Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham è considerato fra i film fondativi del genere slasher.
A fronte di un budget piccolissimo – mezzo milione di dollari, circa 2 milioni oggi – è stato un enorme successo commerciale:40 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 152 oggi).
Di cosa parla Venerdì 13?
1958, New Jersey. Due animatori di un campo estivo vengono brutalmente assassinati da una figura misteriosa. E quindici anni dopo l’orrore sembra pronto a ripetersi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Venerdì 13?
Dipende.
Personalmente ho trovato Venerdì 13 un film veramente tedioso, privo di mordente, niente più che una passerella di omicidi che cerca di buttare molto fumo negli occhi allo spettatore per nascondere la sua inconsistenza di fondo.
D’altra parte, se siete particolarmente fan del cinema slasher, troverete in questa pellicola tutti gli stilemi tanto amati del genere nella loro forma primigenia, che aspettavano solo di essere esasperati all’interno dei suoi sequel e nel filone in generale.
La scelta sta a voi.
Punto di vista
Uno degli pochi elementi che ho apprezzato della pellicola è l’uso della soggettiva.
Per quanto non si tratti di niente di nuovo – la tecnica era già stata ampiamente sperimentata in Halloween (1978), e pure con effetti migliori – tuttavia riesce nel tentativo di farti immergere nella storia, diventando quasi complice dell’omicidio iniziale.
E infine questa tecnica, che pure alla lunga è talmente esasperata da diventare poco credibile, nondimeno permette di far sentire l’inquietante presenza del killer in scena, in quanto la soggettiva è ormai quasi un’esclusiva del suo personaggio.
Il problema è il resto…
Scatto
Uno dei punti più bassi della pellicola è la recitazione.
Finché gli attori protagonisti devono sostenere il ruolo di adolescenti spensierati ed unicamente concentrati sul loro costante desiderio sessuale, diventando quasi indistinguibili l’uno dall’altro, tutto sommato presentano una recitazione discreta…
…ma, quando si tratta di portare in scena emozioni più complesse, di mostrare il puro terrore davanti alla morte, è come guardare una mano invisibile che schiocca le dita e li fa passare in un attimo da uno stato di tranquillità ad una paura devastante, risultando il meno credibili possibile.
Che sia cattiva direzione o cattive capacità interpretative è difficile dirlo, soprattutto visto che invece l’interpretazione dell’unica attrice di qualche valore, ovvero Betsy Palmer nei panni della terribile signora Voorhees, è in parte sporcata da un leggero overacting…
…ma, nel complesso, riesce a funzionare come rivelazione finale del film.
Ma nel frattempo…
Ritmo
Un grande problema di Venerdì 13 è il ritmo.
La storia è incredibilmente ripetitiva, non racconta sostanzialmente nulla per la maggior parte del tempo, particolarmente nel lunghissimo atto centrale, che cerca un minimo di costruire la tensione con dei piccoli indizi del pericolo in agguato – come il serpente…
…ma che infine è solamente una sequenza interminabile di personaggi trucidati in maniera sempre più creativa, a volte proprio per il loro essere promiscui – tema incredibilmente classico all’interno del genere – a volte per puro spettacolo.
E, anche se il vero motivo dell’assassino non è per nulla banale, anzi cerca, come tanti altri film simili – specificatamente Non aprite quella porta(1974), da cui sostanzialmente saccheggia il colpo di scena – di dare un ulteriore significato alla furia omicida del killer…
…ma che, alla lunga, risulta solo stancante, soprattutto considerando quantoil film sia derivativo – rubando, non per ultimo, la colonna sonora a Psycho (1960) – quanto il finale sia sorprendentemente aperto, spunto per una serie sequel che posso solo immaginare…
X (2022) di Ti West, anche noto come X: A Sexy Horror Story, è il primo capitolo della trilogia dedicata al personaggio di Maxine Min.
A fronte di un budget piccolissimo – appena 1 milione di dollari – è stato un ottimo successo commerciale:14 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla X?
Maxine è una spogliarellista che sembra coinvolta nel progetto scritto per lei: un porno in chiave autoriale. Eppure è solo lo spunto per raccontare molto altro…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere X?
Assolutamente sì.
X è uno di quei film indie che hanno un successo insperato, riuscendo a conquistare più pubblico di quello che si aspetterebbero, forti di un racconto che riesce ad evadere da un genere molto saturo di dinamiche già viste e riviste…
…e a dargli, al pari di altri ottimi prodotti come Nope(2022) e Beau ha paura(2022), un interessantissimo taglio autoriale per raccontare molto di più di quello che sembra in superfice, in questo caso toccando un tema non poco impegnativo.
Ma ve lo lascio scoprire.
Attenzione
L’incipit di X potrebbe sembrare molto banale…
…mentre in realtà ben si integra con il senso del film.
Infatti prima battuta ci troviamo davanti ad una scena del crimine piuttosto classica, in cui il regista cela dalla vista dello spettatore la maggior parte del delitto, facendocelo pregustare per il finale rivelatorio che arriverà solo in seguito.
Una tecnica quindi piuttosto semplice per riuscire ad avere l’attenzione del suo pubblico fin dall’inizio, portandolo a chiedersi per il resto della pellicola come si arriverà a questo flashforward, e quindi chi sarà il colpevole.
In realtà questa situazione nasconde ben altro.
Giovinezza
La scena immediatamente successiva racconta un altro lato della pellicola.
Assistiamo quindi ad una passerella di personaggi assolutamente invidiabiali, ancora nel pieno della loro bellezza giovanile, portatori di corpi che verranno sempre più sfacciatamente mostrati, sempre più messi a nudo…
Una presentazione che mostra il primo polo della riflessione: una giovinezza baldanzosa, che non ha paura di mostrare le sue bellezze – tanto da farlo per lavoro – e quindi perfetta per diventare la protagonista di un porno d’autore.
Ma il punto è il come vengono mostrati.
Superficie
Apparentemente X vive di una facile dicotomia fra sesso e violenza...
…ma invece il loro vero significato è ben visibile grazie al linguaggio registico: come i corpi dei protagonisti sono denudati, ma mai effettivamente eroticizzati, la violenza è piuttosto estrema, ma sempre mostrata in sottrazione.
Non a caso, assistiamo sempre stessa scena di violenza ripetuta: della carne, prima animale, e poi umana, fatta a pezzi e distrutta sotto il peso di una macchina piuttosto aggressiva che la sorpassa senza un pensiero.
E così anche le scene erotiche sono piuttosto banali – nonostante siano poste nei momenti clou della vicenda – ma diventano significative se consideriamo invece il montaggio e il significato di cui viene caricata la scena…
…particolarmente quella di Maxine.
Pericolo
La giovinezza è tanto bella quanto inconsapevole del pericolo.
Un concetto ben raccontato nel momento del bagno di Maxine: una scena che apparentemente non ha alcun valore narrativo, ma che in realtà è del tutto funzionale a mostrare una giovinezza inconsapevolmente minacciata.
Maxine è infatti immersa in un sogno talmente idilliaco da non rendersi conto dei due pericoli in agguato: Pearl, che la osserva da lontano – rappresentazione della tragica fine del sogno giovanile…
…e il coccodrillo, simbolo invece di una società che vive di questi idoli temporanei, che è pronta a farli suoi, a divorarli, ma anche a distruggerli e a risputarli quando non più abbastanza giovani e quindi interessanti.
Ed è proprio Pearl a mettere un punto alla riflessione.
Idolo
La prima apparizione di Pearl è già significativa.
Sotto l’occhio stranito di Maxine, l’anziana donna osserva questa nuova bellezza da lontano, sognante, con un atteggiamento che ribadirà anche quando riuscirà finalmente ad attirarla in casa, cercando di coinvolgerla in un segreto sogno erotico carico di significati.
Infatti, come infine gli altri personaggi diventano protagonisti della sua furia distruttiva in quanto rappresentanti di un sogno che non può raggiungere, Maxine è molto di più: la protagonista è di fatto un idolo di cui la donna vuole impossessarsi, anche carnalmente.
