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The Iron Claw – La morsa di ferro

The Iron Claw (2023) di Sean Durkin, in Italia noto anche come The Warrior, è un film sportivo dedicato alla vera storia della famiglia maledetta dei Von Erich.

A fronte di un budget abbastanza piccolo – appena 15 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 45 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Iron Claw?

Stati Uniti, 1979. Fritz Von Erich è un ex campione di wrestling che cerca di portare tutta la famiglia sul ring…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Iron Claw?

Assolutamente sì.

Nonostante la storia raccontata sia veramente angosciante, Sean Durkin è riuscito a mantenere un buon equilibrio di scrittura per non scadere nel dramma smaccato, ma invece costruendo ogni evento, anche il più tragico, in maniera ben pensata.

In generale la pellicola sembra voler raccontare una realtà alternativa a quella a cui siamo abituati per questa disciplina, meno teatrale e molto più legata ad un dramma reale e insostenibile – per certi versi simile all’ottimo The Fighter (2010).

Insomma, da riscoprire.

Sogno

The Iron Claw si apre con un sogno.

Il patriarca della famiglia Von Erich vuole vivere appieno il suo momento di gloria, incarnando più la figura dello showman che dell’atleta, proprio dando spettacolo sul ring, mettendo in mostra il suo artiglio di ferro e rischiando la squalifica solo per farsi acclamare dal pubblico.

Ma fuori dal ring la storia è diversa: una famiglia da crescere, un sogno impossibile da rincorrere per diventare il campione del mondo, la star del momento, facendo da subito un passo più lungo della gamba e noleggiando una macchina da star.

Altrimenti…

Maledizione 

I figli di Von Erich sono il suo piano B.

Un terzetto di ragazzoni che incarnano tutta la spietatezza del wrestling, con i loro pettorali guizzanti, che in realtà nascondono una forte fragilità, un senso di profonda inadeguatezza che li rende sempre più relegati al palco – e solo a quello.

Tutto il resto è una maledizione.

Una maledizione che aveva già colpito il giovanissimo primogenito, portato via da una malattia improvvisa, che rende inabile alla disciplina il quasi isterico Kerry, che porta alla morte del futuro campione David e che infine porta fuori scena persino il figlio più simile a Fritz: Mike.

Ma è davvero colpa del fato infausto?

Fautore

La famiglia Von Erich è fautrice della sua stessa maledizione.

Ad eccezione della primissima morte familiare, tutti gli altri incidenti sono tutt’altro che casuali, ma bensì frutto dell’ossessione del padre, che porta i fratelli a contendersi il suo affetto, a non riuscire a vedere altro che la vittoria e a non curare sé stessi.

Infatti, ogni scelta che esce dal seminato viene subito troncata dal patriarca, in particolare l’innocente serata musicale di Mike che viene derubricata come una scelta inutile e che non può essere perseguita, proprio perché non appartiene al mondo del ring.

In particolare, Kerry è la principale vittima del disinteresse del padre, che ha il suo apice nel regalo della pistola, che il padre si rifiuta di utilizzare, che mette via in una teca quasi come ha messo da parte il suo stesso figlio, portando lo stesso ad usarla contro se stesso, non vedendo altro futuro possibile.

Ma l’alternativa esiste.

Alternativa

Kevin è l’unico che riesce a guardare oltre il ring.

Ed è anche quello che lo soffre di più.

La sua insofferenza per la situazione famigliare emerge in più occasioni: oltre alla sua preoccupazione per il benessere dei fratelli, che puntella diversi momenti della pellicola, Kevin è l’unico che sfida apertamente il padre, pur non riuscendo a tenergli testa.

Infatti, più la narrazione prosegue e la maledizione si fa sentire, più il futuro unico sopravvissuto della famiglia Von Erich vuole allontanarsi dal ring, che non riesce a vivere nelle atmosfere scintillanti del suo avversario, ma invece prima nella monotonia dell’allenamento, poi nella disperata furia del combattimento.

Ma un’alternativa è possibile.

Dopo aver seppellito l’ultimo dei fratelli, Kevin riesce a ricomporre gradualmente la sua sfera familiare, a diventare un padre presente e affettuoso, che ritrova la sua forza nei suoi figli, nella famiglia numerosa e felice che aveva sempre sognato, che riempie il vuoto che la tragedia del nome Von Erich gli aveva lasciato.

