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Night & Day of the dead – L’inizio della fine

Night of the living dead (1968) e Day of the dead (1985) rappresentano rispettivamente l’inizio e la fine della trilogia originale degli zombie di George Romero, che ha come perno centrale il ben più famoso Dawn of the Dead (1978).

Rispetto al grande successo commerciale del capitolo mediano, gli altri due film ebbero un riscontro minore, ma comunque positivo: entrambi incassarono intorno ai 30 milioni di dollari, con un budget rispettivamente di 114 mila dollari e di 3,4 milioni.

Di cosa parlano Night & Day of the dead?

Come primo capitolo della saga, in Night of the living dead si racconta l’inizio dell’epidemia zombie e i primi tentativi di arginarla:

Al contrario, il capitolo conclusivo è ambientato negli Anni Ottanta e racconta i tentativi dei pochi sopravvissuti di ricostruire la società umana:

Vale la pena di vedere Night & Day of the dead?

Bub lo zombie in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

In generale, sì.

Partiamo col dire che si tratta di due film molto diversi, sia per taglio narrativo che per tematiche proposte: in Night of the living dead troviamo una poetica ancora acerba, per cui Romero riflette sulla società umana, ma senza aver un target specifico come per Dawn of the Dead.

Al contrario Day of the dead è il film più vicino al capitolo mediano, che rappresenta in maniera anche piuttosto diretta un periodo storico molto lontano per noi, ovvero quello della politica reaganiana, con tutte le conseguenze nella mentalità e nella società con la Guerra Fredda agli sgoccioli e dopo il disastro della Guerra del Vietnam.

Insomma, da vedere.

Night of the Living Dead

Il film è stato interpretato in diverse direzioni, nessuna delle quali secondo me definitiva.

In questa sede, per puro divertissement, ho scelto di abbracciare la lettura sulla Guerra Fredda.

Molto umani

John zombie in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Uno dei grandi meriti di Romero, soprattutto in Night of the living dead, è il riuscire a portare in scena gli zombie con poco.

I non-morti infatti sono definiti esteticamente giusto da pochi tocchi di trucco, mentre l’efficacia dei loro personaggi risiede nell’ottima presenza scenica degli attori, che risultano assolutamente credibili – sicuramente grazie alla direzione piuttosto abile e consapevole di Romero.

In questo senso si apre il primo spunto nei confronti del tema della Guerra Fredda: gli zombie non sono così tanto indistinguibili dagli umani, tanto che nella primissima scena John non riesce a comprendere il pericolo imminente del cimitero, anzi schernisce Barbra per il suo essere spaventata.

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

In questo elemento si può leggere una rappresentazione dell’isteria collettiva che serpeggiava negli anni di una guerra non più materiale, ma principalmente psicologia e di propaganda, in cui per gli statunitensi era davvero semplice dubitare di chiunque e di additarlo come nemico.

Per questo, gli zombie rappresenterebbero appunto i sovietici.

Una storia di uomini

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Come sarà poi anche per Dawn of the dead, il centro della storia non sono gli zombie, ma i personaggi umani.

Di fatto i non-morti sono degli elementi sostanzialmente di contorno, una minaccia presente e pressante, ma che raramente è al centro della scena, ma che anzi è posta ai margini della stessa fino all’ultimo atto, quando l’home invasion ha finalmente la sua esecuzione.

Barbra in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Nei rapporti fra i personaggi dentro la casa si può leggere una rappresentazione dei diversi atteggiamenti nel contesto post-bellico: se infatti da una parte troviamo un Ben che sceglie di stare in prima linea, con lo sguardo puntato sulla minaccia esterna e pronto a combatterla…

…dall’altra Harry insiste nel rifugiarsi nella cantina, che può essere letta come una rappresentazione dei rifugi anti-atomici che non pochi statunitensi avevano dentro le porte di casa, il rifugio estremo all’interno dell’angoscia costante del periodo.

Ma infine nessuna tecnica è vincente.

Divorati dall’interno

Ben in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Le morti dei personaggi sono estremamente esplicative.

Anzitutto la dipartita di Barbra, ormai distrutta dalla nevrosi, che si butta fra le braccia del fratello perduto e tanto ricercato, incapace di accettare che lo stesso è ormai un nemico – ovvero, secondo questa lettura, una spia sovietica.

Altrettanto interessante è la morte di Harry, che cercava un rifugio estremo e sicuro nella cantina, del tutto cieco davanti al pericolo che lui stesso ha in casa – in un altro senso, ignaro di come dei simpatizzanti col nemico fossero proprio dentro le mura domestiche.

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Ma la morte più indicativa è quella di Ben, che sembra essere riuscito a scampare la morte grazie alla sua intelligenza e lucidità, ma che viene abbattuto dai suoi stessi compatrioti, che neanche si sprecano nel controllare che il personaggio sia effettivamente un loro nemico.

Per questa scena si possono prendere due strade interpretative, che in realtà si congiungono: Ben è ucciso da un gruppo di bianchi che utilizzano la situazione solamente come occasione per perpetuare il loro razzismo violento…

…e che al contempo continuano a ricercare il nemico all’esterno, mentre la vera ostilità è interna agli Stati Uniti stessi.

Day of the Dead

Per Day of the Dead la tematica sottostante è più chiara: una critica piuttosto aspra al modello economico e sociale di Ronald Reagan, che all’uscita del film era alla vigilia del suo secondo mandato.

Ricostruire e distruggere

Rodhes in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Day of the dead si apre su un paesaggio desolante, in cui ormai gli zombie dominano il mondo e la civiltà umana è ridotta ad uno sparuto gruppo di personaggi.

Un barlume di speranza rimane nel laboratorio sotterraneo, dove si cerca di trovare una soluzione all’epidemia, ma è che è fin troppo sferzata da un Capitano Rhodes sempre più tirannico.

Nella visione di Romero, questo personaggio rappresenta il peggio della società reaganiana: una corsa alla soluzione facile e veloce, con uno stringente militarismo esaltato come eroico in una società americana appena uscita dalla Guerra in Vietnam e nel pieno della Guerra Fredda.

Il femminile anomalo

Sarah in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Altrettanto indicativo del pensiero reaganiano è il trattamento del femminile.

La Dottoressa Sarah è costantemente osteggiata dalla maggior parte dei personaggi maschili, proprio in quanto donna indipendente e senza figli, condizione che la rende un perfetto bersaglio da umiliare ed insultare.

Il suo personaggio è infatti troppo lontano dall’ideale femminile materno e casalingo, esaltato dalla politica reaganiana, contro invece personaggi femminili fin troppo indipendenti raccontati come il motivo del fallimento del modello familiare.

Proprio per questo Sarah perde tutta la sua dignità davanti agli altri uomini, che la umiliano costantemente per avere una relazione extra-matrimoniale.

Isteria

Bub zombie in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Nel trattamento dedicato agli zombie si può intravedere un racconto piuttosto crudele dell’attività politica reaganiana nei confronti dell’abuso di droghe.

Bub, lo zombie rieducato dal Dottor Logan, potrebbe in questo senso raccontare la figura del tossicodipendente che tenta una via di riabilitazione all’interno di un centro di cura, e così l’epidemia zombie può essere anche letta come un racconto del picco di dipendenza da sostanze che si registrò negli USA in quel periodo.

Rodhes in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Così nell’atteggiamento totalmente ostile di Rhodes si può altresì leggere un racconto della semplificazione di Reagan nella sua lotta all’abuso di droghe, che sostanzialmente risultava nel dividere i cittadini fra buoni e cattivi.

In questo senso Bub agli occhi del Capitano è disgustoso ed irrecuperabile, al punto da sottovalutarlo e così da portare alla morte stessa del suo personaggio, aiutata in gran parte dal preciso colpo di pistola dello zombie, che non lo uccide, ma gli impedisce di fuggire…

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Halloween – Il nuovo horror

Halloween (1978) è uno dei film più importanti della filmografia di John Carpenter, che non solo lanciò la carriera attoriale di Jamie Lee Curtis, ma fu anche uno dei punti di partenza del genere slasher.

La pellicola fu anche un grande successo commerciale: a fronte di un budget veramente minuscolo – appena 700 mila dollari, circa 3 milioni oggi – incassò 70 milioni in tutto il mondo (circa 330 oggi).

