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Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Ingmar Bergman

Fanny e Alexander – Summa

Fanny e Alexander (1982) è l’ultima opera da regista di Ingmar Bergman, per molti versi considerabile il punto di arrivo della sua produzione.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 6 milioni di dollari – l’incasso fu corrispondente alle spese produzione…

Di cosa parla Fanny e Alexander?

Svezia, 1907. Fanny e Alexander sono due fratelli facenti parte di un’ampia famiglia, di cui si esplorano i drammi e le contraddizioni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fanny e Alexander?

Bertil Guve e Pernilla Allwin in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

Dipende.

Fanny e Alexander è una pellicola piuttosto anomala per la produzione di Bergman: pensato inizialmente come una serie tv, il girato venne pesantemente castrato, passando da cinque ore a appena tre, così da renderlo fruibile alla sala.

Purtroppo, la natura originale è piuttosto evidente: la storia principale diventa dominante nella seconda parte del film, mentre le altre storie secondarie sono evidentemente state tagliate in più punti, tanto che mancano dei raccordi piuttosto fondamentali.

Nondimeno, può essere l’occasione di scoprire un Bergman diverso, a fine carriera, in un momento di profondo ripensamento della sua vita e della sua opera, di cui la pellicola è ricca di citazioni.

Ego

Bertil Guve in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

Alexander è l’alter-ego.

Tramite gli innocenti, quanto ribelli, occhi del ragazzino protagonista, Bergman racconta prima di tutto sé stesso, anche se non direttamente: in questa figura l’autore non si immerge totalmente, ma la usa come vettore per il racconto della famiglia protagonista.

La famiglia è infatti il luogo in cui Alexander si rifugia, è tutto il suo mondo: non a caso la prima scena rappresenta il giovane protagonista che ricerca gli affetti familiari e, non trovandoli, si rannicchia in un angolo, in attesa.

Bertil Guve e Pernilla Allwin in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

In questo panorama familiare si alternano momenti giocosi – nelle varie occasioni di divertimento, anche triviale, durante la festa di Natale – anche direttamente collegati alla vita di Bergman – come la bugia del circo, che effettivamente l’autore raccontava da bambino…

…a momenti effettivamente più profondamente drammatici, il cui cuore è indubbiamente la morte del padre, che si trascina per diverse scene, richiamando direttamente Sussurri e grida (1972), e sfociando, infine, nel nuovo matrimonio della madre.

Padre

Ewa Frölin e Allan Edwall in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

La figura del padre è un elemento chiave non solo del film, ma anche della vita dello stesso regista.

Il primo padre, Oskar, è profondamente legato al mondo del teatro e della finzione: la sua dipartita, la sua uscita di scena, comincia direttamente sul palcoscenico, quando dimentica le sue battute, e quindi il suo personaggio, ritirandosi nel letto di morte.

Allan Edwall in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

La sua natura paurosa, da fantasma, è evidente fin dagli ultimi momenti della sua vita – quando dice proprio ora potrei interpretare il fantasma – e che poi prosegue nelle varie apparizioni spettrali che puntellano la pellicola.

Una presenza che in realtà vorrebbe essere protettiva – quasi come un angelo custode che veglia sul figlio anche dopo la sua morte, rappresentante proprio quella figura paterna che Bergman avrebbe sempre desiderato avere nella sua vita.

Ewa Frölin e Jan Malmsjö in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

La figura paterna secondaria è invece quella più distruttiva, più vicina alla realtà autobiografica del regista, in cui si ritrova anche la radice della sua ossessione religiosa – ampiamente esplorata soprattutto in Il settimo sigillo (1957).

Durante la sua infanzia, infatti, Bergman dovette subire un’educazione religiosa piuttosto stringente ed opprimente, ben rappresentata proprio dal perfido Edvard Vergerus, che lentamente attrae la madre del protagonista nella sua trappola.

Maria

Ewa Frölin e Jan Malmsjö in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

Se la figura del nuovo padre è quasi diabolica, la madre è una figura mariana.

Non caso la sua prima apparizione è proprio nelle vesti della Madonna, in occasione della rappresentazione teatrale ad inizio film, proseguendo nel suo ruolo soprattutto durante la morte di Oskar, quando le sue urla dominano l’ambiente domestico.

Ma, con il nuovo matrimonio, Emilie assume, almeno agli occhi del nuovo marito, le vesti di donna deviata e peccatrice, che deve essere spogliata dai vizi e dal suo passato, per essere invece traghettata verso la sua unica e fondamentale funzione.

Ewa Frölin e Jan Malmsjö in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

Essere la madre.

Significativa in questo senso la scena in cui il vescovo le comunica il suo nuovo futuro, e lei infine si inginocchia davanti a lui, proprio in una condizione di reverenza, di ricerca di un conforto e, soprattutto, di totale sottomissione.

Infine, negli ultimi atti del suo matrimonio Emilie sembra una figura ormai senza speranza, ma in qualche modo accompagnata dalla mano benevola del destino – o di Dio – che le permette di liberarsi dalla pesante figura di Edvard senza doversi sporcare le mani…

Spettatore

Qual è il ruolo di Fanny?

Nonostante il suo nome sia presente nel titolo, la sorella di Alexander sembra una figura estremamente secondaria, defilata nella maggior parte delle scene, a cui il film dedica una marginale importanza.

In realtà, Fanny può rappresentare lo spettatore stesso del film e, più in generale, di questa sorta di biografia che Bergman sta portando sullo schermo, una presenza silenziosa ma attenta, premiata da qualche primo piano che la mette al centro della scena.

Bertil Guve in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

L’elemento metanarrativo è infatti dominante nella pellicola.

Tramite la scena delle marionette, Bergman rappresenta un sé stesso intento a compiere le prime avventure registiche, creando di effettive scene – aspetto ulteriormente messo in luce dalle mirabolanti bugie e dalle storie improbabili che si inventa durante la pellicola.

