben più scaltra compagna la afferra per il bavaro, così che entrambe si trovino ancora più rovinate e inguardabili di quanto già non fossero, ma con una battuta di chiusura che fa forse presupporre che non è la prima volta che succede una cosa del genere…