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Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.

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Get Out – Feticizzazione

Get out (2017) è l’opera prima di Jordan Peele, cineasta attivo da pochi anni ma che ha già reso riconoscibile il suo stile e la sua, seppur breve, cinematografia.

Il film fu estremamente elogiato per la freschezza e la novità che portò al genere horror, mentre il suo secondo film, Us (2019), fu molto meno considerato. E fu una vera ingiustizia.

La pellicola fu un incredibile successo commerciale: un budget ridottissimo, di appena 4.5 milioni di dollari, portò ad un incasso di 255.

Di cosa parla Get out?

Chris è un giovane afroamericano fidanzato da pochi mesi con Rose. Pur in grande imbarazzo, accetta di andare a far visita la famiglia di solo bianchi della fidanzata. Questa scelta non si rivelerà la più indovinata…

Get out può fare per me?

Lakeith Stanfield e Geraldine Singer in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Partiamo dicendo che Get out è un horror, ma non fa di fatto paura, anche perché utilizza pochissimo i tanto abusati jump scare. Più che altro è un film che crea una profonda angoscia e inquietudine. E questo grazie all’utilizzo di una recitazione ben calibrata e una scelta dei volti piuttosto azzeccata.

È una pellicola in generale abbastanza accessibile, che diventa ancora più interessante per un pubblico coinvolto con le tematiche che Peele porta sullo schermo. Ma, prima di tutto, è un prodotto horror autoriale che porta un’interessante novità al genere.

Feticizzazione

La feticizzazione dei corpi neri è il tema politico sotterraneo del film. Un problema sentito negli Stati Uniti e che è fondamentalmente l’altra faccia del razzismo: questa idea di idealizzazione del corpo nero, corredato da una serie di stereotipi (la grandezza dei genitali, la velocità ecc.).

Stereotipi che non sono falsi di per sé, ma che assumono un significato ben diverso se applicati sistematicamente a persone che condividono nient’altro che il colore della pelle o una discendenza comune. In questo modo infatti non vi è una glorificazione del corpo, ma una deumanizzazione dello stesso.

Ed è questo quello che di fatto succede in Get Out: il corpo di Chris è messo in vendita come quello di una bestia, da un gruppo ricchi bianchi che se ne vuole impossessare per godere dei presunti benefici del corpo di un afroamericano.

Far paura senza far paura

Betty Gabriel in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Una grande capacità di Peele, che poi sprigiona tutta la sua potenza in Us, è la capacità di far paura senza far uso di tecniche abusate. Così appunto non ci sono praticamente jump scare e tutta l’inquietudine del film si basa sull’ottima recitazione corporea e facciale dei personaggi.

Particolarmente rilevanti sono Walter e Georgina, che alla fine si scopre che racchiudono le coscienze del nonno e della nonna. Ma da elogiare anche la recitazione di Allison Williams, che interpreta Rose, che è stata capace di sostenere la recitazione da brava fidanzata, per poi rivelarsi, con un solo gesto, l’invasata calcolatrice che in realtà è.

Tutto e niente

Daniel Kaluuya in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

La mia è sicuramente un’opinione impopolare, ma io considero Get out come un film per molti aspetti amatoriale, che è solo un punto di partenza per una cinematografia ben più interessante. E infatti Us mi ha stupito molto di più.

Nondimeno in questa pellicola troviamo tutti gli elementi ormai tipici di Jordan Peele: un horror che punta più sull’inquietudine che sull’orrore, un umorismo per nulla forzato, una sottotrama politica molto forte e per nulla banale.

Al tempo della visione, ebbi proprio questa idea: un buon punto di partenza, ma adesso vediamo che strada prende. E con Us sono stata ricompensata.

Insomma, per me un’ottima opera prima, ma non il capolavoro che tanti sostengono.

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Super 8 – Un film fuori dal tempo

Super 8 (2008) è un film prodotto, scritto e diretto da J.J. Abrams, autore e produttore che ha le mani un po’ ovunque quando si tratta di revival in ambito sci-fi.

Una pellicola che ebbe anche un buon successo, con 50 milioni di dollari di budget e 260 di incasso.

Di cosa parla Super 8?

