The Menu (2022) di Mark Mylod è un thriller-horror che ha fatto abbastanza parlare di sé verso la fine del 2022. Non ho potuto vederlo in sala, ma l’ho recuperato in streaming, dopo che mi era stato ampiamente consigliato.
Tyler porta l’affascinante Margot ad un’esperienza culinaria esclusiva del noto chef stellato. Ma la situazione fin da subito appare disturbante…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Menu?
In generale, sì.
È un film che ho trovato piacevole e complessivamente ben fatto, che non mi ha solo convinto per un elemento della trama un po’ scricchiolante…
Ma nel complesso è una pellicola assolutamente godibile, un thriller con un taglio decisamente elegante e fascinoso, con attori di primo livello.
L’esperienza esclusiva
Nonostante in diversi punti la pellicola presenti un taglio più corale, la protagonista è assolutamente fondamentale e funzionale per lo spettatore.
Anche se la situazione iniziale è già abbastanza esplicativa da sé, sono le sue occhiate, le sue soggettive che sottolineano due elementi essenziali per la costruzione della tensione: la barca che si allontana e la porta che si chiude.
Proprio ad indicare come questa esperienza sia talmente esclusiva che esclude ogni tipo di via di fuga.
Il pubblico sbagliato
Margot è fin da subito messa in un rapporto antagonistico con Tyler, che rappresenta uno dei personaggi peggiori che definiscono il mondo della cucina gourmet: l’esaltato superficiale, che si beve qualsiasi cosa che lo chef gli propone.
Al contrario la protagonista è continuamente contraria a questo eccessivo sperimentalismo e cucina concettuale, che non permette davvero di godersi l’esperienzadel cibo.
Ma è una mosca bianca all’interno di una varietà di personaggi secondari che raccontano il pubblico tipico di questo tipo di esperienze: gli arroganti raccomandati, i ricchi annoiati, i critici snob, e via dicendo.
Tutti personaggi che sono il motivo dell’insoddisfazione dello chef, che vorrebbe forse degli adepti al pari dei suoi cuochi, che vivono profondamente l’esperienza che vuole portare in tavola.
Fino ad arrivare agli estremi.
Ma qui nasce il problema.
Il problema della morte
L’unico elemento che proprio non mi ha convinto del film è la gestione della morte, la cui inevitabilità viene annunciata fin troppo presto.
Sarebbe stato meglio, secondo me, tenerla in sottofondo, abbastanza evidente da tenere alta la tensione, ma senza rivelarla fino alla fine. Il film avrebbe funzionato comunque, facendo giusto qualche aggiustamento.
Inoltre, non sono riuscita a trovare credibile questa totale sottomissione degli altri chef a Slowik, elemento per cui vengono poste delle buone basi, ma per cui avrei preferito una costruzione più profonda e convincente.
Il piano di Margot
Nel finale, Margot riesce effettivamente a salvarsi tramite un piccolo trucco.
Fondamentalmente il suo piano per scappare è di giocare allo stesso gioco dello Chef, invece che andargli contro direttamente come gli altri personaggi – e lei stessa fino a poco prima. Così lo riporta con i piedi per terra, comportandosi come si comporterebbe effettivamente in un ristorante, mandando indietro il piatto e chiedendo di portare a casa gli avanzi – come tipico negli Stati Uniti.
E evidentemente Slowik preferisce essere trattato in questa maniera reale, che essere inutilmente e superficialmente esaltato – o non considerato.
White noise (2022) di Noah Baumbach è una produzione Netflix di genere difficilmente definibile: mischia una sorta di surreale e disaster movie con una forte riflessione di fondo. Dal regista di Storia di un matrimonio (2019) personalmente mi aspettavo un film simile, se non superiore in qualità.
Non è stato così.
Di cosa parla White noise?
Jack è professore di Hitlerologia, facoltà da lui stesso fondata, e vive la sua vita fra il matrimonio apparentemente felice con Babette e il suo successo accademico. Ma qualcosa di inaspettato metterà in moto una serie di eventi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere White noise?
Probabilmente no.
Il problema di questo film è che non è di per sé un film brutto, ma una bella costruzione con spunti narrativi anche interessanti…che però non vengono effettivamente portati fino in fondo.
Quindi personalmente non mi sento di consigliarlo, perché in ultimo mi ha lasciato con un cattivo sapore in bocca, di aver visto qualcosa di non finito…
Aprire bellissime porte…
Il primo atto del film racconta una bellissima costruzione tematica, con tre elementi: il fascino dell’incidente stradale, il potere delle icone e la morte.
Il film propone un interessantissimo parallelismo – quasi accademico – fra questi elementi, che sfocia nell’intrigante montaggio alternato in cui Jack viene acclamato per il suo discorso, e si alternano immagini del discorso di Hitler, della folla concitata di Elvis e dell’incidente stradale che sta al contempo avvenendo.
