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Aliens – Il sequel muscolare

Aliens (1986) di James Cameron si impegna nel difficile compito di portare un seguito ad Alien (1979), uno dei più grandi cult della fantascienza, riuscendo tuttavia a creare un sequel a tratti ancora più iconico dell’originale, pur con un taglio narrativo ed estetico assai diverso.

Con un budget leggermente superiore al precedente – 18 milioni di dollari, circa 160 oggi – fu ancora una volta un enorme successo commerciale, con un incasso di 130 milioni di dollari (senza considerare le varie re-release negli anni) – circa 346 oggi.

Di cosa parla Aliens?

Dopo mezzo secolo di viaggio nell’ipersonno, Ripley si risveglia in un mondo cambiato e inconsapevole della minaccia degli xenomorfi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aliens?

Sigourney Weaver e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Assolutamente sì.

Aliens è davvero il sequel più indovinato per Alien, anche per la scelta di renderlo molto più digeribile e meno complesso rispetto al capostipite, abbondando con l’azione e le esplosioni, ed inserendo anche una comicità sostanzialmente assente nel precedente.

Insomma, forse artisticamente meno elegante rispetto all’opera di Ridley Scott, nondimeno un’ottima prova per James Cameron, già forte del successo di Terminator (1984), da cui eredita non pochi elementi registici.

Insomma, se amate già Cameron, amerete questa pellicola.

Se al contrario preferivate la complessità di Scott…

L’aggancio perfetto

Sigourney Weaver in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

L’incipit di Aliens è l’aggancio perfetto.

James Cameron era indubbiamente il regista più calzante per creare un sequel che sapesse intercettare il sempre più nutrito fandom del primo capitolo, riuscendo a cogliere gli umori e le aspettative del pubblico.

Il primo colpo di genio è stato spostare la storia diversi anni avanti rispetto al primo – così da non doverne essere troppo dipendente – e, soprattutto, rendere lo spettatore complice della protagonista: come nel primo, nessuno crede a Ripley, ma sia noi che lei sappiamo verso quale pericolo si stanno dirigendo i personaggi.

Allo stesso modo, Cameron è stato molto abile nel riuscire a riprendere l’iconicità della scena del parto, applicandola però a Ripley, andando al contempo a riportare in scena – all’inizio, ma anche nel resto della pellicola – il concetto di maternità mostruosa proprio di Alien, pur in chiave più semplice.

Una nuova atmosfera

Il cambiamento di tono della pellicola l’ho trovato esilarante su più livelli.

Anzitutto, perché Cameron ha avuto la libertà di costruire i personaggi secondari – anzi, secondarissimi – con un background – quello militare – in cui riesce a muoversi con molta scioltezza e familiarità, come dimostrerà anche e soprattutto in Avatar (2009).

Un cambio di passo che, anche se abbandona il concetto dell’eroe comune proprio del precedente film, gli permette anche di alleggerire i toni dal punto di vista drammatico, con dinamiche e battute molto più semplici, ma, al contempo, più godibili.

L’unico problema di questo cambio di passo è come – anche comprensibilmente – si scelga di far diventare Ripley l’assoluta protagonista, rendendo così il film di fatto mancante nella caratterizzazione dei secondari, che diventano in breve tempo semplice carne da macello per gli alieni.

La tensione

Uno degli elementi più vincenti della pellicola è la costruzione della tensione.

Si parte fin dall’inizio con Ripley – e, indirettamente, lo spettatore – che cerca di convincere tutti gli altri dell’esistenza dello xenomorfo, per poi essere coinvolta in una missione di salvataggio di una situazione di cui solo noi e la protagonista conosciamo la gravità.

Gli xenomorfi restano in realtà fuori scena per buona parte del primo e secondo atto, ma sono una presenza invisibile costante: proprio nei silenzi, nei dettagli, nel mutismo di Newt che si percepisce come il pericolo sia proprio dietro l’angolo…

Il picco drammatico è il ritrovamento degli abitanti della colonia, ormai posseduti, nella mente e nel corpo, dalla ancora sconosciuta Madre che porta avanti la sua gestazione proprio grazie a loro, con un breve quanto agghiacciante dialogo con uno dei prigionieri…

Ancora a pezzi

Lo xenomorfo in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Per la gestione degli xenomorfi, Cameron riprende le mosse da Scott, ma sceglie poi anche una via profondamente diversa.

Gli alieni vengono infatti mostrati sempre in contesti in cui quasi spariscono nel buio della scena, con degli angoscianti primi piani – anche ripetuti – sui loro volti, quasi delle soggettive delle vittime prima che vengano brutalmente divorate.

Quindi si sceglie ancora una volta di mostrare il nemico a pezzi, in maniera funzionale a renderlo una presenza costante e sfuggente, sottolineata anche da un ottimo utilizzo del finto documentario, tramite i messaggi estremamente confusi che vengono trasmessi dalle forze sul campo all’astronave.

Tuttavia, al contempo Cameron sceglie di distruggere l’icona dello xenomorfo, i cui rappresentanti vengono sconfitti molto più facilmente rispetto al primo capitolo, smembrati, bruciati, addirittura schiacciati come degli insetti…

…ma per un buon motivo.

La banalità funzionale

Queen Xenomorph e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Sul finale, Cameron inserisce un ultimo elemento fondamentale.

Ripley si pone una giusta domanda, che lo spettatore potenzialmente poteva essersi posto persino in Alien: se ci sono tutte queste uova, chi le sta deponendo?

L’abilità di scrittura in questo caso è nell’inserire questo quesito, e non dare subito una risposta, facendo avvenire l’incontro con la Madre quasi per caso, con un espediente piuttosto semplice ma funzionale: Newt viene rapita.

E così la terribile figura della gestante viene rivelata al pubblico in tutta la sua monumentalità e nel suo aspetto mostruoso, come una macchina che crea dei nemici pericolosissimi per l’uomo, mostrandosi lei stessa come un avversario ancora più micidiale…

Déjà-vu

Sigourney Weaver e Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Il finale di Aliens raccoglie tutta quella tensione quasi sopita per il resto del film.

Nonostante gli xenomorfi sembrino assai minacciosi, lo sono soprattutto perché sono in gruppo, ma in realtà appunto si rivelano per certi versi molto meno pericolosi rispetto al precedente capitolo, dal momento che sono sconfitti più e più volte.

La Madre è invece il nemico finale, e, a differenza dei figli, viene mostrata per la maggior parte del tempo nella sua immensa monumentalità, costruendo la tensione proprio sull’idea che sia un essere gigantesco e apparentemente impossibile da sconfiggere.

Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Tuttavia, il finale è proprio la parte che mi ha meno convinto.

Anche se mi rendo perfettamente conto che sarebbe stato veramente complesso trovare un nuovo modo per annientare un nemico così terrificante e potente, ho trovavo poco indovinata la scelta di far coincidere la sua dipartita con quella del nemico del primo film.

Allo stesso modo mi è ancora meno piaciuta l’idea di utilizzare il medesimo colpo di scena dello xenomorfo apparentemente sconfitto che si nasconde sulla nave.

Infatti, oltre ad essere incredibilmente prevedibile avendo visto Alien, lo è ancora di più nella scena apparentemente tranquilla di Ripley che dialoga con Bishop, che sembra proprio chiamare il plot twist che arriva un momento dopo…

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Alien – La maternità mostruosa

Alien (1979) di Ridley Scott è uno dei film di fantascienza più iconici del suo genere (e non solo), con diversi sequel, prequel e spin-off usciti nel corso degli anni.

Con appena 11 milioni di budget – circa 48 milioni oggi – ebbe un successo incredibile: 184 milioni in tutto il mondo, circa 806 milioni oggi.