Di cosa parla Halloween?

Haddonfield, 1963. Il giovanissimo Michael Myers uccide la sorella a sangue freddo. E quindici anni dopo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Halloween?

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

In generale, sì.

Per quanto non lo consideri uno dei migliori lavori di Carpenter – per il budget e la realizzazione può essere considerato quasi amatoriale – è un film altresì davvero sperimentale, nonché un caposaldo del genere slasher.

Infatti, in Halloween troviamo tutti gli elementi distintivi di questo sottogenere dell’horror, che avrà la sua fortuna negli anni successivi, soprattutto con film come Venerdì 13 (1980) e Nightmare (1984)

Insomma, una pellicola piuttosto fondamentale.

L’origine del male

L’incipit di Halloween è sperimentale quanto iconico.

Tutta la sequenza è filtrata dalla soggettiva di Michael, che si muove nelle ombre sinistre della casa natale, appropriandosi dei due elementi che definiranno il suo personaggio: la maschera e il coltellaccio – ormai iconico sia per Psycho (1960) che, successivamente, per Scream (1996)

E così anche il suo movente, anche se non è mai dichiarato, è tipico dei killer degli slasher: una sorta di purismo e punizione nei confronti delle pulsioni sessuali che Michael non può comprendere e che non può esperire, essendo fin da subito un emarginato sociale.

Lo svelamento infine del volto innocente del bambino omicida racconta la profondità della malvagità del personaggio, alla ricerca di un’identità alternativa dietro cui nascondersi, che in questa scena – e così anche alla fine del film – gli viene violentemente strappata di dosso.

La distinzione del femminile

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

Secondo un sentimento comune al genere, vi è una distinzione del femminile.

I personaggi femminili che circondano la protagonista sono accomunati dall’essere posseduti da un profondo desiderio sessuale, e dall’essere raccontate come ragazze poco serie che non si impegnano nello studio e che vogliono solo divertirsi.

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

Al contrario, Laurie è vestita in maniera piuttosto distintiva, è molto più contenuta nella sua sessualità ed è anzi da associare al modello materno, in quanto è l’unico personaggio che effettivamente si impegna per gestire i bambini fino alla fine.

Proprio per questo all’inizio a lei spetta il ruolo di vedere – a differenza di tutti gli altri – il mostro in agguato, che si nasconde dietro ad ogni angolo, funzione che poi passerà al piccolo Tommy, la cui voce di allarme verrà costantemente ignorata dagli altri personaggi.

Uccidere il sesso

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

L’avversione per il sesso è costante per tutti gli omicidi.

E si accompagna anche ad una certa lascivia dei corpi: la prima vittima, Annie, è costretta a privarsi degli abiti e a rimanere sostanzialmente nuda in scena per moltissimo tempo, e così viene uccisa mentre si sta dirigendo proprio verso il prossimo appuntamento sessuale.

Ma il parallelismo più evidente è l’uccisione di Lynda, che viene strangolata dal fantasma della sua colpa, proprio mentre si trova senza vestiti a letto ad aspettare il fidanzato dopo che la sua passione è stata soddisfatta, proprio come la sorella di Michael all’inizio del film.

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

E, nonostante Laurie non sia associabile a questo modello, il killer con il primo fendente cerca di renderla una vittima lasciva, proprio strappandole parte della camicia e rivelandone la pelle nuda…

Ma proprio per il suo non aderire a quel tipo di ragazza, la protagonista è l’unica capace di usare la propria inventiva per combattere il mostro, con la sua stessa arma o con tecniche improvvisate, non riuscendo a vincere solamente perché il male non si può veramente mai sconfiggere…

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Il villaggio dei dannati – La prole mostruosa

Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter, conosciuto anche come John Carpenter’s Village of the Damned, è il remake dell’omonimo film del 1960.

Nonostante il finale fosse piuttosto aperto, il film fu un tale fiasco al botteghinoappena 9,4 milioni di dollari di incasso a fronte di un budget di 22 milioni – che non se ne sentì più parlare…

Di cosa parla Il villaggio dei dannati?

In una tranquilla cittadina della California un improvviso blackout fa svenire tutti gli abitanti della città. Subito dopo, molte donne si ritrovano improvvisamente incinte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il villaggio dei dannati?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Dipende.

Il villaggio dei dannati purtroppo non si può annoverare fra le migliori opere del maestro dell’horror americano, in particolare per via di una sceneggiatura estremamente debole e difettosa – e, infatti, non opera di Carpenter – pur a fronte di un primo atto salvato da una regia ed un montaggio ben pensati.

Uno di quei film da vedere senza farsi aspettative, ma magari rimanendo intrattenuti dall’assurdità delle svolte narrative e dall’incubo degli effetti speciali – ingiustificabili davanti ad un The Thing (1982) di pochi anni prima.

Insomma, abbastanza dimenticabile, ma non tutto da buttare.

Un buon inizio

Il primo atto de Il villaggio dei dannati è il meglio riuscito.

La tranquillità della fiera cittadina viene stravolta da un blackout improvviso, senza che ci sia alcun tipo di preparazione in merito, riuscendo effettivamente a prendere contropiede lo spettatore, con anche una regia piuttosto indovinata.

Altrettanto azzeccato è il montaggio successivo, in cui si susseguono diverse scene con dialoghi spezzati, in cui le donne del paese scoprono della loro improvvisa gravidanza, con alternanza di gioia e di profonda angoscia, sopratutto da parte del pensieroso Dottor Alan.

Lo scambio fra il suo personaggio e Jill fa da prologo ad un’inquietudine che serpeggia costante anche nei momenti subito successivi, a fronte di una scena anche troppo realistica in cui il governo prende i cittadini per il portafoglio, riuscendo a renderli protagonisti del suo piccolo esperimento scientifico.

Così, al netto degli effetti speciali tremendi, la prima vittima di questi terribili bambini è al centro di una scena complessivamente ben raccontata, in cui il terrificante potere dei neonati nel controllare la volontà degli adulti viene mostrato in tutta la sua drammaticità.

Ma i problemi cominciano dopo.

Una terrificante ingenuità

Kirstie Alley in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Per ovvie necessità di sceneggiatura, i bambini demoniaci non potevano rimanere neonati…

…ma è assurdo come gli adulti si comportino con loro.

Sarebbe bastata una linea di sceneggiatura per raccontare la crescita vertiginosamente veloce di questi infanti, così da superare il pesante problema della poca credibilità del secondo atto: se i bambini sono cresciuti naturalmente, dovrebbero ormai essere passati quantomeno dieci anni…

…e così non è verosimile che gli adulti – non invecchiati neanche di un minuto – sembrino raggiungere la consapevolezza della pericolosità di questi personaggi solamente a questo punto, come se prima il pericolo non fosse visibile.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’unica parte che effettivamente funziona di questo atto centrale è lo scambio fra i bambini e la Dottoressa Susan – il personaggio più magnetico della pellicola – e il terribile incidente oculistico, che mostra come queste creature siano davvero vendicative e senza pietà.

Al contempo, Carpenter ebbe la fortuna di lavorare con dei bambini piuttosto abili nel reggere la parte, particolarmente la brillante Lindsey Haun, che interpreta la terribile Mara – in un certo senso il villain principale della pellicola.

Poi, il delirio.

Repetita iuvant?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’atto finale presenta due problemi principali.

Anzitutto, la terrificante ripetitività delle scene: a fronte dei primi incidenti – i due con protagonista Barbara e l’accecamento – i successivi attacchi dei bambini risultano incredibilmente monotoni sia per la messinscena che per le dinamiche.

Sembra, insomma, di vedere per diverse volte la stessa scena.

E, ancora una volta, i personaggi – ad eccezione del Dr. Alan – sembrano solamente carne da macello, totalmente ignari dei poteri dei bambini e così incapaci di combatterli o anche solo di evitarli per non morire tutti nella stessa stupida maniera.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Proprio su questa linea, i personaggi principali sono riportati in scena e fatti morire quasi a casaccio, e senza che la loro storia abbia un particolare significato – nello specifico, l’inutile dipartita del Reverendo George.

Particolarmente sprecata la morte della Dottoressa Susan, la cui scoperta della vera natura delle creature cade quasi nel dimenticatoio, all’interno dello scontro finale fra il Dr. Alan e i bambini che sembra più puntare sulla tensione che sull’essere effettivamente interessante.

