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Jojo Rabbit – Una risata vi seppellirà

Jojo Rabbit (2019) è probabilmente il film più iconico e amato della filmografia di Taika Waititi.

A fronte di un budget di appena 14 milioni di dollari, fu un ottimo successo commerciale, con 90 milioni di incasso.

Di cosa parla Jojo Rabbit?

Germania, 1945. Jojo è un ragazzino di appena 10 anni che sta per entrare nella gioventù hitleriana. E il suo amico immaginario è tutto un programma…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jojo Rabbit?

Assolutamente sì.

Jojo Rabbit è stata una ventata di freschezza nella trattazione di un tema piuttosto impegnativo – l’olocausto – da parte di un regista di origine ebraica che ha scelto di rispondere forse nella maniera migliore possibile al mito di uno dei più crudeli dittatori della storia umana:

con una risata.

Così, pur senza mancare di pennellate piuttosto drammatiche, Jojo Rabbit è una splendida satira sociale che deride in maniera brillante una parentesi storica per certi tratti ancora piuttosto incomprensibile, svelandone la grottesca assurdità.

Coniglio

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Jojo è figlio del nazismo.

Una pagina bianca che è stata scritta fin dalla più tenera età da una spietata mitologia che raccoglieva gli umori disillusi di una Germania spezzata dal primo conflitto mondiale, e li orientava verso un nemico semplice, immediato, e facilmente demonizzabile.

Un’occasione anche per permettere di sfogare una certa violenza sopita, ma piuttosto spietata, che nel contesto nazista veniva anzi incoraggiata al fine di portare alla vittoria sia della razza ariana, sia, più in generale, di un intero paese bramoso di dominare finalmente il mondo.

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

In questo contesto, Jojo è una flebile speranza.

Nonostante il bambino sia stato allevato per la guerra, si atteggia solamente a parole come un fedele soldato, dicendo anzi di adorare l’idea di uccidere, ma ritrovandosi del tutto incapace alla prova dei fatti, quando non riesce a togliere la vita neanche ad un animale – figurarsi ad un altro essere umano…

E così, volendo essere reintegrato nella sua comunità, lancia in prima linea per dimostrare il suo valore, regalandosi in realtà la più grande conquista a cui un cittadino europeo poteva ambire in quel momento storico: diventare sostanzialmente un invalido, non potendo così essere ulteriore carne da macello nel campo di battaglia.

Padre

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Hitler è una figura paterna.

Nella mente di Jojo il dittatore tedesco è comico e paradossale – anche nell’aspetto, soprattutto per quegli occhioni blu – e nello stesso Jojo ritrova quel padre ormai assente da tanti anni, ma che, a differenza del suo vero genitore, lo incoraggia amorevolmente ad unirsi al club dei nazisti.

Ma la bellezza di questo Hitler immaginario è proprio il definire l’evoluzione del protagonista e la sua graduale presa di coscienza verso la verità sul nazismo, diventando gradualmente sempre più simile alla figura storia e meno al migliore amico dei sogni.

Roman Griffin Davis e Scalett Johansson in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

A questa figura si contrappone Rosie, la madre, che per nulla si integra nel modello di donna ariana sognato del nazismo, ma anzi è una donna amorevole quanto determinata, nonché profondamente ribelle, anche se quasi arresa davanti al pensiero radicale del figlio.

Infatti il suo personaggio cerca solo timidamente di far cambiare idea a Jojo, consapevole di come questo comportamento sia solo una fase dovuta al periodo storico sbagliato in cui è nato e, al contempo, alla mancanza di una figura paterna.

Adulto

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Elsa è fondamentale per la maturazione di Jojo.

La splendida sequenza introduttiva del suo personaggio in chiave horror ricalca proprio il pensiero deviato del protagonista – e di molti altri tedeschi – nei confronti di questi esseri mostruosi e sempre più incomprensibili, di cui Jojo sulle prime ha genuinamente paura.

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Tuttavia, la scelta di non denunciare la presenza della ragazza in casa sua è la prima decisione matura del protagonista, che preferisce infine proteggere la sua famiglia piuttosto che essere effettivamente fedele ad Hitler, cominciando così la sua maturazione.

Così i primi contatti pacifici fra Jojo e Elsa sono i numerosi e divertenti scambi riguardo alla vera natura del popolo ebraico, in occasione dei quali il protagonista cerca di sembrare adulto e severo, facendosi in realtà facilmente deridere dalla ragazza e dal suo assurdo racconto.

Sorella

Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Rosie cerca in più momenti di trasmettere al figlio sentimenti più gentili e estranei alla propaganda nazista…

…a cui Jojo in realtà arriva in autonomia.

La dinamica intorno alla dispettosa lettera di rottura di Nathan è infatti solo l’ulteriore dimostrazione di quanto questo ragazzino sia un animo gentile e ancora non veramente corrotto, proprio dimostrando di pentirsi immediatamente per aver ferito persino un’ebrea come Elsa.

Così fra i due comincia ad intrecciarsi una sorta di gioco delle parti, prima con le finte lettere di Nathan – con cui indirettamente Jojo esprime i suoi sentimenti per la ragazza – poi con Elsa che prende progressivamente il posto della sorella perduta.

Il picco drammatico in questo senso è la splendida scena dell’ispezione a sorpresa della Gestapo, che alterna momenti genuinamente comici – la gag del Hail Hitler! – a sequenze di profonda tensione, soprattutto quando, con grande coraggio, Elsa si traveste da ragazza ariana per non farsi scoprire.

Ma questa scena è soprattutto rivelatoria per un altro personaggio.

Alleato

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Lo strambo Capitano Klenzendorf è il più grande alleato di Jojo.

L’uomo, al pari della madre, è un emarginato nascosto all’interno del nazismo, un personaggio che svela progressivamente la sua vera identità tramite una serie di indizi sempre più importanti, apparendo infine del tutto lontano dalla figura del militare indottrinato che pareva inizialmente.

La pellicola fa infatti intendere che in realtà il capitano sia un personaggio queer, e che abbia con ogni probabilità una relazione con il fidato Freddy Finkel – non a caso, i due sono quasi sempre in scena. insieme.

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Ma, soprattutto, l’uomo è alleato di Jojo perché cerca costantemente di proteggerlo.

La bici di Rosie che si porta dietro quando arriva durante l’ispezione, insieme alla raccomandazione al bambino di restare a casa, ci racconta in maniera piuttosto eloquente come non solo il capitano fosse stato testimone dell’impiccagione della madre di Jojo, ma come probabilmente sapesse anche di Elsa.

Ma ancora più importante è il momento in cui il suo personaggio salva Jojo dalla sicura morte, in un momento di isteria di fine guerra in cui gli Alleati – rappresentati sorprendentemente in maniera non troppo benevolente – avrebbero giustiziato persino un bambino solo perché indossava i simboli del nemico.

Nemico

Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Negli ultimi momenti della pellicola Jojo è disperso.

Per questo si concede un’ulteriore cattiveria nei confronti di Elsa.