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Moneyball – L’ingiusta vittoria

Moneyball (2011) di Bennett Miller, in Italia noto anche come L’arte di vincere, è un film sportivo che racconta la vera storia del GM Billy Beane.

A fronte di un budget abbastanza importante – 50 milioni di dollari – non è stato purtroppo un grande successo: appena 112 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Moneyball?

Billy Beane è il General Manager di una squadra di eterni perdenti, gli Oakland Athletics. Ma forse una via alternativa è possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moneyball?

Assolutamente sì.

Moneyball si pose come un’alternativa alla narrazione molto romantica del baseball e dello sport in genere, raccontando un dietro le quinte del settore molto più crudo e spietato, in cui i giocatori vengono scambiati come figurine da una squadra all’altra.

Fra l’altro, un’ottima occasione per vedere i primi tentativi di Brad Pitt di cominciare la sua seconda giovinezza artistica, evadendo i ruoli da sex symbol e scegliendo invece delle parti più drammatiche e riflessive, in cui dimostra le sue grandi capacità attoriali.

Insomma, da riscoprire.

Capolinea

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

All’inizio di Moneyball, la squadra sembra al capolinea.

Trovandosi un team sguarnito e le casse che piangono, Billy Beane comincia a percorrere le più classiche vie del recruiting, intavolando fin da subito dinamiche piuttosto calcolatrici che rappresentano il dietro le quinte del mondo sportivo.

La stessa via viene anche intrapresa dal suo team di consiglieri, che studiano le nuove promesse da portare in campo, ragionando con i soliti sistemi di intuito e di capacità di osservazione per valutare il valore e le potenzialità dei giocatori che hanno davanti.

Ma c’è un’altra via.

Scoperta

Jonah Hill in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

Quando sembra ormai essere arrivato alla fine della corsa, si aggiunge un giocatore in campo.

Basta un breve scambio con il giovane Peter Brand per scoprire un’altra, interessante faccia della questione: lasciare da parte intuito, fama e prezzi di mercato, e ridurre i potenziali giocatori a semplici dati su una tabella, da inserire in un sistema che ne valuti non tanto le capacità, ma le potenzialità dell’investimento.

Questo particolare sistema, in cui i giocatori sembrano dei cartellini ambulanti, viene testato immediatamente dal protagonista stesso, che vede confermata la convinzione che lo insegue da una vita: essere un mediocre giocatore di baseball che non avrebbe mai raggiunto il successo.

E allora è la svolta.

Sistema

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

Al fianco di Peter Brand, Billy mette in campo un sistema chirurgico.

Come il suo team gioca sul campo, così il protagonista gioca con loro nelle retrovie, mettendo in campo un sistema di offerte e di raggiri che assomiglia molto a giocare in borsa, ma in questo caso agendo su una complessa rete di amicizie e rapporti che finiscono per scontrarsi fra loro.

Di fatto Billy vive fuori dal campo – non volendo mai assistere alle partite per scaramanzia – e lontano dai suoi stessi giocatori, con cui parla in pochi momenti della pellicola – per reclutarli o per avvisarli che sono stati venduti ad un’altra squadra.

Appare così come un personaggio apatico, interessato solo al guadagno…

Consapevolezza

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

…ma, in realtà, la sua è solo paura.

La consapevolezza di non essere un bravo giocatore, e di poter quindi solo aspirare ad essere un recruiter, a vivere ai margini del campo, è stata una ferita talmente profonda da impedirgli di vivere in prima persona la realizzazione del suo progetto, proprio per il timore di fallire.

E così il vedere il suo progetto sgretolarsi davanti ai suoi occhi, vedere un incomprensibile fallimento della sua squadra nonostante il robusto streak di vittorie che ha segnato la storia del baseball, lo porta ad un crollo psicologico che si svolge nell’intimità del campo da baseball.

Ma, proprio come lo stesso Brand gli fa notare, il protagonista stava guardando dalla parte sbagliata: così sicuro del suo fallimento, Billy ha avuto occhi solamente per l’unica sconfitta, e non per la grande vittoria che ha ottenuto, non per quell’home run fenomenale che l’ha consacrato alla storia dello sport.

Eppure, comunque il protagonista non accetta la sua ricompensa

…forse non sentendosi di meritarla davvero.

