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Scream – E così nasce l’anti-horror

Scream (1996) di Wes Craven è il primo capitolo della saga anti-horror omonima, un cult ancora oggi. E un cult non a caso: nel momento della saturazione del genere horror, Craven decise di portare qualcosa di profondamente diverso.

Una pellicola che non avevo mai recuperato negli anni, ma che ho avuto il piacere di ricoprire, in attesa anche del nuovo capitolo in uscita il prossimo anno, Scream 6 (2023).

Un film fatto con poco (appena 15 milioni), ma che fu immediatamente un successo commerciale, incassando 183 milioni di dollari, il maggior incasso del 1996.

Di cosa parla Scream?

È passato quasi un anno dalla morte della madre di Sidney, che non riesce a superare la sua scomparsa, i cui dettagli sono ancora fumosi. Un serial killer comincia a minacciare la sua vita e la comunità, con degli strani collegamenti con l’omicidio della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream?

Drew Barrymore in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Nonostante sia un film di quasi trent’anni fa, Scream è ancora assolutamente godibile. Ovviamente non vi dovete aspettare un horror autoriale alla Nope (2022), ma un prodotto che si inserisce efficacemente nel filone dell’horror commerciale, pur deridendolo.

In particolare, ve lo consiglio se siete particolarmente appassionati all’horror slasher degli Anni Settanta – Ottanta, che la pellicola cita continuamente.

E nella maniera più metanarrativa che possiate immaginare.

Giocare con la metanarratività

Più si prosegue nella narrazione, più le citazioni e i riferimenti agli horror cult si moltiplicano, andando a dialogare direttamente con il film stesso. Il momento più alto è quando Bill dice a Sidney

It’s all…one great big movie

È tutto un grande incredibile film

E da lì è tutto in discesa.

Si sprecano poi i parallelismi con Halloween (1978), in particolare in due momenti: quando, davanti alla scena in cui la protagonista si sta spogliando, il montaggio alternato ci mostra Sidney che fa lo stesso nell’altra stanza. E poi quando Randy urla alla protagonista del film

Jamie, look behind you!

Jamie, dietro di te!

e ha lui stesso il killer alle spalle che lo sta per uccidere. Infine, altrettanto memorabile quando sempre Randy, mentre stanno guardando Bill a terra apparentemente morto, ricorda:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

e infatti Bill torna in vita e Sidney gli spara, chiosando

Not in my movie.

Non nel mio film.

Ci sono anche momenti più gustosamente umoristici, come quando il preside parla con il bidello, che si chiama Fred ed è vestito come Freddy Krueger della saga di horror Nightmare.

Uscire dagli schemi

Matthew Lillard e Skeet Ulrich in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Scream riesce ad essere diverso dal canone non solo a parole, ma anche nei fatti. Anzitutto, portando una violenza al limite dello splatter e del grottesco, che non appare finta, con anche una certa ironia che sdrammatizza molte scene di tensione.

Fra tutte, piuttosto indovinata la scena prima della morte di Tatum, in cui lei crede che il killer sia uno scherzo e gli chiede se vuole che sia la sua vittima. E anche, più in piccolo, quando Sidney è chiusa in macchina e il killer le sventola davanti alla faccia le chiavi che stava cercando per scappare.

Ma soprattutto è originale la scelta di mettere una coppia di killer e soprattutto di non appiattire gli stessi sull’immagine di personaggi pazzi e con un passato tormentato, assegnandogli invece motivazioni più semplici e terrene.

Ma il colpo di genio è stato fare in modo che il sospettato numero uno fosse effettivamente il colpevole, e non un modo per confondere lo spettatore. Spettatore, fra l’altro, ormai abituato a questo tipo di dinamica e che non si sarebbe lasciato facilmente ingannare.

Una regia non scontata

Tutt’oggi l’horror commerciale – sempre con splendide eccezioni – è caratterizzato da produzioni da discount, per cui di solito si mettono alla regia dei semplici mestieranti che portano una messinscena molto mediocre, con spesso anche una sceneggiatura molto scontata.

Al contrario Wes Craven riesce a plasmare la messa in scena con una regia dinamica e interessante, con anche tocchi registici piuttosto peculiari, come il particolare sul riflesso del killer negli occhi del Preside prima di morire.

E in generale è una regia che gioca molto di inquadrature improvvise e con insistenti primi piani stretti.

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Men – Il maschile fragile

Men (2022) è l’ultima pellicola di Alex Garland, cineasta noto per pellicole come Ex Machina (2015) e Annientamento (2018).

Ovviamente ha avuto un incasso molto limitato: appena 11 milioni in tutto il mondo, davanti ad un budget finora sconosciuto, ma che dovrebbe aggirarsi fra i 5-10 milioni di dollari.

Di cosa parla Men?

Harper è una giovane donna che, dopo essersi separata tragicamente dal marito, decide di concedersi una meritata vacanza in una piccola tenuta di campagna. La sua vita e la sua permanenza vengono però minacciati dalla presenza opprimente di diversi uomini…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Men?

Rory Kinnear in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Men è un film molto complesso, che presenta diversi livelli di lettura e che in un certo modo si perde nell’elemento onirico e fantastico, non sempre spiegabile. Quindi non aspettatevi di trovarvi davanti ad un horror classico e facilmente comprensibile, ma piuttosto ad un prodotto molto più vicino alla cripticità di un The Lighthouse, per esempio.

In generale comunque è un film che vale assolutamente la pena di vedere, per godersi un prodotto che racconta la figura dell’uomo e del suo rapporto con la donna in maniera interessante e inusuale. Tuttavia è giusto sapere che è anche una pellicola con una violenza e un orrore molto fisico e esplicito, che potrebbe essere non digeribile per alcuni.

Ma, se questo elemento non è per voi un problema, correte a guardarlo.

Un uomo, mille uomini

Rory Kinnear e Jessie Buckley in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Un aspetto peculiare di Men, di cui non ci si accorge immediatamente, è che tutti gli uomini in scena, ad eccezione dell’ex-marito James, sono interpretati dallo stesso attore, ovvero l’ottimo Rory Kinnear.

Questa scelta offre molteplici chiavi di lettura, a partire dal fatto che molti personaggi appaiono fasulli: in particolare il prete, con una parrucca visibilmente finta, il padrone di casa Jeffrey, con i suoi dentoni bianchissimi, e il ragazzino, con il viso che è un evidente deep fake.