Infatti, dopo la tragedia della morte della madre – nella toccante quanto brillantemente diretta scena delle scarpe – il protagonista vive un’ulteriore angoscia: la possibilità che ora, finita la guerra e la persecuzione antisemita, persino Elsa, la sua neoacquisita sorella maggiore, lo lasci solo.

Jojo quindi si perde in un vagare disperato fra le rovine, accompagnato da una graduale consapevolezza della vacuità del nazismo e della guerra stessa…

…a partire da quella splendida uniforme di carta che rappresentava il successo dell’amico Yorki, ma che invece alla fine, proprio come i giovani soldati che tornano abbattuti dalla trincea, racconta tutta la fragilità e la vacuità della propaganda bellica.

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Infine, la scoperta della morte del suo mito rappresenta la definitiva presa di coscienza di Jojo, che vede finalmente Hitler per quello che veramente era – un fanatico dittatore – e di cui decide finalmente di liberarsi con una puntuale defenestrazione.

La chiusura del film racconta infine quanto il protagonista sia cambiato in così poco tempo, accettando l’altro grande insegnamento della madre: il ballo che celebra la ritrovata libertà e lo sguardo verso un futuro più promettente.

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Gremlins – La commedia dei cattivi sentimenti

Gremlins (1984) è uno dei maggiori cult del cinema per ragazzi Anni Ottanta, per la direzione di Joe Dante e la fantastica sceneggiatura di Chris Columbus.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 11 milioni di dollari, circa 32 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 213 milioni di incasso (circa 621 oggi).

Di cosa parla Gremlins?

Lo stravagante inventore Rand visita una piccola bottega delle stranezze a Chinatown, dove trova un animaletto molto particolare, un mogwai

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins?

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Assolutamente sì.

Gremlins è un horror per ragazzi di grande valore, che gode di una scrittura veramente ottima e puntuale, che introduce gradualmente gli eventi con un raro equilibrio fra l’orrore e il grottesco, riuscendo al contempo ad ammorbidire i toni per renderlo adatto al target.

Oltre a questo, il character design dei gremlins è incredibile e così anche la loro messinscena, che riesce a farli passare non come dei meri pupazzoni, ma come delle creature vive ed incredibilmente espressive.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La minaccia sotterranea

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Per quanto il primo atto sembri raccontare una storia piacevole ed accogliente, diversi elementi in scena mostrano tutt’altro.

I personaggi sono totalmente immersi in questo sogno del nuovo animaletto domestico – il cui character design ricorda l’unione fra un coniglio, un orsetto e un pipistrello – che sembra totalmente innocuo, una piacevole aggiunta al quadro familiare.

Questa sensazione di apparente tranquillità rende i personaggi umani del tutto sbadati e poco attenti alla cura dello stesso, agendo più volte in maniera molto ingenua, tanto da essere loro stessi i fautori dell’incubo che verrà.

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Ma ci sono diversi indizi di quello che sta per succedere.

L’elemento più palese è l’inserimento di diverse scene del classico della fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956), che parla proprio di un’invasione segreta di alieni che si moltiplicano e si sostituiscono gli umani.

Ma l’indizio più sottile, ma assolutamente perfetto, è il siparietto comico in cui Rand sta testando la sua nuova invenzione: inizialmente le carte escono ordinatamente e sono controllate…ma poi la situazione gli sfugge di mano, e cominciano a moltiplicarsi fin troppo velocemente…

…proprio quando il figlio sta per venirgli a raccontare dei gremlins che si stanno riproducendo.

Introdurre il mostro

La maestria di Gremlins è anche il saper raccontare coi giusti tempi il villain della storia.

Anzitutto, i nuovi arrivati si dimostrano fin da subito ben diversi dal loro genitore – Gizmo – molto più irruenti e dispettosi – come dimostra, fra gli altri, il brutto scherzo nei confronti del cane, Barney.

E per questo il punto di svolta è così rivelatorio.

Infatti, quando Billy offre ai gremlins le cosce di pollo, questi ci banchettano felicemente, mentre Gizmo, come se fosse consapevole della situazione, le rifiuta…

Billy in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

La trasformazione dei gremlins è, fra l’altro, una bellissima citazione al suddetto L’invasione degli ultracorpi, ma anche ad Alien (1979): oltre ai gusci molto simili alle uova dello xenomorfo, anche il comportamento degli umani è simile.

Infatti, come nel cult di Ridley Scott, i personaggi umani sono anche fin troppo entusiasti di questa nuova situazione – particolarmente il professor Hanson – fino ad arrivare all’inquietante sottofondo della proiezione scientifica, che apre le porte alla trasformazione…

Così, come nei migliori film del genere, il mostro è tenuto fuori dalla scena per molto tempo, ma la sua presenza è costante: dall’assassinio del professore fino all’improvviso attacco ai danni di Billy.

Infine, la rivelazione effettiva avviene nella cucina, in cui la madre del protagonista, quasi come una novella Ripley, è la prima ad affrontare e riuscire in parte a sconfiggere questi orribili mostri.

E anche qui il film riesce a stupire.

Un film per bambini?

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

L’atto centrale, quanto quello conclusivo, godono di una rara maestria di scrittura.

In questo caso si mostra ancora più evidentemente la doppia natura del film, che riesce a mantenersi adatto per il target, pur mettendo in scena una violenza veramente sorprendente, a partire dai modi in cui la madre di Billy elimina i mostriciattoli…

Più volti al lato comico sono invece i vari siparietti degli scherzi dei gremlins e il loro comportamento incredibilmente caotico: dall’assalto al bar con Kate, in cui sbevazzano e fumano – e persino la importunano! – fino alla mia scena preferita: il coro di Natale.

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

I gremlins si rivelano insomma per quello che sono: mostriciattoli dispettosi, financo particolarmente spietati – tanto da distruggere una casa – ma, al contempo, anche la perfetta evoluzione di Gizmo.

Infatti, i suoi figli ne riprendono i caratteri, ma li mutano in maniera mostruosa: dalle orecchie da coniglio a quelle di un pipistrello, dai tratti dolci del viso e gli occhioni liquidi agli occhi rossi ed ai lineamenti serpentini…

Una deformazione particolarmente sottolineata quando gli stessi vengono messi a confronto con i nani durante la visione di Biancaneve e i sette nani (1937), di cui i gremlins imitano perfino le canzoni…

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

E questa dicotomia fra l’essere dei futuri giocattoli per bambini al riprendere le fattezze dei più famosi villain dei classici della fantascienza li accompagna fino alla fine, soprattutto nella sequenza del negozio per bambini…

Così anche nel finale: se la morte di Ciuffo Bianco richiama involontariamente l’iconica scena di Terminator (1984), la chiusura del film cerca di ammorbidire i toni, raccontandosi come la conclusione di una favola di Natale, ma con troppi elementi horror per davvero poterla considerare tale…

E a questo proposito…

Un Natale diverso

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Un aspetto che davvero sorprende di Gremlins è quanto poco sia associabile ad un film di Natale.

Nonostante il clima festivo sia presente fin dall’inizio, è disturbato da moltissimi elementi che raccontano un Natale davvero diverso, quasi malinconico: dalla cattiveria gratuita della Signora Deagle alla triste storia della morte del padre di Kate.