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The Fighter – L’ingiusta ombra

The Fighter (2010) di David O’Russell è un dramma familiare che racconta la vera storia del pugile Micky Ward.

A fronte di un budget di 11 milioni di dollari, è stato un ottimo successo commerciale: 129 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Fighter?

Micky, una potenziale stella del pugilato, deve vivere nell‘ingombrante ombra dello sgangherato fratello maggiore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Fighter?

Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Assolutamente sì.

Mi sento di consigliarlo in maniera così sentita perché The Fighter non è altro che un dramma familiare con un pizzico di film sportivo – proprio i due generi che più difficilmente riescono a convincermi, a meno che non si tratti di film di particolare valore.

E la pellicola di O’Russell è riuscita a conquistarmi proprio per la sua scrittura azzeccata e mai eccessiva sul lato drammatico, ma che anzi racconta una appassionante storia di presa di consapevolezza nell’aspro sfondo della provincia americana.

Insomma, da riscoprire.

Eroe

Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Dickie è un eroe?

Il suo personaggio riesce ad elevarsi dall’aridità del suo mondo proprio perché gli basta pochissimo: per un gruppo così sgangherato e senza speranza di redneck è sufficiente essersi anche di poco avvicinati alla fama per diventare delle leggende viventi.

E, di conseguenza, tutto il resto sparisce.

Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Spariscono così le evidenti dipendenze di Dickie, sparisce il suo essere scostante e scorretto nei confronti del fratello, e scompare anche la disordinata vita criminale che il personaggio porta avanti sotto gli occhi di tutti.

E, di conseguenza, sparisce anche Mickie.

Ombra

Christian Bale e Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Mickie vive nell’ombra del fratello.

Il protagonista non può essere altro che un’estensione, la versione depotenziata del fratello campione, che sta cercando timidamente di inseguire una fama già propria di Dickie, apparendo per questo un eterno secondo.

Oltretutto, seguire il fratello – e la sua famiglia in generale – lo fa partire già in svantaggio.

Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Forti della convinzione di essere riusciti a conquistare quel briciolo di fama senza una particolare programmaticità, i parenti di Mickie continuano a spingerlo in situazioni in cui è inevitabilmente destinato a perdere…

…al punto da portarlo alla nomea di essere l’eterno perdente che diventa il pugile sacrificale per permettere ai suoi contendenti di salire di livello, proprio per la sicurezza che non potranno mai essere battuti.

Eppure, evadere il seminato è impossibile.

Intrusa

Amy Adams in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Charlene è un’intrusa.

La sua relazione con Mickie è l’occasione per il protagonista per cominciare ad aprire gli occhi, per capire quanto la sua famiglia sia inutilmente aggressiva ed ingiustamente convinta di poterlo far vincere secondo i propri metodi.

Ed è anche più grave perché la ragazza non si lascia mai mettere i piedi in testa, anzi prende la parola al posto di Mickie – in più occasioni ammutolito ed impotente – e arriva ad abbassarsi al livello della famiglia del suo fidanzato senza particolari remore. 

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Ma la soluzione non è così semplice.

Ancora fin troppo legato alla figura mitica del fratello, a Mickie serve vederlo sbattuto in prigione per il suo ennesimo piano sgangherato per scegliere finalmente di smarcarsi dai suoi consigli, e prendere una strada apparentemente più vincente.

La situazione sembra arrivare ad un capolinea con la trasmissione del documentario, che depotenzia definitivamente la leggenda di Dickie, riducendolo a mero tossichello di provincia – e che viene usato dalla ex-moglie di Mickie per svalutarlo indirettamente agli occhi della figlia.

Compromesso

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

L’ultimo atto di The Fighter è splendido.

Arrivato sul ring sicuro di poter vincere grazie alla sua nuova tecnica, Mickie raggiunge una sorta di epifania, che lo porta a rendersi conto che non potrà mai veramente vincere senza seguire i consigli fondamentali del fratello, che rimane il convitato di pietra per tutto il tempo.

E, se il suo voler avere un piede in due scarpe non viene accettato da nessuna delle due parti, a sorpresa la presa di consapevolezza di Dickie è determinante per riuscire a portare il fratello alla vittoria, per riuscire finalmente a spalleggiarlo…

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

…e mettersi così da parte.

In questo ultimo atto Dickie infatti comincia a spogliarsi di quell’eroismo di cui sia la sua comunità, sia il fratello stesso si nutriva, a mettere in discussione le sue presunte vittorie – in realtà nient’altro che biechi colpi di fortuna.