Infatti proprio mentre la osserva impegnata in una vivace scena erotica in cui, come si scoprirà poi in Pearl (2023), la donna vede la rappresentazione della se stessa del passato, uno specchio in cui vuole di nuovo riconoscersi, ma da cui viene costantemente scacciata…
…e da cui viene infine schiacciata, diventando profeta inascoltata del misero futuro che attende la protagonista.
L’esorcista (1973) di William Friedkin è un classico del cinema horror sul tema possessioni, che ha dato vita ad un franchise piuttosto longevo.
A fronte di un budget non poco importante – circa 12 milioni di dollari, circa 85 oggi – è stato un incredibile successo commerciale:193 milioni in tutto il mondo (circa 1,3 miliardi oggi).
Di cosa parla L’esorcista?
Regan è una dolcissima bambina che non farebbe male ad una mosca. Ma se dentro di te è presente un ospite indesiderato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’Esorcista?
Assolutamente sì.
Soprattutto davanti al desolante panorama cinematografico odierno sul tema, L’esorcista è riuscito a stupirmi per la sua ottima costruzione della tensione, mostrando l’involuzione della protagonista in maniera graduale e ben pensata.
Sicuramente una pellicola non leggera e che non manca di molti momenti di puro orrore ancora oggi in grado di sconvolgere profondamente lo spettatore, ma al contempo ben distribuiti all’interno delle due ore di durata.
Insomma, da riscoprire.
Pezzi
Nell’incipit, scopriamo i tre pezzi del puzzle.
Un attacco piuttosto straniante, in un misterioso panorama arabeggiante, in cui il nostro futuro esorcista viene per la prima volta in contatto con il demone, una figura ammiccante e spudorata fra il cristiano – il diavolo – e il pagano – i genitali in rilievo.
Si passa poi ad ambienti urbani più riconoscibili, in cui gli altri due protagonisti riesco appena a sfiorarsi con lo sguardo: Karras osserva pensieroso Chris, la madre di Regan, e poi si allontana senza che i due si siano scambiati neanche una parola.
E infine, la nostra futura vittima, Regan, una ragazzina così innocente e piacevole, il cui atto più grave è qualche innocuo capriccio, che mai potremmo immaginare nelle vesti mostruose, disobbedienti e sacrileghe che assumerà gradualmente nel corso del film.
Per questo, la trasformazione è ancora più inquietante.
Dualità
Due famiglie si alternano in scena.
Da una parte la dolcezza della relazione fra Regan e Chris, apparentemente turbata da un matrimonio finito male e da un padre assente, in realtà ben salda nel rapporto strettissimo fra madre e figlia, che si perdono nei loro piani per il compleanno della ragazzina.
Dall’altra, la durezza di casa Karras, elemento apparentemente scollegato da tutti il resto, in realtà fondamentale nel terzo atto: una situazione affettiva già precaria, che si spezza definitivamente con la morte fuori scena della madre…
…che ci offre anche un primo sguardo su uno spettro che perseguiterà la mente di Chris per tutto il resto della pellicola.
Ovvero, il reparto psichiatrico, un panorama desolante di donne anziane immerse in un mondo di incubi che cercano inutilmente di afferrare le vesti del povero Karras, che vuole solo ricongiungersi con la madre crudelmente legata ad un letto.
Ed è solo l’inizio.
Ignoto
Il vero incubo di Chris è l’ignoto.
La crescente preoccupazione per la situazione della figlia non nasce tanto dalla sua condizione di per sé, ma piuttosto dall’impossibilità di razionalizzarla: per quanto diverse figure apparentemente risolutive si avvicendano in scena, in realtà infine nessuna sarà capace di aiutarla.
E intanto l’isteria, l’incattivamento di Regan diventa sempre più esplosivo: un climax travolgente che comincia da un umore scostante e qualche rispostaccia – una tendenza che potrebbe anche essere derubricata ai primi momenti dell’adolescenza…
…ma che infine si concretizza in comportamenti sempre più incomprensibili, financo distruttivi: il demone non prende semplicemente possesso del corpo della bambina, ma cerca continuamente di violarlo con un sottofondo erotico veramente disturbante.
Infatti, la nutrita passerella di personaggi che si avvicenderanno al capezzale di Reagan diventeranno tutti vittime di questa di violenta così esplosiva, sia considerando la purezza di Regan, sia l’inserimento dei simboli cristiani.
E un’immagine così deturpante che non può essere che il preludio per la forma finale della possessione…
Resa
Come il suo incubo è l’ignoto, il vero dramma di Chris è l’essere l’unica a capire il vero problema della figlia.
Intrappolata in un crescendo sempre più angosciante di diagnosi, che cercano di trovare il razionale dove lo stesso non ha spazio, la donna si vede ignorata le sua grida d’aiuto, di una donna che ha visto con i suoi occhi elementi soprannaturali che quelle asettiche figure mediche non possono spiegare.
E l’aiuto viene infatti ricercato proprio in Karras, questa figura di mezzo fra il razionale – la psichiatria – e l’irrazionale – la fede – che in prima battuta cerca di mettere un freno allo slancio della madre del trovare nell’esorcismo la liberazione della figlia.
Ed infatti inizialmente combatte con grande convinzione questa idea, cercando tutte le vie possibili per contestare una presenza demoniaca ormai innegabile, ripercorrendo fra l’altro vie della razionalizzazione in precedenza già e fin troppo battute.
Ma infine persino questo uomo fra i due mondi si deve arrendere, e anzi cercare un effettivo esorcista che possa scacciare il male da casa MacNeil, portando finalmente in scena Padre Merrin, protagonista di un esorcismo che, a sorpresa, non ha nulla di spettacolare.
Infatti, più che un rito purificatore, assistiamo ad un effettivo martirio, in cui i due protagonisti vengono fisicamente consumati dall’atto depurativo, donando infine la loro stessa vita per permettere a Regan di continuare la propria.
Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper è un cult del genere horror slasher, considerato fondativo per il genere.
A fronte di un budget minuscolo – appena 140 mila dollari, circa 800 mila oggi – fu un enorme successo commerciale:30 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Non aprite quella porta?
Cinque ragazzi si fermano per una sosta in una vecchia casa abbandonata. Ma il proprietario di casa non fra i più accoglienti…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Non aprite quella porta?
Sì, ma…
Per quanto probabilmente sul pubblico odierno non avrà lo stesso impatto che al tempo dell’uscita, nondimeno Non aprite quella porta è una pellicola che lascia molto poco all’immaginazione, portando in scena una violenza crudele, caotica…
…capace di stregare lo spettatore grazie anche ad una regia veramente tagliente e splendidamente sperimentale, che lavora ottimamente con il poco a disposizione per restituire atmosfere lugubri fin dalla primissima scena.
Insomma, da vedere.
Presentazione
La presentazione di Non aprite quella porta potrebbe apparire quantomeno bizzarra vista oggi…
…ma al tempo era fondamentale.
Uscendo nei primissimi anni del successo del genere slasher, in un certo senso il film doveva preparare psicologicamente lo spettatore a quello cui stava andando incontro, in quanto lo stesso non era abituato né a questo tipo di narrazione né a questo livello di violenza.
E la bellezza è anche nel saper lavorare con il poco che si ha.
Non potendo mostrare più di tanto, l’incipit lavora ingegnosamente nel definire anche visivamente il taglio del film, con una regia particolarmente ispirata che mostra un cadavere deturpato che appare e scompare, e che impreziosisce la scena con rumori di fondo di qualcuno che sta lavorando…
…chiudendo infine questo crudelissimo incipit con la voce fuori campo di una radio che racconta il contesto della pellicola, di una comunità già allertata per la presenza di un pazzo che ha deturpato delle tombe per un misterioso quanto agghiacciante fine.
Ed è una voce fondamentale…
Ingenuità
I semi della tragedia sono piantati fin da subito.
L’introduzione del gruppo protagonista avviene con il sottofondo di questo inquieto notiziario, la cui voce si attenua gradualmente fino a quasi scomparire sullo sfondo, proprio a raccontare la totale inconsapevolezza dei protagonisti – la stessa che li porterà alla loro già annunciata morte.