Una scelta che può sembrare banale, ma che in realtà è un modo intelligente per equilibrare i toni della pellicola, senza voler mostrare una disparità troppo grande fra l’orrore dei gremlins e l’atmosfera delle feste.

Peculiare in particolare la mancanza di una ricongiunzione finale dei personaggi, ma che non stupisce se si pensa al film di cui Chris Columbus si occuperà una decina di anni dopo: Mamma ho perso l’aereo (1990), per molti versi l’apoteosi della commedia dei cattivi sentimenti.

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Dawn of the Dead – I veri mostri

Dawn of the Dead (1978) di George Romero – in Italia uscito con il titolo di Zombi, ma spesso noto con nome di L’alba dei morti viventi – è probabilmente lo zombie movie più famoso della storia del cinema.

Purtroppo con la traduzione italiana si perse il senso di progressione della trilogia di Romero, cominciata nel 1968 con The Night of the Dead e continuata nel 1985 con The Day of the Dead.

Un prodotto che ebbe numerosi sequel e remake – in particolare quello di Zack Snyder del 2004 col titolo omonimo – parodie – lo splendido Shaun of the Dead (2004) di Edward Wright – nonché numerose citazioni e omaggi – non ultima quella di South Park in Illogistico (9×22).

Di cosa parla Dawn of the dead?

Dopo lo scoppio di una misteriosa pandemia che fa rinascere i morti, uno sparuto gruppo di sopravvissuti si rifugia in un centro commerciale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dawn of the dead?

Assolutamente sì.

Dawn of the Dead non è solamente un classico del genere horror, ma soprattutto un unicum per gli zombie movie.

Infatti, sotto l’apparenza di survival movie, si cela una ben più aspra critica agli Stati Uniti degli Anni Settanta e, più in generale, al consumismo e al capitalismo occidentale imperante.

Oltre a questo, la pellicola si distingue per un apparato tecnico davvero superbo, in particolare per un’effettitistica che si può annoverare fra le migliori di quegli anni, insieme ad Alien (1979) ed a La Cosa (1982).

Insomma, un film imperdibile, che fa riflettere ancora oggi.

Un assaggio

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Dawn of the dead, essendo un sequel, parte subito di corsa.

La pandemia è già iniziata, il pericolo è alle porte, e questo primo breve atto consente allo spettatore di avere un assaggio dell’orrore e della violenza così crudelmente materiale della pellicola, che non manca di mostrarci fiumi di sangue e membra strappate a morsi.

Questa mancanza di un’introduzione all’orrore è in realtà incredibilmente funzionale al messaggio del film, basato proprio sull’assenza di un’effettiva distinzione fra il prima e il dopo, fra gli zombie assetati di carne umana e gli umani stessi…

La fame

Se banalmente sembra che gli zombie vogliano, nella più classica delle tradizioni del genere, mangiare i cervelli e le carni dei sopravvissuti, in realtà lo scambio fra i protagonisti sul perché i non morti si dirigono in un centro commerciale è rivelatorio della loro vera fame:

They don’t know why, they just remember. Remember that they want to be in here.

Non sanno perché, ricordano solamente che vogliono essere qui.

Difatti il centro commerciale era una novità negli anni dell’uscita della pellicola…

…ed è il tipo di spazio che è definito come non-luogo: una realtà artificiosa, che mima le atmosfere di una piccola città – la piazza, i palazzi, i ristoranti – ma che in realtà è solo un meccanismo pensato per far alimentare la voracità consumistica dei suoi avventori.

Una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Di fatto il cliente quando entra in questi luoghi non ha bisogno di uscirne, non vuole di fatto farlo, perché vi trova tutto quello di cui ha bisogno, bombardato costantemente da nuovi stimoli a spendere, ad acquisire nuovi oggetti senza che questi siano di fatto necessari…

Per questo è ancora più indicativa la definizione che viene data dei non morti:

These creatures are nothing but pure, motorized instinct.

Queste creature non sono altro che puro istinto motorizzato.

Quindi gli zombie non sono altro che gli statunitensi stessi, del tutto lobotomizzati e incapaci di pensare razionalmente, schiavi di un desiderio consumistico insaziabile, che, persino da morti, li porta ad invadere questo luogo…

I veri mostri

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Se gli zombie sono dei personaggi quasi comici, financo grotteschi, per il loro modo di comportarsi e la musica che spesso accompagna le loro scene, il vero focus del film sono i protagonisti umani.

È come se, provocatoriamente, Romero ci chiedesse: i non morti e i sopravvissuti sono tanto diversi?

Anche se apparentemente sembra di sì, in realtà i protagonisti scelgono il centro commerciale come luogo in cui rifugiarsi non perché sia la scelta migliore in quel momento, ma perché irrazionalmente attratti dalla quantità di beni a disposizione, anche se questi non sono minimamente utili alla loro sopravvivenza.

Scott H. Reiniger in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

E per questo si mettono costantemente in pericolo, divertendosi come dei bambini a scorrazzare per i corridoi e gli infiniti negozi del centro, al punto da ricreare in un certo senso i loro spazi quotidiani – una casa perfettamente arredata – ma che, proprio come il centro commerciale, sono del tutto fittizi e artificiosi.

Un ulteriore spunto riflessivo sulla contemporaneità è suggerito dal terrificante contrasto fra le scene gioiose, quasi comiche, dei protagonisti che uccidono gli zombie ed esplorano gli spazi, e la crudeltà delle uccisioni, sbudellamenti, abbuffate che portano la maggior parte dei personaggi alla morte.

Con questo contrasto Romero racconta degli Stati Uniti affogati nel sogno capitalista e consumista, che si nutre di questo ideale totalmente illusorio, beandosi di una realtà alternativa e dimenticandosi gli orrori di cui è circondata – nel film gli zombie, nella realtà la guerra, la criminalità, il degrado sociale…

L’ossessione del possesso

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

La drammaticità dell’ossessione per il possesso e il consumismo viene ancora più svelata nell’atto conclusivo.

I protagonisti vengono attaccati e devono difendersi, ma la lotta da nessuna delle due parti è per la sopravvivenza, ma piuttosto per, ancora una volta, una smania di possesso, che porta a delle scene veramente disturbanti…

…come i bikers che strappano gli anelli dalle mani degli zombie, l’ilarità quando si impossessano di soldi che ormai non hanno alcun valore e, soprattutto, la frase pronunciata da Stephen mentre punta il fucile contro gli intrusi:

It’s ours, we took it.

È nostro, lo abbiamo conquistato.

I protagonisti quindi sono incapaci di pensare lucidamente, del tutto dipendenti da questo mondo scintillante e pieno di false promesse, tanto che Peter dice esplicitamente di non volersene andare, e sceglie solo infine di seguire Fren, le cui parole riecheggiano dolorose per tutto il terzo atto:

What have we done to ourselves.