Così il leggendario fratello maggiore rimane saldo ai lati del ring, accompagna e conferma la gloria del protagonista e, durante l’intervista doppia, esce volontariamente di scena, per lasciare tutto lo spazio necessario alla vera star che merita di essere celebrata.

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La battaglia dei sessi – Didascalico e sottile

La battaglia dei sessi (2017) è una commedia sportiva per la regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris, diventati noti un decennio prima per Little Miss Sunshine (2006).

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un pesante flop commerciale: appena 18 milioni di incasso.

Di cosa parla La battaglia dei sessi?

Billie Jean King è la campionessa mondiale di tennis femminile, che deve controvoglia cedere al bizzarro maschilismo della ex star del tennis Bobby Riggs…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La battaglia dei sessi?

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

In generale, sì.

La battaglia dei sessi è una commedia piacevole e ben diretta, che brilla soprattutto per due attori di stirpe come Emma Stone e Steve Carell, e che nel complesso inquadra bene il periodo storico di transizione degli Stati Uniti degli Anni Settanta.

Eppure, al contempo il film si perde in non poche occasioni in un didascalismo un po’ pedante e forse anche poco credibile, mettendo in bocca a personaggi di mezzo secolo prima le parole di un femminismo ben più contemporaneo e consapevole…

…riuscendo invece, in altri contesti, a risultare sottile e ben inquadrato.

Nel complesso, comunque, ve lo consiglio.

Ribellione

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La vera battaglia dei sessi comincia fin da subito.

Billie si trova bloccata in un paradosso: gli stessi uomini che l’hanno premiata come campionessa, ridimensionano invece il suo valore – e quello delle sue colleghe – dietro a scuse deboli e poco credibili – e anche facilmente contestabili, come i pochi biglietti venduti. 

Per questo, la protagonista sceglie di mettere in gioco la sua personale rivoluzione sessuale, che la fa immediatamente escludere dai principali circuiti, gettandosi a capofitto in una presa di posizione politica estremamente rischiosa – e facilmente fallibile.

Ma forse non è neanche la sua più grande minaccia…

Sottile

Emma Stone e Andrea Riseborough in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La relazione fra Billie e Maryl mi è piaciuta a tratti.

Sulle prime l’ho trovata molto convincente e ben equilibrata, grazie ad una messinscena che riesce a rendere momenti apparentemente neutri – la nuova acconciatura – effettivi frangenti di seduzione…

…con una comunicazione piuttosto sottile, fatta di sguardi e di poche parole ben scelte – come quando Maryl fa capire alla protagonista di essere con un piede in due scarpe, accettando le avances dell’uomo che la avvicina nel locale.

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Mi ha invece meno convinto col proseguire del film.

Soprattutto vedendo il finale reale della loro relazione, appare nel complesso credibile la reazione del marito di Billie, Larry, che capisce la realtà della situazione e non attacca direttamente l’amante della moglie, ma piuttosto la avverte della fragilità della sua situazione…

…prevedendo l’inevitabile rottura, che porta per molto tempo Maryl fuori scena, rilevandosi alla lunga un personaggio di troppo nella storia – già popolata di un gran numero di figure piuttosto chiassose – e ritornando solo alla fine con un espediente fin troppo cliché per i miei gusti.

Discorso quasi analogo per Margaret Court.

Altra

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Margaret Court è un personaggio di passaggio.

Il suo essere fuori posto nel nuovo torneo femminista appare chiaro fin da subito, per il suo essere accompagnata dalla famiglia di cui evidentemente non può fare a meno, di cui evidentemente tiene il timone con decisione, facendosi facilmente seguire dal marito.

Tuttavia, al contempo il suo personaggio rappresenta un simbolo molto importante nella rivoluzione sessuale: la dimostrazione che anche le donne possono essere delle grandi atlete rinomate e capaci di vincere importanti premi nei circuiti maggiori…

…anche se basta poco perché tutto si sgonfi.

Esasperazione

Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Bobby Riggs è l’esasperazione di un pensiero estremamente reale.

Mentre le donne cercano in modi diversi di affermarsi e di conquistare il loro spazio di libertà in un mondo estremamente maschile, lo stesso tentava in maniera più o meno aggressiva di rimetterle al loro posto, troppo spaventato da questo cambiamento così sconvolgente.