E per fortuna il finale aperto non ha mai avuto un seguito…

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The Thing – Il nemico è fra noi.

The Thing (1982) è una delle opere più note della filmografia di John Carpenter, nonché il secondo capitolo della sua proficua collaborazione con Kurt Russell dopo 1997: Fuga da New York (1981).

A fronte di un budget stimato di quindici milioni di dollari – circa 55 oggi – non ebbe un grande riscontro al botteghinoappena 19 milioni negli Stati Uniti – anche per la grande concorrenza di film come E.T. usciti nello stesso periodo.

Di cosa parla The Thing?

Un gruppo ricercatori statunitensi assiste attonito alla caccia di un elicottero contro un cane apparentemente indifeso. Ma l’orrore è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Thing?

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

Assolutamente sì.

The Thing è un classico della filmografia di Carpenter, una delle migliori prove come regista, oltre ad essere un incredibile prodotto nella resa visiva, con un reparto di effettistica che ha fatto la storia del cinema per la sua creatività ed iconicità.

Inoltre, come il precedente Alien (1979), The Thing fu un altro ottimo esempio di come fantascienza e orrore potessero portare ad un connubio vincente se messe nelle mani del giusto autore, con una tensione palpabile ad ogni scena…

Un’ombra

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

L’orrore di The Thing viene da lontano.

I protagonisti e lo spettatore si trovano ugualmente attoniti davanti alla tentata uccisione di quel cane così apparentemente innocuo, e così davanti all’aggressività ingiustificata del norvegese – la cui incomprensibilità della lingua porterà alla sua stessa morte.

Questa dissonanza fra l’amabilità dell’animale e la violenza che gli viene rivolta è un primo indizio della vera natura di questa figura, che si muove liberamente nella base per fin troppo tempo, in particolare nella scena in cui entra nella stanza di Clark, di cui si vede solo l’ombra…

E quando infine viene rinchiuso, assistiamo alla prima esplosione di violenza, in cui tutta la crudezza e l’orrore del mostro vengono rivelati in un essere con un aspetto indefinito, composto da carne viva che si plasma in un puzzle incomprensibile…

Al sicuro?

La progressiva scoperta della vera natura del nemico si accompagna ad un’apparente sicurezza.

I personaggi si trovano davanti ad un orrore che si è già formato, ad una tragedia che si è già svolta, e che rappresenta uno dei migliori esempi di fantascienza negativa del periodo, insieme al già citato Alien – di cui condivide anche alcune dinamiche del primo atto.

Ma l’annientamento apparente della creatura e lo studio della stessa offrono un breve momento di pace e sicurezza…

…prima dell’inizio del vero orrore: scoprire che la creatura è molto più viva di quanto sembri, pronta ad attaccare, e la portata del pericolo per l’umanità stessa è la miccia per un’esplosione di violenza che percorrerà tutto il resto della pellicola.

Gatto e topo

Da questo momento in poi è una caccia al gatto e al topo.

La tensione è scandita da un’inquietudine più sotterranea, per cui il pericolo è sempre dietro l’angolo, per cui quel volto amico può essere solo una maschera che cela una realtà mostruosa, pronta a rivelarsi in qualsiasi momento, e senza preavviso…

Infatti, tutti i momenti in cui i personaggi cercano di gestire lucidamente la situazione non sono che i prologhi di scoppi di violenza incontrollabile: così l’esame del sangue che svela il traditore, così il tentativo di rianimare Norris, il cui petto si apre in una bocca mostruosa…

E, in ultimo, la soluzione è solo una.

Una sola strada

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

Nel finale, sia il nemico che i protagonisti possono solo uscire di scena.

Il mostro si rende conto che la lotta non può avere né vincitori né vinti, che non è possibile salvarsi davanti ad un gruppo di antagonisti così scatenati e che non si fermano davanti a nulla, e che non gli permetteranno mai di uscire vivo da questa situazione…

…ed infatti gli stessi capiscono che salvarsi è diventato di fatto impossibile, e che l’unica via è immolarsi per il salvataggio degli altri, dell’umanità tutta, quindi di utilizzare tutte le armi a disposizione, anche le più distruttive, per mettere fine alla terribile minaccia.

Di particolare eleganza il finale, in cui gli unici due superstiti si spartiscono una bottiglia di alcol, ormai del tutto provati dalla battaglia, ridendo con un’ironia amara che maschera l’angosciosa consapevolezza di star morendo senza aver la certezza della vittoria.

Perché The Thing

The Thing rappresenta una tendenza piuttosto ingegnosa della fantascienza e dell’horror del periodo:

Non dare un nome agli antagonisti.

Nello specifico la creatura di Carpenter si incasella fra l’alieno senza nome di Alien e l’iconico villain di Stephen King, It: come il diabolico pagliaccio è chiamato semplicemente con un pronome neutro, così il mostro di The Thing è chiamato appunto thing, cosa

In tutti e tre i casi infatti i protagonisti positivi sono degli eroi comuni – e per questo molto vicini allo spettatore – che si ritrovano a combattere contro qualcosa di indefinito ed indefinibile

…e che, con questi non-nomi, raccontano l’immediatezza dell’identificazione del nemico: qualcosa a cui non sanno dare un nome.

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Season of the Witch – Evasione

Season of the Witch (1973), rilasciato più volte e con diverse edizioni e titoli – Jack’s wife e poi Hungry wives – è una delle opere minori e meno conosciute di George Romero.

Con meno di un milione di dollari di budget, ebbe un riscontro al botteghino sconosciuto.

Di cosa parla Season of the Witch?

Joan è una casalinga sola ed annoiata, che vive nell’ombra del marito assente, ma che avrà un’occasione per riscattarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Season of the Witch?

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

In generale sì.

Anche se è un’opera minore della filmografia di Romero, già qui si trova l’impostazione alla base del successivo Dawn of the dead (1978): utilizzare l’elemento horror per raccontare una tematica sociale, con anche un crudo realismo, nonostante la presenza dell’elemento fantastico.

Una pellicola indubbiamente complessa, quasi surreale, in cui la lettura simbolica è centrale, mentre l’elemento più strettamente narrativo risulta più secondario e quasi del tutto funzionale al significato complessivo del film.

Insomma, da riscoprire.

Incasellamento

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Il sogno iniziale definisce perfettamente il senso di angoscia della protagonista.

Portata al guinzaglio dal marito – letteralmente e metaforicamente – Joan vede la sua vita passargli davanti, definita da una serie di elementi – la figlia ribelle, le amiche con cui sparlare – che sembrano tutti cuciti su misura per la casalinga perfetta.

Una casalinga che però è sempre di più abbandonata a sé stessa, che ha perso i punti di riferimento che definivano il suo mondo come madre e moglie devota – il marito assente e la figlia ormai cresciuta ed indipendente.

Tuttavia, c’è una via di fuga.

Allo specchio

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Fin dall’inizio Joan ha l’alternativa davanti agli occhi.

Ricercando continuamente la sua identità perduta nel suo riflesso, la protagonista vi trova invece un’altra donna: una figura molto più invecchiata, austera, che le ricambia lo sguardo magnetico, tentandola verso una via alternativa.

Ovvero, quella della stregoneria.

Come per gli zombie in Dawn of the Dead, anche in questo caso l’elemento fantastico è del tutto simbolico: essere una strega non significa tanto compiere delle magie, ma piuttosto essere capace di evadere la quotidianità opprimente, e trovare un proprio soddisfacimento personale.

E gli stimoli sono fin troppo evidenti.

Evadere e invidiare

Il percorso di evoluzione di Joan passa per alcuni momenti fondamentali.

Anzitutto, la scena in cui salva Shirley, che esprime ad alta voce le angosce della protagonista stessa: aver ormai superato l’età della giovinezza e della bellezza, ed essere ormai un puro accessorio del marito – che l’aspetta in casa come un’ombra opprimente controluce…

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Poi, il momento in cui Joan entra in casa e sente l’amplesso fra la figlia e Gregg: percepito inizialmente come insopportabile, lentamente diventa lo spunto per la riscoperta la propria sessualità, nonostante il senso di vergogna che le fa provare Nikki quando la scopre e decide per questo di abbandonarla.