La chiave di lettura più immediata è che questa esperienza permette ad Harper di raggiungere la consapevolezza che tutti questi uomini sono in realtà fatti della stessa pasta (tanto che si partoriscono l’un l’altro).

E che, di conseguenza, rappresentano anche la figura opprimente del marito di cui cerca di liberarsi.

La mascolinità minacciosa…

Per la maggior parte della storia il maschile appare minaccioso, aggressivo e per certi versi anche incomprensibile.

Partiamo dall’aggressione più velata di Jeffrey, che parla in maniera fastidiosa a Harper in quanto donna non sposata, e così anche il poliziotto, che banalizza il pericolo che la donna sente di correre per l’uomo nudo che la perseguita.

Il maschile poi diventa via via più violento fisicamente e soprattutto sessualmente.

la casa, che rappresenta evidentemente il corpo di Harper (anche solo per le pareti rosse che sembrano le sue interiora), viene continuamente penetrata dal maschile: non a caso, quando Harper parla dell’uomo che ha cercato di entrarle in casa, usi due volte la parola penetrare.

Il simbolismo del film porta ad una traslitterazione dalla mano al pene.

Molta attenzione infatti su queste mani maschili che cercano di afferrare il corpo di Harper e penetrare dentro la casa attraverso la buca delle lettere, ma che diventano appunto un fallo quando il ragazzino mima l’atto sessuale sull’uccello con la maschera di donna.

…e il maschile debole

Jessie Buckley in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Ma il maschile diventa debole quando di fatto Harper lo castra: nel momento massimo dell’aggressione, ovvero quando il prete cerca di violentarla, lei invece lo penetra con il coltello e lo uccide.

E così anche quando la mano cerca di penetrare dentro alla casa e la donna gliela taglia a metà, momento in cui la regia enfatizza la superiorità di Harper rispetto al personaggio maschile con inquadratura dal basso verso l’alto.

Infatti, quando rientra infine in casa, Harper non cerca più di chiudere la porta: non ha più paura, ma vede invece una mascolinità ormai fragile, debole, che cerca di avvicinarsi a lei, ma non più in maniera minacciosa.

Quello è il momento di consapevolezza della radice del maschile violento, ovvero la sua ricerca, a partire dalle parole del marito, dell’affetto e dell’attenzione del femminile (e non solo).

L’uomo solo

Rory Kinnear in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Il film può avere un’ulteriore chiave di lettura proprio dal personaggio del marito.

Infatti, James è distrutto dall’idea di perdere la moglie e, di conseguenza, il suo amore.

Tuttavia è di fatto incapace di affrontare il problema in maniera sana, ma solo violenta e minacciosa: minacciando di suicidarsi, cercando di riappropriarsi della donna e anche cercando di sottometterla fisicamente.

E questo racconta un effettivo problema sociale dell’uomo che è socialmente incapace di raccontare le sue emozioni in quanto istruito a nascondere, pena l’essere paragonato al femminile debole. Al contrario il maschile viene anche educato alla violenza, e solo con quella riesce ad esprimerla.

Per questo alla fine Harper capisce che la fragilità del marito e la sua ricerca di amore è un problema intrinseco, di cui lei di fatto non ha colpa e che non poteva veramente risolvere.

E infatti alla fine appare sollevata e finalmente libera da questo peso.

Il regista di Men odia gli uomini?

Può sembrare una domanda molto stupida, ma non lo è per niente.

Questo è il classico film estremamente divisivo in cui il target della critica potrebbe sentirsi attaccato. Per questo è giusto puntualizzare che il film non è tanto banale da voler dire che tutti gli uomini sono dei molestatori e degli stupratori.

Al contrario, vuole raccontare un problema sociale di grande importanza, ovvero quello dell’approccio anche involontariamente insano dell’uomo nei confronti della donna, in tutti i modi più disparati mostrati nel film.

Fra l’altro mettendo a fuoco un problema sociale altrettanto importante, ovvero la radice della violenza di questa mascolinità, senza andare a rendere semplicemente mostruoso il maschile.

Il simbolismo di Men

Il simbolismo di Men è piuttosto peculiare e si presta a diverse chiavi di lettura.

L’elemento centrale è rappresentato dallo strano bassorilievo della chiesa, che viene ripreso più volte durante il film: il volto dell’uomo nudo alla fine, in generale i vari urli di Harper, in particolare quando urla nella vasca da bagno sul finale.

Quella raffigurazione è il green man, simbolo antichissimo con vari significati, ma che di base rappresenta la rinascita. All’interno del film può essere proprio interpretata come la figura della mascolinità violenta e di come vede invece la femminilità passiva, in particolare sessualmente passiva.

E invece la femminilità si rivolta contro il maschile, diventando Harper stessa appunto il green man che urla.

Come lettura in più, il prete nella vasca da bagno sembra citare la vicenda di Agamennone e Clitemnestra, l’apoteosi della donna vendicativa. Lo conferma anche lo sfondo della scena: il bagno con la vasca da bagno, la stessa in cui Clitemnestra uccide il marito all’interno del mito.

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Crimes of the future – (Ri)scoprire il corpo

Crimes of the future (2022) di David Cronenberg è l’ultima pellicola del maestro dell’orrore dopo quasi dieci anni di assenza dalla sala. Ed è stato anche il mio battesimo del fuoco per la sua cinematografia, che conosco molto marginalmente e che non ho mai veramente affrontato.

E, dopo la visione, non vedo l’ora di scoprirne di più.

La pellicola si è rivelata purtroppo un incredibile flop commerciale, anche se certamente non è stata pensata per un ritorno economico consistente: ha incassato appena 3.4 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di una spesa di 35 milioni.

Di cosa parla Crimes of the future?

Cosa succederebbe se il corpo non potesse più provare dolore e l’uomo si evolvesse per essere sempre più affine ad un mondo di plastica e spazzatura?

Questo è il mondo in cui vivono Saul e Caprice, due artisti performativi che portano in scena spettacoli davvero peculiari: a Saul crescono organi anomali nel suo corpo, che vengono tatuati e poi estratti dalla sua partner durante lo spettacolo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimes of the future?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Dipende.

Partiamo col dire che Crimes of the future non è un film per nulla semplice.