Tuttavia, molto spesso si tratta di discorsi che si perdono nelle loro contraddizioni, facendosi forti di un pensiero comune che aveva definito la società fino a quel momento – le donne sono troppo emotive, devono ritornare in cucina dove è il loro posto…

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

…e a cui bastava un personaggio esuberante e quasi ridicolo nel suo sessismo esasperato per riuscire a mettere un punto alla questione: le atlete non possono in nessun caso essere considerare alla pari dei loro colleghi uomini, qualunque sia la loro bravura. 

E per cui bastava, fra l’altro, l’insignificante vittoria di Bobby Riggs su Margaret Court per sentirsi ancora più legittimati a portare avanti quel pensiero così discriminante che le femministe stavano cercando di scardinare.

Per questo Billie deve intervenire.

Campo

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Billie inizialmente non vuole partecipare al circo di Bobby.

Inizialmente infatti vive la sua sfida come solamente una ridicola provocazione, che cerca appunto di ridurre ad una sola partita un concetto sociale e politico ben più ampio ed importante – forse essendo pure impaurita dall’idea di non riuscire a batterlo…

…e, così, di farlo vincere due volte. 

Ma sono i commenti post-partita a farla scendere in campo.

Osservando la vittoria di Bobby, Billie infatti non è tanto indispettita dalla sconfitta di Margaret, ma piuttosto dal valore che viene dato alla stessa, come scusa per perpetrare quel sessismo ingiustificato che lei per prima ha scelto di combattere.

E allora tocca alla protagonista far cambiare idea al pubblico.

Dualità

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Il finale de La battaglia dei sessi è agrodolce.

Da una parte la partita è resa in maniera puntuale e azzeccata: pur subendo qualche punto di troppo all’inizio, Billie si dimostra fino alla fine una campionessa dai nervi di ferro e anche piuttosto pugnace, capace di sconfiggere Bobby colpo dopo colpo.

Così il suo finale, dove viene incoronata vincitrice, dove finalmente il pubblico femminile sente di aver assistito ad un passo avanti fondamentale per la propria indipendenza, è estremamente soddisfacente, e segna una buona chiusura della vicenda.

D’altra parte, assistiamo al progressivo spegnersi di Bobby e dei suoi sostenitori, che gradualmente si rendono conto che non solo il loro beniamino sta venendo terribilmente sconfitto, ma che il mondo a cui si sentivano così legati ha subito il suo primo, importante scossone.

Tuttavia, nelle retrovie, nello spogliatoio dove Bobby è andato a rifugiarsi, il suo personaggio trova l’unico riscatto che per lui veramente contava: il riconquistare la moglie e rimettere insieme un matrimonio su cui, evidentemente, non aveva mai avuto il controllo.

Quindi alla fine…ha vinto lo sport?

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Invictus – Il primo passo

Invictus (2009) di Clint Eastwood è un film sportivo e un racconto storico legato ai primi passi da Presidente del Sudafrica di Nelson Mandela.

A fronte di un budget medio – 60 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo commerciale: 122 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Invictus?

Da poco liberato di prigione e appena eletto Presidente, Mandela si trova a gestire una delicata situazione politica in maniera peculiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Invictus?

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

In generale, sì.

Anche se forse non è fra i film più incisivi della carriera di Eastwood, Invictus è un’opera comunque di valore, in cui l’elemento sportivo non è mai esasperato, ma mantenuto nei limiti della credibilità, reso di fatto strumento per approfondire il progetto di Mandela.

In questo senso il difetto forse più evidente è la questione razziale, appena accennata e risolta fin troppo velocemente, scegliendo di offrire uno scenario fin troppo ottimistico e consolatorio, soprattutto nelle sue battute finali.

Ma, nel complesso, da vedere.

Divisione

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

L’incipit di Invictus è estremamente simbolico.

Se da una parte troviamo un gruppo di ragazzini neri che si divertono a giocare, che salutano con gioia il passaggio di Mandela, dall’altra una squadra di atleti rigorosamente bianchi che invece accoglie il passaggio del futuro presidente con un sincero disappunto.

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

E, nel mezzo, appunto, Mandela.

Il suo passaggio fra queste due realtà è emblematico per anticipare il suo progetto futuro di unione e di riappacificazione fra due popoli fino a quel momento profondamente divisi – per legge e per cultura – e che finalmente hanno la possibilità di vivere da pari.