Di cosa parla Alien?

20122, Spazio. L’astronave di trasporto Nostromo sta compiendo il viaggio di ritorno verso la Terra, ma un messaggio misterioso bloccherà l’equipaggio su un pianeta sconosciuto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alien?

Assolutamente sì.

Alien è un cult non per caso: nonostante non sia un film particolarmente avvincente – ha dei ritmi assai lenti, soprattutto durante il primo atto – è una meraviglia dal punto di vista dell’innovazione, dell’utilizzo degli effettivi visivi e della regia.

Rappresenta, come il poco antecedente Terrore dallo spazio profondo (1978), un esempio di fantascienza estremamente negativa, in questo caso nettamente orrorifica fin dalla prima inquadratura, riuscendo ad incutere nello spettatore un senso di costante angoscia e paura…

Il vuoto cosmico

L’inizio di Alien è estremamente rivelatorio.

La lunga e lenta sequenza iniziale mostra un’aeronave vuota, immersa nelle tenebre, in cui le poche luci provengono dalle fredde e mute macchine, che sembrano agire nell’ombra, alle spalle degli stessi umani che dovrebbero controllarle…

Particolarmente interessante è l’inquadratura che si sofferma sul casco da astronauta, in cui si riflette freddamente la schermata del computer – o, meglio, di Madre: una macchina che sta elaborando le informazioni in un linguaggio incomprensibile all’uomo, nella lingua delle macchine…

Un’apertura fin da subito angosciante, ancora di più per il contrasto con la sequenza successiva…

I bambini

La scena seguente è una delle poche con un’illuminazione chiara e confortante.

Incontriamo per la prima volta i protagonisti della storia, addormentati, con un abbigliamento che, più che adulti, li fa sembrare dei neonati in fasce, immersi proprio in questo morbido bianco e in una musica stranamente rilassante…

Il tema della maternità ingannevole è presente già nel contrasto fra questa scena e la precedente, e così anche nel modo in cui i personaggi umani si rivelano sempre più dipendenti da Madre: addormentati nel suo ventre, in una sorta di bozzoli, ignari della trama che è stata messa in moto alle loro spalle.

L’apparente delicatezza e familiarità della situazione è ribadita anche dalla scena immediatamente successiva, in cui i personaggi, ancora vestiti di bianco, si riuniscono per la colazione, in una sequenza scarsamente illuminata da una luce fredda, bianca e artificiale.

E, proprio come se fossero nella casa natale, Ash dice a Dallas:

Mother wants to talk to you.

Madre ti vuole parlare.

E non è un caso che proprio Ash inviti il suo compagno umano a recarsi dal computer centrale, con cui ha comunicato in realtà per tutto il tempo, giocando un ruolo centrale nell’avviare il piano, partendo proprio da questo invito apparentemente innocuo.

Le prede

Dallas in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

L’esplorazione del mondo alieno è la sequenza più iconica della pellicola.

In questo caso è la prima volta che Alien assume delle tinte nettamente orrorifiche, con i personaggi che si muovono in un luogo inghiottito da tenebre apparentemente impenetrabili, su cui tentano disperatamente e inutilmente di fare luce.

Invece riescono a rivelare solo qualcosa di incomprensibile.

La scena è ancora più suggestiva se si pensa alla tecnica utilizzata: l’intera sequenza è raccontata tramite l’utilizzo della camera a mano, che mima la trasmissione diretta ed incostante degli esploratori alla nave.

Uovo di Alien in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Particolarmente angosciante è la scoperta dell’iconica cabina di pilotaggio: enorme, incomprensibile, guidata da un essere enorme, ma ormai defunto.

E se un gigante come quello è stato sconfitto…

Ancora più indovinata è la scena della scoperta delle uova, in cui Scott alterna soggettive di Dallas – a volte ancora con la camera a mano – ad inquadrature più ampie che mostrano lo svolgersi del dramma, del personaggio che da esploratore si trasforma in preda.

La voce fuori dal coro

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un film fondamentalmente corale, dal secondo atto in poi una voce si staglia in netto contrasto con tutti gli altri.

Quella di Ripley, la vera protagonista, la final girl ante litteram.

Il suo personaggio è infatti l’unico che cerca attivamente di contrastare le decisioni di Ash, mostrandosi come la più ragionevole del gruppo, pur avendo molte difficoltà ad imporre la propria autorità, contrastata dai ben più irriverenti e testardi personaggi maschili.

Sigourney Weaver, Ian Holm e Yaphet Kotto in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

In questo senso, Alien rappresenta un cambiamento epocale: nella maggior parte dei film di fantascienza precedenti e successivi, il personaggio femminile – se presente – è messo ai margini della scena, è poco attivo, nonché spesso ridotto ad interesse amoroso o a spalla del protagonista maschile.

Invece per tutta la pellicola Ripley è la voce della ragione, l’unica che veramente cerca di imporsi per trovare una soluzione che non comporti la morte dei suoi compagni e l’unica, infine, veramente capace di utilizzare la propria intelligenza per sconfiggere il mostro.

Il parto

Il parto mostruoso è la rivelazione finale.

Dopo essere riusciti a mettere le mani sull’intruso, in un apparente clima di vittoria, il gruppo torna a ricomporre una scena familiare, parallela a quella della colazione iniziale, dove sembra che vada tutto bene.

Invece, con un sapiente crescendo di tensione, la scena svela tutto il suo orrore e la sua drammaticità: il petto di Dallas esplode per far nascere il mostro, in un parto pieno di sangue, morte e orrore.

Così si rivela già anticipatamente la vera natura di Madre e di tutta la situazione: la ciurma non sono i suoi bambini, ma sono delle cavie, delle prede messe a disposizione dello xenomorfo per il guadagno della compagnia.

Uno slasher?

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un cult della fantascienza, contiene alcuni elementi propri dello slasher, sottogenere horror che stava prendendo piede proprio in quegli anni.

Oltre all’emergere della final girl – Ripley – nel terzo atto i personaggi si comportano proprio come i protagonisti di un film horror adolescenziale: scelgono di non fuggire al pericolo, ma di affrontare direttamente il mostro, in maniera sempre più vana e disperata.

E così cominciano a morire uno dopo l’altro, in sequenze semplicemente perfette per la tensione e la messinscena, dove spesso gli unici suoni sono il loro ansimare, il gocciolio dell’acqua, l’eco dei loro passi…

In particolare, Scott fa un uso molto intelligente della fotografia, nascondendo il più possibile il mostro, rivelandolo principalmente per i dettagli più agghiaccianti: una minaccia sfuggente, ma costante.

Sigourney Weaver e xenomorfo in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

E la tensione rimane palpabile fino all’ultimo momento, con anche un colpo di scena ottimamente congegnato: lo spettatore tira un sospiro di sollievo insieme a Ripley quando vede la nave scoppiare – e lo xenomorfo insieme ad essa…

…ma è di nuovo assalito dall’orrore e dall’angoscia quando scopre che il mostro era riuscito a nascondersi.

Ma è proprio in questo momento che Ripley si dimostra la vera eroina della storia, riuscendo a ingannare e infine a sconfiggere il nemico, pur mostrandosi in tutta la sua insicurezza e paura, in cui lo spettatore può facilmente rispecchiarsi…

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Terrore dallo spazio profondo – L’invasione silenziosa

Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman, remake di L’invasione degli ultracorpi (1956), è considerato uno dei migliori film di fantascienza mai realizzati.

A fronte di un budget molto contenuto – 3,5 milioni di dollari, circa 16 oggi – incassò piuttosto bene: 28 milioni di dollari (solo negli Stati Uniti), corrispondenti a circa 122 milioni oggi.