1979, Joe Lamb è un quattordicenne che ha appena perso la madre in un tragico incidente e deve riallacciare i rapporti col padre. Lui e i suoi amici, mentre sono intenti a girare un film amatoriale, diventano testimoni di un tragico e misterioso incidente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super 8?

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Assolutamente sì.

Super 8 è un film piuttosto semplice, un’avventura sci-fi per ragazzi di stampo classico, che si rifà massicciamente ai topos degli Anni Ottanta.

Sia che siate appassionati dei classici, come Stand by me (1986) e E.T. (1982), sia dei revival nostalgici come Stranger Things, non potete perdervelo.

Una costruzione da manuale

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

La costruzione della trama è davvero da manuale, nel senso migliore possibile.

Tutti gli elementi che portano al finale sono sapientemente costruiti fin dall’inizio e in maniera funzionale al finale.

Così per esempio Donny, che alla fine accompagna i ragazzi alla scuola, si è dimostrato interessato alla sorella di Charlie fin dall’inizio. E così Joe sa dove è la tana della creatura perché in precedenza è andato al cimitero a trovare la madre.

E questa costruzione così intelligente non è per niente scontata, in quanto in prodotti di ben più grandi produzioni capita spesso che, per far arrivare i personaggi ad un punto, si scelgono soluzioni forzate e poco credibili.

Allo stesso modo il mistero è un continuo crescendo, partendo da una scena improvvisa, seguendo un sentiero di briciole che ci vengono snocciolate a poco a poco.

La creatura

Secondo lo stesso principio, la creatura viene svelata secondo precise tappe e con una costruzione molto abile. Prima è un’ombra, poi una figura sfocata sullo sfondo, poi ne scopriamo la sagoma, e nel finale ne vediamo il volto.

Molto furbo fra l’altro cercare di umanizzarla, svelandone a sorpresa gli occhi piuttosto espressivi, per dare quello slancio emozionale che ci permette di empatizzare.

Soprattutto perché si cerca di raccontare un nemico che in realtà è vittima degli stessi protagonisti e che, come E.T., vuole solo tornare a casa.

Un character design fra l’altro semplice, ma d’impatto.

Semplicemente Elle Fanning

Elle Fannings in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per via anche del suo budget limitato, il film ha puntato su attori giovanissimi e fondamentalmente sconosciuti. La recitazione non è esattamente brillante, ma comunque di livello accettabile.

Fra tutti però si distingue Elle Fanning, che interpreta Alice, al tempo ancora poco conosciuta, ma che ha lavorato negli anni con autori come Woody Allen e David Fincher.

In questa pellicola troviamo una recitazione ancora acerba, ma che sa comunque destreggiarsi in diversi momenti più complessi della narrazione.

E il fatto che una scena sia basata solamente sul mettere in evidenza le sue capacità recitative è tutto un programma.

Pallidi comprimari

Riley Griffiths  in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Un difetto del film è di non riuscire a far risaltare i comprimari del protagonista.

Come per il miglior film per ragazzi Anni Ottanta, Joe è infatti circondato da un gruppetto di personaggi che gli fanno da contorno, e che sono al contempo il comic relief della pellicola.

Purtroppo, gli stessi sembrano essere dimenticati nel corso del film, al punto che si utilizzano diversi stratagemmi per lasciarne il più possibile indietro in occasione dello scontro finale.

Allo stesso modo questi personaggi per la maggior parte non hanno una caratterizzazione precisa, ma limitata a pochi elementi.

Abrams e Gioacchino: che coppia!

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per quanto magari Abrams non possa essere considerato un grande autore, la sua regia è ben più di quella di un mestierante qualunque.

In questa pellicola è innamorato dei suoi personaggi: li inquadra spesso fra il mezzo primo piano e il primo piano, facendoli avvicinare alla macchina da presa mentre guardano misteriosamente all’orizzonte.

Così anche bellissime le sequenze in cui i personaggi sono coinvolti in discussioni concitate e la macchina da presa gli gira intorno, regalando una splendida dinamicità alla scena.

La regia è inoltre impreziosita da un’ottima colonna sonora, composta dall’iconico Gioacchino, autore di colonne sonore di grande successo e valore come quella di Up (2010) e della nuova trilogia di Star Trek.

Cos’è il Super 8?