Ero veramente affascinata da questa costruzione e mi aspettavo...
…qualcosa che non è mai arrivato.
…e aprirne altre ancora
Nel secondo atto il film mette in scena un secondo tassello: l’incidente stradale e la conseguente piccola apocalisse.
Per la maggior parte le scene sono interessanti e ottimamente dirette, con una fotografia pazzesca, costruiscono una discreta tensione, gettano degli spunti di parallelismo uno dei figli di Jake, che intrattiene la folla con un parallelismo ancora una volta con Hitler…
E basta.
Questi semi, insieme a tutti gli affascinanti discorsi iniziali, non portano di fatto a nulla.
Qual è il punto?
Arrivati al terzo atto, ero nella totale confusione.
Mi sembrava che mi mancasse qualcosa, o che stesse per succedere qualcosa che avrebbe dato un senso a tutta la narrazione e a tutto quello che era stato raccontato fino a quel momento. Invece mi sono trovata ancora una volta davanti ad una messinscena veramente interessante, ma che di fatto portava il film ad essere una sorta di narrazione tematica sulla paura della morte.
Elemento che era anche accennato all’inizio, ma che appariva complessivamente l’elemento meno interessante di tutto il racconto.
E la mia confusione si può ben raccontare da una battuta del film stesso:
Anderson, sei tu?
Se anche voi avete avuto una strana sensazione di déjà-vu, la motivazione è semplice: per alcuni elementi sembra un film di Wes Anderson.
In particolare, i bambini molto più intelligenti e avuti per la loro età.
E non è così strano se si pensa che Noah Baumbach è stato sceneggiatore di due film di Anderson – Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Fantastic Mr. Fox (2009). Non un aspetto che mi ha dato fastidio di per sé, però un altro elemento utile alla tram fino ad un certo punto…
Misery (1990) è un piccolo cult dell’horror – thriller, diretto da Rob Reiner e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, fra l’altro uscendo pochi anni dopo la sua pubblicazione.
Il titolo italiano è molto spoileroso, quindi, anche se lo conoscete già, eviterò di riportarlo qui.
Un film prodotto con un budget molto limitato, appena 20 milioni, ma che incassò molto bene: 61 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Misery?
Paul Sheldon è uno scrittore di successo, che si ritira in una piccola città di montagna per scrivere il suo nuovo romanzo. Ma questa volta rimarrà coinvolto in una bufera, con conseguenze inaspettate…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Misery?
Assolutamente sì.
Misery è un piccolo thriller ottimamente confezionato – cosa per nulla scontata per un prodotto derivato da King. Ma, d’altronde, da questo regista, già autore di Harry ti presento Sally(1989), non mi aspettavo niente di meno.
Per certi versi è più un thriller che un horror, anche se non mancano le componenti orrorifiche. Più che altro si punta sulla psicologia dei personaggi, già abbastanza spaventosa di suo, ma senza mai eccedere.
Anzi, le scene più violente sono di impatto, ma mai esagerate.
Un’attrice poliedrica
Per una simpatica coincidenza, proprio il giorno prima della mia visione avevo visto Titanic (1997), dove Kathy Bates, qui interprete della terribile Annie, portava in scena un personaggio totalmente diverso.
E mi ha piacevolmente sorpreso come sia un’attrice assolutamente poliedrica.
Nonostante la sua recitazione poteva probabilmente essere smussata, è indubbio che ci abbia regalato una prova attoriale di grande impatto e che riesce a reggere la terrificante dualità del personaggio.
Non a caso, fu premiata come Miglior attrice non protagonista agli Oscar 1991.
L’abito fa il monaco
Quando Annie nostra la sua vera natura maligna e incontrollabile, non è in realtà una grande sorpresa per lo spettatore.
Già il suo character design, se così vogliamo chiamarlo, è di per sé rivelatorio: le camicie e i maglioni stretti fino al collo, i capelli perfettamente pettinati, la croce d’oro al collo. Tutti indizi di una donna che vive per il piacere del controllo e delle sue ossessioni.
E viene anche più arricchito da elementi puramente grotteschi, come il maiale da compagnia e l’arredamento della sua stanza che sembra quello di un’adolescente troppo cresciuta…
Un senso di claustrofobia
Per tutta la pellicola siamo pervasi da un senso di profonda claustrofobia, sopratutto perché per la maggior parte le scene si svolgono in un unico ambiente.
E anche l’esplorazione degli spazi della casa trasmette comunque un importante senso di impotenza e di trappola: come il personaggio, neanche che noi possiamo esplorare al di fuori di quelle quattro pareti.
E, con un paio di plot twist ben posizionati, ecco la ricetta perfetta per un thriller psicologico davvero appassionante.
La mosca (1983) è il film assolutamente più iconico della produzione di David Cronenberg, ed è anche un magnifico esempio di come una storia semplicissima nelle giuste mani possa diventare qualcosa di indimenticabile.