Di cosa parla Terrore dallo spazio profondo?

In un angolo remoto dello spazio, una misteriosa entità discende sulla Terra, camuffandosi fra gli umani…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terrore dallo spazio profondo?

Leonard Nimoy, Donald Sutherland e Jeff Goldblum in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Assolutamente sì.

Confrontandolo con Incontro ravvicinati del terzo tipo (1977), Terrore dallo spazio profondo rappresenta l’altra faccia del genere: una fantascienza che innova il tema dell’invasione aliena, con un taglio molto più orrorifico e pessimistico, per certi tratti quasi un thriller.

Ma la bellezza del prodotto è rappresentata anche dalla sua incredibile regia, con diverse inquadrature di grandissima raffinatezza e artisticità, e una scelta della messinscena e della colonna sonora sempre precisa ed efficace.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio a metà

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

L’inizio di Terrore dallo spazio profondo offre solo le informazioni essenziali per poter mettere lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi.

Inizialmente infatti sappiamo solo che qualcosa di misterioso, senza faccia e senza forma, è piovuto sulla terra nell’aspetto più innocuo possibile: un fiorellino che chiunque di noi avrebbe voglia di raccogliere e conservare in casa.

E così seguiamo brevemente l’ampio gruppo di personaggi e la loro profonda emotività, mentre l’invasione rimane sotterranea e invisibile, riconoscibile solamente per i piccoli particolari, per un primo atto con una tensione perfetta.

Un presentimento

Prima della scoperta – dello spettatore e dei personaggi – dell’effettivo piano degli alieni, il film vive di atmosfere e presentimenti.

Si comincia a percepire che qualcosa è cambiato, che tutto quello che sembra normale, in realtà è profondamente mutato, anche se in maniera quasi impercettibile, con un sublime dialogo fra Elizabeth e Matthew.

Today everything seemed the same, but it wasn’t.

Oggi tutto sembrava uguale, ma non lo era.

Un dialogo, fra l’altro, accompagnato da sequenze che, nella loro semplicità e precisione, rendono perfettamente il senso di angoscia della protagonista, e ci permettono di immergerci nei suoi dolorosi presentimenti oscuri, culminati con un sanguinoso incidente mostrato in tutta la sua brutalità.

Un racconto a cui non solo crediamo, ma in cui possiamo totalmente ritrovarci: un ambiente familiare, definito da elementi riconoscibili, può mutarsi in una realtà irriconoscibile, minacciosa, quando anche solo pochi sguardi sbagliati cambiano tutto…

Invisibile e inarrestabile

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Per gli ultimi due atti Terrore dallo spazio profondo alterna l’angoscia psicologica e al terrore visivo.

L’invasione invisibile è prima di tutto un orrore psicologico, che fa cadere i personaggi nella completa paranoia, davanti alla facilità con cui gli alieni distruggono i corpi umani e li sostituiscono con delle copie perfette.

Inoltre, si introduce un sottile dubbio nella mente dei personaggi e dello spettatore: la specie umana è quella che davvero dovrebbe vivere sulla Terra, visto quanto è dilaniata dalle emozioni che portano gli esseri umani a distruggersi fra di loro?

Al contempo l’orrore visivo è garantito da un uso veramente ottimale degli effetti visivi materiali, che raccontano la rinascita del corpo scegliendo appositamente elementi che provocano disgusto e sconvolgimento, mostrando esseri volutamente contraddittori.

Feti con forma adulta, uomini che nascono da bozzoli…

La chiusura

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

La chiusura di Terrore dallo spazio profondo è magistrale.

Gli elementi del finale vengono introdotti a poco a poco, anzitutto con il tentativo dei protagonisti di ingannare gli alieni, ma essendo continuamente messi alla prova dalla loro profonda debolezza umana, che li rende del tutto schiavi delle emozioni.

Ancora più agghiacciante è la morte e rinascita di Elizabeth, il cui corpo si sfalda fra le braccia di Matthew, per poi mostrarsi di nuovo in una forma quasi primordiale, nuda e senza vergogna, saggia e riflessiva, del tutto in contrasto con il personaggio che era stato finora.

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Il culmine è l’iconico finale, in cui Nancy crede ancora di poter trovare nell’irreprensibile Matthew, l’ultimo uomo in vita, un alleato. E invece, grazie all’incredibile espressività di Donald Sutherland, la donna diviene agonizzante, sommersa dal terribile verso di allarme dell’alieno…

…e, al contempo, dalla consapevolezza della fine dell’umanità.

Terrore dallo spazio profondo regia

Ammetto che, prima di vedere Terrore dallo spazio profondo non conoscevo l’opera di Kaufman – noto anche per altri titoli, come Uomini veri (1983) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988).

Ma in questa pellicola l’ho trovata una regia così elegante ed indovinata che ci tenevo a scrivere un paio di righe per sottolineare gli aspetti che mi hanno colpito di più.

Anzitutto, la profondità dello sguardo.

In non pochi momenti Kaufman sceglie una messinscena con inquadrature molto profonde, sia per creare dei significati visivi, sia per dare maggiore respiro alla scena.

Nel primo caso, vediamo ad esempio nella scena in cui Jack si stende, e in secondo piano scorgiamo il mutante, creando una simmetria visiva che racconta come il personaggio si stia per trasformare:

Per il secondo caso è emblematica è la scena in cui Matthew cerca di chiamare Elizabeth, e, dopo diversi primi piani e particolari, l’occhio della cinepresa si allarga per mostrarci anche quello che succede intorno al personaggio:

Un altro aspetto che ho molto apprezzato della regia è l’uso mai banale delle ombre sul volto dei personaggi, creando delle inquadrature quasi artistiche, che ne sottolineano di volta in volta l’atmosfera tetra e angosciante:

Infine, mi ha fatto impazzire la raffinatezza con cui la regia sporca l’inquadratura con evidenti elementi di disturbo, che si rivelano in realtà ingredienti imprescindibili per delle inquadrature magnifiche:

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Psycho – Il potere dello sguardo

Psycho (1960) è il capolavoro della filmografia di Hitchcock, un film talmente iconico che influenzò inevitabilmente il genere di riferimento – l’horror – in maniera inaspettata…

Eppure al tempo, soprattutto dopo l’accoglienza tiepida di Vertigo (1958), la Universal era ben poco propensa ad investire in un altro film troppo serio, tanto che la pellicola venne finanziata dallo stesso Hitchcock, con un budget abbastanza limitato: appena 806 mila dollari – circa 8 milioni oggi.

E, inaspettatamente, fu il più grande successo commerciale del regista: ben 50 milioni di dollari di incasso – circa 500 milioni oggi – permettendo ad Hitchcock di diventare il terzo azionista della Universal.

Di cosa parla Psycho?

Marion Crane è una modesta impiegata, invischiata in una relazione che non sembra darle vere soddisfazioni. Tutto cambia quando si trova fra le mani una cospicua somma di denaro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Psycho?

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Ovviamente, sì.

Anche se devo ammettere che non è il mio titolo preferito di Hitchcock – prediligo comunque La finestra sul cortile (1954) – è la dimostrazione di come anche il film più povero possa regalare un’esperienza indimenticabile se nelle mani del giusto regista.

Non a caso Psycho è indubbiamente il picco artistico più consistente della filmografia del regista britannico, dove sperimenta in maniera davvero audace, al limite dello scioccante, evitando molte delle autocensure che aveva evidentemente applicato nei precedenti film…

Insomma, una pellicola imprescindibile.

Uno sguardo penetrante

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Dopo gli avvincenti titoli di testa, che già ci immergono nelle atmosfere disturbanti della pellicola, lo sguardo dello spettatore penetra immediatamente la scena.