Questo elemento ha il suo coronamento nella conclusione, in cui il regista sembra voler spogliare la pellicola del connotato autobiografico, preferendo invece portarla più vicino al regno della fantasia e della finzione:

Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni

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Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Grottesco Ingmar Bergman

Sussurri e grida – Parenti assenti

Sussurri e grida (1972) è una delle opere più tarde della filmografia di Ingmar Bergman.

A fronte di un budget contenuto – appena 450 mila dollari – fu nel complesso un buon successo, con 3,5 milioni di incasso.

Di cosa parla Sussurri e grida?

La povera Agnese sta morendo di un mare incurabile. In questa occasione le due sorelle, Karin e Maria, si riuniscono dopo molto tempo nella casa natale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Sussurri e grida?

Liv Ullman in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Con Sussurri e grida Bergman ci regala ancora una volta la sua regia superba ed elegantissima, fra l’altro con una delle sue prime sperimentazioni con il colore, in particolare puntando sull’onnipresente e asfissiante rosso degli ambienti.

Una vicenda piuttosto angosciante, incentrata sulla totale indifferenza di due donne non solo davanti alla sofferenza e alla morte imminente della sorella, ma anche all’interno della glacialità dei loro rapporti, all’inconsistenza dei loro matrimoni…

Interno

Ingrid Thulin in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

La pellicola ci accoglie in un esterno silenzioso e anonimo…

…per poi condurci ad un interno asfissiante e doloroso.

Per gli spazi della casa Bergman ha scelto appositamente il colore rosso, proprio a rappresentazione delle interiora e, per estensione, della vera natura nuda e cruda dei suoi personaggi.

Così poche parole scritta da Agnese sul suo diario tratteggiano la situazione presente: la malattia dolorosa – sto soffrendo – e le due sorelle riunite al suo capezzale apparentemente per aiutarla – Anna e Karin si danno il turno.

Ma in un attimo Agnese volge lo sguardo verso il passato, inconsapevolmente la radice delle disgrazie presenti, che però la donna, immersa nel suo ingenuo sogno di riunione familiare, non riesce davvero a comprendere.

Madre

Liv Ullman in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Il ricordo della madre è il primo a venire alla mente.

Agnese racconta una genitrice fredda e scostante, che quasi si pente di non aver compreso al tempo nel suo carattere turbolento, più volto a sgridarla e punirla, che a darle quell’affetto che la donna, ancora in età adulta, continua a ricercare.

Invece, un breve e quasi felice ricordo dell’infanzia sembra bastare per riqualificare la madre ai suoi occhi: quel breve gesto muto, quella carezza tanto ricercata, in cui Agnese vede racchiusa una sorta di pietà, di tristezza della donna nei suoi confronti.

Un momento significativo in chiusura di un ricordo davvero infelice, in cui la protagonista ricorda quanto si sentisse esclusa dai più importanti momenti di gioia familiare, che dettano anche la sua ingenua felicità presente nei confronti delle sorelle.

Ma non è su di loro che Agnese può contare.

Pietà

La vera figura positiva nella vita di Agnese è Anna.

Infatti, le due donne sembrano in qualche modo completarsi a vicenda.

Come Agnese cerca un calore materno, un affetto familiare che le sue sorelle si rifiutano di offrirle, essendole totalmente indifferenti, lo stesso è lo trova invece in Anna, nelle diverse scene in cui la domestica sembra ora allattarla, ora ricreare la scena della Pietà di Michelangelo.

Kari Sylwan in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Anna è infatti l’unica figura che ha veramente a cuore Agnese, l’unica capace di dare ascolto ai sussurri della donna morente, di sentire il suo pianto proprio quando tutti la credono ormai morta e dimenticata.

Ed è anche l’unica che infine accetta di starle accanto quando entrambe le sorelle si rifiutano istericamente di darle anche solo un minimo di affetto, l’unica che ripercorre infine le parole della defunta nella sua ultima memoria felice…

Indifferenza

Liv Ullman in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Maria è indifferente.

Ma non solo con Agnese.

La donna è totalmente indifferente in primo luogo all’interno del suo stesso matrimonio, con il suo stesso marito, persino quando lo trova pugnalato e sofferente – con un interessante foreshadowing del suo stesso rapporto con la sorella.

Ed è tanto più meschina quando, invece che informarsi sulla salute di Agnese, sceglie di approcciarsi al medico per riaccendere la fiamma della passione che sembra ormai essersi spenta da tempo.

Liv Ullman in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Molto significativo in questo senso lo scambio fra i due personaggi, in cui il dottore sembra in un certo senso svalutare la qualità di Maria come donna che ha ormai perso la sua innocenza, ed è diventata indifferente, pigra e maliziosa.

La sua indifferenza la porta solo apparentemente, sul finale, ad avvicinarsi ad Agnese, ma poi invece distaccarsi, fuggire in preda al panico e alle urla quando la sorella effettivamente le richiede quell’affetto tanto desiderato.

Fredda

Ingrid Thulin in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Karin è fredda.

La sua freddezza ha origine dal suo stesso matrimonio, in cui il marito sembra mostrare un atteggiamento non dissimile da quello della sorella: indifferente davanti ad ogni mutamento, ad ogni casualità della vita della moglie.

Così internamente la donna medita furiosamente sulla falsità di questa facciata, incapace però di esprimere questi sentimenti, se non tramite il doloroso e risentito silenzio, che la porta a sua volta ad essere fredda, indifferente, distaccata da tutti.

Ingrid Thulin in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Un atteggiamento che non viene altro che confermato da Maria.