La trama non è di per sé centrale, ma è al contrario un veicolo per raccontare un mondo futuristico e desolante, spoglio e senza speranza. Un mondo concentrato unicamente sul corpo e sulle sue trasformazioni, senza più paura per l’orrore e per il grottesco.

Quindi, se non vi piace particolarmente il body horror e un tipo di orrore particolarmente materiale, è probabile che questo film non faccia per voi. Come prodotto lo posso in parte paragonare a Mad Max – Fury road (2015): un film incredibile, basato molto su un orrore spettacolare e corporeo, ma in cui la trama è di fatto secondaria.

Una società perduta?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Nel film vediamo un mondo spoglio, fatto di rottami, spazzatura e degrado.

E non sembra che la cosa interessi a nessuno.

L‘intero focus è sull’uomo, sulle sue trasformazioni, in una sorta di neo-umanesimo. L’evoluzione è talmente rapida che non è neanche possibile definirla e regolarla: continuamente nel film si parla di come certe cose siano concesse, altre non ancora, e sembra sempre di agire nelle zone d’ombra della legge.

La stessa tecnologia sembra vecchia e datata, e non sembra esserci altro desiderio di quello di curare il corpo, plasmarlo a proprio piacimento, non cercando per la bellezza, ma il grottesco, che diventa in qualche modo anche erotico.

Arrivando all’estremo con la cosiddetta chirurgia da tavolino, ovvero la chirurgia improvvisata, di strada.

La corporeità

La corporeità domina ogni elemento.

Perfino la tecnologia stessa sembra essere definita tramite la corporeità, non cercando delle linee eleganti e futuristiche, ma dei macchinari che sembrano delle creature fatte di pezzi di corpo, di ossa bianche e lucide.

Il desiderio di corporeità arriva fino a fare dei concorsi di bellezza per la bellezza interiore, di fatto quella degli organi interni, a creare degli spettacoli concentrati sull’estrazione dell’organo più artistico e addirittura il desiderio erotico di vedere un’autopsia dal vivo.

E un’autopsia sul corpo di un bambino.

Kristen Stewart: c’è sempre una prima volta

Kristen Stewart in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Se avete letto la mia recensione di Spencer (2021) sapete cosa ne penso di Kristen Stewart, che qui interpreta la timida impiegata Timlin. E devo dire che è la prima volta, da quando ha cominciato a recitare, che l’ho vista veramente recitare in un ruolo.

Indubbiamente non è del tutto uscita dalla sua comfort zone della ragazza timida e impacciata, elemento che spesso accomuna i suoi personaggi, anche in prove attoriali assolutamente non pessime (ma neanche grandiose) come in Spencer, appunto.

Spero sia un primo passo nella giusta direzione.

Per ora, ha la mia attenzione.

Crimes of the future spiegazione finale

Personalmente ho trovato difficile comprendere il finale, che è definitivo praticamente dal dialogo fra Saul e il Detective Cope: non riuscendo a seguirlo, complice forse il doppiaggio poco indovinato, non sono riuscita (sul momento) a capire il resto.

Se siete anche voi nella mia situazione, siete nel posto giusto.

Nel finale il detective rivela a Cope che il Vice Department ha sostituito gli organi del bambino per evitare che si scoprisse questa realtà di evoluzione umana, che si adattava a questo ideale di nutrirsi della plastica e degli scarti industriali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Per questo le due impiegate che dovrebbero apparentemente controllare il funzionamento dei macchinari, in realtà erano in combutta con la stessa polizia. E per questo hanno ucciso il dottore (che forse ci viene fatto intendere avere la stessa mutazione di Becker) e il padre del bambino ucciso.

Alla fine Saul decide di allontanarsi dalla polizia e del suo lavoro, cominciando a nutrirsi di plastica e capendo che questo è quello che il suo corpo vuole: l’ultima inquadratura mostra un Saul molto rilassato e, finalmente, felice.

Qual è il significato di Crimes of the future?

Partendo dal fatto che il film a mio parere è del tutto godibile senza dover dare alcuna interpretazione, il significato della pellicola è in realtà abbastanza intuitivo.

Cronenberg ci vuole raccontare di un futuro desolante, ma anche possibile: un futuro in cui le guerre climatiche e la distruzione delle risorse ha portato a una realtà degradante, dove l’uomo comincerà a non potersi (o non volersi) più nutrire dei prodotti naturali, ma piuttosto di quelli artificiali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Un futuro in cui si adatterà semplicemente alla distruzione che lo circonderà, concentrandosi solo su sé stesso, in maniera quasi ossessiva.

La volontà di nutrirsi di rifiuti industriali sarebbe l’ultimo passo verso questa idea di essere un tutt’uno con l’orrore che lo circonda.

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Nope – L’orrore di concetto

Nope (2022) è l’ultima pellicola di Jordan Peele, cineasta diventato famoso per Get out (2015) e poi per Us (2019).

Una pellicola dove il regista statunitense compie un ulteriore passo avanti nella sua produzione, portando un prodotto più complesso, maturo ed intrigante, che si spoglia del didascalismo che aveva un po’ guastato la sua seconda pellicola.

Purtroppo il film non sta incassando moltissimo, essendo già uscito da un mese in quasi tutto il mondo: davanti ad una produzione di 68 milioni, finora ne ha incassati solo 115.

Di cosa parla Nope?

OJ è un giovane addestratore di cavalli per produzioni cinematografiche, che si trova ad affrontare un misterioso nemico che infesta i cieli delle sue praterie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nope?

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Assolutamente sì: dopo aver sperimentato con il genere horror, Peele si contamina con il genere sci-fi e western in maniera originale e assolutamente iconica.

Se siete già appassionati al cinema di Jordan Peele, non potete assolutamente perdervelo. Se avete paura di trovarvi davanti ad un horror davvero spaventoso e violento, non preoccupatevi: il film crea una tensione non da poco, con concetti non poco disturbanti, ma non mostra mai una violenza sanguinosa e spaventosa.

Un orrore più sottile, che ti entra sottopelle, ma che è di concetto e lasciato in parte all’immaginazione dello spettatore, più che veramente mostrato.

Uno dei migliori film di quest’anno finora, senza dubbio.