E non a caso fu uno dei pochi grandi successi della carriera del regista: davanti ad un budget di appena 7 milioni di dollari, incassò quasi dieci volte tanto: 60 milioni in tutto il mondo.
E divenne immediatamente un cult di genere.
Di cosa parla La mosca?
Seth Brundle è uno scienziato che sta lavorando ad un progetto rivoluzionario: il teletrasporto. Tuttavia, proprio quando sembra andare tutto bene, l’ubriacatura del successo ha la meglio, con conseguenze inaspettate…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La mosca?
Assolutamente sì.
Fra tutti i film di Cronenberg che finora ho visto, è in assoluto il mio preferito. La trama è di una semplicità devastante, ma molto meno prevedibile di quanto mi aspettassi, ma la parte migliore sono indubbiamente gli effetti visivi, che sono da far girar la testa.
La resa visiva per me è poco sotto a La cosa (1982), un capolavoro in questo senso.
Come considerazione finale sulla produzione fantascientifica-horror di questo regista, ho preferito in generale i momenti in cui Cronenberg si sia impegnato in produzioni con trame più lineari e che puntavano molto sugli effetti visivi e su un ottimo interprete protagonista, come era stato anche inScanners (1981).
La meraviglia visiva
I punti forti della pellicola sono indubbiamente il trucco e gli effetti visivi.
Ottimamente gestito il crescendo della trasformazione di Seth: comincia avendo solamente il volto un po’ butterato, poi inizia a trasformarsi mantenendo il suo volto umano, perdendone via via le fattezze, arrivando infine ad uscire dal suo guscio per trasformarsi del tutto in un ibrido uomo-mosca.
La scena della trasformazione entra veramente di diritto nelle più incredibili trasformazioni che io abbia mai visto sullo schermo.
La meraviglia visiva si trova anche in altri elementi della storia, fra cui il liquido corrosivo che Seth vomita e che scioglie letteralmente la carne e permette di staccare facilmente pezzi del corpo.
E ogni cosa che ho visto sullo schermo non mi è mai sembrata finta, nonostante fosse una produzione molto piccola, ma di grande valore.
Un’interpretazione mostruosa
Come era stato anche per Scanners, era assolutamente necessario anche in questo film avere un ottimo interprete capace di reggere la scena senza sembrare ridicolo o poco credibile.
E per fortuna c’era Jeff Goldblum.
Questo straordinario attore, che raggiunse un’effettiva popolarità solamente dieci anni dopo con la saga di Jurassic Park, all’interno di un’unica pellicola dovette portare in scena personaggi molto diversi, che rappresentano le varie fasi della trasformazione e del cambiamento di comportamento del protagonista.
E ci è riuscito perfettamente.
Passando dall’ossessione di Seth, che subito dopo la trasformazione si comporta come se fosse sotto steroidi, fino al momento in cui diventa in tutto e per tutto un insetto, con gli occhi che saettano drammaticamente da una parte all’altra…
Distruggere i simboli
Cronenberg ha la fantastica tendenza a distruggere i simboli e renderli mostruosi.
Come in praticamente ogni sua pellicola insista tantissimo sull’elemento della sessualità e i suoi simboli, particolarmente la vagina (nel senso più letterale del termine, ovvero guaina), in Videodrome (1983)come nel recente Crimes of the future (2022).
In questo caso, ricalca il topos della maternità mostruosa.
Per una buona parte del film seguiamo l’angoscia di Veronica per l’idea di avere in grembo una creatura mostruosa, che piano piano si trasformerà in qualcosa di agghiacciante come Seth. Da cui l’iconica sequenza in cui partorisce una larva di mosca, potentissima quando agghiacciante.
La piccolezza dell’uomo
Un tema interessante raccontato dalla pellicola è la piccolezza dell’uomo e la sua autodistruzione nel tentativo di essere un dio.
Così Seth sente di avere fra le mani qualcosa di incredibile e che rivoluzionerà per sempre l’umanità. Ma questo lo porta anche a credere troppo nelle sue capacità. E così anche un elemento piccolo e insignificante, un essere che l’uomo può permettersi di distruggere con colpo di mano, riesce a invece a privarlo della sua umanità e a mettere fine a tutti i suoi sogni.
E paradossalmente i suoi tentativi di ritornare umano, lo portano solo ad esserlo sempre di meno…
Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.
Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.
E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4(2011).
Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.
Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Scream 5?
Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.
Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.
Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.
Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.
Qui è tutto perfettamente equilibrato.
Un nuovo horror
Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.
E invece il film ha voluto sorprendermi.
Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).
Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.
Una scelta davvero azzeccata.
Dialogare col pubblico
Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.
Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.
E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.
E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.
Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.
La regola del prevedibile
Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.
Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:
e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.
E sempre Dwight aggiunge:
E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.
Inserire l’originale con il nuovo
Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.
Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.
Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.
Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.