Proprio come farà in seguito con Agnese, Maria cerca di avvicinarsi alla sorella, da cui ormai sembra divisa da molto tempo, e fra le due esplode un dialogo concitato e apparentemente molto affettuoso, in realtà vuoto e vacuo come il silenzio della scena.

Così, dopo essersi di nuovo strappata dalle attenzioni della sorella morente, riprova solo timidamente a riavvicinarsi a Maria durante il loro congedo nel finale, ricevendo in risposta solo altra freddezza, altra indifferenza…

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L’ora del lupo – L’incubo privato

L’ora del lupo (1968) è un’opera minore della filmografia di Ingmar Bergman, in cui il regista svedese sperimenta con l’elemento fantastico e orrorifico.

A fronte di un budget sconosciuto – ma come sempre probabilmente piuttosto basso – incassò 250 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’ora del lupo?

Johan Borg è un pittore ossessionato dal suo passato. E il suo soggiorno in un’isola sperduta non migliora la situazione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ora del lupo?

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

In generale, sì.

Non posso dire che L’ora del lupo sia uno dei titoli più memorabili della filmografia di Bergman: il regista sembra trovarsi in un momento di passaggio, in cui deve scegliere che taglio dare all’apparato simbolico che caratterizza ogni sua opera.

Tuttavia, il voler sperimentare in maniera così importante con il fantastico e il grottesco, rende questo film una classica opera del regista, ma mancante della brillantezza tematica e filosofica che caratterizzava le sue precedenti pellicole – in particolare, Il posto delle fragole (1957)

Eden

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Il primo approccio all’isola è promettente.

Inizialmente infatti Johan sembra riuscire ad apprezzare l’atmosfera idilliaca e bucolica del luogo, come testimoniano i brevi quadretti in cui si intrattiene con la moglie, in scambi di affetto e dialoghi spensierati e sognanti.

Ma l’elemento fondamentale è proprio la pittura, lo strumento con cui il protagonista effettivamente esprime sé stesso e i propri sentimenti: sulle prime, le sue opere sono ispirate alla stessa moglie, Alma, proprio all’interno di quello che è ancora un piacevole eden.

Ma basta poco perché il sogno si spezzi.

Incubo

Liv Ullmann e Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Già nel giro di poche scene il protagonista appare turbato e scostante, sempre più lontano da quella spensieratezza che l’aveva caratterizzato fino pochi momenti prima, angosciandosi via via sempre maggiormente con l’avvicinarsi delle tenebre.

Così, nella macabra oscurità, comincia a raccontare il suo conflitto interiore, rappresentato da creature deformi ed inspiegabili, dalle forme più strane e raccapriccianti, fra l’umano e il mostruoso.

E in questo modo si inizia anche a delineare l’incolmabile distanza fra il pittore e Alma, che a tratti appare turbata, a tratti prova a dare ascolto alle paranoie di Johan, nonostante queste rimangano per lo più incomprensibili…

Diario

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Anche Alma è all’interno dell’incubo.

Su consiglio di uno dei tanti spettri che popolano l’isola – e la mente del marito – sceglie infine di provare a comprenderne i più profondi segreti, proprio andando a scavare nel luogo in cui più direttamente Johan si esprime.

Il diario.

E la memoria più bruciante riguarda Veronica Vogler.

In passato Johan era stato protagonista di uno scandalo di costume, che l’aveva portato negli anni ad essere non tanto ossessionato dalla donna in sé, ma dal suo ruolo nella vicenda, in quella realtà mondana così lontana dal luogo in cui ora si è rifugiato.

E proprio nel diario Alma trova anche il passaggio in cui Johan racconta di essere stato chiamato a far nuovamente parte di quel circolo di personaggi mostruosi, gli stessi che furono – e saranno anche poi – il pubblico di quel particolare episodio.

Fuggire

Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Fuggire è impossibile.

Nonostante la stessa Alma abbia espresso le sue inquietudini, Johan non riesce a distaccarsi da quella realtà, a cui viene nuovamente e in breve tempo invitato, a rappresentazione proprio del suo desiderio quasi inconscio di farne parte.

Il ritorno sui suoi passi è tanto più destabilizzante quanto segue allo svelamento di un altro segreto, ancora più raccapricciante: l’uccisione del bambino, apparentemente una figura innocente, in realtà un altro personaggio mostruoso del suo tormentato passato.

L’ultima sequenza nel castello è quella più strettamente teatrale.

Johan viene rivestito e riplasmato, come se dovesse prendere parte proprio ad uno spettacolo, uno spettacolo che lui stesso stava ossessivamente cercando, ma che lo rende anche inquieto, proprio per il taglio grottesco, surreale e quasi orrorifico dell’atmosfera che lo circonda.

In questo senso, è emblematico l’incontro con Veronica, prima morta, poi viva, poi mostruosa, che cerca di assalire il protagonista con un amore vorace, fino a renderlo deforme, ma ben adatto alla commedia dell’assurdo di cui ha scelto di far parte.

Colpevole

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Alma si sente colpevole.

Nonostante fosse stata ferita e cacciata dal marito a colpi di pistola, ha scelto comunque di stargli accanto mentre riversava sconvolto le sue memorie nel diario, per poi inseguirlo nel bosco, ancora decisa a salvarlo.

E davanti all’impossibilità di scacciare i suoi demoni, davanti all’impossibilità di strapparlo da quell’incubo, comunque nel presente la donna si domanda pensierosa se la sua colpa fosse di non averlo amato abbastanza…

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Dramma familiare Drammatico Film Ingmar Bergman

Persona – Divorare l’io

Persona (1966) di Ingmar Bergman, con protagoniste Bibi Andersson e Liv Ullmann, è una delle opere più profondamente sperimentali della produzione dell’autore svedese.

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – incassò circa 90 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Persona?

Elisabeth Vogler è un’attrice che ha smesso improvvisamente di parlare. In compagnia della piuttosto loquace Alma, passa diversi giorni in una casa sul mare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Persona?