Il super 8 millimetri che dà il titolo al film è un formato cinematografico, un tipo di pellicola utilizzata proprio per il cinema amatoriale.

Ed è infatti quello che i protagonisti utilizzano per girare il loro film.

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Number 23 – Storia di un’ossesione

Number 23 (2007) è un film di Joel Schumacher con Jim Carrey che si imbarcò in un genere che non aveva mai sperimentato: il thriller psicologico.

L’attore ebbe infatti ancora una volta la fortuna di trovarsi sotto l’egida di un regista capace in un prodotto complesso e intenso. Schumacher è infatti un autore molto divisivo, soprattutto per l’assurdità di Batman & Robin (1997), cui viene sempre associato, ma è in realtà un regista con un’estetica profonda e potente.

Il film ebbe un riscontro economico decisamente deludente: anche se non fu un flop, incassò 77 milioni contro un budget di 30. Tuttavia, col passare degli anni, entrò nel cuore di molti cinefili.

Di cosa parla Number 23?

Walter è un accalappiacani che vive una vita tranquilla con la sua famiglia. Improvvisamente viene in possesso di uno strano libro, intitolato appunto Number 23. Il protagonista si ritroverà così stranamente ad identificarsi nella storia narrata, che sembra avere una strana vicinanza con gli eventi della propria vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Number 23?

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dipende.

Number 23 è un film per nulla semplice, sia per gli argomenti trattati, sia perché gioca anche con il genere horror, con alcune scene piuttosto sanguinose e non adatte a cuori sensibili. Oltre a questo, la regia è piuttosto particolare, anche se perfettamente in linea con l’estetica di Schumacher.

Insomma, se sguazzate nel genere gore e thriller, ma anche nel noir hard boiled, probabilmente vi piacerà moltissimo. Al contrario, se siete facilmente impressionabili e vi angosciate con poco, statene alla larga.

Un andamento inaspettato

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Devo ammettere che verso la metà del film ho cominciato ad annoiarmi, perché il film mi sembrava voler raccontare il climax ascendente del protagonista, che diventa definitivamente ossessionato dal libro e alla fine uccide la sua famiglia. Insomma, mi aspettavo un andamento piuttosto tipico.

Al contrario, sono stata sorpresa: verso la metà del film Walter comincia ad essere effettivamente supportato dalla sua famiglia, innescando un effettivo climax con una gustosa trama investigativa, per svelare infine il mistero dietro al libro.

E così si sfocia nella rivelazione finale, che chiude perfettamente il cerchio su una storia che sarebbe risultata altrimenti banale, con un twist che mi ha ricordato molto quello di Shutter Island (2010) e che per questo non ho potuto non apprezzare.

Schumacher: amore e odio

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Joel Schumacher è quel tipo di regista con un’estetica e una poetica così particolare che non può non essere divisivo.

Ed è anche lo stesso che ha girato Batman & Robin, film unanimemente criticato per l’ovvio motivo di essere tremendo, ma che esprimeva appieno l’estetica distintiva di questo regista, che gioca moltissimo col camp e col cattivo gusto voluto.

E in Number 23 non è da meno: io ho amato alcune inquadrature, che ho trovato estremamente scioccanti, come il volto della Bionda Suicida che si specchia nella pozza del suo stesso sangue dopo il suicidio (ed è uno fra tanti).

Al contempo non ho apprezzato il taglio eccessivo delle scene del racconto del libro, con queste inquadrature estremamente contrastate e scene di sesso e violenza quasi morbose, con un taglio eccessivamente realistico che mi ha disturbato.

Ma forse era anche quello l’obbiettivo.

Di certo, per me, senza questa regia, questo film non sarebbe valso un’unghia.

Jim Carrey: la maturità attoriale

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dopo aver esplorato la maggior parte della filmografia di Carrey, per me la sua maturità artistica come attore comico si può trovare in Una settimana da Dio (2003), mentre in questo film mostra ancora le sue capacità sull’altro versante.

Non tanto in ambito drammatico, per cui aveva già dato prova in Eternal Sunshine of the spotless mind (2004), ma sperimentando con consapevolezza in un genere mai provato prima.

In questo film infatti Carrey riesce ad essere al contempo spaventoso, con un’occhiata riesce a trasmetterti un’infinità di sentimenti e passioni, e a destreggiarsi perfettamente nelle scene anche più estreme e intense.