A che cosa ci siamo ridotti.
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Harry a pezzi – La decostruzione

Harry a pezzi (1997) è uno dei titoli più noti e apprezzati della filmografia di Woody Allen.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso per un film di Woody Allen – 20 milioni di dollari, circa 40 oggi – fu un pesante flop commerciale, incassando la metà delle spese di produzione.

Di cosa parla Harry a pezzi?

Harry è un rimontato scrittore di romanzi, che ha però la brutta abitudine di raccontare troppo di sé stesso e di chi gli sta intorno…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Harry a pezzi?

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Se in Radio Days (1987) Allen ripercorreva e riscriveva momenti fondamentali della sua infanzia, in Harry a pezzi decostruisce il suo presente come autore e uomo.

Ne risulta un racconto profondamente metanarrativo, in cui Allen sembra mettersi più di ogni altra sua opera totalmente a nudo, con le sue debolezze e le sue ossessioni.

Una riflessione di fine secolo che vale la pena di recuperare.

Partire dalla finzione…

Un’inquadratura insistente di pochi minuti ci mostra una donna che scende furiosamente da un taxi.

Ma subito la scena muta.

Un quadretto di quotidianità piuttosto comune – una grigliata all’aperto – si trasforma ben presto nello sfondo di una storia di passione e tradimento, con tinte quasi grottesche, che raggiungono il loro picco con l’apparente scoperta del misfatto…

…che in realtà si rivela solo l’occasione per proporre una raffica di battute piuttosto sagaci a sfondo sessuale – anche di difficile traduzione – che chiudono il cerchio di questa commedia dell’assurdo.

…e arrivare alla realtà

Ma la spiegazione della scena è forse anche più surreale.

Vengono riportati in scena i protagonisti, ma con una veste del tutto nuova, ma ben più terrena: la vicenda era molto meno divertente, anzi ben più drammatica, e il romanzo ne è stato solo il punto di arrivo.

In particolare, i contorni del dramma sono meglio definitivi più avanti nel film, in cui viene rivelata (e confermata) la totale incapacità del protagonista di rimanere fedele in una relazione…

…con una Lucy estasiata all’idea di essere scelta come la prossima compagna di Harry, ma che si trova invece a dover inghiottire un boccone amaro.

Rubare l’identità

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Ma il cuore della vicenda è rivelato dai due episodi successivi.

Anzitutto, dal racconto del passato, quando ancora Allen era un ragazzino incastrato in un matrimonio senza futuro, ricercando la compagnia di qualunque donna tranne che la propria moglie.

Ma il momento fondamentale è l’incontro con la morte.

Essendosi lasciato convincere a intrattenersi con una prostituta e prendendo in prestito la casa di un suo amico, Harry si ritrova a confrontarsi con la prima identità rubata, di cui deve pagare tutte le conseguenze.

Allo stesso modo, l’apparente gag puramente comica dell’uomo fuori fuoco, verso il finale si rivela in realtà una rappresentazione visiva di come il protagonista si sente nei suoi numerosi attacchi di panico.

Giù la maschera!

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Durante la pellicola Harry ripercorre più volte momenti del suo passato, spesso traslandoli in scenette fittizie e molto idealizzate.

Si scopre così un personaggio intrappolato in un labirinto di relazioni – amorose e non – che sembrano trovare un senso solamente nella finzione, in cui personaggi ed eventi si mescolano, diventando per certi versi anche caricaturali.

I primi scricchiolii di questo castello di carte sono gli incontri con alcuni dei personaggi, delle maschere dietro cui Harry si è nascosto negli anni, che si rivelano ben più sagge e consapevoli della loro controparte reale.

Ed è solo il primo passo perché il protagonista decida definitivamente di abbandonare questi numerosi travestimenti, mettendosi in prima persona al centro della storia per raccontare una scena fantastica e reale insieme.

Impossibile scappare

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Così l’incontro col diavolo e la discesa negli inferi non è altro che una rappresentazione della frustrazione di Harry nell’aver perso una delle sue amanti preferite nelle braccia di un uomo che considera tanto spregevole da rappresentarlo come il diavolo tentatore.

Ma questo apparente passo indietro, a fronte anche di una situazione molto reale da cui è impossibile sfuggire – il rapimento del figlio – si conclude solo apparentemente in un suo effettivo ripensamento del suo continuo rifugiarsi nella fantasia.

Nel finale troviamo la figura di Harry che si sovrappone più che mai a quella di Woody Allen, del tutto consapevole di utilizzare i suoi film – o romanzi che siano – per raccontare i suoi dubbi e le sue storie turbolente…

…ma, al contempo, altrettanto consapevole di non poterne fare assolutamente a meno.

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Radio Days – Le voci del passato

Radio Days (1987) è un film meno conosciuto della filmografia di Woody Allen, ma anche fra i più apprezzati della sua produzione.

Con un budget abbastanza contenuto – 16 milioni di dollari, circa 43 oggi – fu un flop commerciale, incassando meno delle spese di produzione.

Di cosa parla Radio Days?

Con questa pellicola Woody Allen ripercorre i ricordi della sua infanzia negli Anni Quaranta, gli anni d’oro della radio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Radio Days?

Mia Farrow in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

In generale, sì.

Anche se magari non è l’opera più indimenticabile della filmografia di Woody Allen, nella sua produzione di fine secolo è quella che ho preferito.

Fra le varie pellicole che mischiano la comicità al dramma, Radio Days sceglie di puntare unicamente sul lato comico, anche quello più apertamente surreale della sua prima produzione, che in questo caso funziona particolarmente bene.

Tuttavia, non manca neanche un lato più malinconico e nostalgico…

La radio che unisce

Wallace Shawn in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Radio Days è una collezione di episodi e gag comiche, tutte unite da un unico elemento: la radio.

Woody Allen ci immerge in un passato piuttosto remoto – anche per il periodo in cui il film arrivò in sala – in cui i programmi radiofonici anticiparono quello che poi sarà il ruolo della TV: un momento di incontro e di identificazione.

Infatti, ogni membro della famiglia può trovare un riconoscimento in una delle tante proposte del palinsesto, che permettono di evadere dalla quotidianità e sognare oltre i limiti della realtà più terrena e drammatica…

Una risata ci seppellirà

Ma Radio Days non racconta solo situazioni comiche.

Molte delle storie in scena hanno dei sottofondi drammatici non indifferenti, che vengono però stemperati da una commedia che molto spesso gioca con l’assurdo, e che mi ha ricordato il precedente Prendi i soldi e scappa (1969).

Personalmente la mia scena preferita è quella dello zio Abe che si va a lamentare coi vicini comunisti, diventandolo a sua volta, ma anche la gag iniziale con i due ladri che partecipano al programma radiofonico è particolarmente gustosa.

In questo senso ho trovato l’utilizzo dell’umorismo non vincolato ad un solo personaggio come nel successivo Crimini e misfatti (1989), ma distribuito su più figure e momenti, la scelta più funzionale anche per la riuscita della comicità stessa.

La drammaticità di fondo

Dianne Wiest in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Come detto, non mancano i momenti più drammatici, anche se ben dosati.