Una inconsapevolezza ribadita nelle scene immediatamente successive, dalla visita alla tomba integra del nonno – una magra rassicurazione – fino all’arrivo alla casa, dove sono presenti tutti gli indizi del panorama di morte che dominerà i due atti successivi…
…ma di cui, ancora una volta sono del tutto inconsapevoli.
Finché…
Irruzione
Per quanto la tensione sia ben preparata, l’entrata in scena di Faccia di Cuoio è sconvolgente.
Una porta si apre improvvisamente, e un personaggio dall’aspetto più mostruoso che umano sferra un feroce colpo in testa alla sua prima vittima, e serra un attimo dopo la porta davanti a sé, ma lasciandola in realtà ben aperta per la sua prossima vittima…
Parte così una passerella degli orrori, in cui uno ad uno i protagonisti vengono catturati, massacrati, fatti a pezzi in maniere anche piuttosto creative, fra cui spicca sicuramente l’iconica sequenza della ragazza appesa al gancio del macellaio.
L’umano così diventa bestia, carne da macello…
…e cibo da servire in tavola.
Svelare
L’ultimo atto svela la vera natura di Non aprite quella porta.
Quello che si pensava essere un mostro temibile ma isolato, si rivela invece parte di un’affiatata famiglia di cannibali, al punto che Faccia di cuoio è forse anche il meno pauroso del gruppo, apparendo solo come una bestia selvaggia, ma senza una particolare programmaticità.
E l’ultimo momento del delitto sembra questa deliziosa cena in famiglia, un racconto splendidamente satirico sulla mostruosità insita nell’apparente perfezione della famiglia americana (e repubblicana) degli Anni Settanta, dove gli autori di atti indicibili durante la Guerra del Vietnam si andavano a rifugiare.
Una realtà con radici profonde nel tempo –da cui la presenza del nonno – e che non può essere eradicata: per quanto la disordinata fuga di Sally la metta in salvo dalle grinfie della famiglia Sawyer, tanto da farla infine esplodere in un’isterica risata, la stessa nasconde l’amara consapevolezza di un mostro non ancora sconfitto…
Elliot è un ragazzino molto timido, che riuscirà a trovare un nuovo amico grazie ad un incontro inaspettato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere E.T.?
Assolutamente sì.
E.T. è un classico della fantascienza non a caso, un film fondativo per il genere, nonché un punto di riferimento per la cosiddetta fantascienza positiva – quella di Una nuova speranza(1977), per capirci.
Oltre a questo, colpisce come Spielberg riuscì a dirigere e a scrivere con rara eleganza un prodotto che entrò profondamente nel cuore dei ragazzini dell’epoca – e di tutte le generazioni successive.
Indizi
Una delle dinamiche più classiche del genere è la rivelazione progressiva della creatura.
E E.T. ci riesce magistralmente.
Spielberg dirige le prime battute della pellicola con la precisa consapevolezza di starsi inserendo in un panorama cinematografico che ormai da anni era stato per sempre cambiato dai terribile e spaventosi alieni di Alien (1979) …
…e in cui voleva portare la sua alternativa – dopo averci già ottimamente provato in Incontri ravvicinati del terzo tipo(1977) – per cui il viaggiatore spaziale non è una minaccia, ma una curiosa creatura che vale la pena di conoscere.
Per questo l’introduzione di E.T. è funzionale a raccontare la vera natura del personaggio: non una bestia temibile che divora spietatamente un piccolo coniglietto indifeso, ma un mite erbivoro, che, con le sue lunghe dita nodose, sradica una pianta per nutrirsi.
Ma c’è ancora spazio per giocare con lo spettatore.
Parallelismo
Il rapporto fra E.T. e Elliot è definito indirettamente fin dalla prima apparizione del protagonista.
Infatti, in un certo senso, entrambi i personaggi vivono la stessa condizione: come l’alieno si trova in un paese sconosciuto, senza saper dove andare, lasciato indietro dai suoi compagni di viaggio, come se fosse un emarginato…
…allo stesso modo Elliot cerca per tutta la sua prima apparizione di introdursi nel circolo sociale del fratello maggiore, da cui viene spinto ad avventurarsi nelle lugubri atmosfere esterne della casa per guadagnarsi un posto al tavolo di gioco.
E proprio qui si sviluppano le ultime, significative, battute del primo atto.
Ritrovarsi
E.T. e Elliot si ritrovano.
Il loro primo approccio utilizza i toni ancora proprio dell’horror, tenendo in ombra le bizzarre quanto innocue sembianze dell’alieno, che cerca di venire in contatto col bambino con una dinamica giocosa – ma immediatamente travisata.
L’ultimo momento di questo teatrino delle incomprensioni è il primo incontro faccia a faccia fra i due: Elliot ha il compito di metterci per la prima volta davanti all’aspetto del nemico, portando ad un genuino quanto quasi comico terrore da entrambe le parti.
Un climax tensivo ottimamente costruito, proprio grazie all’inserimento dell’elemento chiave del cinema per ragazzi: il giovane eroe è l’unico personaggio che vede e crede alla creatura, mentre gli adulti la derubricano a pura fantasia.
Per questo Elliot si intestardisce nel voler provare la sua verità, nell’evadere il controllo della madre, eppure ricercandola quando si trova bloccato dalla paura mentre E.T. gli viene vicino con aria apparentemente minacciosa…
…e invece portando un messaggio di amicizia.
Caos
La famiglia di Elliot è un caos conveniente.
Anche qui Spielberg scrive la storia del cinema di genere riuscendo a rendere assolutamente credibile lo spazio che i giovani protagonisti – anzitutto Elliot – riescono a prendersi per sviluppare il loro rapporto con l’alieno…
…proprio raccontando una famiglia in cui il nucleo emotivo è la madre, che in un certo senso sono gli stessi figli a dover proteggere dal suo turbamento, dovuto al recente abbandono del marito, che la porta raramente ad avere il controllo della sua situazione familiare.
Per questo è tanto più semplice per il protagonista fingere la malattia per prendersi una giornata da dedicare ad E.T., per questo persino gli sciocchi tentativi della sorella minore, Gertie, di rivelare la presenza dell’alieno, risultano ironicamente fallimentari.
Perché Mary, semplicemente, non riesce a vedere: in più momenti ignora la verità che è sotto ai suoi occhi, da quanto E.T. è alle sue spalle a quando lo stesso si nasconde fra i pupazzi e riesce per questo perfettamente a mimetizzarsi, sfuggendo alla sua eloquente soggettiva.
Adattamento
L’adattamento di E.T. viaggia in due direzioni.
Da una parte, l’alieno esplora con curiosità quello che lo circonda, ed impara velocemente quella manciata di parole che gli bastano per comunicare con i suoi nuovi amici, scoprendo il meglio della cultura americana – fra i classici del western e le birre in frigo.
Allo stesso modo, E.T. sviluppa un rapporto profondissimo con Elliot, portandoli a diventare sempre più strettamente legati, fino ad arrivare al gustosissimo siparietto dell’ubriacatura dell’alieno, che influenza il bizzarro comportamento del protagonista a scuola.
Allo stesso modo, il desiderio di E.T. di tornare a casa è ancora molto vivo.
Infatti, grazie all’esplorazione di quello che lo circonda, particolarmente di un fumetto di fantascienza con una storia simile a quella che lui sta vivendo, riesce a capire come può effettivamente comunicare col paese natale.
E il suo costruirsi un improbabile telefono che manda un messaggio di aiuto nello spazio è ancora una volta un bellissimo racconto della creatività infantile nel lavorare con quello che si ha, in cui persino dei giocattoli possono diventare strumenti essenziali.
Casa
Alla fine del secondo atto il legame emotivo fra E.T. e Elliot raggiunge il suo picco.
Ben deciso di fargli comunicare con il suo paese natale, il protagonista si sforza nell’aiutare l’amico alieno nella bizzarra impresa, nonostante la stessa sembri ormai destinata all’inevitabile fallimento.
Eppure proprio in quel momento E.T. abbraccia l’alternativa di una nuova casa in quel mondo, in quella persona che si è effettivamente prodigata per accoglierlo ed aiutarlo, nonostante la differenza di aspetto, e a cui si è legato troppo profondamente per distaccarsi.