In questo film non ci sono, come in altre pellicole di Carrey, attori diventati famosi dopo, ma comunque ritroviamo dei volti già noti.

Il figlio di Walter, Robin, è Logan Lerman, divenuto brevemente (e sfortunatamente) famoso per i film di Percy Jackson usciti fra il 2010 e il 2013.

Walter da bambino è interpretato da Paul Butcher, che se siete della generazione Anni Novanta lo ricorderete sicuramente per essere il fratello di Zoe in quella meraviglia (si fa per dire) di Zoey 101.

Il Dr. Miles, il professore a cui Walter chiede aiuto e che crede che lo tradisca con la moglie, è Danny Huston, già visto in diversi prodotti, in particolare come fratello della protagonista in Marie Antoinette (2006).

Cameo a sorpresa quello di Troy Kotsur, attore sordomuto che ha recentemente vinto l’Oscar come Miglior Attore non Protagonista per CODA (2021). Qui interpreta il padrone del cane che perseguita Walter, Ben.

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Doctor Strange in the multiverse of madness – Orrore e frenesia

Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) è l’ultimo film Marvel uscito la scorsa settimana nelle nostre sale. Il ritorno alla regia di Sam Raimi, conosciuto e amato per la sua trilogia di Spiderman (2002-2007) e de La casa (1981-1992). Un ritorno fra l’altro dopo quasi un decennio di assenza dalla macchina da presa: l’ultimo film da regista è stato Il grande e potente Oz (2013).

Doctor Strange in the multiverse of madness è anche il primo film horror dell’MCU e sicuramente non potevano scegliere un autore migliore per questo compito. E non è sicuramente un caso che la pellicola ha aperto questo weekend con 450 milioni di dollari di incasso.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Doctor Strange in the multiverse of madness

Doctor Strange in the multiverse of madness racconta di America Chavez, giovane ragazza con un potere davvero particolare: aprire i passaggi fra gli universi. Per questo è braccata da un terribile nemico che vuole impossessarsi delle sue abilità. La giovane ragazza chiederà quindi l’aiuto di Doctor Strage, che già aveva avuto contatti con il multiverso in Spiderman no way home (2021).

Questo, raccontato assolutamente senza spoiler.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

È davvero un film di Raimi?

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

La mano di Raimi si vede, e tanto. Le splendide dissolvenze incrociate, le inquadrature che si immergono negli occhi dei personaggi, la camera che ruota intorno alle scene, fino al taglio splendidamente horror.

Perché si, questo film ha davvero un taglio horror (ovviamente sempre horror per ragazzi, alla Raimi appunto), altro che un certo Moon Knight di mia conoscenza. Con fra l’altro scene di combattimento incredibili e ottimamente dirette, probabilmente le migliori di tutto l’MCU finora.

Vale la pena di vedere Doctor Strange in the multiverse of madness?

Elisabeth Olsen in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness(2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì, anche solamente pet la regia di Raimi, diversa dal solito, ma che ben si adatta ai ritmi ed alle tematiche dell’MCU. Di fatto, un buon prodotto supereroistico con una regia di primo livello

Tuttavia, come ogni prodotto MCU, richiede delle conoscenze pregresse. Oltre ovviamente a Doctor strange (2016), anche Endgame (2019) ed Infinity war (2018). Per le serie, Wandavision è abbastanza importante per comprendere il personaggio di Wanda, Loki per il multiverso, mentre What if…? è accessorio.

Ovviamente se non siete appassionati dell’MCU non è un film che mi sento di consigliarvi, proprio per via dei collegamenti col resto della filmografia. Tuttavia, se siete fan di Raimi, forse potrebbe essere un modo per mettere un primo piede dentro la porta di questo universo.

Wanda, una villain inaspettata

Elisabeth Olsen in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Non era del tutto sicuro che Wanda fosse la vera villain principale della pellicola: la logica avrebbe voluto Mordo al suo posto, visto come si era concluso Doctor Strange. Tuttavia, non mi posso lamentare: Wanda è uno dei pochi e buoni villain che l’MCU può contare.