Ed era ora di passare la fiaccola.
Una nuova regia
La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.
Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream(1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.
Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.
Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna
e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho(1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.
E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.
Puoi essere più metanarrativo di così?
Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.
L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.
E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.
Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remake–sequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.
Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:
Scream 4 (2011) è il quarto capitolo della saga omonima, arrivato a più di dieci anni di distanza da Scream 3, che chiude la trilogia originale.
L’ultimo film del compianto Wes Craven, che ci ha lasciato in eredità un prodotto che non solo era al passo coi tempi, ma che anticipava alcune dinamiche della società stessa.
A dieci anni dalle vicende di Scream 3, si torna a Woodsboro, con un cast di protagonisti rinnovato, che rappresentano la nuova generazione. Fra queste anche la cugina di Sidney, Jill, che dovrà cercare di riappacificarsi con la famosa parente, mentre la scia di omicidi sembra di nuovo prendere piede…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Scream 4?
Assolutamente sì.
Per quanto mi riguarda, Scream 4 è il miglior film della saga, secondo solamente al primo capitolo.
Riesce con grande freschezza a riportare in scena le dinamiche tipiche fin dal primo film, riuscendo ad aggiornarle al nuovo decennio, con anche delle grandi novità che rompono gli schemi classici.
Un film dove l’elemento horror diventa quasi comico a suo modo, mettendosi in linea con l’horror più violento che andava di moda in quel periodo, ovvero quello della saga di Saw, che al tempo ancora furoreggiava (e che infatti è pure citata nel film). Ma senza mai scadere nel torture porn.
Insomma, da recuperare assolutamente.
Questo inizio ha troppi livelli
L’inizio di Scream 4 credo che sia una delle cose più geniali mai concepite nel cinema horror.
Si comincia con un inizio che sembra l’effettivo inizio del film, in cui fra l’altro la pellicola si mette in linea con tutte le novità sia del genere, sia della società di dieci anni dopo: Facebook, i cellulari, le nuove saghe di successo come Saw.
Ed è la classica sequenza iniziale in cui le due ragazze in casa da sole sono le prime vittime di Ghostface (o di qualsiasi altro killer in uno slasher).
Tuttavia, il film ci catapulta in un altro inizio, che sembra ancora quello vero, con una coppia di ragazze che stava vedendo Stab 6, andando poi a screditarne la validità, perché banale e ripetitivo. Ma una delle due difende la saga per essere diversa dal solito che esce, e a sorpresa accoltella l’amica perché parla troppo.
E questo è l’inizio di Stab 7.
E poi si arriva all’effetto inizio del film che è di fatto quello che sembrava l’inizio all’inizio, in un meraviglioso cortocircuito mentale che ho semplicemente adorato.
Essere drammaticamente attuali
La grande novità di questa pellicola è l’idea che il killer ora sia sostanzialmente un vlogger, quando questa era ancora una realtà emergente nella nascente cultura di internet e dei social.
Oltre ad essere un elemento di grande freschezza, che raggiunge un interessante apice nel finale, è una questione drammaticamente attuale anche oggi: senza andare a scavare troppo nel torbido, sappiate solo che, in tempi recenti, dei terroristi hanno fatto cose simili.
Ma più in generale, quello che al tempo sembrava una cosa strana o comunque molto nuova, è diventata quasi la quotidianità nel nostro tempo, anche prendendo strade diverse, con vlogger che spopolano su TikTok.
In questo senso, da capogiro lo scambio fra Sidney e Robbie:
Vecchi moventi, nuovi moventi
La genialità del finale sta nel fatto di riprendere un movente simile del primo Scream, ma al contempo riuscendo a renderlo molto più attuale per il suo tempo. Nel primo film la vera radice del movente era la vendetta personale, in questo caso è l’invidia e il desiderio di essere al centro della scena.
Un sentimento tanto più comprensibile oggi, quando la popolarità sembra sempre dietro l’angolo e a portata di mano, tanto è semplice prendere in mano un cellulare e diventare, anche solo per poco tempo, famosi sui social.
In questo caso eravamo ancora all’inizio di questa ubriacatura di popolarità, ma non di meno questo sentimento esisteva.
Come infatti dice la stessa Jill:
Saper funzionare, 10 anni dopo
Un elemento che mi ha sempre dato da pensare di Scream è il personaggio di Sidney e in generale la volontà di creare una storia tutta in continuità, con il rischio di fare gli stessi errori della saga di Saw, che è andata inutilmente ad incartarsi. E, anche per questo, avevo paura di trovarmi davanti ad una trama ripetitiva.
Ovviamente, non potevo più sbagliarmi.
Sidney è un personaggio che funziona sempre, proprio perché è un personaggio femminile che funziona e che non ricade nella dinamica da Mary Sue. È una giovane donna con tante fragilità, ma che sa sempre rimettersi in piedi, affermare la sua posizione e lottare senza mai arrendersi contro Ghostface.