Ed è già voyeuristico.

Veniamo infatti introdotti ad una sequenza davvero scioccante per i canoni dell’epoca: una coppia che dialoga in uno squallido motel dopo un evidente incontro sessuale, entrambi più nudi di quanto fossero mai stati prima di questo momento i personaggi di Hitchcock.

Tuttavia, la scena ha un sapore fortemente malinconico.

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La coppia è evidentemente insoddisfatta, non potendo altro che vivere questi momenti rubati, senza poter raggiungere la tanto agognata – soprattutto da Marion – accettazione sociale: il matrimonio.

Infatti, nonostante l’evidente erotismo della scena, la protagonista si riveste molto più in fretta rispetto al suo compagno, e cerca insistentemente di ricondurre la loro relazione ad una maggiore rispettabilità sociale: il pranzo con la sorella.

Ma è solo un breve sollievo:

Il matrimonio, almeno per ora, non s’ha da fare.

Un crimine di passione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Perché Marion ruba i soldi?

Nonostante la scena iniziale, nonostante il suo sguardo penetrante, Marion viene subito ricondotta ad un modello di donna rispettabile. Rispettabile quanto infelice, come ci racconta il dolore psicosomatico – l’emicrania – causata proprio dallo stress della sua situazione, la sua trappola.

Quindi, una donna da cui non ci si aspetterebbe un’azione simile.

E infatti la scelta di compiere il furto sembra immediata, senza una vera e propria logica: grazie ad una finezza di montaggio, Marion sembra uscire dall’ufficio ed entrare immediatamente nella stanza dove sta preparando la sua fuga.

E, nonostante qualche sguardo che indugia sulla busta dei soldi, il piano viene comunque messo in atto.

Quindi la motivazione è del tutto impulsiva, una scelta improvvisa per trovare il modo di sfuggire dalla sua trappola, che si può sbloccare appunto solo tramite i soldi, visti i numerosi debiti accumulati da Sam.

Tuttavia, da quel momento in poi le azioni di Marion diventano sempre più imprevedibili, sempre più puramente dettate dalla fretta, dall’irrazionalità, da questo slancio per sfuggire – e più in fretta possibile.

E non si può tornare indietro…

L’accompagnamento al patibolo

La figura del poliziotto è più interessante di quanto si possa pensare.

Soprattutto nella sua apparente illogicità.

L’agente è ancora una volta una figura estremamente voyeuristica – nel suo spiare dentro la macchina di Marion e guardarla dormire, violando uno spazio in un certo senso analogo a quello della scena d’apertura.

Ma è anche un personaggio particolarmente minaccioso.

Da notare in particolare l’anomalia nella rappresentazione del loro dialogo: Hitchcock evade il classico campo-controcampo, con solo Marion che guarda effettivamente fuori campo, mentre il poliziotto è rappresentato da una soggettiva anche piuttosto aggressiva di Marion, in particolare con un primissimo piano.

Janet Leigh e il poliziotto in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Così lo sguardo della protagonista cerca di fuggire, mentre il poliziotto la costringe ad essere punita.

Infatti, se il consiglio dell’uomo di dormire in un motel – come poi accadrà – potrebbe sembrare ironico a posteriori, in realtà è proprio indicativo del ruolo di questo personaggio: controllare che Marion non torni indietro, ma che vada dritta verso il patibolo.

Non a caso, il poliziotto resta immobile fino all’ultimo dall’altro lato della strada, osservando la donna che cambia maldestramente l’auto, agendo come spinta propulsiva alla sua fuga, ma senza cercare ulteriormente di parlarle.

E così Marion viene inghiottita dall’oscurità, mentre all’orizzonte i pali della luce sembrano delle croci…

Passaggio di consegne

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Fino a questo momento, lo sguardo era una prerogativa di Marion.

Invece, all’arrivo all’hotel, Marion comincia impacciatamente a firmare il registro, con una soggettiva che sembra unicamente sua. Invece, quando la macchina da presa stacca, notiamo che anche Norman stava osservando il registro mentre la donna firmava.

Al contempo, Marion non si rende conto del pericolo, non si rende conto dell’indecisione dell’uomo nello scegliere la chiave della camera, andando infine a optare per la stanza N.1, proprio dopo aver notato la sua incertezza…

La più classica omosessualità

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

L’atteggiamento di Norman è comunque impacciato, molto timido, facendolo sembrare apparentemente innocuo.

La voce della Madre, invece, è rivelatoria della sua violenza.

La maternità mostrata è una maternità castrante, che rappresenta la visione molto ingenua e semplicistica che sia aveva ancora negli Anni Sessanta dell’omosessualità, derivata anche dalla visione freudiana.

L’omosessualità, secondo la vulgata, era derivata dall’incapacità di superare il rapporto con la madre, una sorta di Complesso di Edipo mancante del confronto con la figura paterna, che porta infine il bambino cresciuto a voler diventare la madre stessa.

Il tutto si concretizza nella frustrazione sessuale e nella misoginia.

Norman spia Marion mentre si cambia – fra l’altro spostando un quadro rappresentante una vicenda biblica estremamente erotica, Susanna e i Vecchioni.

Ma evidentemente questa visione non suscita nell’uomo quelle sensazioni che la madre, la società e lui stesso si aspettano da lui.

Infatti, se consideriamo la Madre come una voce della coscienza per Norman, le sue parole di disprezzo nei confronti di Marion rappresentano in realtà quello che la genitrice – e quindi Norman – vorrebbe che succedesse, ovvero che l’uomo avesse piacere ad intrattenersi con lei.

E da qui nasce la volontà omicida.

La doppia punizione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La morte di Marion è scioccante per più motivi.

Anzitutto, va contro tutte le regole dello star system dell’epoca, ovvero quella di mantenere in scena la diva fino alle battute finali del film. Ma, anche più importante, non scaturisce dalle azioni della protagonista, ma dai complessi dell’antagonista.

Infatti, l’iconica scena della doccia mima quell’incontro sessuale che non si può consumare e, al contempo elimina, distrugge quel corpo che fa scaturire la vergogna sociale di Norman.

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Su un altro livello, è la prima parte della punizione di Marion.

Nonostante la protagonista si sia evidentemente pentita delle sue azioni e abbia tutta l’intenzione di rimediare, ormai è troppo tardi: è diventata un personaggio troppo problematico, una donna troppo fuori dagli schemi per non essere punita.

E tanto più il suo corpo viene raccontato come sporco, un rifiuto: sia per l’audace parallelismo fra il vortice dello scarico della doccia che si dissolve sul suo occhio, sia per la posizione ingombrante del suo cadavere, sia, soprattutto, per la scena successiva.

Una lunga sequenza che racconta la considerazione del personaggio di Marion – per la società e per Norman – ovvero come qualcosa da eliminare, qualcosa che ha lasciato macchie, sporcizia: va tutto pulito.

Un ossessivo Mac Guffin

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

I soldi sono l’ossessione di Psycho.

Il loro arrivo viene raccontato fin dalla prima scena, e, dalla loro apparizione nella sequenza successiva, sono sempre presenti, anche se scompaiono materialmente. E la macchina da presa indugia a più riprese su questo elemento, anche facendosi beffe dello spettatore.

Perché, alla fine, è solo un Mac Guffin.

I soldi fanno solamente partire la vicenda, ma non sono di fatto importanti come lo spettatore pensa e come i personaggi stessi credono: non sono il motivo effettivo per cui Marion muore, né appunto oggetto del desiderio di Norman.