E lo è anche perché abbiamo la possibilità di vedere un antagonista che ha un percorso di crescita e di redenzione. Infatti alla fine Wanda, messa davanti alla realtà, capisce il suo errore e si redime, accettando la distruzione del Darkhold e di sé stessa. Tuttavia secondo me la sua storia non è finita qui, anzi non è del tutto detto che sia veramente morta. La plot armor, quando serve, viene sempre in aiuto.

Al contempo però mi è dispiaciuto che il suo personaggio sia stato un po’ appiattito sulla questione dei figli, visto che questi erano solamente l’ultimo elemento di un dramma che aveva radici più complesse e profonde: nella sua infanzia, nell’origine dei suoi poteri e nel rapporto con Visione. Ma per questo, appunto, è richiesta la visione di Wandavision.

La necessità di Wandavision

Doctor Strange in the multiverse of madness è forse il primo caso nell’MCU dove davvero la necessità di vedere le serie tv collegate è abbastanza opprimente. Infatti, come anticipato, vedere Wandavision è abbastanza essenziale per capire veramente la profondità del personaggio di Wanda, che altrimenti potrebbe apparire forzata e quasi macchiettistica.

Invece, avendo bene in mente la sua storia e soprattutto la sua storia nella serie, si riesce ad entrare profondamente a contatto col personaggio e col suo dramma personale.

Orrore e frenesia

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Doctor Strange in the multiverse of madness ha due elementi portanti: il taglio horror e la frenesia della narrazione (che non sempre va a suo vantaggio). Veniamo infatti fin da subito portati in medias res della vicenda e la trama non si prende praticamente mai un attimo di pausa, ma procede a grandi falcate e con un ritmo davvero frenetico, forse anche troppo.

Per quanto forse non sia nello stile di Raimi, non sarebbe guastato aggiungere del minutaggio, se questo avesse significato portare più elementi di introduzione e di conclusione, oltre che qualche maggiore approfondimento. Invece è una continua corsa, a tratti sfiancante.

Per il taglio horror invece niente da aggiungere: oltre a quanto già detto, splendida la citazione a The Ring (2001) quando Wanda esce dallo specchio a Kamar-Taj e da capogiro tutta la sequenza dell’insegnamento sotto al Baxter Building. Per non parlare dello splendido body horror costante. Non proprio un film per tutte le età, insomma.

America Chavez e il problema delle soluzioni fuori dal cappello

Xochitl Gomez in una scena del film Doctor Strange nel multiverso della follia (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

America Chavez è uno degli elementi più deboli della pellicola: il personaggio manca di un’introduzione interessante e che ci faccia affezionare, nonché di un arco narrativo convincente. Di fatto il suo percorso è esplorato pochissimo e la conclusione assolutamente improvvisa e poco credibile. Ho avuto davvero la sensazione di essermi saltata una serie o un film.

Il generale, America Chavez è uno degli elementi di Doctor Strange in the multiverse of madness che sono pensati più per essere funzionali alla trama che per essere veramente importanti per la stessa. Di fatto il suo personaggio serve per dare modo a Wanda di dare sfogo alla sua ossessione, come poteva esserlo qualunque elemento introdotto per l’occasione.

Allo stesso modo il Darkhold e il Libro dei Vishanti: problemi creati per essere risolti in maniera semplice e funzionale all’interno della trama. In particolare il Libro dei Vishanti sembra proprio una soluzione tirata fuori dal cappello, che poi si rivela non essere neanche l’elemento risolutivo della vicenda: un Mac Guffin da manuale.

Il fan service dosato (e come potrebbe non piacere)

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Un ottimo aspetto di questo film è la mancanza di elementi di fan service troppo ingombranti. Anzitutto John Krasinski come Mr Fantastic, ruolo richiesto dal fandom e dall’attore stesso da moltissimo tempo. Poi Patrick Stewart come il Dottor Xavier, ucciso da Wanda e secondo me anche il modo in cui la Marvel dice totalmente addio agli X-men della FOX. E, infine, Captain Carter da What if…?

Insomma, un fan service ben dosato, che però potrebbe essere dannoso per la pellicola. Infatti ho sentito della vibes non del tutto positive circa il gradimento del pubblico e ho idea che potrebbe essere dovuto anche a questo elemento.