A questo segue il momento più umiliante per la protagonista, in cui le viene attribuita la colpa della fuga della figlia – anche se indirettamente – portando il marito a metterle le mani addosso in maniera violenta, a facendola sentire ancora più cagna di quanto si sentiva nei suoi sogni…

Il vero nemico

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Il terzo atto è un connubio fra sesso e violenza.

Anzitutto Joan utilizza i suoi neo acquisiti poteri stregoneschi per procacciarsi un amante, e non a caso sceglie Gregg, che ricollega indirettamente alla felice ed indipendente giovinezza della figlia, capace di non legarsi sentimentalmente ad un uomo per avere del piacere sessuale.

Al contempo, il sogno ricorrente del terzo atto rappresenta la sua vergogna.

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

la figura diabolica che la perseguita, che cerca di penetrare nella casa e di farle violenza – tipico simbolo del senso di colpa femminile nel godimento della sessualità – è imperscrutabile e impedisce alla protagonista di capire chi è il vero nemico.

Lo svelamento avviene quando Joan uccide per sbaglio il marito, che scambia – o forse riconosce – come un intruso che la vuole aggredire, riuscendo così a liberarsi dal vero autore della sua angoscia, diventando così una donna libera e consapevole.

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Dawn of the Dead – I veri mostri

Dawn of the Dead (1978) di George Romero – in Italia uscito con il titolo di Zombi, ma spesso noto con nome di L’alba dei morti viventi – è probabilmente lo zombie movie più famoso della storia del cinema.

Purtroppo con la traduzione italiana si perse il senso di progressione della trilogia di Romero, cominciata nel 1968 con The Night of the Dead e continuata nel 1985 con The Day of the Dead.

Un prodotto che ebbe numerosi sequel e remake – in particolare quello di Zack Snyder del 2004 col titolo omonimo – parodie – lo splendido Shaun of the Dead (2004) di Edward Wright – nonché numerose citazioni e omaggi – non ultima quella di South Park in Illogistico (9×22).

Di cosa parla Dawn of the dead?

Dopo lo scoppio di una misteriosa pandemia che fa rinascere i morti, uno sparuto gruppo di sopravvissuti si rifugia in un centro commerciale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dawn of the dead?

Assolutamente sì.

Dawn of the Dead non è solamente un classico del genere horror, ma soprattutto un unicum per gli zombie movie.

Infatti, sotto l’apparenza di survival movie, si cela una ben più aspra critica agli Stati Uniti degli Anni Settanta e, più in generale, al consumismo e al capitalismo occidentale imperante.

Oltre a questo, la pellicola si distingue per un apparato tecnico davvero superbo, in particolare per un’effettitistica che si può annoverare fra le migliori di quegli anni, insieme ad Alien (1979) ed a La Cosa (1982).

Insomma, un film imperdibile, che fa riflettere ancora oggi.

Un assaggio

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Dawn of the dead, essendo un sequel, parte subito di corsa.

La pandemia è già iniziata, il pericolo è alle porte, e questo primo breve atto consente allo spettatore di avere un assaggio dell’orrore e della violenza così crudelmente materiale della pellicola, che non manca di mostrarci fiumi di sangue e membra strappate a morsi.

Questa mancanza di un’introduzione all’orrore è in realtà incredibilmente funzionale al messaggio del film, basato proprio sull’assenza di un’effettiva distinzione fra il prima e il dopo, fra gli zombie assetati di carne umana e gli umani stessi…

La fame

Se banalmente sembra che gli zombie vogliano, nella più classica delle tradizioni del genere, mangiare i cervelli e le carni dei sopravvissuti, in realtà lo scambio fra i protagonisti sul perché i non morti si dirigono in un centro commerciale è rivelatorio della loro vera fame:

They don’t know why, they just remember. Remember that they want to be in here.

Non sanno perché, ricordano solamente che vogliono essere qui.

Difatti il centro commerciale era una novità negli anni dell’uscita della pellicola…

…ed è il tipo di spazio che è definito come non-luogo: una realtà artificiosa, che mima le atmosfere di una piccola città – la piazza, i palazzi, i ristoranti – ma che in realtà è solo un meccanismo pensato per far alimentare la voracità consumistica dei suoi avventori.

Una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Di fatto il cliente quando entra in questi luoghi non ha bisogno di uscirne, non vuole di fatto farlo, perché vi trova tutto quello di cui ha bisogno, bombardato costantemente da nuovi stimoli a spendere, ad acquisire nuovi oggetti senza che questi siano di fatto necessari…

Per questo è ancora più indicativa la definizione che viene data dei non morti:

These creatures are nothing but pure, motorized instinct.

Queste creature non sono altro che puro istinto motorizzato.

Quindi gli zombie non sono altro che gli statunitensi stessi, del tutto lobotomizzati e incapaci di pensare razionalmente, schiavi di un desiderio consumistico insaziabile, che, persino da morti, li porta ad invadere questo luogo…

I veri mostri

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Se gli zombie sono dei personaggi quasi comici, financo grotteschi, per il loro modo di comportarsi e la musica che spesso accompagna le loro scene, il vero focus del film sono i protagonisti umani.

È come se, provocatoriamente, Romero ci chiedesse: i non morti e i sopravvissuti sono tanto diversi?

Anche se apparentemente sembra di sì, in realtà i protagonisti scelgono il centro commerciale come luogo in cui rifugiarsi non perché sia la scelta migliore in quel momento, ma perché irrazionalmente attratti dalla quantità di beni a disposizione, anche se questi non sono minimamente utili alla loro sopravvivenza.

Scott H. Reiniger in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

E per questo si mettono costantemente in pericolo, divertendosi come dei bambini a scorrazzare per i corridoi e gli infiniti negozi del centro, al punto da ricreare in un certo senso i loro spazi quotidiani – una casa perfettamente arredata – ma che, proprio come il centro commerciale, sono del tutto fittizi e artificiosi.

Un ulteriore spunto riflessivo sulla contemporaneità è suggerito dal terrificante contrasto fra le scene gioiose, quasi comiche, dei protagonisti che uccidono gli zombie ed esplorano gli spazi, e la crudeltà delle uccisioni, sbudellamenti, abbuffate che portano la maggior parte dei personaggi alla morte.

Con questo contrasto Romero racconta degli Stati Uniti affogati nel sogno capitalista e consumista, che si nutre di questo ideale totalmente illusorio, beandosi di una realtà alternativa e dimenticandosi gli orrori di cui è circondata – nel film gli zombie, nella realtà la guerra, la criminalità, il degrado sociale…

L’ossessione del possesso

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

La drammaticità dell’ossessione per il possesso e il consumismo viene ancora più svelata nell’atto conclusivo.

I protagonisti vengono attaccati e devono difendersi, ma la lotta da nessuna delle due parti è per la sopravvivenza, ma piuttosto per, ancora una volta, una smania di possesso, che porta a delle scene veramente disturbanti…

…come i bikers che strappano gli anelli dalle mani degli zombie, l’ilarità quando si impossessano di soldi che ormai non hanno alcun valore e, soprattutto, la frase pronunciata da Stephen mentre punta il fucile contro gli intrusi:

It’s ours, we took it.

È nostro, lo abbiamo conquistato.

I protagonisti quindi sono incapaci di pensare lucidamente, del tutto dipendenti da questo mondo scintillante e pieno di false promesse, tanto che Peter dice esplicitamente di non volersene andare, e sceglie solo infine di seguire Fren, le cui parole riecheggiano dolorose per tutto il terzo atto:

What have we done to ourselves.

A che cosa ci siamo ridotti.
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Aliens – Il sequel muscolare

Aliens (1986) di James Cameron si impegna nel difficile compito di portare un seguito ad Alien (1979), uno dei più grandi cult della fantascienza, riuscendo tuttavia a creare un sequel a tratti ancora più iconico dell’originale, pur con un taglio narrativo ed estetico assai diverso.

Con un budget leggermente superiore al precedente – 18 milioni di dollari, circa 160 oggi – fu ancora una volta un enorme successo commerciale, con un incasso di 130 milioni di dollari (senza considerare le varie re-release negli anni) – circa 346 oggi.

Di cosa parla Aliens?

Dopo mezzo secolo di viaggio nell’ipersonno, Ripley si risveglia in un mondo cambiato e inconsapevole della minaccia degli xenomorfi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aliens?