Ma è un sogno impossibile.
L’inizio del terzo atto è definito dallo svolgersi della tragedia di E.T.: il suo desiderio di rimanere sulla terra si scontra con l’impossibilità del suo corpo di rimanervi troppo tempo – una piccola accortezza di scrittura che offre il giusto grado di drammaticità e tridimensionalità al finale.
Così si raggiunge il picco massimo del dramma quando E.T. sceglie consapevolmente di dover lasciar andare il suo giovane amico, consapevole che altrimenti morirebbero insieme, in una scena genuinamente straziante, in cui Henry Thomas dà anche il meglio di sé come giovane attore.
Poi, un nuovo cambio di tono.
Alternanza
La finezza della scrittura di Spielberg si ritrova ancora nelle battute finali della pellicola.
Per dare una boccata di ossigeno allo spettatore, il film ritorna alla carica con un siparietto comico davvero gustoso, in cui E.T. si risveglia e comincia a ripetere ossessivamente la sua battuta iconica, rischiando di farsi scoprire.
Interessante in questo senso come la pellicola scelga di rappresentare gli adulti: mentre in molti film del genere fra i giovani eroi protagonisti e i grandi vi è un contrasto netto – come, per fare un paragone improprio, in Super 8 (2008) …
…al contrario, in E.T. gli adulti, semplicemente, non capiscono: pur mostrandoli mentre cercano di aiutare l’alieno, Spielberg ci tiene particolarmente a mettersi dalla parte dei suoi giovani spettatori, mostrando come solo loro capiscano la situazione e possano quindi risolverla.
Ne segue un’adrenalinica corsa e rincorsa dei protagonisti, pronti a tutto pur di permettere al loro amico di ritrovare la via di casa, e il cui punto di arrivo è una chiusura molto commovente, in cui E.T. promette di star per sempre al fianco di Elliot, pur trovandosi ad anni luce di distanza.
La bella addormentata nel bosco (1959) è il sedicesimo classico Disney basato sull’omonima fiaba dei Fratelli Grimm e sull’opera di Perrault in I racconti di Mamma Oca (1697).
A fronte di 6 milioni di dollari, fu un pesante insuccesso commerciale:appena 5,3 milioni di incasso, portando ad una perdita finanziaria tale da portare lo stesso Walt Disney a cominciare a disinteressarsi all’animazione…
Di cosa parla La bella addormentata nel bosco?
Il re Stefano e la regina Leah riescono dopo anni ad avere una bellissima bambina. Ma un invito mancato cambierà decisamente le carte in tavola…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La bella addormentata nel bosco?
Assolutamente sì.
Con mia sincera sorpresa, La bella addormentata nel bosco potrebbe essere fra i miei Classici Disney preferiti di questa fase – e per un motivo molto semplice: la storia di Aurora e Filippo è incredibilmente accessoria, mentre il fulcro della trama è altrove.
Raramente si vede in un film Disney una presenza così preponderante del villain e dei personaggi – almeno sulla carta – secondari, che invece appaiono come i veri protagonisti della stessa – o, comunque, i motori dell’azione.
Insomma, ve lo consiglio molto.
La bella addormentata nel bosco Produzione
La bella addormentata nel bosco rappresentò l’inizio della rottura di Walt Disney con l’animazione.
La lavorazione del film cominciò infatti nel 1951, ma proseguì con grande lentezza quasi fino alla fine del decennio: se inizialmente si pensava di far uscire la pellicola nel 1953, la produzione venne rimandata di ben due anni per l’impegno di Walt Disney nell’apertura di Disneyland.
La produzione riprese effettivamente nel 1956 e si programmò la nuova uscita per il 1957, ma la costruzione del parco assorbì talmente tante risorse e budget che i tempi si allungarono ancora, e Walt Disney visionò il progetto solo nell’agosto del ’57…
…ma con poco ed effettivo interesse.
La direzione artistica si rifece molto ad una produzione precedente e simile: Biancaneve e i sette nani(1937), riprendendo alcune idee scartate da Walt Disney, come tutta la dinamica della cattura del principe e la danza nel bosco fra Aurora e Filippo.
Tuttavia, si presero importanti distanze dal primo Classico: anche se l’ispirazione estetica era simile, Walt Disney volle che questo nuovo prodotto si distinguesse in maniera netta dai precedenti…
…e per questo si scelse di abbandonare lo stile più dolce e arrotondato usato in precedenza per abbracciare invece un tratto più stilizzato e spigoloso, rifacendosi anche all’estetica propria del periodo storico rappresentato.
Inoltre, La bella addormentata nel bosco fu il primo Classico ad essere fotografato secondo il nuovo processo di widescreen – il Super Technirama 70 – riservato nella storia Disney a pochissimi prodotti, ma che permetteva una cura più articolata e complessa per gli sfondi.
Inoltre, fu anche l’ultimo classico Disney inchiostrato a mano: a partire dal successivo La carica dei 101(1961) ci si sarebbe spostati all’uso della xerografia per trasferire i disegni degli animatori dalla carta alla celluloide.
Protagonista
Aurora è così poco protagonista del suo stesso film da non apparire se non a storia già avviata.
Invece, le vere figure centrali sono subito in scena.
Dopo il breve prologo introduttivo che getta le basi della trama, appaiono fin da subito le sagge fate madrine, invitate per benedire la nascita di Aurora con un regalo a testa, dimostrando fin da subito il loro appoggio politico (?) al futuro del regno.
Questo sottile sottofondo è ben definito dall’arrivo di Malefica: i primi a reagire non sono i genitori di Aurora, ma bensì una delle tre fate, Serenella, profondamente offesa di essere definita plebaglia dalla nobile strega.
Ed è sempre la fatina ad affermare che Malefica non è benvoluta in quell’occasione, motivo per cui la Regina Leah, piuttosto impensierita, chiede – o, meglio, prega – la strega di non reagire all’offesa subita.
E la risposta di Malefica è piuttosto subdola…
Possibilità
Malefica avrebbe potuto uccidere Aurora immediatamente.
E invece sceglie una via ben peggiore.
Come si vedrà più avanti anche nel film, la punizione di Aurora non è niente di personalenei confronti della bambina, ma piuttosto una presa di posizione piuttosto forte politicamente parlando da parte della strega.
Infatti, maledicendo la protagonista con un destino crudele, Malefica si pone in una posizione di grande vantaggio rispetto a Re Stefano: la sua minaccia sarà presente sul suo regno e sul suo futuro per i prossimi sedici anni, a meno che…
…a meno che il Re non si faccia perdonare.
Infatti, anche se non viene detto esplicitamente, con la sua risposta Stefano prende una posizione molto chiara: invece che provare a porre rimedio all’offesa, appella Malefica in malo modo – strega, in inglese creature…
…e cerca, molto ingenuamente, di impedire che la profezia si avveri, distruggendo tutti gli arcolai.
E a questo punto la palla passa di nuovo alle fate.
Schema
In quanto veri motori dell’azione positiva della storia, le tre fate scelgono un modo ben più intelligente per proteggere Aurora.
Andando a nascondersi nel bosco, scegliendo abiti per così dire borghesie rinunciando di fatto alla loro magia, il terzetto capisce che il modo migliore per impedire che la maledizione di Malefica faccia il suo corso è di nascondere Aurora.
In questo contesto decisamente serio prende piede l’umorismo piuttosto piacevole della pellicola, finalizzato evidentemente ad ammorbidire una storia con un taglio molto cupo, nonché ricca di momenti al limite dell’orrorifico.
Inoltre, la scena del compleanno di Aurora cerca anche un po’ di ridimensionare le fate.
Non delle abili strateghe e macchinatrici come si era visto all’inizio, ma delle fatine un po’ pasticcione e testarde, che finiscono per rovinare un piano lungo sedici anni per via una contesa che, per quanto umoristicamente davvero gradevole, appare altresì assai sciocca.