Cosa significa nope e altri piccoli concetti essenziali

Il senso del titolo purtroppo si perde del tutto nel doppiaggio, ma era inevitabile: nope è un modo più colloquiale di dire no, nel senso no, neanche per sogno: per citare UrbanDictionary, un no definitivo, che nega in qualunque modo quello di cui si sta parlando. Quindi, se lo vedete doppiato, ricordatevi che a volte, quando sentirete gli attori dire no, in originale dicono nope. Parola che ha un significato ben più ampio e preciso, appunto.

Sono state date non poche interpretazioni su questo titolo, ma Peele ha assicurato che voleva solo che fosse la reazione dello spettatore davanti alla pellicola.

Oltre a questo, per capire una battuta che altrimenti cadrebbe piatta, History Channel è un canale televisivo statunitense noto per trasmettere documentari pseudo scientifici e scandalistici, di fatto delle riconosciute bufale.

Infine, il nome del protagonista è OJ, omonimo di O.J. Simpson, che è stato al centro di uno dei più famosi casi di cronaca nera in ambito statunitense negli Anni Novanta.

Ora siete pronti per vedere il film. 

Raccontare il mostro

Per raccontare il mostro, Peele non poteva prendere come modello un caposaldo della cinematografia occidentale: Lo squalo (1972), pellicola che è citata continuamente.

Infatti, se si confronta la modalità di svelamento del nemico di Nope con il capolavoro di Spielberg, l’omaggio è evidente: prima mostrato in maniera sfuggevole, tanto che non si vede neanche la sua forma, poi come ombra, infine potentemente presente in scena.

Ed è incredibile come il mostro faccia paura appunto come concetto: vediamo uomini vivi all’interno del suo apparato digerente, li vediamo urlare, ma non capiamo perchè dovremmo aver paura. Ma, quando lo capiamo, è tremendamente disturbante.

A vedersi, il nemico non è un mostro pauroso, ma anzi molto enigmatico. Sembra al contempo limitato ad una bocca enorme ed a degli occhi che non possiamo vedere, ma poi appare molto più complesso e incomprensibile quando rivela tutta la sua natura sul finale.

Alzare lo sguardo

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

La tecnica registica è veramente un tocco di classe: in non poche scene Peele riesce non solo farti seguire con lo sguardo la visione dei personaggi verso il mostro, ma ti porta veramente ad alzare gli occhi verso il margine dello schermo, quindi a diventare tu stesso un protagonista della scena.

Oltre a questo le scene sono incredibilmente travolgenti per questo uso dell’inquadratura che taglia di sbieco il soggetto, lasciandolo ai margini e insistendo sul cielo dove dovrebbe apparire il mostro. Come se il regista si dimenticasse di star girando un film volesse solo riuscire a catturare questa incredibile creatura.

Gordy: rafforzare un concetto

La storia secondaria e parallela è quella di Jupe, traumatizzato dalla visione in gioventù della strage della scimmia Gordy. Il collegamento con la trama principale è veramente debole ed è un aspetto che a mente fredda potrebbe pure essere considerato un difetto.

Ma la scena di Gordy serve a rafforzare un concetto, ad irrobustire la sensazione di inquietudine e di pericolo della vicenda. L’animale del film è quello che l’uomo cerca di domare, ma che in realtà è un predatore, una bestia incontrollabile, che semplicemente non puoi addomesticare.

Come la creatura protagonista del film, Gordy non ha un aspetto inquietante e minaccioso, anzi era un personaggio simpatico portato all’interno di una sit-com televisiva di successo. E questa tecnica è amplificata anche dal personaggio di Haley, la ragazza che partecipava allo show insieme a Jupe, e che rivediamo fra il pubblico durante il suo spettacolo. Una figura muta e inquietante, che porta le terribili conseguenze dell’attacco.

Di nuovo, un personaggio che non aggiunge niente alla trama, ma che arricchisce la scena dell’attacco.

La non-lettura

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Ho sentito molte interpretazioni date a questa pellicola: riferimenti al mondo delle maestranze del cinema, al ruolo degli attori neri nel cinema, al COVID… Per me la bellezza di questa pellicola è la mancanza di una spiegazione chiara e l’apertura a molteplici interpretazioni.

Non avendo letto immediatamente alcun significato ulteriore, preferisco non trovarne alcuno, ma considerarlo semplicemente un ottimo film horror che gioca con generi diversi e che definisce un definitivo passo avanti per la cinematografia di questo regista.

La fantascienza credibile

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

In questa pellicola Peele non solo è riuscito a sperimentare con generi diversi, ma a portare una fantascienza che per certi versi mi ha ricordato Arrival (2016): una fantascienza credibile. In particolare si smarca dall’immaginario collettivo, alimentato da diversi film sci-fi e catastrofici dagli Anni Settanta in poi: l’idea che gli extraterrestri, se ci invadessero, sarebbero esseri molto più intelligenti di noi, capaci di dominarci.

Invece l’alieno, se così vogliamo considerarlo, di Nope è niente di più che una bestia, un animale primitivo che caccia l’uomo e che l’uomo deve cacciare per sopravvivere. Un concetto che è stato rafforzato da una scena apparentemente inutile, ma che è pregna di significato: quando i ragazzini cercano di terrorizzare OJ travestendosi da alieni.

In quel momento lo spettatore viene ricondotto su binari consueti, pensando che quelli che vede sono la minaccia del film. Invece quelle figure non sono altro che uno scherzo, un gioco con lo spettatore e con le sue aspettative. Il nemico del film, infatti, è tutta un’altra cosa.

Chi è il mostro?

Nel film non viene spiegata per nulla l’origine della creatura, ma la pellicola sembra suggerire che sia in circolazione dagli Anni Cinquanta e che per tanto tempo sia stato confuso con un disco volante. In realtà, a meno che non si voglia pensare che sia stato particolarmente attivo in quella zona perché Jupe gli offriva in pasto i cavalli per il suo spettacolo, non sembra molto credibile.

Tuttavia qui si apre la strada alle interpretazioni e all’immaginazione dello spettatore. E la scelta di lasciare questo spazio al pubblico è stata una delle più indovinate, evitando di andare ad incagliarsi in spiegazioni non del tutto soddisfacenti come in Us, appunto.

Un grande passo avanti, appunto.

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Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.