Eppure l’ostacolo sembra incolmabile.

Simbolo

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

I Springbok non sono una semplice squadra di rugby…

…ma, piuttosto, un simbolo.

Agli occhi dei nativi sudafricani, infatti, il team rappresenta tutto quello che c’era prima, il doloroso ricordo dell’apartheid: non una squadra che sia il simbolo di tutto il paese, ma solamente del potere dominante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Per questo, dovrebbe essere smantellato immediatamente, con anche un cambio di nome che rappresenti la trasformazione del paese stesso, e la nascita di una nuova realtà più inclusiva – anche se, forse, non davvero per tutti…

Ma Mandela non ci sta.

Vendetta

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Proprio per il suo valore simbolico, per Mandela smantellare la squadra sarebbe contro la sua politica.

Infatti, il nuovo presidente non vuole comportarsi come gli stessi invasori che gli hanno tolto la libertà e la voce, vendicandosi direttamente verso una squadra che li rappresenta, così da schiacciarli a sua volta.

Un’impresa virtuosa, anche se…

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Il clima politico di Invictus mi ha lasciato qualche perplessità: come anticipato, il discrimine razziale è appena accennato, si notano degli attriti non indifferenti, una divisione piuttosto netta fra due parti che si guardano con ostilità…

…ma forse manca una rappresentazione davvero credibile di quale era il clima di profondo odio, difficile da sradicare, che aveva portato alle leggi così dure e discriminanti dell’apartheid – una sostanziale continuazione della colonizzazione del paese.

Forse, per una scelta politica del regista?

Scoperta

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La scelta di Mandela è apparentemente incomprensibile.

In particolare, la scoperta della storia del presidente da parte di Francois è il filo portante della trama, portando Invictus ad avere un taglio molto più politico che sportivo – tanto che, come detto, il rugby è più che altro una continuazione del progetto di Mandale.

In particolare, la visita alla cella è determinante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La visione di quel piccolo spazio vitale, in cui Mandela non poteva neanche permettersi un vero letto dove stendersi, e la consapevolezza che comunque il suo presidente non ha mai voluto rivalersi sui suoi aguzzini, rappresenta l’epifania del protagonista.

Lo stesso sceglie proprio di chiudersi per un momento dentro la cella, e da quella rinascere come da un bozzolo per diventare l’esecutore materiale del sogno di Mandela, comprendendo finalmente il vero valore della vittoria del campionato per il suo paese.

Invincibile

Ancora di più, il progetto di Mandela è un’affermazione personale.

Proprio nello scegliere di non rivalersi sui suoi nemici, di non ribaltare la situazione politica a favore solamente della sua gente, il presidente si dimostra effettivamente come invincibile, inscalfibile dal clima vendicativo che lo circonda.

E questo proprio perché non è stato piegato dalla prigionia, ma è riuscito a portare abbastanza avanti il suo progetto tanto da potersi godere la visione della sua vera vittoria: un paese unito.

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Tonya – La non-principessa

Tonya (2017) di Craig Gillespie è un film sportivo incentrato sulla controversa carriera della pattinatrice Tonya Harding.

A fronte di un budget molto contenuto – appena 11 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Tonya?

Tonya Harding è una giovane donna che ha cominciato a pattinare da giovanissima  – e che ha continuato nonostante il mondo fosse tutto contro di lei.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tonya?

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Assolutamente sì.

Come per uno dei miei film preferiti – American Animals (2018) – Tonya utilizza splendidamente la formula del mockumentary, mettendo al centro un gruppo di bizzarri personaggi, i cui commenti puntellano la narrazione in maniera davvero brillante.

La pellicola è inoltre impreziosita da un cast di primissimo livello, in cui spicca una Margot Robbie – che già cercava di smarcarsi dalla sua immagine di sex symbol – e due ottimi comprimari – Sebastian Stan e l’ottima caratterista Allison Janney.

Insomma, da non perdere.

Svantaggiata

Mckenna Grace in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Tonya parte già svantaggiata.

Anzitutto, la testardaggine della madre di farla allenare per diventare una campionessa del pattinaggio è un’arma a doppio taglio: investendo ogni centesimo in questo progetto, la donna si sente ancora più giustificata nell’essere sgradevole e violenta nei confronti della figlia.