E, infatti, nonostante la macchina da presa inquadri in maniera molto eloquente il giornale mentre Norman sta pulendo, lo stesso viene afferrato solo all’ultimo e gettato come un rifiuto qualunque nel bagagliaio della macchina…

Lo scioglimento del mistero

Vera Miles in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Lo sguardo è ancora protagonista nella seconda parte.

Nonostante infatti i protagonisti della vicenda siano molto più castigati – in particolare Lila, il totale opposto della sorella – il motore della vicenda è il desiderio di guardare, di penetrare la casa di Norman.

E, soprattutto, di vedere il volto di Norma Bates.

Questa ossessione è insistita per tutto il terzo atto, arrivando fino al climax finale, quando ancora una volta lo sguardo del volto ci è negato: la signora Bates è di spalle. E allora sta a Lila mostrare la verità, diventando una screaming queen ante-litteram…

E, ovviamente il film si chiude con l’inquietante sguardo di Norman direttamente in camera, direttamente nei nostri occhi…

Psycho slasher

Dal successo di Psycho nacquero moltissimi emuli, sia con le opere direttamente collegate – come i tre sequel e il remake shot-by-shot omonimo di Brian De Palma nel 1999 – sia con quelle più indirettamente derivative – come il cult American Psycho (2000).

Ma, soprattutto, Psycho è considerato il progenitore del genere slasher.

Questo sottogenere horror ha inizio canonicamente con Halloween (1979), e con gli altri classici degli Anni Settanta – Ottanta, come Non aprite quella porta (1974) e Venerdì 13 (1980), per poi essere parodiato da Scream (1996) negli Anni Novanta.

E la derivazione da Psycho si riscontra in particolare in tre elementi: il killer, l’ambientazione e la Final Girl.

L’antagonista dell’horror non è più il mostro, ma una persona – solitamente un uomo – che ha una storia familiare e personale complessa alle spalle, proprio come Norman.

Tuttavia, dal mostro di Hitchcock non eredita né l’apparente docilità di Anthony Perkins né la componente sessuale, avvicinandosi anzi più alla figura del mostro classico: un personaggio deformato o col volto nascosto, un reietto sociale, una persona che non si può salvare…

La sua arma è solitamente un’arma bianca – un coltello, la motosega, le cesoie – che non raramente si ricollegano anche allo status sociale o ad un particolare trauma infantile dell’antagonista.

L’ambientazione dello slasher è solitamente un luogo non protetto, privo della componente adulta che controlla, e dove i protagonisti – solitamente belli, bianchi e ricchi – possono fare sostanzialmente quello che vogliono.

Tuttavia, proprio l’ambientazione isolata, da cui non si può fuggire, dà un sapore di maggiore inquietudine e orrore alla storia…

Proprio come il Bates Motel.

Psycho final girl

E, soprattutto, la Final Girl.

La final girl è solitamente il personaggio femminile più esplorato, che si distingue dal resto del gruppo anche per una maggiore maturità e intelligenza, che le permette di rimanere viva fino alla fine.

Quindi un personaggio che eredita l’avvenenza di Marion, la risolutezza di Lila, e lo spirito investigativo di Sam.

In ultimo, la final girl ha l’obbiettivo di sconfiggere, ma soprattutto di smascherare il mostro, a volte aiutata da degli aiutanti maschili che prendono le parti del Sam del finale di Psycho, appunto.

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Vertigo – Giù la maschera!

Vertigo (1958) – noto in Italia con un titolo ben più spoileroso – è una delle opere più importanti ed iconiche della filmografia di Hitchcock.

Un film dove questo regista cominciò davvero a sperimentare con l’elemento orrorifico, poco anni prima di approdare al suo capolavoro, Psycho (1960).

A fronte di un budget medio – 2,3 milioni di dollari, circa 26 oggi – incassò piuttosto bene: 7,3 milioni di dollari – circa 27 milioni oggi.

Tuttavia, l’accoglienza da parte di pubblico e critica fu abbastanza tiepida, e la pellicola venne rivalutata solo successivamente.

Di cosa parla Vertigo?

John Ferguson è un poliziotto in pensione, che si è ritirata per la sua terribile paura delle altezze. E improvvisamente viene coinvolto in una storia piuttosto strana e terrificante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Vertigo?

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Vertigo è una delle sperimentazioni più interessanti della filmografia di Hitchcock, in cui riesce a costruire una tensione eccezionale, e a rendere lo stesso spettatore in qualche modo complice delle vicende raccontate.

Un film in cui l’orrore, il surreale e il thriller psicologico si incontrano, per dare vita ad un’opera incredibilmente coinvolgente e piena di colpi di scena, dove niente è come sembra…

Insomma, non ve la potete perdere.

Via all’orrore

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Un inizio improvviso, orrorifico, ma anche assai rivelatorio, ci immerge immediatamente in Vertigo.

Il sogno – ma anche il ricordo – di John nella fatidica notte in cui perse non solo un collega, ma anche la sua carriera da poliziotto. Una sequenza genuinamente angosciante, che ci racconta in pochi frame la profondità della fobia del protagonista.

Segue un quadretto domestico ben più sereno, dove i colori freddi e opprimenti dell’incipit vengono sostituiti da tinte più delicate e confortevoli, in particolare sul personaggio di Midge.

Ma la tranquillità della scena, che appare quasi comica, viene spezzata sul finale: quando John vuole dimostrare di poter superare la sua paura, un’inquadratura improvvisa ci svela la sua soggettiva sulle altezze vertiginose fuori dalla finestra…

L’inspiegabile

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Il tranello di Gavin – e della regia – è messo in scena alla perfezione.

Lo stesso prima viene introdotto a parole dal marito apparentemente preoccupato, poi Kim Novak riesce efficacemente a portare in scena questa donna malinconica e sfuggente, definita anche dai numerosi particolari del suo alter ego.

Come per Notorious (1946), infatti anche in questo caso Hitchcock mette in risalto i dettagli della scena, accentuando l’intensità delle inquadrature con delle enigmatiche soggettive, che riescono ancora di più ad immergere lo spettatore nella scena.

La donna impossibile

Kim Novak in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Di solito non sono una grande fan del cosiddetto instant love.

Preferisco una costruzione più articolata della nascita dell’amore fra due personaggi, che sia basato su basi ben più solide del classico colpo di fulmine, a cui segue spesso uno sviluppo della relazione molto banale.

Nel caso di Vertigo è una scelta perfetta.

Hitchcock è riuscito a dirigere un’attrice già di una bellezza sconvolgente come Kim Novak, e a portarla in scena come la donna magnetica e irresistibile, di cui è impossibile non innamorarsi…

Per questo, la reazione del protagonista è del tutto giustificata.

Kim Novak in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Altrettanto Hitchcock abilmente riesce a distruggere questa immagine, distorcendo il volto della donna con un trucco che di per sé non la imbruttisce affatto, ma la spoglia di quel candore che la caratterizzava al momento dell’innamoramento, rendendola quasi irriconoscibile.

Il terzo atto è proprio dedicato alla ricostruzione del personaggio.

Dal momento che John si era innamorato di Madeleine per la sua folgorante bellezza, dimostra tutta la sua pericolosa ossessione nel voler toccare e vedere la stessa donna di cui si era innamorato, anche a discapito della felicità di Judy.

Una ricostruzione che è solo l’anticamera dell’inevitabile distruzione…

Giocare con lo spettatore

Barbara Bel Geddes in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

In Vertigo, forse più che in ogni altra sua pellicola, Hitchcock dialoga con lo spettatore.

Anzitutto perché alla fine lo stesso si rende conto che almeno due elementi della trama erano molto meno fondamentali di quanto sembrasse. In primo luogo, Midge, il cui aspetto è molto simile a quello di Kim Novak.