Tuttavia, come vedremo anche successivamente, questa dinamica del piano che si rovina in pochi attimi offre anche il fianco ad un sottofondo piuttosto inquietante: la presenza di Malefica, per quanto la si combatta, è sempre in agguato.
E Aurora?
Desiderio
Aurora è la più classica principessa Disney.
Per quanto, come detto, non sia veramente la protagonista della storia, ma bensì una pedina nelle mani di diversi personaggi, ad Aurora viene regalato un ampio segmento centrale per riuscire a definirsi.
Di fatto la principessa non è tanto dissimile da Biancaneve – vive in armonia nel bosco e parla con gli animali – ma è soprattutto dotata di un elemento che si era visto finora solo con Cenerentola: la cosiddetta canzone del desiderio.
Del tutto ignara delle dinamiche politiche che si stanno svolgendo alle sue spalle, Aurora canta il suo desiderio – incontrare il principe dei suoi sogni – definendosi proprio come personaggio quasi onirico, del tutto slegato dalle brutture terrene.
Ed effettivamente il suo sogno si realizza: quello per Filippo – il primo principe effettivamente caratterizzato fino a questo momento – è un innamoramento a prima vista, un amore predestinato – soprattutto politicamente…
Ombra
Malefica è fin troppo sottovalutata.
Per quanto le fate abbiano progettato un piano apparentemente perfetto per salvaguardare il futuro di Aurora, si lasciano facilmente battere non solo facendosi scoprire in maniera piuttosto ingenua, ma soprattutto lasciando Aurora sola nel momento di maggior pericolo.
Purtroppo, la giovane principessa può poco davanti alla maledizione di Malefica: come in trance, si incammina obbediente verso il proprio nefasto destino, accompagnata da un commento sonoro estremamente incalzante…
…e a poco servono i suoi timidi tentativi di sottrarsi ai comandi della strega, finalmente vittoriosa di aver reso inerme il futuro del regno, e di aver così realizzato la sua maligna vendetta nei confronti di Stefano.
E, a questo punto, ancora una volta, la palla passa alle fate.
Campione
La maggior parte dei personaggi sono all’oscuro di quello che sta succedendo.
Le fate scelgono programmaticamente di nascondere la loro grave mancanza, immergendo tutto il castello in un limbo di sonno profondo, al pari di Aurora, così da poter avere il tempo di risolvere la spinosa vicenda.
In particolare, le fate hanno bisogno del loro campione.
Filippo è, al pari di Aurora, una pedina.
Conscia che il principe potrebbe mettergli i bastoni fra le ruote, Malefica non solo lo rapisce, ma lo carica di un destino persino peggiore di quello della principessa: potrà lasciare il castello e tornare dalla sua amata solo quando sarà vecchissimo e sostanzialmente inerme.
E, visto che evidentemente lo stesso è incapace di liberarsi da solo – e di salvare Aurora – le fate devono ancora una volta intervenire non solo per eliminare le sue catene, ma anche per dotarlo degli strumenti per battere Malefica.
Ne segue un duello particolarmente incalzante, in cui la strega fa di tutto per impedire a Filippo di arrivare al castello, persino affrontarlo di persona nelle vesti di un diabolico drago nero, che infine il principe riesce a battere…
…mostrando, per la prima volta, il cadavere di un villain Disney.
E a queste note piuttosto lugubri segue una chiusura invece piuttosto dolce e sognante, che meglio si accompagna alla coppia di innamorati, che danzano fra le nuvole in una perfetta armonia.
La bella addormentata nel bosco storia originale
La bella addormentata di Walt Disney cambiò diversi elementi rispetto alla fiaba originale.
Anzitutto, le fate non erano tre, ma ben sette – addirittura tredici nella versione dei Grimm – e Malefica non era che la più anziana fra loro, che non veniva invitata non per una scelta politica, ma bensì perché viveva nascosta, e non si era neanche sicuri che fosse ancora in vita.
Sempre riguardo alle fate, il loro piano di nascondere Aurora è del tutto inventato: nella storia originale la principessa viveva nel castello e semplicemente una sera incontrava una vecchia con un arcolaio e, non avendolo mai visto, veniva tratta in inganno.
La dinamica del finale è altresì estremamente differente.
Nella storia originale erano le stesse fate a circondare il castello con rovi e spine per proteggere Aurora, e passavano effettivamente molti anni prima che Filippo, che conosceva la storia della principessa, si avventurasse nel maniero per risvegliarla.
Al riguardo, le storie divergono molto: come le versioni più recenti di Grimm e Perrault fanno risvegliare Aurora con un bacio, in altre la ragazza è vittima di violenza sessuale dal principe e viene salvata dai suoi stessi figli che nascono in seguito.
Inoltre, la versione di Perrault aggiunge una seconda parte totalmente assente dalla versione dei Fratelli Grimm.
In questo frangente Filippo e la principessa (che in questo caso non ha nome) hanno due figli, Aurora e Giorno, che però il principe nasconde alla madre, in quanto discende da una famiglia di orchi divoratori di bambini.
La stessa cercherà di farsi servire per pranzo tutta la famiglia del principe, un piano sventato prima dal buon cuore del cuoco – che serve altre pietanze all’orchessa – e poi dall’arrivo tempestivo di Filippo, che impedisce alla madre di gettare i bambini fra le vipere, facendola invece suicidare.
Last night in Soho (2021) è la prima sperimentazione di Edward Wright con il genere drammatico e orrorifico.
Purtroppo, anche per via dall’annata sfortunata in cui uscì, fu un pesante flop commerciale: con un budget di 43 milioni di dollari, ne incassò appena 22 in tutto il mondo…
Di cosa parla Last night in Soho?
Ellie è un’aspirante stilista con una particolare passione per gli Anni Sessanta. E quando sembra che il suo sogno si stia per realizzare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Last night in Soho?
Assolutamente sì.
Last night in Soho è una fantastica sperimentazione registica di Edward Wright, che riuscì nuovamente a raccogliere ancora l’eredità del suo film più iconico, Shaun of the dead(2004), e a riproporlo in un’opera veramente inedita per la sua produzione.
Infatti non solo la trama è decisamente drammatica, viaggiando fra il thriller e l’horror, ma per la prima volta il regista britannico mise al centro di una sua storia un personaggio femminile, riuscendo a portare in scena temi attualissimi e in maniera mai banale.
Insomma, da riscoprire.
Sogno
Ellie sembra finalmente aver realizzato il suo sogno.
Nonostante i diversi ammonimenti della nonna, nonostante il passato che la tormentata, la giovane protagonista è semplicemente entusiasta di questo nuovo capitolo della sua vita, sicura che nulla potrà andare storto, tanto è vivido il suo entusiasmo e la sua immaginazione.
E invece basta mettere un piede nella città per essere già in pericolo.
Wright dimostra una particolare empatia nel raccontare il senso di pericolo e di inquietudine che accomuna purtroppo l’esperienza ancora di molte donne: vedere potenzialmente dietro ad ogni uomo troppo espansivo un potenziale stalker – o peggio…
Ma neanche a casa può sentirsi al sicuro.
Equilibrio
Last night in Soho gode di un particolare equilibrio nella rappresentazione dei personaggi.
Una sceneggiatura ben più banale avrebbe mostrato un contrasto netto fra i personaggi femminili e maschili: nei primi la protagonista avrebbe trovato conforto, nei secondi gli antagonisti principali della pellicola.
E invece Ellie si trova incastrata in una situazione di bullismo piuttosto tipica: una ragazza particolarmente crudele che guida il comportamento altrettanto spiacevole delle altre compagne, costringendo la protagonista a sentirsi costantemente fuori posto.
Ma che infine sceglie di cercare altrove i suoi spazi.
Illusione
La nuova stanza è il prologo del sogno.
Ellie non scappa solamente dalle sue nuove compagne, ma da quel presente opprimente in cui non riesce a ritrovarsi, vestendo i panni di un suo alter ego ideale: una giovane donna in cerca di fortuna, che si trova sotto la protezione di un uomo fascinoso e pieno di promesse.
Tutte le dinamiche, anche quelle più tristemente sessiste – Sandie è onorata di essere salvata dalle molestie di un altro uomo – fanno parte di un racconto dalle note fiabesche, la cui protagonista sembra un’eroina del cinema popolare.