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Get Out – Feticizzazione

Get out (2017) è l’opera prima di Jordan Peele, cineasta attivo da pochi anni ma che ha già reso riconoscibile il suo stile e la sua, seppur breve, cinematografia.

Il film fu estremamente elogiato per la freschezza e la novità che portò al genere horror, mentre il suo secondo film, Us (2019), fu molto meno considerato. E fu una vera ingiustizia.

La pellicola fu un incredibile successo commerciale: un budget ridottissimo, di appena 4.5 milioni di dollari, portò ad un incasso di 255.

Di cosa parla Get out?

Chris è un giovane afroamericano fidanzato da pochi mesi con Rose. Pur in grande imbarazzo, accetta di andare a far visita la famiglia di solo bianchi della fidanzata. Questa scelta non si rivelerà la più indovinata…

Get out può fare per me?

Lakeith Stanfield e Geraldine Singer in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Partiamo dicendo che Get out è un horror, ma non fa di fatto paura, anche perché utilizza pochissimo i tanto abusati jump scare. Più che altro è un film che crea una profonda angoscia e inquietudine. E questo grazie all’utilizzo di una recitazione ben calibrata e una scelta dei volti piuttosto azzeccata.

È una pellicola in generale abbastanza accessibile, che diventa ancora più interessante per un pubblico coinvolto con le tematiche che Peele porta sullo schermo. Ma, prima di tutto, è un prodotto horror autoriale che porta un’interessante novità al genere.

Feticizzazione

La feticizzazione dei corpi neri è il tema politico sotterraneo del film. Un problema sentito negli Stati Uniti e che è fondamentalmente l’altra faccia del razzismo: questa idea di idealizzazione del corpo nero, corredato da una serie di stereotipi (la grandezza dei genitali, la velocità ecc.).

Stereotipi che non sono falsi di per sé, ma che assumono un significato ben diverso se applicati sistematicamente a persone che condividono nient’altro che il colore della pelle o una discendenza comune. In questo modo infatti non vi è una glorificazione del corpo, ma una deumanizzazione dello stesso.

Ed è questo quello che di fatto succede in Get Out: il corpo di Chris è messo in vendita come quello di una bestia, da un gruppo ricchi bianchi che se ne vuole impossessare per godere dei presunti benefici del corpo di un afroamericano.

Far paura senza far paura

Betty Gabriel in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Una grande capacità di Peele, che poi sprigiona tutta la sua potenza in Us, è la capacità di far paura senza far uso di tecniche abusate. Così appunto non ci sono praticamente jump scare e tutta l’inquietudine del film si basa sull’ottima recitazione corporea e facciale dei personaggi.

Particolarmente rilevanti sono Walter e Georgina, che alla fine si scopre che racchiudono le coscienze del nonno e della nonna. Ma da elogiare anche la recitazione di Allison Williams, che interpreta Rose, che è stata capace di sostenere la recitazione da brava fidanzata, per poi rivelarsi, con un solo gesto, l’invasata calcolatrice che in realtà è.

Tutto e niente

Daniel Kaluuya in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

La mia è sicuramente un’opinione impopolare, ma io considero Get out come un film per molti aspetti amatoriale, che è solo un punto di partenza per una cinematografia ben più interessante. E infatti Us mi ha stupito molto di più.

Nondimeno in questa pellicola troviamo tutti gli elementi ormai tipici di Jordan Peele: un horror che punta più sull’inquietudine che sull’orrore, un umorismo per nulla forzato, una sottotrama politica molto forte e per nulla banale.

Al tempo della visione, ebbi proprio questa idea: un buon punto di partenza, ma adesso vediamo che strada prende. E con Us sono stata ricompensata.

Insomma, per me un’ottima opera prima, ma non il capolavoro che tanti sostengono.

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Super 8 – Un film fuori dal tempo

Super 8 (2008) è un film prodotto, scritto e diretto da J.J. Abrams, autore e produttore che ha le mani un po’ ovunque quando si tratta di revival in ambito sci-fi.

Una pellicola che ebbe anche un buon successo, con 50 milioni di dollari di budget e 260 di incasso.

Di cosa parla Super 8?

1979, Joe Lamb è un quattordicenne che ha appena perso la madre in un tragico incidente e deve riallacciare i rapporti col padre. Lui e i suoi amici, mentre sono intenti a girare un film amatoriale, diventano testimoni di un tragico e misterioso incidente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super 8?

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Assolutamente sì.

Super 8 è un film piuttosto semplice, un’avventura sci-fi per ragazzi di stampo classico, che si rifà massicciamente ai topos degli Anni Ottanta.

Sia che siate appassionati dei classici, come Stand by me (1986) e E.T. (1982), sia dei revival nostalgici come Stranger Things, non potete perdervelo.

Una costruzione da manuale

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

La costruzione della trama è davvero da manuale, nel senso migliore possibile.

Tutti gli elementi che portano al finale sono sapientemente costruiti fin dall’inizio e in maniera funzionale al finale.

Così per esempio Donny, che alla fine accompagna i ragazzi alla scuola, si è dimostrato interessato alla sorella di Charlie fin dall’inizio. E così Joe sa dove è la tana della creatura perché in precedenza è andato al cimitero a trovare la madre.

E questa costruzione così intelligente non è per niente scontata, in quanto in prodotti di ben più grandi produzioni capita spesso che, per far arrivare i personaggi ad un punto, si scelgono soluzioni forzate e poco credibili.

Allo stesso modo il mistero è un continuo crescendo, partendo da una scena improvvisa, seguendo un sentiero di briciole che ci vengono snocciolate a poco a poco.

La creatura

Secondo lo stesso principio, la creatura viene svelata secondo precise tappe e con una costruzione molto abile. Prima è un’ombra, poi una figura sfocata sullo sfondo, poi ne scopriamo la sagoma, e nel finale ne vediamo il volto.

Molto furbo fra l’altro cercare di umanizzarla, svelandone a sorpresa gli occhi piuttosto espressivi, per dare quello slancio emozionale che ci permette di empatizzare.

Soprattutto perché si cerca di raccontare un nemico che in realtà è vittima degli stessi protagonisti e che, come E.T., vuole solo tornare a casa.

Un character design fra l’altro semplice, ma d’impatto.