E infatti è proprio il suo personaggio ad instillare il seme del dubbio nello spettatore: e se la tanto cara e innocente amica di John fosse in realtà la stessa Madeleine sotto mentite spoglie?

E invece alla fine si rivela per quello che è: un personaggio sostanzialmente di contorno, che scompare dalla scena nel terzo atto.

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Allo stesso modo Gavin non è altro che l’artefice dell’inganno per sbarazzarsi della moglie, con una trama in cui John è stato coinvolto come mero strumento. Quindi lo stesso personaggio innesca la trama e le conseguenze per John, ma, alla fine del secondo atto, scompare anche lui.

In ultimo Hitchcock sceglie di non affidare la rivelazione del mistero al colpo di scena finale, ma di rendere lo spettatore complice del tranello di Judy, mostrandolo in un momento di debolezza della stessa, che però viene nascosto al protagonista.

In questo modo, il finale ha ancora più effetto.

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Avventura Azione Drammatico Film Horror Scream - Il secondo rilancio Scream Saga

Scream 6 – La maledizione del sequel

Scream 6 (2023) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett è il sesto capitolo della saga horror cult Scream, nonché il secondo film del franchise diretto da questa coppia di registi.

A fronte di un budget superiore rispetto al precedente – 35 milioni – il film ha aperto con 67 milioni di dollari, prospettando un ottimo incasso.

Di cosa parla Scream 6?

Un anno dopo gli eventi di Scream 5, Sam e Tara si sono trasferite a New York insieme agli altri sopravvissuti. Ma la minaccia di Ghostface è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 6?

Dipende.

Nel contesto delle produzioni horror mainstream in genere, è sicuramente ad un livello superiore per messinscena e regia, soprattutto per le scene degli omicidi, piuttosto creative ed originali, e che non scadono mai nell’eccesso o nel cattivo gusto.

Se lo consideriamo invece nel complesso della saga, è uno dei più deboli insieme a Scream 2 (1997): l’elemento metanarrativo, che distingue questi film dal resto dei prodotti del genere di riferimento, è molto più debole e ripesca a piene mani dai precedenti, ma con molto meno mordente.

Inoltre, ci sono non pochi elementi fondamentali della trama che sono spiegati piuttosto sbrigativamente e in maniera anche complessivamente poco credibile, segno di una sceneggiatura probabilmente messa insieme in poco tempo…

Una messinscena da paura

Come per Scream 5, anche per questo capitolo la coppia di registi si conferma capace di tenere alta la tensione e di portare in scena sequenze di grande creatività ed interesse.

Particolarmente memorabile è tutta la sequenza dedicata alla metropolitana, un luogo precario e in cui tutto può crollare da un momento all’altro, con le luci traballanti e una folla di maschere – derivanti anche da altri franchise horror – dietro ognuna delle quali si può nascondere il killer.

Per tutta quella scena la tensione era alta e palpabile.

Non di minore interesse la scena del passaggio fra le finestre con la scala, in cui ogni personaggio rischia la vita per diversi e interminabili minuti. Due scene ottime, possibili proprio grazie all’intelligente scelta di cambiare location e dare al film un sapore molto più urbano e fresco.

Belle idee ma…

Scream 6 è un film pieno di buone idee.

Mi ha particolarmente colpito – almeno sulle prime – la scelta di utilizzare le maschere dei vecchi killer come sorta di countdown. Tuttavia, la stessa è obiettivamente poco credibile e purtroppo anche mal costruita: quanto è improbabile che i personaggi abbiano ottenuto così facilmente non solamente le maschere degli altri Ghostface, ma tutte le prove dei precedenti casi?

Considerando anche che gli omicidi non sono avvenuti a New York…

E la scusa i poliziotti sono facilmente corrompibili non regge…

E ancora di meno è credibile la scena della telefonata al parco, in quanto non viene minimamente spiegato perché il killer avrebbe dovuto chiamare proprio in quel momento. A posteriori era ovvio che l’avrebbe fatto, in quanto il detective Bailey era il mandante degli omicidi, ma ovviamente i personaggi in quel momento del film non potevano saperlo.

In quel caso è evidente che volessero fare una citazione alla scena analoga di Scream 2, ma, ripensandoci a posteriori, risulta veramente poco convincente. Per non parlare dell’idea per cui il detective abbia potuto scambiare il cadavere della figlia con un altro senza che nessuno se ne sia accorto…

Discorso anche peggiore è la scelta dei villain e delle loro motivazioni.

Is this Scream 2?

La scelta dei killer è stato l’elemento che mi ha meno convinto di tutta la pellicola.

Anche se ovviamente il movente è stato sempre ripreso da Scream 2 – in cui il killer principale era la madre di Billy Loomis – manca dell’elemento metanarrativo che lo rendeva effettivamente interessante. Infatti il reveal di Ghostface si basava sull’idea che solitamente i serial killer sono uomini bianchi, e, al contempo, su quanto la stessa Debbie Loomis chiosava:

My motives isn’t as 90s

Il mio movente è molto meno Anni Novanta

Al contrario, il fatto che non solo il padre, ma tutti e due fratelli di Richie si siano prestati a diventare degli spietati serial killer solamente su istigazione del genitore è molto più banale e, paradossalmente, davvero poco credibile e altrettanto poco spiegato.

La pellicola già da sola offriva un sacco di spunti per raccontare qualcosa di ben più interessante: si sarebbe veramente potuto puntare sull’idea di screditare una persona tramite lo shitposting su internet, magari portando il killer ad essere proprio drogato di questi complottismi.

E magari collegandolo in maniera interessante anche alla questione delle maschere rubate…

Sempre le stesse regole

L’inserimento delle regole metanarrative è uno degli elementi che più apprezzo di Scream, persino nel quinto.

In questo caso ho trovato una grande stanchezza al riguardo: le regole o si realizzano solo parzialmente oppure sono fondamentalmente una copia di quelle del secondo e terzo capitolo.

Everything is bigger

Tutto è fatto più in grande

Nonostante sia una regola abbastanza realistica nel contesto delle saghe, non aggiunge di fatto nulla a quanto già detto nei precedenti capitoli, né si vede in realtà un cambiamento così evidente rispetto al precedente film – nonostante la violenza sia indubbiamente molto spinta.

No one is safe, main characters are totally expendable

Nessuno è al sicuro, i protagonisti sono totalmente sacrificabili

Questa regola è fondamentalmente copiata da Scream 3 (2000) e, di nuovo, non aggiunge niente, se non annunciarti che Courteney Cox si è definitivamente stufata di far parte di questa saga. Ma la più paradossale è la seconda regola:

Whatever happen last time, expect the opposite

Qualunque cosa sia successo la scorsa volta, aspettatevi il contrario

Nonostante sia in un certo senso quello che accade – le motivazioni dei Ghostface di questo film sono totalmente l’opposto di quelle del precedente – risulta paradossale perché di fatto sono le stesse di Scream 2

La componente teen

Un aspetto che ho sempre apprezzato di Scream è che non si è mai perso in sottotrame romantiche che non avessero un’effettiva funzione nella trama stessa.

Mi rendo conto che la rivelazione per cui l’interesse romantico di turno sia Ghostface è ormai ridondante: era il punto centrale in Scream, ci si giocava moltissimo in Scream 2 ed era una rivelazione anche molto interessante in Scream 5.

Tuttavia, questo non significa che inserire sottotrame romantiche, che di fatto non servono alla trama, sia una buona idea, anzi.