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Per quanto rispetto ai suoi precedenti prodotti – nello specifico Il settimo sigillo (1957) – Persona manchi totalmente dell’elemento ironico, non manca della regia precisa ed elegante che caratterizza ogni film di Bergman.

In questo caso il regista si imbarca in un progetto incredibilmente sperimentale, impreziosito da una simbologia piuttosto complessa e intraprendente, che ragiona sui temi dell’io, della famiglia e della nascita.

Insomma, da non perdere.

Idolatria

La sequenza del figlio raccoglie in realtà una delle tematiche più viscerali della filmografia di Bergman.

La ricerca di Dio.

In nuce, la totale mancanza di identità sia del personaggio che dell’ambiente che lo circonda, eppure la ricerca quasi idolatrica dell’immagine divina – la Madre, la Creatrice – non allontana questo bambino dallo struggimento dal protagonista della sua opera più famosa: Antonius Block.

Un tema che ben si incasella nell’identità stessa del film, nella sua ricerca dell’io e dell’autodefinizione, in questo caso ricercata in una figura sempre più profondamente incomunicante: la madre.

Una scena tanto più dolorosa quando si arriva all’atto finale, alla rivelazione di questa maternità non voluta, eppure presente e ineluttabile, che porta Elisabeth ad essere, proprio come Dio, totalmente assente dalla vita del figlio.

Persona

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Elisabeth non è più una persona.

Sul palco, proprio quando era nei panni di un’eroina tragica, la protagonista si dissocia prima dal suo personaggio – la dramatis persona – con un’azione del tutto fuori contesto – la risata – poi da sé stessa, calando in un intenzionale mutismo.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

In questa afasia programmatica Elisabeth è passata dall’essere un’attrice, un personaggio del mondo, ad una osservatrice dello stesso, intenta a studiare un’altra figura piuttosto attraente: Alma.

Con la sua condizione, la protagonista diventa infatti l’ascoltatrice perfetta per i profondi drammi interiori della sua compagna, la quale, proprio nell’essere così libera e aperta nel parlare, svela anche l’insvelabile.

Ma già nelle sue parole la dinamica del suo rapporto con Elisabeth è lampante.

Divorare

Bibi Andersson in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

La donna si dilunga nel raccontare esperienze sessuali travolgenti, andando a mettere l’accento proprio sull’atto penetrativo, di apertura e fusione dei corpi ripetuta e ricercata, che racconta indirettamente la stessa dinamica in atto con Elisabeth.

Si accenna anche al tema della maternità, intesa in questo frangente come nascita di un corpo da un altro, proprio in scene in cui le due donne sembrano non solo sovrapporsi, ma proprio unirsi per creare una creatura nuova di zecca.

Bibi Andersson e Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Infatti, Elisabeth vuole divorare Alma.

La progressiva sovrapposizione delle loro identità è raccontata già solo dalle splendide e simmetriche inquadrature di Bergman, in cui spesso i visi si sovrappongono, si tagliano, si annullano l’un l’altro.

Emblematico anche il primario utilizzo del bianco, come se entrambe le protagoniste fossero personaggi ancora da scrivere: in particolare Alma sembra uno spettro, che splende nella notte col volto pallido, oscurato solo dal corpo della stessa compagna.

Tradimento

Bibi Andersson in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Il tradimento di Elisabeth ha due significati.

Ad un livello strettamente narrativo, rappresenta il risveglio dal sogno.

Leggendo la cinica e analitica lettera di quella che credeva ormai essere diventata la sua confidente – e potenziale amante? – Alma si risveglia improvvisamente dal torpore onirico con cui si era lasciata sedurre.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Questo svelamento si inserisce anche nel contesto simbolico della narrazione, in cui Alma è come se vedesse sé stessa – o quella parte di sé stessa che non voleva vedere – scritta su un foglio come il personaggio di una storia.

Al contempo, comprende la natura divorante di Elisabeth – che non a caso comincia a vestire di nero, il colore che assorbe tutti gli altri – e di come per lei sia solo uno strumento per riavvicinarsi al suo io.

Identità

Bibi Andersson e Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergmanv

Gli ultimi momenti della pellicola rappresentano la definizione.

Alma, proprio quando si accorge sempre di più di star perdendo la sua identità, facendola invece coincidere con quella di Elisabeth, esce dal personaggio e torna in un’altra veste: l’infermiera curante della protagonista.

E proprio in questa parte, ripaga la donna con la sua stessa moneta: prima la definisce malignamente con le più drammatiche e oscure verità del suo essere, poi la attrae e, quando questa cerca ancora di nutrirsi di un io che non è il suo, la punisce fisicamente.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Infine, avviene l’annullamento.

Rivediamo Alma curare Elisabeth in un contesto nuovamente dominato dal candore del bianco, che in questa sequenza rappresenta il nulla, secondo le stesse parole che l’infermiera fa ripetere alla paziente, in un’azione definitivamente spersonalizzante.

A questo si aggiunge l’accenno metanarrativo: le due donne fanno i bagagli e disfano la scena, che appare ora come un palcoscenico, un set di uno spettacolo che era in corso e che ora si è concluso…

…con l’ultima inquadratura che chiude sul figlio di Elisabeth ancora alla ricerca di un personaggio che, forse, non è mai esistito.

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La fontana della vergine – L’occhio complice

La fontana della vergine (1960) rappresentò il ritorno di Ingrid Bergman all’ambientazione medievale, dopo il poco precedente Il settimo sigillo (1957).

A fronte di un budget sconosciuto, incassò 700 mila dollari nei soli Stati Uniti.

Di cosa parla La fontana della vergine?