La storia forse più triste è quella della zia Bea, che rincorre il sogno del matrimonio e della costruzione della famiglia, non riuscendo però a raggiungerlo per i molti appuntamenti sfortunati e per la sua incapacità di adattarsi.

E proprio dell’adattarsi parlano molti dei personaggi femminili in scena, che si trovano costretti all’interno di situazioni matrimoniali non sempre ottimali, per cui ammettono loro stesse di aver dovuto fare dei compromessi.

Mia Farrow e Wallace Shawn in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Ma il momento più drammatico, profondamente malinconico e che racchiude il significato più personale dell’opera, è la chiusura della pellicola: un momento di festa, particolarmente allegro e che guarda al futuro…

…ma al contempo un’occasione particolarmente mesta per riflettere sul tempo che avanza e sul valore del ricordo: se i personaggi in scena temono di essere dimenticati e quindi di scomparire, lo stesso narratore ammette che ogni anno le loro voci si fanno sempre più flebili e lontane…

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Zoolander – Demenziale, ma non troppo

Zoolander (2001) è uno dei cult più particolari dell’inizio degli Anni Duemila, in cui Ben Stiller si mise in gioco come attore, regista e sceneggiatore.

Nonostante il riscontro al botteghino poco entusiasmante – appena 60 milioni di dollari a fronte di un budget di 28 milioni – divenne col tempo un film di culto, tanto da portare ad un sequel nel 2016.

Di cosa parla Zoolander?

Derek Zoolander è il modello del momento, ma la sua fama verrà scalzata in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zoolander?

Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Anche se la comicità nonsense non è nelle vostre corde, non potete veramente perdervi questa piccola perla dell’assurdo che, in un impeto di genialità, Ben Stiller riuscì a portare in scena nel lontano 2001 – nutrendo il futuro cast di Dodgeball (2004), fra l’altro.

Zoolander è uno dei cult più interessanti dei primi Anni Duemila, che colpisce sia per la sagacia con cui tratta tematiche ancora attualissime, sia per come riesce a non scadere mai nel banale, sorprendendo ad ogni scena.

Passato e presente

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Una delle tematiche principali di Zoolander è ancora drammaticamente attuale, anche a più di vent’anni di distanza.

L’obbiettivo dei villain è infatti quello di assassinare il neoeletto presidente della Malaysia, per le sue assurde ambiziose di mettere fine allo sfruttamento del lavoro minorile – molto conveniente per l’industria della moda.

Un tema molto caldo ancora oggi per la straziante tematica della fast fashion, non solo per l’impatto ambientale, ma proprio per il poco rasserenante panorama dello sfruttamento lavorativo, volto ad ottenere molti prodotti in poco tempo e a prezzi stracciati.

Ed è davvero incredibile trovare un tema del genere affrontato con tanta sagacia in un film come Zoolander.

Un adorabile idiota

Ben Stiller e Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Zoolander e Hansel sono due adorabili idioti.

Ho apprezzato particolarmente la scelta di renderli tali fino in fondo, senza cioè ricondurli al ben più infelice e rincuorante stereotipo dell’uomo bamboccione, un bambino troppo cresciuto che ha ancora bisogno di una balia – di solito, il personaggio femminile di turno.

I due protagonisti sono invece semplicemente del tutto limitati al loro piccolo mondo, fatto di invidie e di una competizione galoppante, una realtà che li venera e li celebra a fasi alterne, ma rimanendo incapaci in ogni altro ambito dell’esistenza.

Si genera così un umorismo che personalmente trovo esilarante, basato su delle incomprensioni così stupide da risultare surreali, financo grottesche – in particolare con l’assurda morte dei fratelli del protagonista mentre giocavano con la benzina.

I divi usa-e-getta

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Un’altra tematica non scontata è la concezione dei modelli come divi usa-e-getta.

Già la rivalità fra Zoolander e Hansel è indicativa: per sua stessa ammissione, il protagonista si sente minacciato dalla figura del concorrente proprio perché sembra poter mettere a rischio lo status tanto fortuitamente guadagnato.

E, se consideriamo che i due non hanno che pochi anni di differenza, appare evidente come la popolarità nel mondo della moda sia una condizione estremamente passeggera, legata ad un successo momentaneo e, soprattutto, al mito della giovinezza eterna.

Questo concetto è particolarmente evidenziato dal personaggio di J.P. Prewitt, il mitico manista, che però ho dovuto mantenere la sua mano in uno stato di ibernazione eterna proprio per evitare che invecchiasse e che, di conseguenza, perdesse di valore.

E il racconto di come generazioni di modelli siano state pedine in mano a sanguinari imprenditori senza scrupoli, che li utilizzavano per eliminare ogni tipo di ostacolo al guadagno, sottolinea ancora una volta la fragilità di questi idoli, che possono essere creati e sacrificati ad libitum.

Infatti, non mancherà mai qualcuno che potrà prenderne il posto.

Un femminile anomalo

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Il personaggio di Matilda mi ha particolarmente sorpreso.

Una protagonista femminile che diventa motore dell’azione, nonché personaggio estremamente attivo, in questo caso assumendo proprio il ruolo della figura ragionevole e, di fatto, risolutrice della vicenda.

Nondimeno Matilda non viene tratteggiata come una donna fredda che deve essere fatta sciogliere dal protagonista. Piuuttosto, i due si aiutano reciprocamente: Matilda impedisce che Zoolander diventi un assassino, e quest’ultimo le fa riscoprire il piacere sessuale.

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

E al contempo Matilda diventa anche la voce – pur in maniera molto semplicistica – dei danni che involontariamente il mondo della moda arreca soprattutto alle giovanissime, facendole vivere nell’ombra di modelli di bellezza irraggiungibili.

Ed è drammaticamente ironica la risata che i due protagonisti si fanno sulla sua bulimia, derubricandola ad una condotta del tutto normale per la loro professione…

Lo sguardo che uccide

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

La storia del Magnum è tutto un programma.

Proposto inizialmente come il biglietto da visita del protagonista, il suo sguardo corrucciato è una costante della recitazione di Ben Stiller, che non esce mai dal personaggio, riuscendo ad essere assolutamente credibile in ogni scena.

In questo senso, ottima l’idea di affidare al villain il ruolo di dare la voce ad un pensiero probabilmente già proprio dello spettatore: i meravigliosi sguardi di Zoolander in realtà non sono nulla di che, oltre ad essere tutti identici.

E invece Zoolander ci sorprende con un’espressione che cambia le sorti del mondo, dimostrando come uno sguardo abbastanza affilato possa mettere al tappeto persino uno shuriken.

Un colpo di scena che è anche motivo del successo di questa pellicola.

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Hannah e le sue sorelle – Una famiglia a pezzi

Hannah e le sue sorelle (1986) è una delle commedie più conosciute della produzione di Woody Allen, godendo fra l’altro di un cast piuttosto nutrito di star – o future tali – fra cui Carrie Fisher, Michael Caine e Diane West.

Fu anche uno dei più grandi successi economici della produzione di Woody Allen: con un budget di circa 6,4 milioni di dollari – circa 18 milioni ad oggi – incassò ben 40 milioni – circa 110 milioni ad oggi.