E in una maniera sempre credibile.
La violenza comica
Le morti nel film sono tanto estreme da diventare quasi comiche per la loro originalità: abbiamo i poliziotti uccisi con un coltello piantato nel cervello, una ragazza con le budella fuori, tantissimo sangue, fino ad arrivare alla mia preferita:
La madre di Jill uccisa alle spalle col coltello che passa attraverso la buca delle lettere.
Ed è proprio una risposta ad un tipo di cinema e di violenta orrorifica inaugurata proprio da Saw, che fra l’altro non sono mai riuscita ad apprezzare. E infatti non potrei più essere d’accordo con quello che si dice all’inizio del film:
Il casting pazzesco di Scream 4
Una delle cose che più mi hanno sorpreso è quanto siano riusciti a castare praticamente tutti gli attori più famosi e popolari delle serie tv e film mainstream dall’inizio degli Anni 2000 fino circa a metà del decennio successivo.
Anzitutto Lucy Hale, che interpreta una delle due ragazze di Stab 6, e che era appena sbocciata come star per Pretty Little Liars. Poi Kristen Bell, la vocedi Gossip Girl fino al 2011 e che interpreta una delle due ragazze in Stab 7.
Fra le protagoniste, Hayden Panettiere, che interpreta Kirby, che io ricordo soprattutto per Malcolm in the middle, ma che al tempo era molto conosciuta per la serie Heroes. E poi ovviamente Emma Roberts, che bivacchiava fra molti prodotti teen di secondo livello come Wild Child (2008).
Nota di merito anche alla presenza di Adam Brody, attore amatissimo al tempo per O.C. e che qui interpreta uno dei poliziotti, oltre a Rory Culkin, fratello del ben più famoso Macaulay Culkin, che qui interpreta Charlie, uno dei due Ghostface.
Scream 3 (2000) di Wes Craven è il terzo capitolo della saga omonima, che chiude quella che potremmo chiamare la trilogia originale, che venne poi ripresa nel 2011 con Scream 4 e poi ancora nel 2022 con Scream 5.
Dopo gli avvenimenti del precedente film, Sidney vive in una vita appartata, nascosta da tutti, per paura di essere di nuovo presa di mira da Ghostface. Tuttavia l’incubo non è finito, con anche la scoperta del passato misterioso della madre…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Scream 3?
Assolutamente sì.
Per quanto mi riguarda, il terzo capitolo di Scream è anche più interessante del precedente, con una costruzione più mirata e pensata, che è riuscita ad evitare un importante scivolone nel trash, pur esplorando il topos piuttosto tipico di scoperta del passato oscuro dei personaggi, che invece ha una risoluzione semplice ma efficace.
Un film che gioca veramente tanto con lo spettatore e con le sue aspettative, creando un fantastico dialogo metanarrativo fra i personaggi in scena e il film stesso, con un buon esempio di chiusura di una trilogia con poche sbavature.
Insomma, se vi è piaciuto Scream finora, non ve lo potete perdere.
Dialogare con il film
Il tratto metanarrativo di Scream 3 si arricchisce con un elemento nuovo: i personaggi che sembrano dialogare con i creatori stessi del film, tanto più quando sono i personaggi di Stab 3, con un cortocircuito mentale di grande eleganza e genialità.
Si comincia subito con la battuta di Cotton
facendo riferimento narrativamente a Stab 3, ma in realtà metanarrativamente proprio al suo ruolo in Scream 2 quanto nel terzo capitolo: nel film precedente era alla stregua del comico-grottesco, mentre in questo capitolo è una delle prime vittime.
Così Sarah, che nel film interpreta Candy, la classica vittima dei film horror di serie b, e che infatti dice:
e infatti è la seconda vittima. Così anche il Detective Kincaid, che fa riferimento a come i killer di solito diano la caccia ai poliziotti che indagano sui loro casi.
dice quasi un po’ con speranza. E nel finale rischia non poco di non essere così fortunato.
Il pericolo del trash
Un grande pericolo che ho percepito, soprattutto nella sequenza della cassetta di Randy, era il rischio che volessero strafare, e quindi di ricadere nel trash più putrido. Secondo le sue stesse parole, il terzo film di una saga horror è raro che venga prodotto.
Ma, quando succede, è un film con i fuochi d’artificio.
In particolare l’elemento più pericoloso era l’idea di indagare il passato della madre di Sidney, che poteva scadere nelle più terrificanti dinamiche da soap opera. Invece si è scelto di raccontare una backstory abbastanza semplice e credibile, in cui semplicemente la madre era un’aspirante attrice divenuta vittima delle ben note dinamiche di sfruttamento sessuale di Hollywood.
Il topos del killer imbattibile
È tremendamente attuale il racconto che Scream 3 fa del toposdelkiller imbattibile: basti solo pensare che la questione è diventata quasi un meme per il personaggio di Michael Myers nella nuova trilogia di Halloween, dove torna sempre in vita, nella maniera più ridicola e incredibile che potete immaginare.