Nel contesto della Svezia medievale, il fattore Christian Per Töre manda la giovane figlia Karin a consegnare le candele per la celebrazione della messa. Ma la strada è piena di pericoli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La fontana della vergine?

Dipende.

Per quanto La fontana della vergine sia un film splendidamente diretto e ottimamente scritto, è anche un prodotto che parla di una tematica piuttosto impegnativa – la violenza sessuale – all’interno di un mondo crudele e violento, senza lasciare nulla all’immaginazione…

Infatti, anche se la regia elegantissima di Bergman incornicia perfettamente i suoi personaggi e non scade mai nella violenza quasi pornografica di altri film con tematiche analoghe, nondimeno la profonda tragicità delle scene trasmette un’angoscia piuttosto intensa…

Insomma, vi ho avvisato.

Selvaggia

A primo impatto ne La fontana della vergine sembrano esserci due modelli femminili completamente opposti.

Il primo è Ingeri, la principale protagonista del primo atto, talmente ribelle da essere più vicina alla cultura pagana – prega Odino – che a quella cristiana – tipica invece degli altri personaggi.

Ad una visione più superficiale la sua figura appare radicalmente anarchica, sprezzante delle regole e delle buone maniere, tanto che il suo aspetto disordinato e i suoi atteggiamenti selvaggi non sembrano altro che un’estensione della sua personalità.

Ma il personaggio in realtà si definisce nella sua drammaticità.

La sua personalità rappresenta in una certa misura un foreshadowing del destino di Karin: prima una ragazza con un aspetto ordinato e verginale, poi, a seguito della violenza, una donna disperata, scostumata e molto più simile appunto alla sua compagna.

Infatti la personalità così dirompente di Ingeri è dovuta anche e sopratutto all’esperienza traumatica che ha vissuto, di cui sente in ogni momento il peso, cercando al contempo di mettere in guardia l’ingenua Karin da un destino che però sembra inevitabile.

Ingenua

La verginità di Karin va molto oltre la sua esperienza sessuale.

La ragazza è vergine sopratutto perché non è mai stata toccata dalle brutture del mondo violento in cui vive, con un’esistenza protetta e coccolata fra le braccia dei genitori, che persino si sfidano per averne il favore.

Karin è quindi una giovane donna più simile ad una bambina, al punto da essere quasi capricciosa, totalmente ingenua davanti alle dinamiche dello stupro di Ingeri, liquidandolo con affermazioni piuttosto sempliciotte su come lei, al suo posto, sarebbe stata capace di difendersi.

Così la sua ingenuità è anche la sua rovina.

Vivendo di una totale idealizzazione del mondo esterno, Karin percepisce la colazione sul prato con i pastori come un quadretto bucolico sotto il segno della cristianità, nonostante lei sia l’unico personaggio del gruppo che rientra in questo ideale.

Al contrario, gli uomini fin da subito si muovono come bestie, addocchiandola da lontano e puntandola come dei lupi affamati, per poi cominciare ad avvicinarsi sempre di più al suo corpo, provocando così il primo vero senso di inquietudine e pericolo nella ragazza…

Ma il paesaggio è già di per sé eloquente.

Sporca

Il paesaggio alle spalle dei protagonisti dovrebbe essere semplice e pulito…

…e invece è sporco e ostile.

Karin cerca di ricreare un quadretto ideale sul prato, ma la presenza ingombrante dei rovi alle sue spalle continua a sporcare la scena, rendendola ben più drammatica, più grottesca e molto meno accogliente ed invitante di quanto lei vorrebbe.

Allo stesso modo la dinamica dello stupro e del conseguente omicidio è improvvisata e disordinata, con i due uomini, le due bestie che si gettano contemporaneamente sulla loro preda, in una scena drammaticamente realistica quando estremamente elegante nella regia.

Così il quadro della sua morte ribadisce il contrasto fra la sua figura martirica, bianca e innocente, incorniciata nel paesaggio aspro e ostile dei rovi, che in un certo senso anticipa la dinamica della vendetta del padre.

E così persino una figura apparentemente innocente come quella del bambino non basta per risolvere il contrasto: prova a cibarsi del cibo abbandonato di Karin, ma lo rigetta, e così cerca di seppellirla, ma finisce solo per sporcarla ulteriormente.

Osservatrice

La drammaticità di Ingiri è la sua impotenza.

Dopo aver già vissuto il suo dramma fuori scena, la donna, al contrario della compagna, è piuttosto consapevole dell’orrore del mondo esterno, e per questo riesce effettivamente a sottrarsi ad un’ulteriore violenza.

Ma non può evitare quella di Karin.

Pur con tutti i suoi tentativi di salvarla, la donna non riesce ad impedire alla giovane di vivere il suo stesso dramma, di cadere inconsapevole nella trappola che i pastori hanno ordito per lei, per approfittarsi della sua innocenza.

E neanche riesce ad intervenire, rimanendo per tutto il tempo impotentemente ai margini della scena, pur avendo in pugno l’arma – il sasso – con cui, pur rispondendo alla violenza con altra violenza, avrebbe almeno salvato una vita.

Vendetta

Il padre, Töre, è l’assoluto protagonista del terzo atto.

In prima battuta la pellicola racconta per lunghi tratti la sua personalità saggia e generosa, tanto da invitare alla sua tavola persino il terzetto di buzzurri, e, nonostante il bambino deturpi la stessa, accoglierlo comunque nelle cure della moglie.

La prova della violenza avvenuta avviene inconsapevolmente con un oggetto della scena – l’abito sottratto a Karin – che viene drammaticamente offerto alle braccia tremanti della madre, che lo passa immediatamente al marito, che diventerà l’autore della vendetta.

La vendetta è lenta e meditata, derivata dal contrasto interno all’animo di Töre.

Infatti, da buon cristiano, l’uomo dovrebbe abbracciare l’ideale della pietà cristiana e perdonare gli assassini e violentatori della figlia.