Sigourney Weaver e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Assolutamente sì.

Aliens è davvero il sequel più indovinato per Alien, anche per la scelta di renderlo molto più digeribile e meno complesso rispetto al capostipite, abbondando con l’azione e le esplosioni, ed inserendo anche una comicità sostanzialmente assente nel precedente.

Insomma, forse artisticamente meno elegante rispetto all’opera di Ridley Scott, nondimeno un’ottima prova per James Cameron, già forte del successo di Terminator (1984), da cui eredita non pochi elementi registici.

Insomma, se amate già Cameron, amerete questa pellicola.

Se al contrario preferivate la complessità di Scott…

L’aggancio perfetto

Sigourney Weaver in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

L’incipit di Aliens è l’aggancio perfetto.

James Cameron era indubbiamente il regista più calzante per creare un sequel che sapesse intercettare il sempre più nutrito fandom del primo capitolo, riuscendo a cogliere gli umori e le aspettative del pubblico.

Il primo colpo di genio è stato spostare la storia diversi anni avanti rispetto al primo – così da non doverne essere troppo dipendente – e, soprattutto, rendere lo spettatore complice della protagonista: come nel primo, nessuno crede a Ripley, ma sia noi che lei sappiamo verso quale pericolo si stanno dirigendo i personaggi.

Allo stesso modo, Cameron è stato molto abile nel riuscire a riprendere l’iconicità della scena del parto, applicandola però a Ripley, andando al contempo a riportare in scena – all’inizio, ma anche nel resto della pellicola – il concetto di maternità mostruosa proprio di Alien, pur in chiave più semplice.

Una nuova atmosfera

Il cambiamento di tono della pellicola l’ho trovato esilarante su più livelli.

Anzitutto, perché Cameron ha avuto la libertà di costruire i personaggi secondari – anzi, secondarissimi – con un background – quello militare – in cui riesce a muoversi con molta scioltezza e familiarità, come dimostrerà anche e soprattutto in Avatar (2009).

Un cambio di passo che, anche se abbandona il concetto dell’eroe comune proprio del precedente film, gli permette anche di alleggerire i toni dal punto di vista drammatico, con dinamiche e battute molto più semplici, ma, al contempo, più godibili.

L’unico problema di questo cambio di passo è come – anche comprensibilmente – si scelga di far diventare Ripley l’assoluta protagonista, rendendo così il film di fatto mancante nella caratterizzazione dei secondari, che diventano in breve tempo semplice carne da macello per gli alieni.

La tensione

Uno degli elementi più vincenti della pellicola è la costruzione della tensione.

Si parte fin dall’inizio con Ripley – e, indirettamente, lo spettatore – che cerca di convincere tutti gli altri dell’esistenza dello xenomorfo, per poi essere coinvolta in una missione di salvataggio di una situazione di cui solo noi e la protagonista conosciamo la gravità.

Gli xenomorfi restano in realtà fuori scena per buona parte del primo e secondo atto, ma sono una presenza invisibile costante: proprio nei silenzi, nei dettagli, nel mutismo di Newt che si percepisce come il pericolo sia proprio dietro l’angolo…

Il picco drammatico è il ritrovamento degli abitanti della colonia, ormai posseduti, nella mente e nel corpo, dalla ancora sconosciuta Madre che porta avanti la sua gestazione proprio grazie a loro, con un breve quanto agghiacciante dialogo con uno dei prigionieri…

Ancora a pezzi

Lo xenomorfo in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Per la gestione degli xenomorfi, Cameron riprende le mosse da Scott, ma sceglie poi anche una via profondamente diversa.

Gli alieni vengono infatti mostrati sempre in contesti in cui quasi spariscono nel buio della scena, con degli angoscianti primi piani – anche ripetuti – sui loro volti, quasi delle soggettive delle vittime prima che vengano brutalmente divorate.

Quindi si sceglie ancora una volta di mostrare il nemico a pezzi, in maniera funzionale a renderlo una presenza costante e sfuggente, sottolineata anche da un ottimo utilizzo del finto documentario, tramite i messaggi estremamente confusi che vengono trasmessi dalle forze sul campo all’astronave.

Tuttavia, al contempo Cameron sceglie di distruggere l’icona dello xenomorfo, i cui rappresentanti vengono sconfitti molto più facilmente rispetto al primo capitolo, smembrati, bruciati, addirittura schiacciati come degli insetti…

…ma per un buon motivo.

La banalità funzionale

Queen Xenomorph e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Sul finale, Cameron inserisce un ultimo elemento fondamentale.

Ripley si pone una giusta domanda, che lo spettatore potenzialmente poteva essersi posto persino in Alien: se ci sono tutte queste uova, chi le sta deponendo?

L’abilità di scrittura in questo caso è nell’inserire questo quesito, e non dare subito una risposta, facendo avvenire l’incontro con la Madre quasi per caso, con un espediente piuttosto semplice ma funzionale: Newt viene rapita.

E così la terribile figura della gestante viene rivelata al pubblico in tutta la sua monumentalità e nel suo aspetto mostruoso, come una macchina che crea dei nemici pericolosissimi per l’uomo, mostrandosi lei stessa come un avversario ancora più micidiale…

Déjà-vu

Sigourney Weaver e Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Il finale di Aliens raccoglie tutta quella tensione quasi sopita per il resto del film.

Nonostante gli xenomorfi sembrino assai minacciosi, lo sono soprattutto perché sono in gruppo, ma in realtà appunto si rivelano per certi versi molto meno pericolosi rispetto al precedente capitolo, dal momento che sono sconfitti più e più volte.

La Madre è invece il nemico finale, e, a differenza dei figli, viene mostrata per la maggior parte del tempo nella sua immensa monumentalità, costruendo la tensione proprio sull’idea che sia un essere gigantesco e apparentemente impossibile da sconfiggere.

Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Tuttavia, il finale è proprio la parte che mi ha meno convinto.

Anche se mi rendo perfettamente conto che sarebbe stato veramente complesso trovare un nuovo modo per annientare un nemico così terrificante e potente, ho trovavo poco indovinata la scelta di far coincidere la sua dipartita con quella del nemico del primo film.

Allo stesso modo mi è ancora meno piaciuta l’idea di utilizzare il medesimo colpo di scena dello xenomorfo apparentemente sconfitto che si nasconde sulla nave.

Infatti, oltre ad essere incredibilmente prevedibile avendo visto Alien, lo è ancora di più nella scena apparentemente tranquilla di Ripley che dialoga con Bishop, che sembra proprio chiamare il plot twist che arriva un momento dopo…

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Alien – La maternità mostruosa

Alien (1979) di Ridley Scott è uno dei film di fantascienza più iconici del suo genere (e non solo), con diversi sequel, prequel e spin-off usciti nel corso degli anni.

Con appena 11 milioni di budget – circa 48 milioni oggi – ebbe un successo incredibile: 184 milioni in tutto il mondo, circa 806 milioni oggi.

Di cosa parla Alien?

20122, Spazio. L’astronave di trasporto Nostromo sta compiendo il viaggio di ritorno verso la Terra, ma un messaggio misterioso bloccherà l’equipaggio su un pianeta sconosciuto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alien?

Assolutamente sì.

Alien è un cult non per caso: nonostante non sia un film particolarmente avvincente – ha dei ritmi assai lenti, soprattutto durante il primo atto – è una meraviglia dal punto di vista dell’innovazione, dell’utilizzo degli effettivi visivi e della regia.

Rappresenta, come il poco antecedente Terrore dallo spazio profondo (1978), un esempio di fantascienza estremamente negativa, in questo caso nettamente orrorifica fin dalla prima inquadratura, riuscendo ad incutere nello spettatore un senso di costante angoscia e paura…

Il vuoto cosmico

L’inizio di Alien è estremamente rivelatorio.

La lunga e lenta sequenza iniziale mostra un’aeronave vuota, immersa nelle tenebre, in cui le poche luci provengono dalle fredde e mute macchine, che sembrano agire nell’ombra, alle spalle degli stessi umani che dovrebbero controllarle…

Particolarmente interessante è l’inquadratura che si sofferma sul casco da astronauta, in cui si riflette freddamente la schermata del computer – o, meglio, di Madre: una macchina che sta elaborando le informazioni in un linguaggio incomprensibile all’uomo, nella lingua delle macchine…

Un’apertura fin da subito angosciante, ancora di più per il contrasto con la sequenza successiva…

I bambini

La scena seguente è una delle poche con un’illuminazione chiara e confortante.