Semplicemente Elle Fanning

Elle Fannings in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per via anche del suo budget limitato, il film ha puntato su attori giovanissimi e fondamentalmente sconosciuti. La recitazione non è esattamente brillante, ma comunque di livello accettabile.

Fra tutti però si distingue Elle Fanning, che interpreta Alice, al tempo ancora poco conosciuta, ma che ha lavorato negli anni con autori come Woody Allen e David Fincher.

In questa pellicola troviamo una recitazione ancora acerba, ma che sa comunque destreggiarsi in diversi momenti più complessi della narrazione.

E il fatto che una scena sia basata solamente sul mettere in evidenza le sue capacità recitative è tutto un programma.

Pallidi comprimari

Riley Griffiths  in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Un difetto del film è di non riuscire a far risaltare i comprimari del protagonista.

Come per il miglior film per ragazzi Anni Ottanta, Joe è infatti circondato da un gruppetto di personaggi che gli fanno da contorno, e che sono al contempo il comic relief della pellicola.

Purtroppo, gli stessi sembrano essere dimenticati nel corso del film, al punto che si utilizzano diversi stratagemmi per lasciarne il più possibile indietro in occasione dello scontro finale.

Allo stesso modo questi personaggi per la maggior parte non hanno una caratterizzazione precisa, ma limitata a pochi elementi.

Abrams e Gioacchino: che coppia!

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per quanto magari Abrams non possa essere considerato un grande autore, la sua regia è ben più di quella di un mestierante qualunque.

In questa pellicola è innamorato dei suoi personaggi: li inquadra spesso fra il mezzo primo piano e il primo piano, facendoli avvicinare alla macchina da presa mentre guardano misteriosamente all’orizzonte.

Così anche bellissime le sequenze in cui i personaggi sono coinvolti in discussioni concitate e la macchina da presa gli gira intorno, regalando una splendida dinamicità alla scena.

La regia è inoltre impreziosita da un’ottima colonna sonora, composta dall’iconico Gioacchino, autore di colonne sonore di grande successo e valore come quella di Up (2010) e della nuova trilogia di Star Trek.

Cos’è il Super 8?

Il super 8 millimetri che dà il titolo al film è un formato cinematografico, un tipo di pellicola utilizzata proprio per il cinema amatoriale.

Ed è infatti quello che i protagonisti utilizzano per girare il loro film.

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Number 23 – Storia di un’ossesione

Number 23 (2007) è un film di Joel Schumacher con Jim Carrey che si imbarcò in un genere che non aveva mai sperimentato: il thriller psicologico.

L’attore ebbe infatti ancora una volta la fortuna di trovarsi sotto l’egida di un regista capace in un prodotto complesso e intenso. Schumacher è infatti un autore molto divisivo, soprattutto per l’assurdità di Batman & Robin (1997), cui viene sempre associato, ma è in realtà un regista con un’estetica profonda e potente.

Il film ebbe un riscontro economico decisamente deludente: anche se non fu un flop, incassò 77 milioni contro un budget di 30. Tuttavia, col passare degli anni, entrò nel cuore di molti cinefili.

Di cosa parla Number 23?

Walter è un accalappiacani che vive una vita tranquilla con la sua famiglia. Improvvisamente viene in possesso di uno strano libro, intitolato appunto Number 23. Il protagonista si ritroverà così stranamente ad identificarsi nella storia narrata, che sembra avere una strana vicinanza con gli eventi della propria vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Number 23?

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dipende.

Number 23 è un film per nulla semplice, sia per gli argomenti trattati, sia perché gioca anche con il genere horror, con alcune scene piuttosto sanguinose e non adatte a cuori sensibili. Oltre a questo, la regia è piuttosto particolare, anche se perfettamente in linea con l’estetica di Schumacher.

Insomma, se sguazzate nel genere gore e thriller, ma anche nel noir hard boiled, probabilmente vi piacerà moltissimo. Al contrario, se siete facilmente impressionabili e vi angosciate con poco, statene alla larga.

Un andamento inaspettato

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Devo ammettere che verso la metà del film ho cominciato ad annoiarmi, perché il film mi sembrava voler raccontare il climax ascendente del protagonista, che diventa definitivamente ossessionato dal libro e alla fine uccide la sua famiglia. Insomma, mi aspettavo un andamento piuttosto tipico.

Al contrario, sono stata sorpresa: verso la metà del film Walter comincia ad essere effettivamente supportato dalla sua famiglia, innescando un effettivo climax con una gustosa trama investigativa, per svelare infine il mistero dietro al libro.

E così si sfocia nella rivelazione finale, che chiude perfettamente il cerchio su una storia che sarebbe risultata altrimenti banale, con un twist che mi ha ricordato molto quello di Shutter Island (2010) e che per questo non ho potuto non apprezzare.

Schumacher: amore e odio

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Joel Schumacher è quel tipo di regista con un’estetica e una poetica così particolare che non può non essere divisivo.

Ed è anche lo stesso che ha girato Batman & Robin, film unanimemente criticato per l’ovvio motivo di essere tremendo, ma che esprimeva appieno l’estetica distintiva di questo regista, che gioca moltissimo col camp e col cattivo gusto voluto.

E in Number 23 non è da meno: io ho amato alcune inquadrature, che ho trovato estremamente scioccanti, come il volto della Bionda Suicida che si specchia nella pozza del suo stesso sangue dopo il suicidio (ed è uno fra tanti).

Al contempo non ho apprezzato il taglio eccessivo delle scene del racconto del libro, con queste inquadrature estremamente contrastate e scene di sesso e violenza quasi morbose, con un taglio eccessivamente realistico che mi ha disturbato.

Ma forse era anche quello l’obbiettivo.

Di certo, per me, senza questa regia, questo film non sarebbe valso un’unghia.

Jim Carrey: la maturità attoriale

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dopo aver esplorato la maggior parte della filmografia di Carrey, per me la sua maturità artistica come attore comico si può trovare in Una settimana da Dio (2003), mentre in questo film mostra ancora le sue capacità sull’altro versante.

Non tanto in ambito drammatico, per cui aveva già dato prova in Eternal Sunshine of the spotless mind (2004), ma sperimentando con consapevolezza in un genere mai provato prima.

In questo film infatti Carrey riesce ad essere al contempo spaventoso, con un’occhiata riesce a trasmetterti un’infinità di sentimenti e passioni, e a destreggiarsi perfettamente nelle scene anche più estreme e intense.