Invece, Töre sceglie di perseguire un rito squisitamente pagano di vendetta, prima flagellandosi – o sferzandosi, a seconda della lettura – per poi avventarsi con dolore e rimorso sui pastori che poco prima aveva accolto nella sua casa.

Un atto terribile e imperdonabile, con una furia quasi incerta, ma al contempo radicalmente selvaggia, che si abbatte persino su un innocente come il bambino, che finisce comunque per essere punito per il delitto dei suoi parenti.

Redenzione

Alla vendetta segue la redenzione, che si articola in due personaggi.

La redenzione di Töre è definita sopratutto da un suo riappacificarsi con Dio, per essere perdonato dalla violenza terribile che ha usato verso i suoi ospiti, mostrandosi incapaci di perdonarli come forse la cristianità avrebbe voluto.

Un ricongiungimento tanto più doloroso, quanto l’uomo deve accettare che il suo dio è rimasto indifferente davanti alla violenza della figlia, diventandone quasi complice, in una dinamica di profondo struggimento che ricorda molto un altro personaggio di Max von Sydon, Antonius Block in Il settimo sigillo.

La redenzione di Ingiri è invece dovuta alla sua impotenza.

La donna soffre per non essere stata capace di salvare la sua compagna, avendola osservata mentre veniva inevitabilmente violata e uccisa, mantenendo dentro il suo animo un terribile segreto che viene in prima battuta quasi assolto dall’atteggiamento benevolo di Töre.

Ma la vera redenzione proviene in qualche modo da Karin, dalla cui morte sgorga una fonte, una fontana benefica attraverso la quale la donna può depurarsi – secondo il doppio significato di kalla nel titolo Jungfrukällan, che significa sia fonte che primavera, quindi giovinezza e verginità.

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Il posto delle fragole – La vacuità dell’esistenza

Il posto delle fragole (1957) è uno dei film più importanti della filmografia di Ingmar Bergman: oltre ad ottenere numerosi riconoscimenti – fra cui l’Orso d’oro alla Berlinale – la pellicola influenzò diversi autori successivi, fra cui Woody Allen in Crimini e misfatti (1989)

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto contenuto – incassò 60 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il posto delle fragole?

Isak è un vecchio dottore che sta per essere premiato per la sua prolifica carriera. Nel viaggio in macchina ripensa alla sua vita e al suo sconcertante egoismo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il posto delle fragole?

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio come per il poco precedente Il settimo sigillo (1957), anche in Il posto delle fragole Bergman imbastisce una profonda riflessione sulla morte, sia tramite i pensieri del protagonista, sia all’interno del mondo del sogno, pur tramite un simbolismo piuttosto immediato.

Non manca anche in questo caso una buona dose di ironia ed autoironia, per ammorbidire i toni di una narrazione piuttosto angosciante ed esistenziale, che trova il suo sfogo più felice nella rappresentazione speranzosa del mondo familiare.

Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre, ma che ero io in tutto e per tutto

I. Bergman

Solitudine

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni.

Queste parole sono fra quelle più significative del breve monologo che apre la pellicola, in cui esplicitamente – e in maniera sorprendentemente neanche pedante – il protagonista racconta sé stesso e la consapevolezza della freddezza della sua esistenza.

In modo simile a Antonius Block ne Il settimo sigillo, Isak deve affrontare il pensiero della morte imminente, in una scena onirica che racconta già moltissimo sui sentimenti del personaggio e sulla sua condizione attuale.

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Con questo incubo Isak viene messo per la prima volta davanti all’angosciosa consapevolezza di star vivendo la sua vita passivamente, in un mondo vuoto, popolato solo da un fantoccio e un orologio senza lancette – che poi rappresenterà l’eredità verso il figlio – e in cui lui, di fatto, è già morto.

Questo turbamento iniziale non muta sulle prime il comportamento del protagonista, anche se lo spinge a vivere più attivamente la propria vita, a diventarne il conducente: scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in aereo, Isak diventa improvvisamente alla guida della sua esistenza…

…e non più solo un osservatore.

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Il primo momento del viaggio è ancora più rivelatorio della personalità del protagonista, con il velenoso quanto amaramente ironico scambio con Marianne, che in un certo senso imputa al suocero il fallimento del proprio matrimonio, proprio per aver trasmesso al figlio il suo medesimo nichilismo.

Ancora di più, Marianne vanifica la maschera dietro a cui Isak nasconde il suo egoismo, beandosi dei suoi successi professionali che lo fanno apparire quasi come un filantropo, ma che non possono ingannare quelle che dovrebbero essere le persone veramente significative della sua vita.

Non puoi ingannarci.

Radici

La prima tappa è anche il primo momento in cui il presente del protagonista si intreccia col suo passato.

Isak infatti cerca di riconnettersi alle sue radici, da cui il senso del titolo, Il posto delle fragole, che nella simbologia svedese rappresenta sia la primavera della vita – la giovinezza – sia, più in generale, le radici della propria esistenza.

In questo quadretto bucolico Isak ci introduce ad un ricordo sempre più angoscioso, in cui sente sostanzialmente di aver perso l’occasione di conquistare l’amore della sua vita, andandosi piuttosto ad incastrare in un matrimonio avvelenato e infelice.

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Questo ricordo lo turba al punto da portarsi inconsapevolmente con sé il passato stesso, rappresentato dal divertito triangolo amoroso fra la giovane ragazza con le sembianze di Sara e i due giovani che la accompagnano, rappresentanti del protagonista stesso e il cugino Sigfrid in giovane età.

Mentre il viaggio prosegue, Isak si ritrova sempre più travolto dall’ottimismo e dall’affetto crescente soprattutto della ragazza, che ha ancora davanti a sé una vita tutta da scrivere, in particolare dal punto di vista relazionale.