E, per rendere la dualità della protagonista, Wright utilizza un calzante quanto psichedelico gioco di specchi, oltre all’indimenticabile sequenza del ballo in cui Ellie e Sandie si alternano fra le braccia di Jack – con anche un certo sottofondo erotico che non guasta.
Identità
Immergendosi sempre di più nel sogno, Ellie perde progressivamente la sua identità.
Dalla scelta di cambiare colore di capelli, fino all’acquisto del costoso impermeabile vintage, la protagonista cerca prepotentemente di portare il suo sogno nella realtà, nella sua persona, quando ancora è certa che sia tutto quello che potrebbe mai desiderare.
E apparentemente in questo modo la protagonista diventa anche più sicura di sé stessa, comincia ad ottenere i primi successi come stilista, venendo elogiata per la sua inventiva e il suo pensare fuori dagli schemi.
Ma basta poco perché tutto crolli…
Climax
La scoperta del vero destino di Sandie è devastante.
La pellicola costruisce un efficace climax narrativo in cui prima la donna viene ridotta a ballerina di sfondo di uno squallido burlesque, avendo unicamente il ruolo di oggetto sessuale per un pubblico di uomini allupati…
…e infine viene incastrata, come altre donne prima di lei, in una rete di false promesse, che la porta progressivamente a distruggersi con l’abuso di alcol e di droghe, finendo per gettare all’aria i suoi sogni nel tossico circolo della prostituzione coatta.
Con uno splendido piano sequenza si racconta effettivamente il destino di tante donne che furono ingoiate dai loro stessi sogni, dalle false illusioni di lupi nell’ombra, che si approfittarono delle loro ingenuità per impossessarsene in maniera meschina e sistematica.
E non c’è via d’uscita.
Infatti, anche se Linsday prova a salvarla, i suoi modi così supponenti e spiacevoli – confermati anche nella sua versione presente – sono per la donna solo una conferma di come non si può fidare di questi uomini, soprattutto quelli che gli promettono soluzioni fin troppo facili…
Salvarsi
E allora è il turno di Ellie.
Sicura della sorte sfortunata del suo alter ego, la protagonista comincia a crollare su sé stessa, fino a scivolare in un incubo senza via d’uscita apparentemente per le droghe che le scivolano nel bicchiere, in realtà dando sfogo ad un turbamento con radici ben più profonde…
Wright racconta infatti l’importanza del peso di una tradizione di abusi e tradimenti che difficilmente ci si può lasciar scivolare di dosso, e che portano la protagonista a minare la sua felicità presente in nome di un passato che sembra impossibile da salvare.
Elemento che si nota particolarmente nella scena della scoperta del presunto omicidio di Sandie, portato in vita con una regia magistrale che compara indirettamente la penetrazione sessuale con la penetrazione violenta del coltello nel corpo della giovane donna.
E così Ellie vive ancora più drammaticamente l’impossibilità di certe donne, soprattutto nel passato, di potersi salvare, ma neanche di avere una rivincita almeno in un presente più consapevole e accogliente.
E invece Sandie si era già salvata.
Vendetta
La rivelazione di Sandie non era semplice da gestire.
La sua via d’uscita è stata compiere una serie di omicidi sistematici, deturpando i volti di quegli odiosi uomini, seppellendoli sotto le sue scarpe e facendoli dimenticare da tutti, esattamente come Jack avrebbe voluto fare con lei.
Si racconta in questo modo un passato violento e impossibile da salvare, con un equilibrio di forze totalmente sbilanciato, in cui vi erano solamente due strade per la protagonista della storia: divorare o essere divorata.
E la spietatezza di Sandie si vede anche nel presente, quando non riesce neanche a fidarsi di una giovane e innocente ragazza che voleva solo salvarla, finendo per ritirarsi a morire nell’amarezza della sua stanza, del suo passato…
Infine Ellie si trova davanti ad un dilemma morale, a cui deve arrendersi: non può né salvare gli uomini vittime di Sandie, figli di una cultura usurpatrice e violenta, né il suo alter ego, che infine viene ingoiata dalle sue colpe, incoraggiando la protagonista a salvare sé stessa.
E Ellie può davvero salvarsi.
Alternativa
Ellie ha un’alternativa.
Nonostante viva in una realtà ancora pericolosa e ostile, può contare su nuove prospettive, generalmente incarnate nel personaggio di John: il ragazzo è il modello ideale del nuovo uomo, rispettoso, accogliente e premuroso.
E anche se ci troviamo in bilico su un possibile tokenism, in realtà il ragazzo è un faro di speranza essenziale all’interno di un film così profondamente drammatico, che invece accompagna la protagonista ad un finale se non positivo, comunque speranzoso.
Nonostante Sandie sia ancora una presenza, un ricordo di un passato che non può essere cancellato, nonostante realisticamente non c’è alcun passo indietro da parte di Jocasta, nonostante le visioni della madre siano ancora presenti…
…infine Ellie trova finalmente una sua identità in cui calibra il sogno del passato con il presente nella sua linea di vestiti, e riesce a guardare con un minimo più di ottimismo ad un futuro potenzialmente più promettente.
Robot Carnival (1987) è una raccolta di cortometraggi animati curati da nove registi e animatori giapponesi.
Al tempo venne proposto come OAV, Original Anime Video, ovvero un anime distribuito direttamente in videocassetta.
Di cosa parla Robot Carnival?
Proprio come un parco dei divertimenti, Robot Carnival raccoglie diverse ispirazioni da diversi registi con un tema comune: i robot.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Robot Carnival?
Assolutamente sì.
È praticamente impossibile rimanere delusi con Robot Carnival: ci si trova davanti ad una tale varietà di toni, di temi e di tagli narrativi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta, con storie tutte diverse fra loro anche per stile artistico.
E se la poca presenza di dialoghi, o la loro totale assenza, potrebbe spaventare, a fine visione appare chiaro che gli stessi sarebbero stati del tutto inutili all’interno di una narrazione così ben strutturata da funzionare anche solo di musica e di suggestioni.
Rumore
Robot Carnival si apre con una collezione di rumori.
L’intro è visivamente aggressiva e sottilmente metanarrativa: sembra come se il colosso del film stesso, di questo strano parco dei divertimenti, entrasse prepotentemente in scena, distruggendo ogni cosa sul suo passaggio, anche gli indifesi spettatori.
Si passa poi ad un primo episodio semplice quanto efficace: una riproposizione moderna e robotica del classico di Mary Shelley: l’esperimento apparentemente fallimentare incorniciato dai rumori di laboratorio…
…esplode in un climax ascendente per giungere a dinamiche non tanto dissimili dall’iconica scena di Frankenstein Junior (1974) ma con una ben più amara, quanto enigmatica, conclusione, in cui il successo dell’operazione sembra spezzarsi.
La stessa dinamicità si ripropone nel confusionario quanto surreale capitolo conclusivo, Niwatori Otoko to Akia Kubi, in cui un cittadino comune diventa testimone di una rivolta dei robot, che rinascono, si spezzano, cadono a pezzi in forme orrorifiche e incomprensibili.
Ma c’è spazio anche per il dialogo.
Dialogo
Il dialogo in Robot Carnival è essenziale.
Nel terzo capitolo, Presence, lo è nel senso che è ridotto all’osso: la scena prima si anima di uno spaccato della difficoltosa vita dei robot nella società umana, per poi aprirci uno squarcio sulla vita del protagonista tramite un’intrusione nei suoi pensieri.
E questa impertinente macchina, questa creazione che sembra avere una vita propria, è anche l’unica che sembra comprendere la vera natura del suo creatore, che si è sempre privato dell’amore, vivendo una vita fra un gelido matrimonio e le sue invenzioni senza cuore.
Del tutto diversa l’atmosfera del penultimo capitolo, Strange Tales of Meiji Machine Culture: Westerner’s Invasion, in cui assistiamo ad un duello fra due enormi quanto primitive macchine, pilotate da un inventore squinternato e da una litigiosa coppia di ragazzini.