In questo film non ci sono, come in altre pellicole di Carrey, attori diventati famosi dopo, ma comunque ritroviamo dei volti già noti.

Il figlio di Walter, Robin, è Logan Lerman, divenuto brevemente (e sfortunatamente) famoso per i film di Percy Jackson usciti fra il 2010 e il 2013.

Walter da bambino è interpretato da Paul Butcher, che se siete della generazione Anni Novanta lo ricorderete sicuramente per essere il fratello di Zoe in quella meraviglia (si fa per dire) di Zoey 101.

Il Dr. Miles, il professore a cui Walter chiede aiuto e che crede che lo tradisca con la moglie, è Danny Huston, già visto in diversi prodotti, in particolare come fratello della protagonista in Marie Antoinette (2006).

Cameo a sorpresa quello di Troy Kotsur, attore sordomuto che ha recentemente vinto l’Oscar come Miglior Attore non Protagonista per CODA (2021). Qui interpreta il padrone del cane che perseguita Walter, Ben.

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Doctor Strange in the multiverse of madness – Orrore e frenesia

Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) è l’ultimo film Marvel uscito la scorsa settimana nelle nostre sale. Il ritorno alla regia di Sam Raimi, conosciuto e amato per la sua trilogia di Spiderman (2002-2007) e de La casa (1981-1992). Un ritorno fra l’altro dopo quasi un decennio di assenza dalla macchina da presa: l’ultimo film da regista è stato Il grande e potente Oz (2013).

Doctor Strange in the multiverse of madness è anche il primo film horror dell’MCU e sicuramente non potevano scegliere un autore migliore per questo compito. E non è sicuramente un caso che la pellicola ha aperto questo weekend con 450 milioni di dollari di incasso.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Doctor Strange in the multiverse of madness

Doctor Strange in the multiverse of madness racconta di America Chavez, giovane ragazza con un potere davvero particolare: aprire i passaggi fra gli universi. Per questo è braccata da un terribile nemico che vuole impossessarsi delle sue abilità. La giovane ragazza chiederà quindi l’aiuto di Doctor Strage, che già aveva avuto contatti con il multiverso in Spiderman no way home (2021).

Questo, raccontato assolutamente senza spoiler.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

È davvero un film di Raimi?

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

La mano di Raimi si vede, e tanto. Le splendide dissolvenze incrociate, le inquadrature che si immergono negli occhi dei personaggi, la camera che ruota intorno alle scene, fino al taglio splendidamente horror.

Perché si, questo film ha davvero un taglio horror (ovviamente sempre horror per ragazzi, alla Raimi appunto), altro che un certo Moon Knight di mia conoscenza. Con fra l’altro scene di combattimento incredibili e ottimamente dirette, probabilmente le migliori di tutto l’MCU finora.

Vale la pena di vedere Doctor Strange in the multiverse of madness?

Elisabeth Olsen in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness(2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì, anche solamente pet la regia di Raimi, diversa dal solito, ma che ben si adatta ai ritmi ed alle tematiche dell’MCU. Di fatto, un buon prodotto supereroistico con una regia di primo livello

Tuttavia, come ogni prodotto MCU, richiede delle conoscenze pregresse. Oltre ovviamente a Doctor strange (2016), anche Endgame (2019) ed Infinity war (2018). Per le serie, Wandavision è abbastanza importante per comprendere il personaggio di Wanda, Loki per il multiverso, mentre What if…? è accessorio.

Ovviamente se non siete appassionati dell’MCU non è un film che mi sento di consigliarvi, proprio per via dei collegamenti col resto della filmografia. Tuttavia, se siete fan di Raimi, forse potrebbe essere un modo per mettere un primo piede dentro la porta di questo universo.

Wanda, una villain inaspettata

Elisabeth Olsen in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Non era del tutto sicuro che Wanda fosse la vera villain principale della pellicola: la logica avrebbe voluto Mordo al suo posto, visto come si era concluso Doctor Strange. Tuttavia, non mi posso lamentare: Wanda è uno dei pochi e buoni villain che l’MCU può contare.

E lo è anche perché abbiamo la possibilità di vedere un antagonista che ha un percorso di crescita e di redenzione. Infatti alla fine Wanda, messa davanti alla realtà, capisce il suo errore e si redime, accettando la distruzione del Darkhold e di sé stessa. Tuttavia secondo me la sua storia non è finita qui, anzi non è del tutto detto che sia veramente morta. La plot armor, quando serve, viene sempre in aiuto.

Al contempo però mi è dispiaciuto che il suo personaggio sia stato un po’ appiattito sulla questione dei figli, visto che questi erano solamente l’ultimo elemento di un dramma che aveva radici più complesse e profonde: nella sua infanzia, nell’origine dei suoi poteri e nel rapporto con Visione. Ma per questo, appunto, è richiesta la visione di Wandavision.

La necessità di Wandavision

Doctor Strange in the multiverse of madness è forse il primo caso nell’MCU dove davvero la necessità di vedere le serie tv collegate è abbastanza opprimente. Infatti, come anticipato, vedere Wandavision è abbastanza essenziale per capire veramente la profondità del personaggio di Wanda, che altrimenti potrebbe apparire forzata e quasi macchiettistica.

Invece, avendo bene in mente la sua storia e soprattutto la sua storia nella serie, si riesce ad entrare profondamente a contatto col personaggio e col suo dramma personale.

Orrore e frenesia

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Doctor Strange in the multiverse of madness ha due elementi portanti: il taglio horror e la frenesia della narrazione (che non sempre va a suo vantaggio). Veniamo infatti fin da subito portati in medias res della vicenda e la trama non si prende praticamente mai un attimo di pausa, ma procede a grandi falcate e con un ritmo davvero frenetico, forse anche troppo.

Per quanto forse non sia nello stile di Raimi, non sarebbe guastato aggiungere del minutaggio, se questo avesse significato portare più elementi di introduzione e di conclusione, oltre che qualche maggiore approfondimento. Invece è una continua corsa, a tratti sfiancante.

Per il taglio horror invece niente da aggiungere: oltre a quanto già detto, splendida la citazione a The Ring (2001) quando Wanda esce dallo specchio a Kamar-Taj e da capogiro tutta la sequenza dell’insegnamento sotto al Baxter Building. Per non parlare dello splendido body horror costante. Non proprio un film per tutte le età, insomma.