Incontriamo per la prima volta i protagonisti della storia, addormentati, con un abbigliamento che, più che adulti, li fa sembrare dei neonati in fasce, immersi proprio in questo morbido bianco e in una musica stranamente rilassante…

Il tema della maternità ingannevole è presente già nel contrasto fra questa scena e la precedente, e così anche nel modo in cui i personaggi umani si rivelano sempre più dipendenti da Madre: addormentati nel suo ventre, in una sorta di bozzoli, ignari della trama che è stata messa in moto alle loro spalle.

L’apparente delicatezza e familiarità della situazione è ribadita anche dalla scena immediatamente successiva, in cui i personaggi, ancora vestiti di bianco, si riuniscono per la colazione, in una sequenza scarsamente illuminata da una luce fredda, bianca e artificiale.

E, proprio come se fossero nella casa natale, Ash dice a Dallas:

Mother wants to talk to you.

Madre ti vuole parlare.

E non è un caso che proprio Ash inviti il suo compagno umano a recarsi dal computer centrale, con cui ha comunicato in realtà per tutto il tempo, giocando un ruolo centrale nell’avviare il piano, partendo proprio da questo invito apparentemente innocuo.

Le prede

Dallas in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

L’esplorazione del mondo alieno è la sequenza più iconica della pellicola.

In questo caso è la prima volta che Alien assume delle tinte nettamente orrorifiche, con i personaggi che si muovono in un luogo inghiottito da tenebre apparentemente impenetrabili, su cui tentano disperatamente e inutilmente di fare luce.

Invece riescono a rivelare solo qualcosa di incomprensibile.

La scena è ancora più suggestiva se si pensa alla tecnica utilizzata: l’intera sequenza è raccontata tramite l’utilizzo della camera a mano, che mima la trasmissione diretta ed incostante degli esploratori alla nave.

Uovo di Alien in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Particolarmente angosciante è la scoperta dell’iconica cabina di pilotaggio: enorme, incomprensibile, guidata da un essere enorme, ma ormai defunto.

E se un gigante come quello è stato sconfitto…

Ancora più indovinata è la scena della scoperta delle uova, in cui Scott alterna soggettive di Dallas – a volte ancora con la camera a mano – ad inquadrature più ampie che mostrano lo svolgersi del dramma, del personaggio che da esploratore si trasforma in preda.

La voce fuori dal coro

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un film fondamentalmente corale, dal secondo atto in poi una voce si staglia in netto contrasto con tutti gli altri.

Quella di Ripley, la vera protagonista, la final girl ante litteram.

Il suo personaggio è infatti l’unico che cerca attivamente di contrastare le decisioni di Ash, mostrandosi come la più ragionevole del gruppo, pur avendo molte difficoltà ad imporre la propria autorità, contrastata dai ben più irriverenti e testardi personaggi maschili.

Sigourney Weaver, Ian Holm e Yaphet Kotto in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

In questo senso, Alien rappresenta un cambiamento epocale: nella maggior parte dei film di fantascienza precedenti e successivi, il personaggio femminile – se presente – è messo ai margini della scena, è poco attivo, nonché spesso ridotto ad interesse amoroso o a spalla del protagonista maschile.

Invece per tutta la pellicola Ripley è la voce della ragione, l’unica che veramente cerca di imporsi per trovare una soluzione che non comporti la morte dei suoi compagni e l’unica, infine, veramente capace di utilizzare la propria intelligenza per sconfiggere il mostro.

Il parto

Il parto mostruoso è la rivelazione finale.

Dopo essere riusciti a mettere le mani sull’intruso, in un apparente clima di vittoria, il gruppo torna a ricomporre una scena familiare, parallela a quella della colazione iniziale, dove sembra che vada tutto bene.

Invece, con un sapiente crescendo di tensione, la scena svela tutto il suo orrore e la sua drammaticità: il petto di Dallas esplode per far nascere il mostro, in un parto pieno di sangue, morte e orrore.

Così si rivela già anticipatamente la vera natura di Madre e di tutta la situazione: la ciurma non sono i suoi bambini, ma sono delle cavie, delle prede messe a disposizione dello xenomorfo per il guadagno della compagnia.

Uno slasher?

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un cult della fantascienza, contiene alcuni elementi propri dello slasher, sottogenere horror che stava prendendo piede proprio in quegli anni.

Oltre all’emergere della final girl – Ripley – nel terzo atto i personaggi si comportano proprio come i protagonisti di un film horror adolescenziale: scelgono di non fuggire al pericolo, ma di affrontare direttamente il mostro, in maniera sempre più vana e disperata.

E così cominciano a morire uno dopo l’altro, in sequenze semplicemente perfette per la tensione e la messinscena, dove spesso gli unici suoni sono il loro ansimare, il gocciolio dell’acqua, l’eco dei loro passi…

In particolare, Scott fa un uso molto intelligente della fotografia, nascondendo il più possibile il mostro, rivelandolo principalmente per i dettagli più agghiaccianti: una minaccia sfuggente, ma costante.

Sigourney Weaver e xenomorfo in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

E la tensione rimane palpabile fino all’ultimo momento, con anche un colpo di scena ottimamente congegnato: lo spettatore tira un sospiro di sollievo insieme a Ripley quando vede la nave scoppiare – e lo xenomorfo insieme ad essa…

…ma è di nuovo assalito dall’orrore e dall’angoscia quando scopre che il mostro era riuscito a nascondersi.

Ma è proprio in questo momento che Ripley si dimostra la vera eroina della storia, riuscendo a ingannare e infine a sconfiggere il nemico, pur mostrandosi in tutta la sua insicurezza e paura, in cui lo spettatore può facilmente rispecchiarsi…

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Terrore dallo spazio profondo – L’invasione silenziosa

Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman, remake di L’invasione degli ultracorpi (1956), è considerato uno dei migliori film di fantascienza mai realizzati.

A fronte di un budget molto contenuto – 3,5 milioni di dollari, circa 16 oggi – incassò piuttosto bene: 28 milioni di dollari (solo negli Stati Uniti), corrispondenti a circa 122 milioni oggi.

Di cosa parla Terrore dallo spazio profondo?

In un angolo remoto dello spazio, una misteriosa entità discende sulla Terra, camuffandosi fra gli umani…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terrore dallo spazio profondo?

Leonard Nimoy, Donald Sutherland e Jeff Goldblum in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Assolutamente sì.

Confrontandolo con Incontro ravvicinati del terzo tipo (1977), Terrore dallo spazio profondo rappresenta l’altra faccia del genere: una fantascienza che innova il tema dell’invasione aliena, con un taglio molto più orrorifico e pessimistico, per certi tratti quasi un thriller.

Ma la bellezza del prodotto è rappresentata anche dalla sua incredibile regia, con diverse inquadrature di grandissima raffinatezza e artisticità, e una scelta della messinscena e della colonna sonora sempre precisa ed efficace.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio a metà

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

L’inizio di Terrore dallo spazio profondo offre solo le informazioni essenziali per poter mettere lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi.

Inizialmente infatti sappiamo solo che qualcosa di misterioso, senza faccia e senza forma, è piovuto sulla terra nell’aspetto più innocuo possibile: un fiorellino che chiunque di noi avrebbe voglia di raccogliere e conservare in casa.

E così seguiamo brevemente l’ampio gruppo di personaggi e la loro profonda emotività, mentre l’invasione rimane sotterranea e invisibile, riconoscibile solamente per i piccoli particolari, per un primo atto con una tensione perfetta.

Un presentimento

Prima della scoperta – dello spettatore e dei personaggi – dell’effettivo piano degli alieni, il film vive di atmosfere e presentimenti.

Si comincia a percepire che qualcosa è cambiato, che tutto quello che sembra normale, in realtà è profondamente mutato, anche se in maniera quasi impercettibile, con un sublime dialogo fra Elizabeth e Matthew.

Today everything seemed the same, but it wasn’t.

Oggi tutto sembrava uguale, ma non lo era.