Io per prima mi aspettavo molti più camei e molto più fan service, e forse altri si aspettavano uno Spiderman No Way Home seconda parte. Ed effettivamente non ti fa saltare sulla sedia allo stesso modo. Ma forse è meglio così.

La morale Doctor Strange in the multiverse of madness

Benedict Wong in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Un altro elemento che ho particolarmente apprezzato di questo film è la morale: l’importanza di accontentarsi. La vita che abbiamo potrebbe non essere la migliore che potremmo mai avere, ma è quella che abbiamo e da cui dobbiamo cercare di trarre il meglio, nonostante le avversità.

Quindi Doctor Strange accetta di non essere lo Stregone Supremo e che lo sia invece Wong, inchinandosi infine davanti a lui e riconoscendo così la sua carica. Così accetta che Christine non potrà essere la sua compagna. E infine Wanda accetta che non potrà mai avere i suoi figli, perché questo significherebbe distruggere la loro vita in un altro universo e così quella di un’altra se stessa, oltre a dover uccidere America. In questo caso il peso della colpa e della vergogna la porta ad suicidarsi per il bene comune.

Ma, appunto, non è detta per forza l’ultima parola su questo personaggio.

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Level 16: poca spesa, tanta resa?

Level 16 (2018) è una piccola produzione canadese di stampo thriller-fantascientifico. Un film pochissimo conosciuto, che ha avuto una distribuzione molto limitata e che, secondo i dati ufficiale, ha raccolto non più di 15.000 dollari. Ma visto che probabilmente il budget del film era di due noccioline è possibile che pure si siano messi in tasca qualcosa.

Di cosa parla Level 16

Un gruppo di ragazze è costretto a vivere fin dalla primissima infanzia in una struttura di stampo militare, senza finestre, senza aver mai visto la luce del sole, e con una routine rigidissima. L’obbiettivo di tutte è di essere sempre pulite, seguendo regole strettissime, su come essere umili e poco curiose, con la promessa che, una volta raggiunti i 16 anni di età, saranno adottate.

La protagonista, Vivien, rimasta traumatizzata per essere stata brutalmente punita quando aveva appena otto anni, verrà portata a scoprire la verità dietro alla struttura dalla sua compagna, Sophia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché vale la pena di vedere Level 16

Ovviamente, bisogna partire con la consapevolezza che, appunto, si tratta di una produzione veramente piccola. Quindi ovviamente non troverete attori conosciuti né effetti speciali da urlo, ma in generale bisogna riconoscere al film di aver tratto il meglio dalle risorse che aveva, limitando molto le scenografie e gli ambienti.

Il cast di giovanissime attrici è piuttosto convincente, e in generale gli attori sono tutti piuttosto in parte. La trama riesce ad essere piuttosto intrigante fino all’ultimo atto, rivelando poco a poco i segreti che si nascondono dietro a questa misteriosa organizzazione. In generale il film intrattiene ed è a suo modo intrigante, e la rivelazione è abbastanza convincente.

Cosa non funziona

Purtroppo i limiti del film non sono dati solamente dal budget: lo svolgimento della trama non è sempre lineare, anzi tende a incartarsi un po’ su se stessa, nel continuo tentativo di non rivelare troppo subito, così da tenerti col fiato sospeso fino alla fine.

Oltre a questo, la rivelazione finale, per quanto convincente, non è sviluppata a dovere: per questo credo che bisogna incolpare le risorse limitate, perché esplicare fino in fondo la dinamica dell’organizzazione del film sarebbe stato piuttosto complesso. Tuttavia per molte cose sarebbe bastato aggiungere anche solo qualche linea di sceneggiatura per riuscire a completare la rivelazione.

Inoltre il finale risulta in parte confuso e poco chiaro nel suo scioglimento.

Level 16 fa per me?

Celina Martin in una scena del film Level 16 2019

Penso che abbiate capito di che tipo di film stiamo parlando: io personalmente sono parecchio intrigata da quelle pellicole che hanno come tema principale persone cresciute in luoghi di semi-prigionia e col lavaggio del cervello, il cui esempio più riuscito è sicuramente Dogtooth (2009). In questo caso si parla di un film senza troppe pretese, che riesce a fare il suo lavoro ed intrattenere con una trama abbastanza semplice.

Per un pomeriggio da riempire è perfetto.