E, anche se la protagonista si impegna, si fa crescere una bella pellaccia per sopportare gli insulti e la violenza che la circonda, il mondo le è comunque ostile solo perché non corrisponde abbastanza allo stereotipo della principessa sul ghiaccio – anzi…

Mckenna Grace in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Così un aspetto non particolarmente attraente, un trucco esagerato e chiassoso, i capelli crespi e fuori luogo, i vestiti così evidentemente messi insieme, sono tutti elementi che portano Tonya ad essere sempre messa da parte, sempre svantaggiata nonostante le sue ottime performance.

E non è neanche la parte peggiore.

Sfondo

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Il pattinaggio è croce e delizia.

Non avendo mai avuto alle spalle una famiglia forte e che la seguisse, che la incoraggiasse ad avere un’educazione, un piano B nel caso la carriera dell’atleta non avesse funzionato, Tonya è di fatto intrappolata nel suo sogno.

Per questo diventa così frustrante che la sua bravura, il segno indelebile che ha lasciato nel mondo del pattinaggio sul ghiaccio, venga messo in secondo piano di fronte a tutto il resto, di fronte al suo carattere sgradevole e al suo aspetto dimesso.

E il passato è anche la sua rovina.

Sebastian Stan e Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Passare da un madre assente e opprimente ad una relazione definita dalla violenza da entrambe le parti, ad un tira e molla continuo che alterna la passione incrollabile alla violenza ingiustificata e perpetua, ha più volte un’influenza determinante sulla carriera di Tonya.

Così, anche riuscendo ad arrivare alle Olimpiadi, Tonya perde la sua occasione di fare quel salto fondamentale per distaccarsi per sempre dal suo passato proprio perché lo stesso non può fare a meno di tormentarla – e di farla inevitabilmente fallire.

Ma anche la seconda occasione è abbastanza.

Occasione

L’unica persona che davvero credeva in Tonya era la sua prima allenatrice…

…che, nonostante fosse stata scacciata in malo modo, raccoglie quel quarto posto alle Olimpiadi, quella ragazza senza futuro, e la plasma per diventare effettivamente una campionessa, un Oro alle Olimpiadi.

Ma la vittoria non è davvero possibile.

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Non riuscendo davvero a distaccarsi da Jeff e dalla sua onda distruttiva, Tonya viene travolta da un piano bislacco e improvvisato, che avviene totalmente alle sue spalle, senza che possa averne nessun controllo, e che oscura tutto il resto. 

Un peso sempre più incontrollabile, sempre più insostenibile, che definisce il suo secondo, clamoroso fallimento, solamente il prologo dello scandalo mediatico per cui verrà ricordata più come un caso di cronaca nera che come una leggenda del pattinaggio.

E dopo?

Dopo

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Cosa c’è dopo?

La conclusione della storia di Tonya Harding, di quella che non è stata altro che una parentesi della sua vita, è raccontata dalla sua stessa protagonista, spezzata dalla distruzione del suo sogno, ma che non si è mai davvero lasciata sconfiggere dalla storia.

Una giovane donna che ha cavalcato la sua leggenda nera per riproporsi come una spietata pugile, tenendosi abbastanza tempo al centro della scena per continuare a guadagnare dalla sua notorietà, per infine ricostruirsi una vita più tranquilla e lontana dai riflettori.

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

E allora nel finale una domanda perseguita la narrazione: cosa sarebbe stata Tonya Harding se fosse nata in una famiglia ricca e che la supportava, se non avesse dovuto subire un matrimonio violento che ha spezzato le gambe più a lei stessa che alla sua stessa avversaria?

Forse, una leggenda del pattinaggio.

E basta.

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Rush – Cosa sei disposto a perdere?

Rush (2013) di Ron Howard è un film a tema sportivo dedicato alla in(amicizia) fra due leggende della Formula 1: Niki Lauda e James Hunt.

A fronte di un budget medio per questo tipo di produzione – 38 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale: 95 milioni di dollari in tutto il mondo.

Cosa parla Rush?

Partendo come dei sostanziali sconosciuti di circuiti minori, James Hunt e Niki Lauda seguono strade diverse per raggiungere i campionati più importanti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rush?

Assolutamente sì.