E senza voler essere divertenti.
In questo caso effettivamente il killer sembra effettivamente imbattibile, ma c’è una giusta ragione: si è attrezzato con una tuta antiproiettile. Tuttavia, una volta scoperto, basta semplicemente sparargli alla testa per riuscire effettivamente a batterlo.
Anche se comunque, in maniera ovviamente comica, Ghostface torna in vita.
Il buon finale per Sidney
Per mettere un po’ di pepe alla narrazione, all’interno del film si nomina la possibilità che la protagonista, la scream queen, possa effettivamente rischiare la vita e perdere del tutto la plot-armor che la definisce.
Ed infatti sembra che Sidney rischi più volte la vita, e, ad un certo punto, sembra davvero morta, ma utilizza lo stesso trucco del killer: si è protetta con la tuta antiproiettile ed effettivamente scompare dopo che è sembrato essere morta, cogliendo contropiede il killer stesso.
Videodrome (1983) è un film di David Cronenberg, fra i più famosi della sua produzione. A soli due anni dal precedenteScanners(1981), il regista portava in scena un altro film destinato a diventare un piccolo cult di genere, per il suo incontro vincente fra lo sci-fi e il body-horror.
Una produzione con un budget sempre risicatissimo (intorno ai 5 milioni), che però, a differenza del precedente, fuun pesante flop commerciale: appena 2,4 milioni di dollari d’incasso.
E i motivi non sono difficili da capire.
Di cosa parla Videodrome?
Max è a capo di Channel 83, un canale di porno e soft-porn. La sua vita sembra procedere normalmente, andando alla ricerca di programmi ancora più spinti da proporre, fra cui il misterioso Videodrome…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Videodrome?
In generale, sì.
È un film che indubbiamente non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, soprattutto se siete interessati alla cinematografia di Cronenberg.
Tuttavia, aspettatevi di trovarvi davanti ad un prodotto con un intreccio e dei significati ben più complessi di Scanners e molto meno immediatamente comprensibile, con tante scene enigmatiche e dal sapore surreale.
È giusto segnalare che all’interno della pellicola le scene più disturbarti non sono tanto quelle di sesso, ma quelle di tortura. Niente di troppo esplicito, ma comunque neanche digeribile da tutti.
Ma voi provateci.
E se avete dubbi sul finale, potete sempre tornare qui.
Perché Videodrome è stato un flop?
All’interno di una produzione di Cronenberg ancora con budget molto ridotti, è davvero curioso che questo film ebbe un riscontro così scarso, tanto da portarlo ad un flop.
Tuttavia, una volta visto il film, non è neanche tanto strano.
Oltre alle scene di violenza non facilmente digeribili, ci sono molte sequenze di body horror non poco disturbanti, e che sembrano tutto tranne che finte. E, come se tutto questo non bastasse, il finale è incredibilmente enigmatico.
Il tutto da un autore già conosciuto per far dei film molto sui generis, e quindi non per tutti i palati.
E, per questo, il passaparola negativo potrebbe davvero averlo affossato.
Il potere del trucco prostetico
Il livello degli effetti speciali di questa pellicola, che, ricordiamo è stata prodotta con pochissimo, è devastante: in tutte le scene in cui sono utilizzati, soprattutto in quelli più surreali, non ho mai avuto un momento in cui non credevo a quello che vedevo in scena.
Sembra tutto così realistico e credibile, anche in scelte più impegnative come quelle in cui Max si apre il petto e diverse volte viene penetrato, da mani e da videocassette, momenti in cui ho sentito veramente tutto il dolore del personaggio.
Per non parlare degli effetti della mano-pistola.
Tuttavia, proprio riguardo a questo, l’unico momento in cui ho fatto fatica a sospendere l’incredulità è stato quando gli si forma effettivamente la mano-pistola, dove si vede abbastanza chiaramente che (come è ovvio) non è la sua vera mano e che poi nella scena successiva, è effettivamente la mano vera:
L’inquadratura della mano che si trasforma
L’inquadratura della mano trasformata
Un ottimo protagonista
Come ero rimasta perplessa dalla recitazione e in generale dal personaggio protagonista di Scanners, sono rimasta invece piacevolmente sorpresa da James Woods in questa pellicola.
Questo attore, oltre ad avere la faccia proprio da uomo comune assolutamente credibile, riesce a reggere perfettamente la scena in tutti i momenti diversi che deve affrontare il suo personaggio, con un’ottima capacità espressiva che mi ha davvero conquistato.
Cosa succede nel finale di Videodrome?
Il finale di Videodrome è assolutamente aperto alle interpretazioni.
Quella che preferisco è pensare che Nicki in realtà non sia mai esistita, ma sia sempre stata un’allucinazione di Max (almeno per la loro relazione), che racconta il suo lato più estremo, che il protagonista cerca di sfuggire.