Un frangente che è l’unico veramente e propriamente comico della pellicola, con dinamiche che sembrano provenire da unoshonen degli Anni Ottanta (e non solo), e che permette allo spettatore infine di concedersi una risata.
Silenzio
In Robot Carnival ci sono diversi tipi di silenzi.
C’è il silenzio dei personaggi, che non hanno bisogno di alcun dialogo per raccontare la loro storia, ma che invece si avvicendano sulla scena con episodi estremamente dinamici e incalzanti, in piccole avventure a lieto fine.
È questo il caso sia di Deprive, in cui un’invasione aliena diventa lo sfondo per quella che si rivela infine una dolcissima storia d’amore con protagonista un’umana e un robot dall’aspetto cangiante, che infine la ragazzina riconosce nella sua nuova forma…
…sia di Starlight Angel, il mio preferito della serie, che riprende sostanzialmente le stesse dinamiche, ma in un contesto più giocoso e onirico, in cui un sofferto tradimento amoroso si risolve nella formazione di una nuova e felice coppia.
E infine il silenzio c’è il silenzio Cloud, un bozzetto a matita che si anima per raccontare di un piccolo robot che attraversa le diverse epoche terrestri, nella silenziosa quanto inevitabile vittoria e distruzione del genere umano.
Pinocchio (1940) è il secondo classico Disney basato sul romanzo per ragazzi di Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio (1881 – 1883).
Nonostante fosse uscito poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 2,6 milioni di dollari, incassò 38 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Pinocchio?
Walt Disney prende le mosse dal classico di Collodi per raccontare sofferte quanto educative avventure di Pinocchio.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Pinocchio?
Assolutamente sì.
Rispetto a Biancaneve (1937), Pinocchio si distingue per un impianto narrativo più solido, una collezione di avventure dal forte sapore educativo, che non manca comunque di una componente quasi orrorifica.
Infatti, riscrivendo il protagonista in una veste più positiva ed ingenua, le sfortune di Pinocchio hanno un impatto molto più potente, volendo mostrare le insidie del mondo e il come riuscire ad evitarle affidandosi alle giuste figure adulte.
Pinocchio tecnica animazione
Pinocchio non doveva essere un film.
La storia venne proposta a Disney a più riprese e da diverse persone, inizialmente neanche come un lungometraggio, che cominciò a prendere forma solamente nel 1937.
Il punto di svolta fu la lettura di Walt Disney di una versione tradotta dell’opera di Collodi, che gli permise di innamorarsi della storia e di abbracciare finalmente il progetto, che inizialmente doveva essere il terzo classico Disney.
Invece, per via dei problemi produttivi di Bambi (1942), la produzione venne anticipata.
Ma ci volle un intero anno prima che i lavori partissero.
La prima versione del film fu incredibilmente ostica, per via della difficoltà degli argomenti e della natura della storia, che presentava un protagonista abbastanza negativo e pochi momenti di comicità.
La prima stesura fu presa e cestinata da Walt Disney, facendo ricominciare la produzione da zero.
Estetica Pinocchio
L’estetica fu profondamente contaminata.
Nonostante Pinocchio sia ambientato in Italia, gli spazi e i vestiti dei personaggi ricordano più la Baviera, con anche elementi più moderni e propri della cultura statunitense, come la sala da biliardo nel Paese dei Balocchi.
Il reparto produttivo si sbizzarrì nella creazione di elementi da cui prendere spunto, con centinaia di oggetti di scena fra marionette, orologi e miniature dei personaggi, per la prima volta nella storia della Disney.
Fra le prime idee scartate, la più importante fu il character design di Pinocchio: nato come una marionetta pagliaccesca, per volontà dello stesso Disney la sua identità traslò progressivamente sempre di più verso una immagine umana e accessibile.
Così fu anche più umanizzata la figura del Grillo, il primo personaggio Disney aiutante e guida del protagonista.
Il grillo risulta infine non tanto un insetto, ma più un piccolo omino cortese e un po’ dongiovanni, messo sempre alla prova per la sua piccola statura davanti a personaggi negativi giganteschi e minacciosi.
Ancora una volta per le animazioni ci si affidò a malincuore al rotoscopio, ma in maniera differente rispetto a Biancaneve.
Infatti, l e scene in live actionnon vennero semplicemente ricalcate per la pellicola animata, ma decisamente ampliate per dare maggiore dinamicità e realismo ai personaggi.
Per la voce di Pinocchio si scelse il giovanissimo cantante Dickie Jones, mentre il Grillo prese la voce di Cliff Edwards, e la Fata Turchina fu fatta sul modello di Evelyn Venable, anche modella per il logo della Columbia Pictures.
Intuibile
Se si confronta col Pinocchio di Collodi, ma anche con la riproposizione in stop-motion di Guillermo del Toro, il personaggio di Geppetto è molto meno caratterizzato: non sappiamo molto sul suo carattere né sulla sua storia.
Possiamo solo intuirlo dal contesto e dalle parole della Fata Turchina: Geppetto è un uomo buono che ha fatto tanto bene agli altri, probabilmente tramite le sue creazioni, e che vive senza figli, ma con due pimpanti animali da compagnia.
In questo modo, proprio come il Principe Azzurro, Geppetto è un personaggio con una funzione molto stringente: rappresentare la figura genitoriale buona ma anche apprensiva, che più che guidare, cerca di proteggere Pinocchio dal farsi del male da solo.
E proprio sta qui il punto della storia.
Ingenuo
Paradossalmente, il Classico Disney è per certi versi più educativo del romanzo di Collodi.
Infatti, come vedremo in coda, il personaggio originale era molto più cattivo e dispettoso, quindi rappresentava in maniera molto semplice ed immediata la sorte sfortunata di un bambino disobbediente, che infine veniva premiato per aver invece imboccato la retta via.
Al contrario, il Pinocchio disneiano è un bambino qualunque, preda della sua stessa ingenuità che lo porta a lasciarsi adescare dalla prima proposta allettante, dal primo adulto di cui si fida ciecamente, diventando così preda delle peggiori macchinazioni.
Insomma, Walt Disney sembra voler ammonire i bambini del suo tempo di dare fede alle parole dei propri genitori ed educatori, perché dette solamente per il loro bene, e invece di guardarsi dalle proposte di successo facile e fin troppo allettante.
Altrimenti le conseguenze sono terribili…
Animale
Pinocchio è quasi orrorifico.
Il protagonista viene infatti non solo ripetutamente privato della sua libertà, ma proprio anche della sua stessa umanità: già piuttosto raccapricciante l’idea di diventare un fenomeno da baraccone chiuso in una gabbia da Mangiafuoco…
…ma ancora più devastante è la disavventura del Paese di Balocchi.
Agli occhi dello spettatore odierno tutta la situazione appare davvero brutale, fin dalle eloquenti conseguenze di Pinocchio che si fa provocare da Lucignolo, aspirando il sigaro in maniera esagerata.
Ma l’apice dello sconvolgimento è la scoperta della vera natura del luogo e del piano del Postiglione, che rapisce i bambini per trasformarli in asini da mandare a lavorare – e a morire – nelle miniere di sale.
E al riguardo salta all’occhio un elemento ancora più agghiacciante…
Minaccia
La maggior parte delle storie Disney sono a lieto fine.
E un aspetto fondamentale delle conclusioni è la sconfitta dell’antagonista, proprio con un’idea del bene che sconfigge il male, nel caso dei cattivi Disney con delle morti o degli annientamenti spesso non per azione dei protagonisti, ma per una sorta di autodistruzione.
In Pinocchio questo elemento è drammaticamente mancante.
Che sia voluto o meno, per quanto la conclusione sia positiva, le varie minacce che hanno insidiato il protagonista durante le sue disavventure sono ancora presenti in agguato, e Pinocchio potrebbe ricaderci in ogni momento se non starà abbastanza attento.
E se la furba Volpe è riuscita ad ingannarlo per ben due volte di fila, cosa impedisce alla stessa o ad altri antagonisti di imbrogliarlo nuovamente?
Maturazione
La maturazione di Pinocchio è fondamentale.