Un dialogo, fra l’altro, accompagnato da sequenze che, nella loro semplicità e precisione, rendono perfettamente il senso di angoscia della protagonista, e ci permettono di immergerci nei suoi dolorosi presentimenti oscuri, culminati con un sanguinoso incidente mostrato in tutta la sua brutalità.

Un racconto a cui non solo crediamo, ma in cui possiamo totalmente ritrovarci: un ambiente familiare, definito da elementi riconoscibili, può mutarsi in una realtà irriconoscibile, minacciosa, quando anche solo pochi sguardi sbagliati cambiano tutto…

Invisibile e inarrestabile

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Per gli ultimi due atti Terrore dallo spazio profondo alterna l’angoscia psicologica e al terrore visivo.

L’invasione invisibile è prima di tutto un orrore psicologico, che fa cadere i personaggi nella completa paranoia, davanti alla facilità con cui gli alieni distruggono i corpi umani e li sostituiscono con delle copie perfette.

Inoltre, si introduce un sottile dubbio nella mente dei personaggi e dello spettatore: la specie umana è quella che davvero dovrebbe vivere sulla Terra, visto quanto è dilaniata dalle emozioni che portano gli esseri umani a distruggersi fra di loro?

Al contempo l’orrore visivo è garantito da un uso veramente ottimale degli effetti visivi materiali, che raccontano la rinascita del corpo scegliendo appositamente elementi che provocano disgusto e sconvolgimento, mostrando esseri volutamente contraddittori.

Feti con forma adulta, uomini che nascono da bozzoli…

La chiusura

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

La chiusura di Terrore dallo spazio profondo è magistrale.

Gli elementi del finale vengono introdotti a poco a poco, anzitutto con il tentativo dei protagonisti di ingannare gli alieni, ma essendo continuamente messi alla prova dalla loro profonda debolezza umana, che li rende del tutto schiavi delle emozioni.

Ancora più agghiacciante è la morte e rinascita di Elizabeth, il cui corpo si sfalda fra le braccia di Matthew, per poi mostrarsi di nuovo in una forma quasi primordiale, nuda e senza vergogna, saggia e riflessiva, del tutto in contrasto con il personaggio che era stato finora.

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Il culmine è l’iconico finale, in cui Nancy crede ancora di poter trovare nell’irreprensibile Matthew, l’ultimo uomo in vita, un alleato. E invece, grazie all’incredibile espressività di Donald Sutherland, la donna diviene agonizzante, sommersa dal terribile verso di allarme dell’alieno…

…e, al contempo, dalla consapevolezza della fine dell’umanità.

Terrore dallo spazio profondo regia

Ammetto che, prima di vedere Terrore dallo spazio profondo non conoscevo l’opera di Kaufman – noto anche per altri titoli, come Uomini veri (1983) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988).

Ma in questa pellicola l’ho trovata una regia così elegante ed indovinata che ci tenevo a scrivere un paio di righe per sottolineare gli aspetti che mi hanno colpito di più.

Anzitutto, la profondità dello sguardo.

In non pochi momenti Kaufman sceglie una messinscena con inquadrature molto profonde, sia per creare dei significati visivi, sia per dare maggiore respiro alla scena.

Nel primo caso, vediamo ad esempio nella scena in cui Jack si stende, e in secondo piano scorgiamo il mutante, creando una simmetria visiva che racconta come il personaggio si stia per trasformare:

Per il secondo caso è emblematica è la scena in cui Matthew cerca di chiamare Elizabeth, e, dopo diversi primi piani e particolari, l’occhio della cinepresa si allarga per mostrarci anche quello che succede intorno al personaggio:

Un altro aspetto che ho molto apprezzato della regia è l’uso mai banale delle ombre sul volto dei personaggi, creando delle inquadrature quasi artistiche, che ne sottolineano di volta in volta l’atmosfera tetra e angosciante:

Infine, mi ha fatto impazzire la raffinatezza con cui la regia sporca l’inquadratura con evidenti elementi di disturbo, che si rivelano in realtà ingredienti imprescindibili per delle inquadrature magnifiche:

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Psycho – Il potere dello sguardo

Psycho (1960) è il capolavoro della filmografia di Hitchcock, un film talmente iconico che influenzò inevitabilmente il genere di riferimento – l’horror – in maniera inaspettata…

Eppure al tempo, soprattutto dopo l’accoglienza tiepida di Vertigo (1958), la Universal era ben poco propensa ad investire in un altro film troppo serio, tanto che la pellicola venne finanziata dallo stesso Hitchcock, con un budget abbastanza limitato: appena 806 mila dollari – circa 8 milioni oggi.

E, inaspettatamente, fu il più grande successo commerciale del regista: ben 50 milioni di dollari di incasso – circa 500 milioni oggi – permettendo ad Hitchcock di diventare il terzo azionista della Universal.

Di cosa parla Psycho?

Marion Crane è una modesta impiegata, invischiata in una relazione che non sembra darle vere soddisfazioni. Tutto cambia quando si trova fra le mani una cospicua somma di denaro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Psycho?

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Ovviamente, sì.

Anche se devo ammettere che non è il mio titolo preferito di Hitchcock – prediligo comunque La finestra sul cortile (1954) – è la dimostrazione di come anche il film più povero possa regalare un’esperienza indimenticabile se nelle mani del giusto regista.

Non a caso Psycho è indubbiamente il picco artistico più consistente della filmografia del regista britannico, dove sperimenta in maniera davvero audace, al limite dello scioccante, evitando molte delle autocensure che aveva evidentemente applicato nei precedenti film…

Insomma, una pellicola imprescindibile.

Uno sguardo penetrante

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Dopo gli avvincenti titoli di testa, che già ci immergono nelle atmosfere disturbanti della pellicola, lo sguardo dello spettatore penetra immediatamente la scena.

Ed è già voyeuristico.

Veniamo infatti introdotti ad una sequenza davvero scioccante per i canoni dell’epoca: una coppia che dialoga in uno squallido motel dopo un evidente incontro sessuale, entrambi più nudi di quanto fossero mai stati prima di questo momento i personaggi di Hitchcock.

Tuttavia, la scena ha un sapore fortemente malinconico.

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La coppia è evidentemente insoddisfatta, non potendo altro che vivere questi momenti rubati, senza poter raggiungere la tanto agognata – soprattutto da Marion – accettazione sociale: il matrimonio.

Infatti, nonostante l’evidente erotismo della scena, la protagonista si riveste molto più in fretta rispetto al suo compagno, e cerca insistentemente di ricondurre la loro relazione ad una maggiore rispettabilità sociale: il pranzo con la sorella.

Ma è solo un breve sollievo:

Il matrimonio, almeno per ora, non s’ha da fare.

Un crimine di passione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Perché Marion ruba i soldi?

Nonostante la scena iniziale, nonostante il suo sguardo penetrante, Marion viene subito ricondotta ad un modello di donna rispettabile. Rispettabile quanto infelice, come ci racconta il dolore psicosomatico – l’emicrania – causata proprio dallo stress della sua situazione, la sua trappola.

Quindi, una donna da cui non ci si aspetterebbe un’azione simile.

E infatti la scelta di compiere il furto sembra immediata, senza una vera e propria logica: grazie ad una finezza di montaggio, Marion sembra uscire dall’ufficio ed entrare immediatamente nella stanza dove sta preparando la sua fuga.

E, nonostante qualche sguardo che indugia sulla busta dei soldi, il piano viene comunque messo in atto.

Quindi la motivazione è del tutto impulsiva, una scelta improvvisa per trovare il modo di sfuggire dalla sua trappola, che si può sbloccare appunto solo tramite i soldi, visti i numerosi debiti accumulati da Sam.

Tuttavia, da quel momento in poi le azioni di Marion diventano sempre più imprevedibili, sempre più puramente dettate dalla fretta, dall’irrazionalità, da questo slancio per sfuggire – e più in fretta possibile.

E non si può tornare indietro…

L’accompagnamento al patibolo

La figura del poliziotto è più interessante di quanto si possa pensare.

Soprattutto nella sua apparente illogicità.

L’agente è ancora una volta una figura estremamente voyeuristica – nel suo spiare dentro la macchina di Marion e guardarla dormire, violando uno spazio in un certo senso analogo a quello della scena d’apertura.