America Chavez e il problema delle soluzioni fuori dal cappello

Xochitl Gomez in una scena del film Doctor Strange nel multiverso della follia (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

America Chavez è uno degli elementi più deboli della pellicola: il personaggio manca di un’introduzione interessante e che ci faccia affezionare, nonché di un arco narrativo convincente. Di fatto il suo percorso è esplorato pochissimo e la conclusione assolutamente improvvisa e poco credibile. Ho avuto davvero la sensazione di essermi saltata una serie o un film.

Il generale, America Chavez è uno degli elementi di Doctor Strange in the multiverse of madness che sono pensati più per essere funzionali alla trama che per essere veramente importanti per la stessa. Di fatto il suo personaggio serve per dare modo a Wanda di dare sfogo alla sua ossessione, come poteva esserlo qualunque elemento introdotto per l’occasione.

Allo stesso modo il Darkhold e il Libro dei Vishanti: problemi creati per essere risolti in maniera semplice e funzionale all’interno della trama. In particolare il Libro dei Vishanti sembra proprio una soluzione tirata fuori dal cappello, che poi si rivela non essere neanche l’elemento risolutivo della vicenda: un Mac Guffin da manuale.

Il fan service dosato (e come potrebbe non piacere)

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Un ottimo aspetto di questo film è la mancanza di elementi di fan service troppo ingombranti. Anzitutto John Krasinski come Mr Fantastic, ruolo richiesto dal fandom e dall’attore stesso da moltissimo tempo. Poi Patrick Stewart come il Dottor Xavier, ucciso da Wanda e secondo me anche il modo in cui la Marvel dice totalmente addio agli X-men della FOX. E, infine, Captain Carter da What if…?

Insomma, un fan service ben dosato, che però potrebbe essere dannoso per la pellicola. Infatti ho sentito della vibes non del tutto positive circa il gradimento del pubblico e ho idea che potrebbe essere dovuto anche a questo elemento.

Io per prima mi aspettavo molti più camei e molto più fan service, e forse altri si aspettavano uno Spiderman No Way Home seconda parte. Ed effettivamente non ti fa saltare sulla sedia allo stesso modo. Ma forse è meglio così.

La morale Doctor Strange in the multiverse of madness

Benedict Wong in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Un altro elemento che ho particolarmente apprezzato di questo film è la morale: l’importanza di accontentarsi. La vita che abbiamo potrebbe non essere la migliore che potremmo mai avere, ma è quella che abbiamo e da cui dobbiamo cercare di trarre il meglio, nonostante le avversità.

Quindi Doctor Strange accetta di non essere lo Stregone Supremo e che lo sia invece Wong, inchinandosi infine davanti a lui e riconoscendo così la sua carica. Così accetta che Christine non potrà essere la sua compagna. E infine Wanda accetta che non potrà mai avere i suoi figli, perché questo significherebbe distruggere la loro vita in un altro universo e così quella di un’altra se stessa, oltre a dover uccidere America. In questo caso il peso della colpa e della vergogna la porta ad suicidarsi per il bene comune.

Ma, appunto, non è detta per forza l’ultima parola su questo personaggio.

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Level 16: poca spesa, tanta resa?

Level 16 (2018) è una piccola produzione canadese di stampo thriller-fantascientifico. Un film pochissimo conosciuto, che ha avuto una distribuzione molto limitata e che, secondo i dati ufficiale, ha raccolto non più di 15.000 dollari. Ma visto che probabilmente il budget del film era di due noccioline è possibile che pure si siano messi in tasca qualcosa.

Di cosa parla Level 16

Un gruppo di ragazze è costretto a vivere fin dalla primissima infanzia in una struttura di stampo militare, senza finestre, senza aver mai visto la luce del sole, e con una routine rigidissima. L’obbiettivo di tutte è di essere sempre pulite, seguendo regole strettissime, su come essere umili e poco curiose, con la promessa che, una volta raggiunti i 16 anni di età, saranno adottate.

La protagonista, Vivien, rimasta traumatizzata per essere stata brutalmente punita quando aveva appena otto anni, verrà portata a scoprire la verità dietro alla struttura dalla sua compagna, Sophia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché vale la pena di vedere Level 16

Ovviamente, bisogna partire con la consapevolezza che, appunto, si tratta di una produzione veramente piccola. Quindi ovviamente non troverete attori conosciuti né effetti speciali da urlo, ma in generale bisogna riconoscere al film di aver tratto il meglio dalle risorse che aveva, limitando molto le scenografie e gli ambienti.

Il cast di giovanissime attrici è piuttosto convincente, e in generale gli attori sono tutti piuttosto in parte. La trama riesce ad essere piuttosto intrigante fino all’ultimo atto, rivelando poco a poco i segreti che si nascondono dietro a questa misteriosa organizzazione. In generale il film intrattiene ed è a suo modo intrigante, e la rivelazione è abbastanza convincente.

Cosa non funziona

Purtroppo i limiti del film non sono dati solamente dal budget: lo svolgimento della trama non è sempre lineare, anzi tende a incartarsi un po’ su se stessa, nel continuo tentativo di non rivelare troppo subito, così da tenerti col fiato sospeso fino alla fine.

Oltre a questo, la rivelazione finale, per quanto convincente, non è sviluppata a dovere: per questo credo che bisogna incolpare le risorse limitate, perché esplicare fino in fondo la dinamica dell’organizzazione del film sarebbe stato piuttosto complesso. Tuttavia per molte cose sarebbe bastato aggiungere anche solo qualche linea di sceneggiatura per riuscire a completare la rivelazione.

Inoltre il finale risulta in parte confuso e poco chiaro nel suo scioglimento.

Level 16 fa per me?

Celina Martin in una scena del film Level 16 2019

Penso che abbiate capito di che tipo di film stiamo parlando: io personalmente sono parecchio intrigata da quelle pellicole che hanno come tema principale persone cresciute in luoghi di semi-prigionia e col lavaggio del cervello, il cui esempio più riuscito è sicuramente Dogtooth (2009). In questo caso si parla di un film senza troppe pretese, che riesce a fare il suo lavoro ed intrattenere con una trama abbastanza semplice.

Per un pomeriggio da riempire è perfetto.