Tanto più che ho la sensazione che volessero giocare con l’interesse romantico di Sam allo stesso modo che era stato fatto sia per Scream che per Scream 2, ma di fatto manca del tutto della stessa efficacia, oltre a portare in scena un personaggio veramente insipido e dimenticabilissimo.

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2022 Avventura Dramma storico Film Horror Thriller

The Menu – Un piatto (quasi) perfetto

The Menu (2022) di Mark Mylod è un thriller-horror che ha fatto abbastanza parlare di sé verso la fine del 2022. Non ho potuto vederlo in sala, ma l’ho recuperato in streaming, dopo che mi era stato ampiamente consigliato.

E non ne sono rimasta delusa.

Davanti ad un budget abbastanza contenuto di 30 milioni di dollari, ha avuto incassi medi: 76 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Menu?

Tyler porta l’affascinante Margot ad un’esperienza culinaria esclusiva del noto chef stellato. Ma la situazione fin da subito appare disturbante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Menu?

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

In generale, sì.

È un film che ho trovato piacevole e complessivamente ben fatto, che non mi ha solo convinto per un elemento della trama un po’ scricchiolante…

Ma nel complesso è una pellicola assolutamente godibile, un thriller con un taglio decisamente elegante e fascinoso, con attori di primo livello.

L’esperienza esclusiva

Ralph Finnes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Nonostante in diversi punti la pellicola presenti un taglio più corale, la protagonista è assolutamente fondamentale e funzionale per lo spettatore.

Anche se la situazione iniziale è già abbastanza esplicativa da sé, sono le sue occhiate, le sue soggettive che sottolineano due elementi essenziali per la costruzione della tensione: la barca che si allontana e la porta che si chiude.

Proprio ad indicare come questa esperienza sia talmente esclusiva che esclude ogni tipo di via di fuga.

Il pubblico sbagliato

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Margot è fin da subito messa in un rapporto antagonistico con Tyler, che rappresenta uno dei personaggi peggiori che definiscono il mondo della cucina gourmet: l’esaltato superficiale, che si beve qualsiasi cosa che lo chef gli propone.

Al contrario la protagonista è continuamente contraria a questo eccessivo sperimentalismo e cucina concettuale, che non permette davvero di godersi l’esperienza del cibo.

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Ma è una mosca bianca all’interno di una varietà di personaggi secondari che raccontano il pubblico tipico di questo tipo di esperienze: gli arroganti raccomandati, i ricchi annoiati, i critici snob, e via dicendo.

Tutti personaggi che sono il motivo dell’insoddisfazione dello chef, che vorrebbe forse degli adepti al pari dei suoi cuochi, che vivono profondamente l’esperienza che vuole portare in tavola.

Fino ad arrivare agli estremi.

Ma qui nasce il problema.

Il problema della morte

Ralph Fiennes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

L’unico elemento che proprio non mi ha convinto del film è la gestione della morte, la cui inevitabilità viene annunciata fin troppo presto.

Sarebbe stato meglio, secondo me, tenerla in sottofondo, abbastanza evidente da tenere alta la tensione, ma senza rivelarla fino alla fine. Il film avrebbe funzionato comunque, facendo giusto qualche aggiustamento.

Inoltre, non sono riuscita a trovare credibile questa totale sottomissione degli altri chef a Slowik, elemento per cui vengono poste delle buone basi, ma per cui avrei preferito una costruzione più profonda e convincente.

Il piano di Margot

Anya Taylor-Joy e Ralph Fiennes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Nel finale, Margot riesce effettivamente a salvarsi tramite un piccolo trucco.

Fondamentalmente il suo piano per scappare è di giocare allo stesso gioco dello Chef, invece che andargli contro direttamente come gli altri personaggi – e lei stessa fino a poco prima. Così lo riporta con i piedi per terra, comportandosi come si comporterebbe effettivamente in un ristorante, mandando indietro il piatto e chiedendo di portare a casa gli avanzi – come tipico negli Stati Uniti.

E evidentemente Slowik preferisce essere trattato in questa maniera reale, che essere inutilmente e superficialmente esaltato – o non considerato.

E così infatti Margot guadagna la sua libertà

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2022 Avventura Comico Commedia Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Horror Nuove Uscite Film Satira Sociale Surreale

White noise – Un puzzle incompleto

White noise (2022) di Noah Baumbach è una produzione Netflix di genere difficilmente definibile: mischia una sorta di surreale e disaster movie con una forte riflessione di fondo. Dal regista di Storia di un matrimonio (2019) personalmente mi aspettavo un film simile, se non superiore in qualità.

Non è stato così.

Di cosa parla White noise?

Jack è professore di Hitlerologia, facoltà da lui stesso fondata, e vive la sua vita fra il matrimonio apparentemente felice con Babette e il suo successo accademico. Ma qualcosa di inaspettato metterà in moto una serie di eventi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere White noise?

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Probabilmente no.

Il problema di questo film è che non è di per sé un film brutto, ma una bella costruzione con spunti narrativi anche interessanti…che però non vengono effettivamente portati fino in fondo.

Quindi personalmente non mi sento di consigliarlo, perché in ultimo mi ha lasciato con un cattivo sapore in bocca, di aver visto qualcosa di non finito…

Aprire bellissime porte…

Adam Driver, Don Cheadle e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Il primo atto del film racconta una bellissima costruzione tematica, con tre elementi: il fascino dell’incidente stradale, il potere delle icone e la morte.

Il film propone un interessantissimo parallelismo – quasi accademico – fra questi elementi, che sfocia nell’intrigante montaggio alternato in cui Jack viene acclamato per il suo discorso, e si alternano immagini del discorso di Hitler, della folla concitata di Elvis e dell’incidente stradale che sta al contempo avvenendo.

Ero veramente affascinata da questa costruzione e mi aspettavo...

…qualcosa che non è mai arrivato.

…e aprirne altre ancora

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Nel secondo atto il film mette in scena un secondo tassello: l’incidente stradale e la conseguente piccola apocalisse.

Per la maggior parte le scene sono interessanti e ottimamente dirette, con una fotografia pazzesca, costruiscono una discreta tensione, gettano degli spunti di parallelismo uno dei figli di Jake, che intrattiene la folla con un parallelismo ancora una volta con Hitler…

E basta.

Questi semi, insieme a tutti gli affascinanti discorsi iniziali, non portano di fatto a nulla.

Qual è il punto?

Adam Driver n una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Arrivati al terzo atto, ero nella totale confusione.

Mi sembrava che mi mancasse qualcosa, o che stesse per succedere qualcosa che avrebbe dato un senso a tutta la narrazione e a tutto quello che era stato raccontato fino a quel momento. Invece mi sono trovata ancora una volta davanti ad una messinscena veramente interessante, ma che di fatto portava il film ad essere una sorta di narrazione tematica sulla paura della morte.

Elemento che era anche accennato all’inizio, ma che appariva complessivamente l’elemento meno interessante di tutto il racconto.

E la mia confusione si può ben raccontare da una battuta del film stesso:

What’s the point I want to make?

Anderson, sei tu?

Se anche voi avete avuto una strana sensazione di déjà-vu, la motivazione è semplice: per alcuni elementi sembra un film di Wes Anderson.

In particolare, i bambini molto più intelligenti e avuti per la loro età.

E non è così strano se si pensa che Noah Baumbach è stato sceneggiatore di due film di Anderson – Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Fantastic Mr. Fox (2009). Non un aspetto che mi ha dato fastidio di per sé, però un altro elemento utile alla tram fino ad un certo punto…

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Avventura Cinema gelido Cult rivisti oggi Drammatico Film Giallo Horror Recult Thriller

Misery – Un thriller claustrofobico

Misery (1990) è un piccolo cult dell’horror – thriller, diretto da Rob Reiner e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, fra l’altro uscendo pochi anni dopo la sua pubblicazione.