Alla fine, Nicki diventa nient’altro che una sorta di sua voce della coscienza: Max si trova senza poter più fare niente, ricercato per omicidi che compiuto per ordine di altri. Quindi vuole definitivamente liberarsi della vecchia carne ed entrare in questo immaginario (?) televisivo che rappresenta la sua più estrema fantasia sessuale.
E lo confermerebbe il primo epilogo, poi tolto dalla versione finale, dove Max e Nicki si trovavano nel Videodrome.
Scream 2 (1997) di Wes Craven è il sequel dell’omonimo prodotto uscito l’anno precedente: a fronte del grande successo commerciale della prima pellicola, non poteva che esserci un secondo film.
Per il secondo film il budget fu in proporzione molto aumentato (da 15 a 24 milioni), con quantomeno una conferma del successo, nonostante l’incasso leggermente inferiore di 172 milioni di dollari (il primo ne aveva incassati 183).
Di cosa parla Scream 2?
Qualche anno dopo le vicende del primo film, Sidney è al collage e cerca di condurre una vita normale. Ovviamente questo non è possibile, perché l’incubo che ha vissuto sembra concretizzarsi nuovamente…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Scream 2?
Assolutamente sì.
Per quanto possiate odiare i sequel, non fermatevi al primo film: Scream 2 è un prodotto con una grande dignità, che conferma la genialità della metanarrativa del primo film, arrivando a prendersi in giro in maniera decisamente brillante.
L’unico avvertimento, e che mi ha leggermente deluso, è il fatto che l’elemento metanarrativo è più forte, ma molto meno presente rispetto alla prima pellicola, risultando complessivamente un prodotto più dispersivo, complice anche la durata maggiore.
Comunque, vale assolutamente la pena di recuperarlo.
I sequel fanno schifo?
Il titolo di questo articolo è volutamente provocatorio, come d’altronde l’argomento all’interno della pellicola. Un’intera sequenza è dedicata a questo tema, in cui si condanna esplicitamente i sequel degli horror, che hanno rovinato il genere
La forza di Scream 2 è la sua capacità di voler essere alternativo ai topos che definisco i sequel del genere, come spiega Randy:
Infatti, sicuramente possiamo dire che il conto delle morti è decisamente maggiore, e per certi versi anche giustificato: il killer in questo caso non aveva specificatamente in mente di uccidere Sidney, ma di costruire un caso e un grande scandalo. D’altronde, come spiega molto bene
La genialità di Stab
Tutta la sequenza iniziale è, oltre che divertentissima, assolutamente geniale.
Anzitutto perché il titolo così stupido (come sottolineato dagli stessi personaggi) del film nel film, ironizza in realtà anche col titolo del franchise stesso.
Insomma, Stab è un titolo tanto più stupido di Scream?
Ma è un elemento intrinseco della narrazione, che vuole parodiare, senza mai cadere nel ridicolo, tutto il filone horror. E anche in questo caso ci riesce perfettamente, particolarmente nelle scene di Stab che sono le versioni cheap del primo film.
I personaggi afroamericani sono dei token?
Un elemento altrettanto interessante della prima sequenza del film è il discorso riguardo alla poca presenza di attori afroamericani all’interno del genere horror.
E in questo senso il film fa una scelta molto intelligente.
Oltre a dedicare una delle parti più importanti e significative della pellicola proprio a degli attori neri, la pellicola ha cercato di includerne il più possibile nel cast dove c’era spazio, azzoppato dal fatto di dover recuperare i personaggi del film precedente, che erano tutti inevitabilmente bianchi.
Tuttavia, lodevole il tentativo di includere personaggi secondari interpretati da attori afroamericani con significato e un ruolo preciso nella pellicola, non stereotipati e soprattutto non le prime vittime della situazione. Anzi, il cameraman si defila dalla situazione proprio per non diventare una vittima.
Si potrebbe discutere all’infinito se questi personaggi non fossero altro che dei token, ma per il tempo in cui è uscita la pellicola è stato un passo avanti interessante e lodevole.
Costruire un finale efficace
Uno dei punti più alti del primo film era il finale, in cui si parlava ancora più metanarrativamente dei finali dei film horror. E in questo caso il film ha deciso di puntare ancora più in alto.
Anzitutto sono riusciti a portare sempre una coppia di killer con motivazioni diverse, ma che coprono tutte le necessità del film. Abbiamo da una parte un personaggio esageratissimo che racchiude al suo interno tutte le già citate necessità di raccontare un sequel.
Dall’altra abbiamo un killer ancora con motivazioni molto terrene come nella prima pellicola, fra l’altro andando a portare una serial killer donna, cosa che, per ammissione dello stesso film, è molto raro.