Con un classico deus ex machina, la Fata Turchina offre al protagonista l’occasione per riscattarsi, dal momento che le sue ingenuità hanno influenzato anche la drammatica sorte di Geppetto, il personaggio che meno di meriterebbe una morte così tragica e sfortunata.
Così l’insegnamento finale è anche più importante: Pinocchio si ingegna, passa dall’essere un personaggio passivo e guidata da altri – il Grillo e la Fata – a figura invece attiva e risolutiva, trovando la Balena e riuscendo a salvare sia sé stesso che Geppetto.
Ed è per questo che infine viene premiato.
Pinocchio favola originale
Come per Biancaneve (1937), anche per Pinocchio Walt Disney ha cercato di ammorbidire la storia di Collodi per renderla più a misura di bambino.
Una dei cambiamenti più fondamentali è il ruolo del Grillo Parlante: se nel Classico Disney è la voce narrante e la guida morale del protagonista, nel romanzo è solo uno dei tanti animali parlanti presenti nella storia.
Anzi, il grillo di Collodi subisce una tragica fine: scocciato dall’ingombrante presenza della sua coscienza, Pinocchio lo schiaccia e così si libera della stessa, che poi ricomparirà sotto forma di fantasma.
E, sempre parlando di animali, la Disney scelse di rendere in maniera molto più diretta i personaggi animali, dandogli un aspetto antropomorfo, mentre nella favola originale gli stessi hanno semplicemente il dono della parola.
Per quanto sia rimasta vicino all’opera originale per la terribile figura della balena, in realtà per Collodi era un altro animale: un gigantesco pescecane!
Anche i caratteri dei personaggi sono stati piuttosto rimodulati.
Se il Pinocchio di Walt Disney è un personaggio molto infantile e ingenuo, un bambino che si lascia facilmente abbindolare, il protagonista di Collodi è invece molto più dispettoso e cattivo.
Allo stesso modo, se il Mangiafuoco della Disney è un effettivo villain, anche piuttosto terrorizzante, al contrario nell’opera di Collodi è un personaggio piuttosto burbero, ma tutto sommato di buon cuore.
In ultimo, la Fata Turchina per la Disney è un personaggio quasi divino, un effettivo deus ex machina in più momenti, mentre per Collodi era una figura più umana: una bambina con i capelli turchini.
Millennium Actress (2001) è la seconda opera del compianto Satoshi Kon, che riprende e per certi versi amplia le tematiche dell’opera prima, Perfect Blue(1997).
A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,2 milioni di dollari – anche per la distribuzione limitata e la poca permanenza in sala, ebbe un riscontro molto modesto al botteghino, con 37 mila dollari di incasso.
Di cosa parla Millennium Actress?
Con l’arrivo del nuovo millennio, l’intervista alla ex-star del cinema Chiyoko Fujiwara apre le porte ad una riscoperta del suo misterioso passato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Millennium Actress?
Assolutamente sì.
Per quanto personalmente preferisca Perfect Blue, Millennium Actress è un’opera di grande eleganza stilistica e narrativa, che evita di incastrarsi in spiegazioni delle dinamiche fantastiche e surreali presenti in scena…
…e lascia semplicemente che la storia respiri e si sviluppi da sé stessa, con un impianto metanarrativo piuttosto pervasivo, che fa da cornice ad una riflessione sulla vita e su come la stessa si intrecci – e a volte corrisponda – alla finzione.
Insomma, da non perdere.
Macerie
Millennium Actress si apre su un panorama di macerie.
Mentre quel che rimane di uno studio cinematografico che ha fatto la storia del Giappone viene fatto a pezzi nella totale indifferenza generale, una voce fuori campo cerca di riportarci alle vecchie glorie.
Così Chiyoko Fujiwara è la protagonista fin da subito, anche solo nell’appassionato ricordo di Genya, in profondo contrasto con invece la totale ignoranza e indifferenza di Kyōji, che derubrica il personaggio a vecchia stella ormai tramontata.
Ma la donna che si trovano davanti è una versione solo più invecchiata, ma ancora incredibilmente in forma, di un’attrice che ha segnato la storia del cinema, ma che da anni ha scelto di ritirarsi a vita privata.
E serviva solo qualcosa che gli sbloccasse i ricordi…
Chiave
Chiyoko nasce in un mondo turbolento.
Il venire alla luce durante un terremoto è indicativo della storia del Giappone fra le due guerre: un paese che subì profondi cambiamenti per forze sia esterne che interne, risultando in una ferita incurabile nell’immaginario collettivo.
Ma, in questo tsunami di mutamento, la madre della protagonista cerca ancora di rimanere salda alle tradizioni più stringenti, negando alla giovane ragazza la possibilità di servire il suo paese in maniera del tutto inedita.
E, se all’inizio la giovane protagonista accetta timidamente un destino che sembra esserle imposto, tutto cambia quando con l’incontro con uno sconosciuto, che infine si rivela essere uno dei principali motori del cambiamento di un paese che non era pronto a cambiare.
Con la chiave stretta in pugno, comincia così l’inseguimento di Chiyoko di uno spettro di cui non ricorda neanche il volto, ma anche lo slancio per la comprensione di un simbolo che si era ripromessa di comprendere, che risulta fino alla fine indecifrabile.
Ma, ancora una volta, è un destino imposto.
Destino
Chiyoko non può scappare.
Le prime tappe della sua ricerca vengono coronate dall’incontro con una presenza altrettanto misteriosa, una sorta di parca che ha già tessuto il suo destino, e che le impone di vivere una vita di ricerca per un amore impossibile e sempre più fumoso.
Un personaggio che si può leggere in due direzioni: sia come rappresentazione del cruccio interiore della protagonista, che in tutti i suoi film sembra ripercorrere sempre la medesima storia di ricerca impossibile del suo amato…
…e al contempo, in una connotazione più strettamente storica e politica, come rappresentazione dei sentimenti discordanti che caratterizzarono la società giapponese in quel periodo, nel dramma della brusca fine di un’epoca, definito da un connubio di odio e amore.
Un cambiamento, appunto, repentino quanto inevitabile.
Perdita
L’atto centrale della vita di Chiyoko è caratterizzato dalla perdita.
La vita e i temi centrali dei film passano dal romanticismo anche struggente di film sul Giappone che fu, verso una realtà ben più drammaticae realistica della guerra e, soprattutto, del dopoguerra.
Ma se Chiyoko si aggira malinconica nelle macerie, è sempre lì che trova l’immagine del suo passato, un primo punto di arrivo della sua ricerca: un dolce frammento della sé stessa di tanti anni prima, ancora intatto pur nella distruzione generale.
Un ritrovamento che drammaticamente si accompagna, come si scopre a posteriori, dalla morte fuori scena del suo amato, rendendo tutta la ricerca da questo punto in poi sostanzialmente inutile…
…e viziata da un inganno perpetuo da parte di diversi personaggi che le sottraggono la chiave e che cercano forzatamente di riportare il suo personaggio a quella che era il suo destino originale: la moglie perfetta di un matrimonio infelice.
Scoperta
L’ultimo momento della vita di Chiyoko è, apparentemente, la distruzione.
Ripercorrendo i nuovi orizzonti dell’umanità nello spazio, questo ultimo slancio viene troncato dal riapparire del trauma originario che l’ha perseguitata per tutta la vita, e che la porta a chiudersi definitivamente in sé stessa per mantenere la sua immagine intatta.
Ma l’effettiva e definitiva distruzione degli studios fuori scena è in realtà l’occasione per la riscoperta e la conseguente rinascita: la protagonista si ricongiunge con la misteriosa chiave e finalmente ne comprende il suo importante significato.
Una chiave che serve a Chiyoko quanto al suo stesso paese per non dimenticare il suo passato, per non togliere valore ad un’esperienza sicuramente drammatica come quella del Novecento, che si è rivelata, infine, l’occasione per rinascere da quelle macerie.
Così la protagonista si volge verso un futuro ancora incerto, ma che potrà regalarle molto di più della sofferta reclusione, riscoprendo la bellezza di una ricerca complessa quanto avvincente, in cui il punto di arrivo è, forse, la parte meno importante…