Di cosa parla Hannah e le sue sorelle?

La storia ruota intorno alle turbolente vite sentimentali di Hannah e delle sue due sorelle, April e Lee, che si intersecano in maniera piuttosto inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hannah e le sue sorelle?

Mia Farrow in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

In generale, sì.

Hannah e le sue sorelle si va ad incasellare in quel tipo di commedia della produzione di Woody Allen non particolarmente originale nelle tematiche, ma piacevole da fruire, nonché elegante e curata nella messinscena.

I suoi grandi punti di forza sono il cast di grandi attori – quell’anno, fra l’altro, ampiamente premiati agli Oscar – e l’irresistibile ironia di Woody Allen stesso, che, come tipico delle sue commedie, è il punto focale della comicità della pellicola.

Insomma, nel complesso ve la consiglio.

L’inizio di un amore

Mia Farrow e Michael Caine in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

L’incipit di Hannah e le sue sorelle racconta uno dei temi preferiti di Allen: un amore impossibile.

La voce fuori campo dell’ancora sconosciuto Elliot ci accompagna alla scoperta di Lee e dei suoi sentimenti segreti quanto problematici – niente di meno che per la giovane sorella della moglie.

Tutto sembra essere apparecchiato per lo svolgersi di uno struggente dramma romantico a lieto fine: entrambi sono ingabbiati in relazioni a loro dire insoddisfacenti, e sembrano invece ritrovarsi negli interessi intellettuali comuni.

Michael Caine in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

Ma questa non è una qualunque commedia romantica.

Come aveva già sperimentato sia in Io e Annie (1977) e Manhattan (1979), Allen sceglie un taglio più amaramente realistico: per quanto Elliot si racconti di essere perdutamente innamorato di Lee e di volerla salvare da Frederick, in realtà è divorato dall’angosciante prospettiva di ferire Hannah.

E la troppa attesa preclude per sempre i rapporti.

Alla fine, Lee salva sé stessa: si lascia alle spalle la problematica relazione con Frederick – che era più un padre che un compagno – ed evita di affiancarsi nuovamente ad un uomo così distante da lei per età e per affinità.

Il ritaglio comico

Woody Allen in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

La storia dei Mickey è quella che ho più apprezzato della pellicola.

Con questo personaggio Woody Allen riesce a mantenere la comicità surreale tipica soprattutto della sua prima produzione: un incurabile ipocondriaco, tormentato da un’ansia costante e quasi grottesca.

Tramite un inaspettato crescendo drammatico, sembra veramente che i più tragici sogni del protagonista si siano avverati, e che la morte sia veramente venuta a bussargli alla porta, tanto da immaginarsi l’infausto annuncio del dottore.

Ma ancora più inaspettata – e, per questo, irresistibile – è la crisi esistenziale che lo assale, portandolo a riflettere sulla sua vita e il suo matrimonio finito, ricercando una fede in cui rifugiarsi, con un’ironia che già aveva sperimentato in Prendi i soldi e scappa (1969).

E poi c’è Holly.

Il lato debole

Mia Farrow, Barbara Hershey e Dianne Wiest in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

Holly, è a mio parere, la storia più debole del terzetto.

La debolezza risiede nella difficoltà che ho trovato nell’empatizzare con il personaggio: una bisbetica insoddisfatta che insegue amori impossibili e sogni irrealizzabili, ma sembrando più un peso per le sue sorelle che altro.

Ho trovato altresì piuttosto antipatica la sua scelta di umiliare la sorella con una sceneggiatura che svelasse la fallacia del suo matrimonio, idea per fortuna messa da parte e che conduce il personaggio ad un – a mio parere – davvero improbabile lieto fine.

Proprio per il tipo di commedie con finali piuttosto amari tipici della produzione di Allen, ho trovato quasi fuori luogo come Holly e Mickey si ritrovano, arrivando nel giro di poco tempo anche a sposarsi, a fronte di un primo appuntamento divertente quanto rivelatorio della loro incompatibilità.

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Shrek 2 – Ti presento i miei

Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon è il sequel di uno dei titoli animati più di cult dell’inizio Anni Duemila.

Un successo commerciale veramente grandioso, che confermò il culto che si era già al tempo formato intorno al brand: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi un miliardo.

Di cosa parla Shrek 2?

Poco dopo il matrimonio, Shrek e Fiona tornano alla palude, ma una sorpresa è lì ad aspettarli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek 2?

Shrek in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Ovviamente sì.

Shrek 2 è la conferma del successo del brand, e anche la sua maturazione, dove il misto fra fiaba e modernità è definitivamente scatenato, con delle trovate veramente incredibili e geniali.

Inoltre, racconta un’ulteriore, quanto essenziale, maturazione di Shrek e del suo rapporto con Fiona, forte di un primo capitolo che ha posto delle basi molto solide per la relazione fra i due protagonisti, così da poter esplorare nuove strade nel suo seguito.

Insomma, non potete perdervelo.

Innamorarsi ancora

Shrek e Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La sequenza del viaggio di nozze di Fiona e Shrek riesce al contempo a rinsaldare il rapporto fra i due – che sarà al centro della vicenda – sia ad essere meravigliosamente ironico.

In questo caso, con delle sequenze di pura cattiveria – in particolare quella con la Sirenetta – ma anche davvero esilaranti, come il quadretto idilliaco dei due sposini che corrono nel campo inseguiti dalle folle inferocite.

E funziona proprio grazie al primo film.

Infatti, dal momento che avevo trovato così convincente la costruzione del rapporto fra i protagonisti nella pellicola precedente, sono riuscita davvero ad innamorarmi di nuovo della loro relazione – ed era essenziale che fosse così.

Di nuovo Disneyland?

Una delle parti per me più convincenti in Shrek (2001) era Duloc.

E per questo Molto molto lontano è ancora più geniale.

Una rappresentazione che riesce a riscrivere nuovamente la fiaba e incasellarla in un preciso contesto moderno e commerciale come quello di Hollywood, grazie anche ad un’introduzione veramente perfetta nella sequenza di arrivo.

Così le principesse delle fiabe diventano le star del cinema – pur essendo introdotte effettivamente solo nel prossimo film – le taverne diventano fast-food e i balli reali sono niente di meno dei red carpet.

E il tutto senza alcuna sbavatura.

Ti presento i miei

Harold in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Tutta la sequenza di incontro con i genitori è indubbiamente ispirata a quel piccolo – quanto recente al tempo – cult di Ti presento i miei (2000).

E funziona ottimamente.

I veri protagonisti della storia, di fatto, sono Shrek e Harold: entrambi compiono un percorso con motivazioni simili – riuscire a rimettersi in discussione – e di fatto il padre di Fiona rivede sé stesso nell’odiato marito della figlia.

Non a caso Harold si è piegato veramente a fare qualunque cosa pur di superare quell’aspetto che, ne era certo, l’avrebbe reso un emarginato sociale, senza poter mai raggiungere lo status – e la relazione – tanto agognato.