Spettatore

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

L’incidente è rivelatorio del lato più disperato del suo passato.

Il rapporto con la moglie.

Nell’incontro con coppia con cui il gruppo quasi si scontra, Isak diventa per la prima volta spettatore della tragedia che era stata il suo matrimonio, fatto di dispetti e rimbeccamenti crudeli, che l’hanno portato proprio alla condizione di profonda solitudine e chiusura in sé stesso.

Davanti allo sgradevole litigio dei due, persino Isak infatti si sente a disagio, e sceglie per questo di farli scendere dalla macchina, in un certo senso allontanando dalla sua vita il comportamento egoista e spiacevole che ha avuto fino a questo momento…

…rappresentato proprio dall’orologio senza lancette che la madre vorrebbe regalare ad Evald.

Questa angoscia si traduce nel secondo incubo, in cui Isak si trova dall’altra parte, ovvero come studente piuttosto che come dottore formato e rinomato, mentre cerca di inseguire quel frammento di ricordo di Sarah che gli ha annunciato la sua morte e il prossimo matrimonio con Sigfrid.

In questo surreale esame Isak si trova davanti alle sue colpe più tragiche, raccontate proprio da quella moglie morta, ma così sorprendentemente viva nella sua memoria, fino ad essere condannato alla solitudine del presente senza possibilità di salvarsi, se non da sé stesso.

L’esaminatore infatti, davanti alla richiesta di clemenza del protagonista, sentenzia:

Non lo chieda a me. Non è compito mio.

Eredità

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio quando Isak perde il controllo della vettura, diventa effettivamente attivo nella sua vita.

L’epifania conclusiva è infatti rappresentata dal racconto di Marianne, che gli mostra quanto pesantemente il suo comportamento abbia influito sulla vita del figlio, il quale, pur ancora giovane, è già freddo, arido e profondamente cinico, soprattutto nel non voler costruire una famiglia con la donna.

Il protagonista vede però ancora una possibilità di salvezza per la coppia e una vita migliore per il figlio, in cui non debba né operare la sua stessa chirurgica operazione di tagliare i ponti con ogni affetto, né negarsi le gioie di un matrimonio il cui successo è tutto nelle sue mani.

Arrivato alla fine della giornata – e della sua vita – Isak riesce finalmente a ricongiungersi con il suo passato e il suo presente, prima venendo salutato affettuosamente dalla frizzante ragazza con le sembianze di Sara, che, proprio come l’amata di cui porta l’aspetto, si congeda per sempre da lui, pur promettendo di continuare ad amarlo.

Allo stesso modo, Isak riesce ad abbandonarsi in un sonno felice dopo che infine il figlio gli rivela di voler risanare i rapporti con Marianne, e mentre ripensa al modello felice di matrimonio – quello dei suoi genitori – che forse potrà finalmente rivedere anche in Evald.

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Il settimo sigillo – Dio, dove sei?

Il settimo sigillo (1957) è l’opera più famosa e celebrata della prolifica produzione di Ingmar Bergman.

A fronte di un budget risicatissimo persino per l’epoca – appena 150 mila dollari, circa 1,7 milioni oggi – ebbe nel complesso un buon riscontro al botteghino300 mila dollari – per essere poi considerato negli anni un capolavoro della storia del cinema.

Di cosa parla Il settimo sigillo?

Antonius Block è un cavaliere che ha appena fatto ritorno dalle Crociate, ritrovandosi in una patria devastata dalla peste e della superstizione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il settimo sigillo?

Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Il settimo sigillo non solo è una delle trattazioni e riflessioni più interessanti sul tema della morte e della ricerca di Dio, ma è anche un’opera capace di creare un bozzetto preciso – e per lunghi tratti persino comico – dell’Europa del XIV sec.

Una pellicola in cui momenti profondamente riflessivi e malinconici si alternano a sequenze più profondamente ironiche, con una comicità che gioca col grottesco e la mentalità dilagante di quel periodo.

Insomma, non ve la potete perdere.

Omen

Bengt Ekerot in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

La sequenza di apertura de Il settimo sigillo è il primo omen.

I due personaggi sono stesi sulla spiaggia, e appaiono già morti… o forse lo sono davvero, perché proprio a quel punto la morte si approccia per la prima volta ad Antonius, invitandolo a seguirla.

La reazione del protagonista rivela al contempo la sua superbia e la sua disperazione.

Bengt Ekerot e Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Infatti, Antonius, dopo un decennio passato a perseguire una causa divina, è ancora più scettico sulla presenza di Dio, e ne ricerca disperatamente i segnali, la mano benevola che lo accompagni serenamente verso quella morte che non è pronto ad accettare.

Per questo sceglie di sfidare il destino, illudendosi di poter piegare perfino il triste mietitore ai suoi trucchi, di poterla tenere a bada il tempo che serve per ricongiungersi con il divino e liberarsi da quel turbamento costante e apparentemente irrisolvibile.

La presentazione dei due protagonisti si chiude con altri segnali – reali quanto immaginari – della Morte sempre in agguato, in cui la pellicola sparge i primi semi della sua deliziosa quanto macabra ironia.

Così Jöns, dopo aver blaterato per lungo tempo su visioni quasi apocalittiche – cavalli che si divorano l’un l’altro, quattro soli in cielo… – vede in faccia la morte, ed esorcizza l’incontro con un dialogo brillante quanto rivelatorio:

In questo senso lo scudiero dimostra di aver compreso pienamente verso quale mondo si stanno dirigendo: una realtà devastata dalla Peste Nera, un mondo dove ci sono più morti che vivi…

Natività

Con il cambio di scena, assistiamo alla prima visione.