Rush è considerato fra i più fulgidi esempi di film sportivo, fondamentalmente per due motivi: anzitutto la regia particolarmente indovinata, ben ritmata, che riesce a orchestrare una messinscena di ampio respiro e particolarmente coinvolgente…

…e, soprattutto, una morale di fondo per nulla banale, ma che permette di gettare una luce diversa sia sulla storia specifica dei due protagonisti, sia in generale sulla realtà tutta particolare delle corse in auto, in cui la gloria quanto la morte sono dietro l’angolo.

Origine

L’origine del mito è minuscola.

Infatti, i protagonisti nascono come stelle locali e prendono strade del tutto diverse per scalare il successo.

James Hunt è il più classico eroe americano, che basa il suo crescente successo semplicemente sul suo talento per la corsa, in prima battuta non volendosi sporcare col degli squallidi sponsor.

Al contrario, Niki Lauda parte sostanzialmente come un perdente, e si spiana la strada verso la Formula 1 nelle retrovie, facendosi forte delle sue capacità non tanto come pilota, ma piuttosto come ingegnere, capace di portare in pista la macchina destinata a vincere.

Eppure, la loro rivalità si basa sul nulla.

Soldi, soldi, soldi

La Formula 1 è, prima di tutto, soldi.

Per quanto James Hunt si lamenti dell’ingresso comprato del rivale nella Formula 1, in realtà ben presto si rende conto di quanto sia fondamentale avere alle spalle un patrimonio – e degli sponsor – capaci di assicurare effettivamente un posto in pista.

Per questo, nonostante i primi sfavillanti successi, questi non bastano per scalzare la posizione di assoluto primo piano di Lauda…

…dovuta anche alla fama più benigna che lo accompagna, mentre Hunt è perseguitato dalla nomea di bad boy che ha effettivamente molto successo con le donne, ma invece molto meno con gli investitori.

Ma non è finita.

Vittoria

La sete di vittoria di Hunt non ha limiti.

Vivendo la costante umiliazione di eterno secondo – persino quando dovrebbe essere al primo posto – in occasione della pericolosissima gara in Germania, Hunt si dimostra ancora più spericolato, ancora più sfrontato nel voler inseguire il successo.

E proprio per colpa di questa sua avventatezza, Lauda finisce vittima dell’incidente che segnerà la sua carriera in maniera davvero incisiva, rimanendo impotentemente confinato ad un letto di ospedale mentre guarda Hunt che gli sfila la vittoria di mano, impunito.

Ma il suo rientro in pista è forse più fondamentale per Hunt.

Colpa

Hunt sente il peso della colpa.

E la colpa è duplice.

Anche se non direttamente, Lauda libera apparentemente Hunt dalla sua colpa di averlo messo in pericolo per la sua sfacciataggine, ma lo carica di una responsabilità nuova: con le sue sfavillanti vittorie, James ha convinto il suo eterno rivale a tornare in pista troppo presto.

Tormentato da sentimenti contrastanti, Hunt diventa incredibile il difensore della dignità del suo nemico, andando a punire con la forza il giornalista che si è permesso di infangare la sua professionalità attaccandolo sul suo aspetto.

Allo stesso modo, Lauda sceglie di prendersi la sua colpa.

Calato in una situazione analoga a quella che ha portato al suo doloroso incidente, Lauda infine capisce che non vale la pena di correre questo ulteriore rischio, forse di rischiare la propria stessa vita, e si prende la responsabilità di scegliere di ritirarsi.

Ma, allora, cosa rimane?

Eredità

La regia di ampio respiro di Rush ci permette di calarci in prima persona nella gara e nei dettagli del dietro le quinte: Ron Howard sperimenta con una messinscena frammentata, costruita su piccoli momenti, dettagli, passando da diverse inquadrature…

…che non si focalizzano, come avrebbe fatto un regista meno ispirato, sulle soggettive dei piloti, ma ci portano anche in mezzo al pubblico, fra i meccanici, nei particolari delle mani che giocano sui comandi dell’auto.

Quindi la vittoria di James Hunt è anche un po’ nostra: un momento di riscatto per un personaggio che ha voluto, come spiega lo stesso Lauda, dimostrare al mondo il suo valore, di essere al pari del suo nemico-amico.

E, se più amaramente Lauda sprona l’altro a non appendere i guanti al chiodo, in realtà forse è proprio così che Hunt ha compreso la sua lezione: non spingersi più in là di quello che serve…

…e concludere la sua carriera (e vita) da campione.