Da parte sua Shrek è nuovamente messo davanti alle sue paure, dopo averle temporaneamente superate grazie al rapporto con Fiona: di nuovo i forconi, di nuovo il disprezzo, di nuovo il sentirsi fuori posto.

Il femminile secondario

Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Rivedendo Shrek 2 mi sono resa conto di quanto i personaggi femminili positivi siano di fatto secondari.

Eppure, sono assolutamente essenziali.

Il ruolo più appartato, almeno sulle prime, è quello di Lillian: per tutto il tempo cerca di riportare alla ragione il marito, tentando di assumere immediatamente un ruolo conciliante fra le parti.

Al contempo Fiona, nonostante sia poco presente in scena, rappresenta, come la madre, il punto di arrivo dell’eroe maschile, riuscendo di fatto a portare ad una interessante chiusura della storia proprio grazie alla maturazione che ha vissuto nel primo film.

Infatti, la Fiona che troviamo in questo secondo capitolo non è più la principessa che viveva nel sogno del Principe Azzurro, ma è una donna che è finalmente maturata e che ha compreso quanto la bellezza sia di fatto secondaria rispetto all’interno di un rapporto duraturo.

Distruggere la fiaba

Fiona e la Fata Madrina in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La distruzione dei topoi della fiaba in Shrek 2 è definitiva.

Di fatto si rompe quella sorta di patto narrativo per cui dovremmo credere all’amore a prima vista, all’amore predestinato, riducendo il tutto ad una transazione commerciale.

E così il salvataggio di Fiona non era altro che un matrimonio combinato.

Per questo il personaggio della Fata Madrina è così tanto interessante: va a colpire la Disney ancora sul vivo, distruggendo un caposaldo della fiaba, da sempre rappresentante della maternità e della cura.

In questo caso invece il suo personaggio è di fatto il motore dell’azione, l’abile villain che tira i fili nell’ombra, grazie al potere di poter dettare le regole e sconvolgere a suo piacimento le sorti dei personaggi.

Il principe nell’ombra

Azzurro in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La rappresentazione del Principe Azzurro è sottilmente geniale.

Shrek 2 gioca abilmente sul fatto che questo principe non sia un eroe qualunque che si identifica sotto questo topos narrativo, ma proprio un uomo che si chiama Azzurro.

Di conseguenza, il destino di Fiona era già scritto senza che se ne rendesse conto, proprio giocando su questa ambiguità del nome. E, per l’appunto, nessuno tranne Harold e la Fata Madrina conosce effettivamente il personaggio.

Azzurro in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

E, incredibilmente, Shrek 2 è riuscito a dare tridimensionalità ad un personaggio spesso totalmente vuoto.

Infatti, soprattutto se si guarda alla Disney dei primi tempi, l’eroe maschile era anche più insipido della protagonista femminile. In questo senso, Azzurro mi ha ricordato una sorta di Flynn di Rapunzel (2010) – in senso negativo, ovviamente.

Così, proprio per la sua posizione e bellezza, Azzurro è incredibilmente vanesio e pieno di sé stesso, anche opportunamente viziato dalla madre, raggiungendo una maturazione da villain solo nel film successivo.

Shrek, tocca a te!

Shrek e Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Il motore dell’azione per il viaggio di Shrek è di fatto la sua consapevolezza del debito nei confronti di Fiona.

Infatti, come lei stessa gli ricorda, la moglie ha fatto diversi e importanti sacrifici – la sua posizione sociale, il suo aspetto – per amore di Shrek. E invece il marito si è mostrato del tutto egoista nel fare un passo avanti nei suoi confronti.

Al punto che Shrek arriva a rinunciare alla sua stessa identità – o così sembra – pur di poter garantire a Fiona una vita effettivamente felice – o almeno quella che potrebbe sembrare apparentemente tale.

Tuttavia, proprio per questo il punto di arrivo di Shrek e Harold è il medesimo: entrambi si rendono conto che gli sforzi che hanno fatto verso le loro compagne non era tanto importanti di per sé, ma per quello che hanno in questo modo dimostrato.

Doris Shrek 2

Non voglio arrivare a giudicare con i parametri odierni un film del 2004, ma la presenza del personaggio di Doris mi offre inevitabilmente uno spunto di riflessione.

La sorellastra è una rappresentazione poco chiara, ma sicuramente molto stereotipata, di una drag queen, ma più che altro una donna transgender – non a caso è doppiata da un uomo.

Doris in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Molte delle battute girano intorno al suo essere poco attraente, quasi repellente – anche dovuta dalla sua natura – in maniera abbastanza sciocca, ma sicuramente molto coerente con lo spirito del periodo.

E mi stupisce vedere una rappresentazione di questo tipo all’interno di un film che promuove così evidentemente la diversità, la bellezza interiore e lo sradicare i ruoli sociali.

Ma era il 2004, appunto.

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La congiura degli innocenti – L’altro Hitchcock

La congiura degli innocenti (1955), traduzione piuttosto evocativa del titolo originale The trouble with Harry, è uno dei prodotti meno noti e anche più atipici – ma tipici insieme – della filmografia di Hitchcock.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 13,5 oggi – incassò tutto sommato abbastanza bene: 3,5 milioni, circa 39 oggi.

Di cosa parla La congiura degli innocenti?

Durante una battuta di caccia, il capitano Wiles pensa di aver ucciso un uomo. Ma è solo l’inizio di un’incredibile avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La congiura degli innocenti?

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dipende.

La congiura degli innocenti è un film veramente particolare, che racconta un lato meno esplorato della filmografia di Hitchcock, pur sempre presente in sottofondo nei suoi prodotti precedenti: l’humor nero, in questo caso apertamente surreale.

Davanti al ritrovamento di un cadavere, ci si aspetterebbe una certa reazione dai personaggi di Hitchcock. In realtà, per vari motivi che vengono svelati durante la pellicola, le varie figure che si susseguono hanno delle reazioni imprevedibili, ma incredibilmente sensate…

Insomma, se vi piace il genere, lo adorerete.

The trouble with harry

Se non avete mai visto La congiura degli innocenti, vi consiglio caldamente di guardarlo in lingua originale.

Infatti la pellicola si basa su un’ironia piuttosto sagace, originata per la maggior parte da giochi di parole spesso intraducibili. Inoltre, senza conoscere il titolo originale, si perde il senso della conclusione.

Insomma, per apprezzarlo appieno, non rischiate!

Un omicidio inaspettato

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dopo un paio di inquadrature funzionali a raccontare l’ambiente – una minuscola comunità rurale – ci viene immediatamente introdotta la vicenda, con il simpatico Capitano che si accorge di aver ucciso un uomo.

Un evento che in altre circostanze avrebbe portato ad un picco drammatico, in questo caso porta ad una prima scenetta comica, dal sapore molto surreale: tutti gli abitanti della città – ad eccezione dello sceriffo e della bottegaia – passano vicino al cadavere.

E ognuno di questi sembra essere fondamentalmente disinteressato o per nulla preoccupato, ma ognuno con una motivazione chiara che verrà rivelata più avanti.