Il settimo sigillo racconta abilmente questa dinamica fondamentale nell’Europa Medievale – la stessa che, in altro modo, porterà alla scrittura della Divina Commedia – e ne chiarisce anche la doppia natura:

una visione, maligna o benigna, poteva portare ad una benedizione quanto una condanna della Chiesa.

Nils Poppe e Bibi Andersson in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Questa prima visione – la Madonna con bambino – introduce l’altro polo della riflessione interna al film, contenuta da qui in poi nella figura di Mia: la natività, connessa anche alla dolcezza del paesaggio bucolico, contrapposta alla miseria e alla morte.

I personaggi legati al teatro sono anche vettori della sottotrama più spiccatamente comica: il tradimento della moglie del fabbro con Skat, che si toglierà dall’impiccio fingendo di morire – e poi morendo effettivamente – in una classica novella che potrebbe essere uscita dal Decameron.

La parte teatrale è anche il momento più prettamente metanarrativo: Jöns suggerisce al fabbro le parole da dire per duellare con l’attore, per poi anticipare le argomentazioni della donna per riconquistare il marito e farsi perdonare per il torto commesso.

D’altronde, inganno e maschere sono elementi onnipresenti nella pellicola.

Alternativa

Gunnar Björnstrand in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Inconsapevolmente, Antonius ha al suo fianco l’alternativa alla sua disperazione.

Ovvero, Jöns.

Lo scudiero è una maschera tipica del teatro classico – il servo furbo – anche più tridimensionale e tratteggiata in maniera quasi paradossale: come Jöns è sostanzialmente un nichilista e un disilluso – disprezza espressamente sia le Crociate quanto Dio…

…quasi anarchico – dice di ridere in faccia al suo padrone – è anche il personaggio più positivo della pellicola.

Gunnar Björnstrand in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Lo scudiero infatti aiuta le due donne vittime – prima la sua futura serva che rischiava di essere violentata, poi la strega a cui offre dell’acqua – proponendosi persino di uccidere tutti i soldati pur di liberare la futura martire

Lo stesso è anche il principale protagonista della linea comica della pellicola, col suo umorismo anche piuttosto cupo e piccato.

Inganno

Al contrario Antonius, che si crede l’eroe della storia, è in realtà vittima di un continuo turbamento che non riuscirà mai a risolvere.

Proprio nella sua disperata ricerca di Dio, si rifugia in una chiesa, specificatamente in un confessionale, per rivelare la sua profonda angoscia nel non riuscire più a vedere Dio nella sua realtà terrena…

…dove trova solo miseria, inganno e distruzione, ammettendo anche il suo pensiero di fondo, che è la chiave fondamentale per leggere la pellicola:

Abbiamo creato un idolo dalla nostra paura e l’abbiamo chiamato Dio.

Secondo questa interpretazione piuttosto lucida e disillusa, Dio non è altro che un tentativo di dare forma ad una paura – quella della morte – e così di riuscire anche ad esorcizzarla…

…anche tramite atti estremamente violenti sia su sé stessi – l’autodafé – e sugli altri – l’uccisione della presunta strega che si unisce con il maligno.

Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Non è un caso che, mentre Antonius confessa queste cose credendo di parlare con un emissario di Dio, stia venendo in realtà ulteriormente ingannato, ritrovandosi a conversare con l’unico dialogante realmente presente, e che lo spinge costantemente verso questa ritrovata disillusione…

Insomma, l’unico dio è la Morte.

Salvezza

La vita terrena è definita da una costante dicotomia.

L’aspetto più disperato, più estenuante anche per la ricerca di Antonius, è assistere alla degradante processione degli auto flagellanti, che cercano in ogni modo di scacciare la morte e il maligno da sé stessi

…ma riuscendo solo ad istigare una paura e un’ossessione ancora maggiore nella comunità, che vede in loro l’apparizione di Dio.

Max von Sydow e Bengt Ekerot in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

L’altro lato dell’esistenza terrena è la vita piccola ma soddisfacente, i semplici momenti di felicità e condivisione: così Antonius diventa ospite dei due attori, godendosi la compagnia e il cibo, e sapendo di poter conservare dentro di sé questo ricordo rasserenante.

Questa pace terrena, così semplice, ma anche così potenzialmente raggiungibile, è infatti la stessa che gli permette, almeno per un momento, di allontanarsi dalla partita a scacchi con la Morte – e quindi dall’angoscia che lo opprime – e affrontare poi la prossima mossa con una ritrovata felicità.

Morte

Max von Sydow una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Ma la morte è inevitabile.

Prima di arrivare definitivamente al suo castello, Antonius si imbatte nuovamente nella martire, a cui chiede consiglio per finalmente riuscire a vedere un segno divino – o diabolico – ma infine arrendendosi davanti alla sua totale cecità…

…inciampando ancora una volta nel suo cammino nell’unica presenza onnipresente: la morte.

L’ultima partita a scacchi è quella decisiva: come Antonius si sentiva prima sicuro di aver messo in scacco la sua lugubre compagna, invece in poche mosse viene sconfitto.

È l’occasione della seconda visione di Jof, che vede quella partita del destino, e per questo capisce che è il momento di allontanarsi, per non prendere parte a quella che sarà l’ultima e fondamentale visione: la macabra danza della Morte che conduce all’aldilà.

Invece Antonius, pure ora che ha perso contro la Morte, cerca comunque di rifugiarsi nel suo castello, e in ultimo cerca un conforto in un Dio che continua a non rispondergli, mentre gli astanti tengono lo sguardo fisso sulla Morte

…in particolare la donna che Jöns salvato, che cade in ginocchio in lacrime, proprio come davanti alla processione…

Ma la chiusura de Il settimo sigillo ci rassicura mostrandoci una morte che è ancora lontana, vincolata alla visione scherzosamente messa da parte da Mia, mentre si allontana all’orizzonte con il suo carro carico di vita…