E, nonostante sia stata una sequenza estremamente e volutamente violenta, la scelta dei protagonisti che sparano gli ultimi colpi di pistola (dovuti e precauzionali) sui loro corpi, con tanto di Mickey che riprende improvvisamente vita come da buon cliché di un qualsiasi horror.
Scanners (1981) è uno dei più importanti film di David Cronenberg, che rappresenta l’esempio tipico della sua filmografia, con un incontro l’horror e lo sci-fi classico.
Un film fatto con poco, praticamente nulla, ma che da quel poco riesce a trarre un prodotto validissimo.
Il budget si aggira infatti intorno ai 3,5 milioni di dollari (circa 11 milioni oggi), e ne incassò 14,2 milioni. Un buon successo tutto sommato, che portò infatti alla creazione di un franchise a dieci anni di distanza, senza però il coinvolgimento di Cronenberg.
E ci sono ottime ragioni sul perché non avrebbero dovuto farlo.
Di cosa parla Scanners?
Nel 1981, nella società esistono diverse persone con capacità telepatiche, potenzialmente mortali. Il gruppo ha un capo Darryl Revok, che vuole distruggere la società che l’ha creato e contro cui si oppone Cameron Vale, un uomo inconsapevole dei suoi poteri e delle sue origini…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Scanners?
In generale, sì.
Forse non il miglior prodotto del regista, ma quello in cui è riuscito tanto di più a lavorare con quello che aveva, mostrando una regia molto indovinata, effetti speciali tutto sommato di ottima fattura e una storia complessivamente molto intrigante.
Aiuta anche una durata molto contenuta, che lo rende un prodotto facilmente digeribile, nonostante appaia decisamente più interessante nella prima parte, mentre sul finale diventa leggermente più lento e meno interessante.
Comunque un piccolo cult di Cronenberg da recuperare.
Il potere della regia…
Come detto, Scanners è un prodotto un low-budget, paragonabile ai più recenti The Lighthouse (2021) e X – A sexy horror story (2022), che ci dimostrano proprio come anche con pochissimo si possono fare prodotti di alta qualità. In questo caso basta del trucco prostetico e degli effetti da discount, che a volte sembrano quasi ridicoli, per portare in scena sequenze di grande effetto.
Particolarmente iconica è la scena dello scontro finale, in cui i due scanners hanno le vene che si gonfiano e scoppiano, si strappano pezzi di carne, con degli effetti visivi evidentemente di un’altra epoca, ma che sono comunque davvero d’impatto.
Tuttavia, l’altro caposaldo del film dovrebbero essere gli attori…
…e il problema degli attori
Nonostante il casting sia molto indovinato (l’eroe e l’antagonista hanno una fisionomia facciale perfetta per i loro ruoli), purtroppo l’unico attore che riesce veramente a sostenere la parte senza sembrare sciatto o ridicolo è Michael Ironside, che interpreta Darryl Revok.
Il suo personaggio è perfetto nel suo essere intrigante e profondamente malvagio.
Non si può dire lo stesso dell’attore protagonista, Stephen Lack, che interpreta Cameron: soprattutto sul finale, ha una recitazione veramente apatica, che non riesce trasmettere l’importanza delle rivelazioni e di quello che sta succedendo in scena. Il tutto aggravato dalla recitazione dell’attrice di Kim, che fra tutti è la peggiore.
E nel momento in cui tutta la credibilità della scena è rimessa nelle mani degli attori, la mancanza di credibilità degli stessi guasta certe scene.
Un eroe positivo?
In prima battuta Cameron sembrerebbe un eroe positivo, del tutto ignaro delle sue capacità, e che il Dottor Ruth sembra voler maneggiare a suo vantaggio. In realtà fin da subito, e poi per tutto il resto del film, si vedono delle ombre non indifferenti sul suo personaggio.
Anzitutto, perché utilizza con convinzione e con pochi scrupoli i suoi poteri, senza farsi veramente problemi. Anzi, a tratti sembra veramente ubriaco di tutto il potere che possiede, riuscendo alla fine a distruggere il nemico, potendo poi annunciare entusiasta, quando si è impossessato del suo corpo
Perchè i sequel di Scanners non hanno senso
Come anticipato, dal 1991 vennero prodotti due sequel, distribuiti direttamente in videocassetta, e poi due spin-off.
Non ho avuto il (dis)piacere di vedere questi prodotti, ma non ne sento neanche il bisogno, in quanto non sono opera di Cronenberg. E, soprattutto, perché l’idea stessa dei sequel di per sé non ha alcun senso.
Il film già di per sé è basato su un topos narrativo piuttosto semplice e tipico, che acquista valore perché nelle mani di un grande regista, che è stato appunto capace di tirare fuori un buon prodotto con poco. Ma allo stesso tempo il film scricchiola in alcuni punti, e basta davvero poco perché la storia stessa appaia ridicola.
Oltre a questo, il finale perde tutto il suo significato con l’idea di un sequel.