Oggetti (e personaggi) di valore

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Durante la pellicola diversi oggetti passano di mano in mano, ognuno con un valore preciso.

Le scarpe di Harry, il coniglio morto, l’album da disegno…

Ed insieme agli oggetti, si muovono anche i personaggi, le cui vicende si intrecciano in maniera inaspettata e sorprendente, con un susseguirsi di gustosissimi colpi di scena, che rivelano a mano a mano tutti gli elementi della vicenda.

Così l’incontro fra il Capitano e Sam porta al dialogo con Jennifer e allo scoprire l’identità di Harry, il consumarsi dell’appuntamento fra il Capitano e Miss Gravely alla vera natura del delitto, e a un continuo sotterrare e dissotterrare il corpo…

Shirley MacLaine e John Forsythe in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Di conseguenza, anche la colpa – e così il motore dell’azione – passa da personaggio in personaggio.

Prima il Capitano che deve nascondere il delitto, poi Miss Gravely che deve discolparsi, infine Sam che deve sposarsi. Ma proprio alla fine, quando quest’ultimo diventa responsabile dell’ennesimo – e per fortuna ultimo – dissotterramento del corpo, riesce a ricompensare tutti per il loro silenzio.

Infatti, invece che tenersi entrambi i premi per sé – la nuova moglie e i soldi dalla vendita dei dipinti – sceglie di premiare ognuno dei personaggi, come una sorta di premio di partecipazione per averlo aiutato nel suo obbiettivo.

Che l’ironia continui!

Royal Dano in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Soprattutto sul finale, la colonna sonora stessa racconta la natura del film.

I temi più tipici che facevano da cornice sonora ai classici thriller alla Hitchcock, vengono smorzati da delle tonalità più scanzonate. Così, l’ironia nerissima – ma nondimeno gustosa – che domina la scena sembra poter finire da un momento all’altro.

Infatti, sul finale viene introdotto un elemento di disturbo, lo sceriffo che cerca di fare luce sulla storia e, in maniera quasi metanarrativa, rovinare la festa e mettere fine all’ironia della storia.

Al punto che lo spettatore non solo non vuole che i personaggi vengano puniti, ma pretende che si mantenga fino alla fine il taglio umoristico che finora aveva dominato. E per fortuna la vicenda si chiude come si è aperta, e con una chiosa piuttosto simpatica:

The trouble with Harry is over.

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Nodo alla gola – Un omicidio da appartamento

Nodo alla gola (1948), talvolta noto anche come Cocktail per un cadavere, è la prima pellicola in Technicolor girata da Alfred Hitchcock.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 2 milioni di dollari, circa 25 oggi – ebbe un riscontro altrettanto contenuto, corrispondente agli stessi costi di produzione (fra i 2,2 milioni e i 2,8 milioni).

Di cosa parla Nodo alla gola?

Poco prima di una festa da loro organizzata, i due giovani Brandon e Phillip uccidono un loro “amico”. E per tutto il party il cadavere sarà presente in scena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nodo alla gola?

John Dall e Farley Granger in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Nodo alla gola è una delle opere meno conosciute di Hitchcock, ma è anche un’interessante sperimentazione di questo straordinario regista, per la prima volta con una pellicola a colori e con l’utilizzo di diversi ed abili piani sequenza.

Inoltre, non manca anche di un’ironia piuttosto sottile, profondamente dark, che ho personalmente molto apprezzato – la più interessante sperimentazione in questo senso finora, dopo alcuni accenni in altri prodotti, ad esempio in Rebecca (1940).

Cominciamo subito!

L’elemento sicuramente più interessante della pellicola è l’incipit.

Vediamo fin da subito l’omicidio, rappresentato anche in maniera piuttosto esplicita e violenta. E conosciamo immediatamente anche i colpevoli, una coppia piuttosto singolare di giovani rampolli della buona società.

La tensione è palpabile fin dal primo momento, definita proprio dal contrasto fra i due: mentre Brandon si sente brillante ed invincibile, al contrario Philip è evidentemente preoccupato, sicuro di essere scoperto da un momento all’altro.

E sembra che lo svelamento del mistero sia chiamato fin dall’inizio…

Il vero protagonista

James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Anche se apparentemente la coppia omicida è la protagonista, in realtà il vero focus della pellicola è il personaggio di James Stewart.

Dopo un piccolo susseguirsi di figure di contorno che animano la festa, Rupert compare improvvisamente in scena, dopo essere stato annunciato dai protagonisti stessi con una discreta tensione: Philip rimprovera l’amico di aver invitato il loro ex insegnante, essendo questo una persona molto sospettosa.

In realtà il professore è molto di più: mentre i due conversano amabilmente del più e del meno, mentre Brandon si sente particolarmente acuto nelle sue battute piene di doppi sensi, l’uomo osserva attentamente la scena, e coglie tutti gli indizi che lo portano allo svelamento del mal celato delitto.

Non a caso, la camera si sofferma in un paio di momenti fondamentali ad inquadrarlo per diversi secondi, mentre i due si stanno tradendo con le loro stesse mani, anche se nessuno, a parte il professore, sembra essersene accorto…

Il gioco è finito

John Dall e James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Nell’ultimo atto è chiaro sia allo spettatore che ai due assassini che Rupert ha capito il loro gioco.

A questo punto, il professore e il suo allievo cominciano a giocare, raccontando una storia a parole assurda, ma che mostra in realtà come Rupert sia perfettamente consapevole delle dinamiche del loro delitto. E, proprio per questo tono leggero, Brandon pensa di poter avere l’approvazione del suo maestro.

Ma è il suo più grave errore.

Nel momento dell’effettivo svelamento, il giovane cerca di convincere il professore di aver solo messo in pratica le teorie da lui stesso promosse, ma Rupert lo respinge violentemente, annullando i suoi sogni di superiorità quasi con disprezzo, e rimettendolo così al suo posto.

E il finale è piuttosto esplicativo in questo senso.

Nodo alla gola finale

Il finale è particolarmente indovinato.

E finalmente, come anche per il precedente Notorious (1946), in questa fase Hitchcock comincia a gestire in maniera ottimale le chiusure delle sue pellicole.

Infatti, dopo una costruzione perfetta della tensione, con Rupert svela l’arma del delitto e Philip che cerca di aggredirlo, la scena si ricompone.

Osserviamola.

John Dall, Farley Granger e James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Philip e Brandon cercano di riprendere le loro posizioni, di riacquistare il loro safe space: Philip si ritira al pianoforte, dove si era continuamente rifugiato durante la festa, ma dove comunque Rupert era riuscito ad insidiarlo.

Invece Brandon sceglie di versarsi un altro drink e di rimanere al centro della scena, come se la festa che tanto l’aveva divertito fosse ancora in corso, e lui potesse mantenere il suo status di giovane brillante ed innocente.

James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Per Rupert è tutto il contrario.

Dopo aver ristabilito la sua autorità a voce, la ridefinisce anche a livello visivo: ha in mano sia l’arma del delitto che la pistola, e diventa una sorta di custode del cadavere, la prova decisiva per incastrare i due (ex) allievi indisciplinati.