Il titolo italiano è molto spoileroso, quindi, anche se lo conoscete già, eviterò di riportarlo qui.

Un film prodotto con un budget molto limitato, appena 20 milioni, ma che incassò molto bene: 61 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Misery?

Paul Sheldon è uno scrittore di successo, che si ritira in una piccola città di montagna per scrivere il suo nuovo romanzo. Ma questa volta rimarrà coinvolto in una bufera, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Misery?

Assolutamente sì.

Misery è un piccolo thriller ottimamente confezionato – cosa per nulla scontata per un prodotto derivato da King. Ma, d’altronde, da questo regista, già autore di Harry ti presento Sally (1989), non mi aspettavo niente di meno.

Per certi versi è più un thriller che un horror, anche se non mancano le componenti orrorifiche. Più che altro si punta sulla psicologia dei personaggi, già abbastanza spaventosa di suo, ma senza mai eccedere.

Anzi, le scene più violente sono di impatto, ma mai esagerate.

Un’attrice poliedrica

Per una simpatica coincidenza, proprio il giorno prima della mia visione avevo visto Titanic (1997), dove Kathy Bates, qui interprete della terribile Annie, portava in scena un personaggio totalmente diverso.

E mi ha piacevolmente sorpreso come sia un’attrice assolutamente poliedrica.

Nonostante la sua recitazione poteva probabilmente essere smussata, è indubbio che ci abbia regalato una prova attoriale di grande impatto e che riesce a reggere la terrificante dualità del personaggio.

Non a caso, fu premiata come Miglior attrice non protagonista agli Oscar 1991.

L’abito fa il monaco

Quando Annie nostra la sua vera natura maligna e incontrollabile, non è in realtà una grande sorpresa per lo spettatore.

Già il suo character design, se così vogliamo chiamarlo, è di per sé rivelatorio: le camicie e i maglioni stretti fino al collo, i capelli perfettamente pettinati, la croce d’oro al collo. Tutti indizi di una donna che vive per il piacere del controllo e delle sue ossessioni.

E viene anche più arricchito da elementi puramente grotteschi, come il maiale da compagnia e l’arredamento della sua stanza che sembra quello di un’adolescente troppo cresciuta…

Un senso di claustrofobia

Per tutta la pellicola siamo pervasi da un senso di profonda claustrofobia, sopratutto perché per la maggior parte le scene si svolgono in un unico ambiente.

E anche l’esplorazione degli spazi della casa trasmette comunque un importante senso di impotenza e di trappola: come il personaggio, neanche che noi possiamo esplorare al di fuori di quelle quattro pareti.

E, con un paio di plot twist ben posizionati, ecco la ricetta perfetta per un thriller psicologico davvero appassionante.

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Avventura Drammatico Fantascienza Film Horror Il cult di Cronenberg Recult

La mosca – Il cult dei cult

La mosca (1983) è il film assolutamente più iconico della produzione di David Cronenberg, ed è anche un magnifico esempio di come una storia semplicissima nelle giuste mani possa diventare qualcosa di indimenticabile.

E non a caso fu uno dei pochi grandi successi della carriera del regista: davanti ad un budget di appena 7 milioni di dollari, incassò quasi dieci volte tanto: 60 milioni in tutto il mondo.

E divenne immediatamente un cult di genere.

Di cosa parla La mosca?

Seth Brundle è uno scienziato che sta lavorando ad un progetto rivoluzionario: il teletrasporto. Tuttavia, proprio quando sembra andare tutto bene, l’ubriacatura del successo ha la meglio, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La mosca?

Jeff Goldblum in una scena di La mosca (1983) di David Cronenberg

Assolutamente sì.

Fra tutti i film di Cronenberg che finora ho visto, è in assoluto il mio preferito. La trama è di una semplicità devastante, ma molto meno prevedibile di quanto mi aspettassi, ma la parte migliore sono indubbiamente gli effetti visivi, che sono da far girar la testa.

La resa visiva per me è poco sotto a La cosa (1982), un capolavoro in questo senso.

Come considerazione finale sulla produzione fantascientifica-horror di questo regista, ho preferito in generale i momenti in cui Cronenberg si sia impegnato in produzioni con trame più lineari e che puntavano molto sugli effetti visivi e su un ottimo interprete protagonista, come era stato anche in Scanners (1981).

La meraviglia visiva

Jeff Goldblum in una scena di La mosca (1983) di David Cronenberg

I punti forti della pellicola sono indubbiamente il trucco e gli effetti visivi.

Ottimamente gestito il crescendo della trasformazione di Seth: comincia avendo solamente il volto un po’ butterato, poi inizia a trasformarsi mantenendo il suo volto umano, perdendone via via le fattezze, arrivando infine ad uscire dal suo guscio per trasformarsi del tutto in un ibrido uomo-mosca.

La scena della trasformazione entra veramente di diritto nelle più incredibili trasformazioni che io abbia mai visto sullo schermo.

La meraviglia visiva si trova anche in altri elementi della storia, fra cui il liquido corrosivo che Seth vomita e che scioglie letteralmente la carne e permette di staccare facilmente pezzi del corpo.

E ogni cosa che ho visto sullo schermo non mi è mai sembrata finta, nonostante fosse una produzione molto piccola, ma di grande valore.

Un’interpretazione mostruosa

Jeff Goldblum in una scena di La mosca (1983) di David Cronenberg

Come era stato anche per Scanners, era assolutamente necessario anche in questo film avere un ottimo interprete capace di reggere la scena senza sembrare ridicolo o poco credibile.

E per fortuna c’era Jeff Goldblum.

Questo straordinario attore, che raggiunse un’effettiva popolarità solamente dieci anni dopo con la saga di Jurassic Park, all’interno di un’unica pellicola dovette portare in scena personaggi molto diversi, che rappresentano le varie fasi della trasformazione e del cambiamento di comportamento del protagonista.

E ci è riuscito perfettamente.

Passando dall’ossessione di Seth, che subito dopo la trasformazione si comporta come se fosse sotto steroidi, fino al momento in cui diventa in tutto e per tutto un insetto, con gli occhi che saettano drammaticamente da una parte all’altra…

Distruggere i simboli

Geena Davis in una scena di La mosca (1983) di David Cronenberg

Cronenberg ha la fantastica tendenza a distruggere i simboli e renderli mostruosi.

Come in praticamente ogni sua pellicola insista tantissimo sull’elemento della sessualità e i suoi simboli, particolarmente la vagina (nel senso più letterale del termine, ovvero guaina), in Videodrome (1983) come nel recente Crimes of the future (2022).

In questo caso, ricalca il topos della maternità mostruosa.

Per una buona parte del film seguiamo l’angoscia di Veronica per l’idea di avere in grembo una creatura mostruosa, che piano piano si trasformerà in qualcosa di agghiacciante come Seth. Da cui l’iconica sequenza in cui partorisce una larva di mosca, potentissima quando agghiacciante.

La piccolezza dell’uomo

Un tema interessante raccontato dalla pellicola è la piccolezza dell’uomo e la sua autodistruzione nel tentativo di essere un dio.

Così Seth sente di avere fra le mani qualcosa di incredibile e che rivoluzionerà per sempre l’umanità. Ma questo lo porta anche a credere troppo nelle sue capacità. E così anche un elemento piccolo e insignificante, un essere che l’uomo può permettersi di distruggere con colpo di mano, riesce a invece a privarlo della sua umanità e a mettere fine a tutti i suoi sogni.

E paradossalmente i suoi tentativi di ritornare umano, lo portano solo ad esserlo sempre di meno…