Ma è anche un personaggio particolarmente minaccioso.

Da notare in particolare l’anomalia nella rappresentazione del loro dialogo: Hitchcock evade il classico campo-controcampo, con solo Marion che guarda effettivamente fuori campo, mentre il poliziotto è rappresentato da una soggettiva anche piuttosto aggressiva di Marion, in particolare con un primissimo piano.

Janet Leigh e il poliziotto in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Così lo sguardo della protagonista cerca di fuggire, mentre il poliziotto la costringe ad essere punita.

Infatti, se il consiglio dell’uomo di dormire in un motel – come poi accadrà – potrebbe sembrare ironico a posteriori, in realtà è proprio indicativo del ruolo di questo personaggio: controllare che Marion non torni indietro, ma che vada dritta verso il patibolo.

Non a caso, il poliziotto resta immobile fino all’ultimo dall’altro lato della strada, osservando la donna che cambia maldestramente l’auto, agendo come spinta propulsiva alla sua fuga, ma senza cercare ulteriormente di parlarle.

E così Marion viene inghiottita dall’oscurità, mentre all’orizzonte i pali della luce sembrano delle croci…

Passaggio di consegne

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Fino a questo momento, lo sguardo era una prerogativa di Marion.

Invece, all’arrivo all’hotel, Marion comincia impacciatamente a firmare il registro, con una soggettiva che sembra unicamente sua. Invece, quando la macchina da presa stacca, notiamo che anche Norman stava osservando il registro mentre la donna firmava.

Al contempo, Marion non si rende conto del pericolo, non si rende conto dell’indecisione dell’uomo nello scegliere la chiave della camera, andando infine a optare per la stanza N.1, proprio dopo aver notato la sua incertezza…

La più classica omosessualità

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

L’atteggiamento di Norman è comunque impacciato, molto timido, facendolo sembrare apparentemente innocuo.

La voce della Madre, invece, è rivelatoria della sua violenza.

La maternità mostrata è una maternità castrante, che rappresenta la visione molto ingenua e semplicistica che sia aveva ancora negli Anni Sessanta dell’omosessualità, derivata anche dalla visione freudiana.

L’omosessualità, secondo la vulgata, era derivata dall’incapacità di superare il rapporto con la madre, una sorta di Complesso di Edipo mancante del confronto con la figura paterna, che porta infine il bambino cresciuto a voler diventare la madre stessa.

Il tutto si concretizza nella frustrazione sessuale e nella misoginia.

Norman spia Marion mentre si cambia – fra l’altro spostando un quadro rappresentante una vicenda biblica estremamente erotica, Susanna e i Vecchioni.

Ma evidentemente questa visione non suscita nell’uomo quelle sensazioni che la madre, la società e lui stesso si aspettano da lui.

Infatti, se consideriamo la Madre come una voce della coscienza per Norman, le sue parole di disprezzo nei confronti di Marion rappresentano in realtà quello che la genitrice – e quindi Norman – vorrebbe che succedesse, ovvero che l’uomo avesse piacere ad intrattenersi con lei.

E da qui nasce la volontà omicida.

La doppia punizione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La morte di Marion è scioccante per più motivi.

Anzitutto, va contro tutte le regole dello star system dell’epoca, ovvero quella di mantenere in scena la diva fino alle battute finali del film. Ma, anche più importante, non scaturisce dalle azioni della protagonista, ma dai complessi dell’antagonista.

Infatti, l’iconica scena della doccia mima quell’incontro sessuale che non si può consumare e, al contempo elimina, distrugge quel corpo che fa scaturire la vergogna sociale di Norman.

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Su un altro livello, è la prima parte della punizione di Marion.

Nonostante la protagonista si sia evidentemente pentita delle sue azioni e abbia tutta l’intenzione di rimediare, ormai è troppo tardi: è diventata un personaggio troppo problematico, una donna troppo fuori dagli schemi per non essere punita.

E tanto più il suo corpo viene raccontato come sporco, un rifiuto: sia per l’audace parallelismo fra il vortice dello scarico della doccia che si dissolve sul suo occhio, sia per la posizione ingombrante del suo cadavere, sia, soprattutto, per la scena successiva.

Una lunga sequenza che racconta la considerazione del personaggio di Marion – per la società e per Norman – ovvero come qualcosa da eliminare, qualcosa che ha lasciato macchie, sporcizia: va tutto pulito.

Un ossessivo Mac Guffin

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

I soldi sono l’ossessione di Psycho.

Il loro arrivo viene raccontato fin dalla prima scena, e, dalla loro apparizione nella sequenza successiva, sono sempre presenti, anche se scompaiono materialmente. E la macchina da presa indugia a più riprese su questo elemento, anche facendosi beffe dello spettatore.

Perché, alla fine, è solo un Mac Guffin.

I soldi fanno solamente partire la vicenda, ma non sono di fatto importanti come lo spettatore pensa e come i personaggi stessi credono: non sono il motivo effettivo per cui Marion muore, né appunto oggetto del desiderio di Norman.

E, infatti, nonostante la macchina da presa inquadri in maniera molto eloquente il giornale mentre Norman sta pulendo, lo stesso viene afferrato solo all’ultimo e gettato come un rifiuto qualunque nel bagagliaio della macchina…

Lo scioglimento del mistero

Vera Miles in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Lo sguardo è ancora protagonista nella seconda parte.

Nonostante infatti i protagonisti della vicenda siano molto più castigati – in particolare Lila, il totale opposto della sorella – il motore della vicenda è il desiderio di guardare, di penetrare la casa di Norman.

E, soprattutto, di vedere il volto di Norma Bates.

Questa ossessione è insistita per tutto il terzo atto, arrivando fino al climax finale, quando ancora una volta lo sguardo del volto ci è negato: la signora Bates è di spalle. E allora sta a Lila mostrare la verità, diventando una screaming queen ante-litteram…

E, ovviamente il film si chiude con l’inquietante sguardo di Norman direttamente in camera, direttamente nei nostri occhi…

Psycho slasher

Dal successo di Psycho nacquero moltissimi emuli, sia con le opere direttamente collegate – come i tre sequel e il remake shot-by-shot omonimo di Brian De Palma nel 1999 – sia con quelle più indirettamente derivative – come il cult American Psycho (2000).

Ma, soprattutto, Psycho è considerato il progenitore del genere slasher.

Questo sottogenere horror ha inizio canonicamente con Halloween (1979), e con gli altri classici degli Anni Settanta – Ottanta, come Non aprite quella porta (1974) e Venerdì 13 (1980), per poi essere parodiato da Scream (1996) negli Anni Novanta.

E la derivazione da Psycho si riscontra in particolare in tre elementi: il killer, l’ambientazione e la Final Girl.

L’antagonista dell’horror non è più il mostro, ma una persona – solitamente un uomo – che ha una storia familiare e personale complessa alle spalle, proprio come Norman.

Tuttavia, dal mostro di Hitchcock non eredita né l’apparente docilità di Anthony Perkins né la componente sessuale, avvicinandosi anzi più alla figura del mostro classico: un personaggio deformato o col volto nascosto, un reietto sociale, una persona che non si può salvare…

La sua arma è solitamente un’arma bianca – un coltello, la motosega, le cesoie – che non raramente si ricollegano anche allo status sociale o ad un particolare trauma infantile dell’antagonista.

L’ambientazione dello slasher è solitamente un luogo non protetto, privo della componente adulta che controlla, e dove i protagonisti – solitamente belli, bianchi e ricchi – possono fare sostanzialmente quello che vogliono.

Tuttavia, proprio l’ambientazione isolata, da cui non si può fuggire, dà un sapore di maggiore inquietudine e orrore alla storia…

Proprio come il Bates Motel.

Psycho final girl

E, soprattutto, la Final Girl.

La final girl è solitamente il personaggio femminile più esplorato, che si distingue dal resto del gruppo anche per una maggiore maturità e intelligenza, che le permette di rimanere viva fino alla fine.

Quindi un personaggio che eredita l’avvenenza di Marion, la risolutezza di Lila, e lo spirito investigativo di Sam.

In ultimo, la final girl ha l’obbiettivo di sconfiggere, ma soprattutto di smascherare il mostro, a volte aiutata da degli aiutanti maschili che prendono le parti del Sam del finale di Psycho, appunto.