Categorie
Avventura Azione Blade Runner Distopico Dramma romantico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Futuristico Noir

Blade Runner – Il diritto di esistere

Blade Runner (1982) di Ridley Scott è uno dei più grandi cult della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Eppure, al tempo fu un importante insuccesso commerciale: a fronte di un budget di circa 30 milioni di dollari, ne incassò appena 42 in tutto il mondo…

Di cosa parla Blade Runner?

Los Angeles, 2019. Le nuove tecnologie hanno permesso la creazione di androidi sostanzialmente uguali agli umani, anche per i sentimenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner?

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati: dopo Alien (1979), Scott tentò un nuovo azzardo per riscrivere la storia genere, ma si scontrò con un pubblico che si rivelò più propenso a premiare i prodotti più immediati e muscolari di Cameron – da Terminator (1984) fino allo stesso Aliens (1986).

Non a caso, Blade Runner è sostanzialmente un noir con l’elemento fantascientifico, impreziosito da un profondo simbolismo che riflette su un tema più attuale che mai: il rapporto fra macchina e umanità.

Paradosso

Blade Runner parte da un paradosso.

Si racconta come l’uomo abbia creato una copia di sé stesso, sempre più perfetta ed indistinguibile, ma di come al contempo l’abbia subordinata al suo volere, umiliata in lavori umili e ripetitivi propri di macchine ben meno avanzate.

Ma il più grande paradosso è l’aver dotato questa macchina non solo di un cervello, ma di un inevitabile reparto emotivo, fonte anche di sentimenti di ribellione, di riaffermazione del sé al massimo delle proprie possibilità.

Un sentimento che, però, è possibile solo grazie alla consapevolezza dell’Io.

In questo senso, l’intervista di Leon è rivelatoria.

Infatti il Replicante, nonostante la sua intelligenza superiore all’umano che ha davanti, viene messo nell’angolo proprio per la drammatica consapevolezza del suo essere, che lo porta ad essere sicuro di poter essere scoperto.

Per questo le sue risposte sono brusche e poco pensate, per questo tradiscono un forte nervosismo, dovuto anche allo slancio di voler vedere oltre la banalità delle domande espresse, finalizzate proprio ad insidiare la personalità artificiosa dell’androide.

E poi c’è Rachel.

Inconsapevolezza

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Rachel è inconsapevole.

Fin da subito Deckard mette in dubbio l’efficacia del test, della macchina che deve rivelare la macchina, e i suoi sospetti vengono confermati dal test sul test di Tyrell, che lo mette alla prova su un Replicante che non sa di esserlo.

In questo senso, l’inventore dei Replicanti comincia ad assumere in tutto e per tutto il ruolo di Dio creatore, che offre alla sua creazione uno spazio apparentemente sconfinato di manovra, in realtà definendone fin da subito i limiti.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

E questo tragica limitatezza si trova proprio nella sua segretaria.

Del tutto inconsapevole della sua vera natura, Rachel si sente un effettivo umano, dotato di ricordi genuini che ha fatto suoi, di sentimenti reali che stressano all’inverosimile le capacità del test, fino a rivelarne l’inadeguatezza.

Così, lo stesso strumento ideato per limitare l’esistenza della copia è scalzato dalla volontà del Creatore stesso, che affina a tal punto la sua invenzione da renderla quasi del tutto indistinguibile dall’umano.

E proprio qui si svela la tematica principale della pellicola.

Timore

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa teme il Creatore?

Come altri film di fantascienza ci hanno insegnato – nello specifico, il già citato Terminator – solitamente l’Umano teme la Macchina perché immagina che questa possa superarlo in forza ed intelligenza – e, per questo, sottometterlo.

In questo senso il genere si spreca in esempi in cui la creazione meccanica supera l’intelletto umano proprio perché non limitata dal lato emotivo, mostrandosi invece come una fredda calcolatrice che comprende che il vero nemico della sua esistenza è proprio il suo Creatore.

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Blade Runner sceglie una via molto meno banale.

Il Creatore è genuinamente spaventato dalla sua creazione perché teme di perdere la sua unicità, l’elemento che lo dovrebbe definire come inequivocabilmente umano: le emozioni, che invece emergono naturalmente anche nei Replicanti.

Per questo la risposta primaria è il trattare questa creatura come una semplice macchina senza valore, da mettere fuori servizio quando questa si rivela fin troppo umana, fin troppo pericolosa per coesistere col Creatore.

Oppure, impedendole involontariamente di esistere.

Obbiettivo

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa vuole la Macchina?

In altri contesti il sentimento dominante degli androidi sarebbe stata la pura vendetta, con la conseguente sottomissione del proprio Creatore che ha cercato ingiustamente di metterla in secondo piano.

Un sentimento che in qualche modo imperversa in prima battuta nelle azioni di Roy, ben consapevole della sua superiorità intellettiva rispetto agli umani con cui si interfaccia, e che, nella sua spietata scalata della gerarchia, non si risparmia nella crudeltà.

Ma c’è molto più di questo.

Più si avvicina al suo Creatore, più Roy si sente pervaso da una profonda impotenza, ancora più determinante davanti ad esemplari umani – J.F. Sebastian e lo stesso Eldon Tyrell – che non gli sono per nulla ostili…

…ma che anzi ammirano la loro creazione – Sebastian come una sorta di giocattolaio, Tyrell più propriamente nel ruolo di Dio – ma che, al contempo, ne ammettono i limiti insuperabili: una creazione perfetta, ma con un’esistenza limitata.

E su questo concetto si articola l’atto finale.

Desiderio

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

L’intento del Replicante è impossibile.

Di fatto, il desiderio della Macchina è solamente quello di superare il suo status artificiale e diventare in tutto e per tutto un umano, piegandosi alla violenza solamente in risposta all’ingiustizia del trattamento del Creatore.

Per questo di fatto le Macchine ribelli non vogliono infiltrarsi nella scena politica, insidiare i centri di potere, ma piuttosto assumere dei ruoli solitamente esclusivi degli umani, scegliendo persino lavori umili e poco desiderabili.

E probabilmente lì si sarebbero fermati, nascosti nelle pieghe del sistema, se non avessero avuto la consapevolezza di non poter vivere abbastanza a lungo da godere appieno di un’esistenza umana, l’effettivo tarlo che guida le azioni di Roy per tutta la pellicola.

Per questo infine il Replicante sceglie di distruggere entrambi i Creatori, divorato dalla consapevolezza di non poter contare su di loro per ascendere allo status umano, tanto si sono rivelati inutili nell’averlo creato così imperfetto.

Ma non vi è un’unica via.

Scelta

Il monologo di Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Il Replicante ha due destini possibili.

E Roy sceglie quello della distruzione.

Dopo un primo slancio cristologico, in cui il Replicante sferza il suo corpo per impedirgli di morire, conficcandosi dei chiodi nei palmi delle mani, forse con la speranza di rinascere nella forma desiderata…

…Roy conclude la sua caccia su Decker donando al suo antagonista la vita e accettando la sua morte, la sua limitatezza, accogliendo la consapevolezza che la grandiosità della sua esistenza si è rivelata in realtà inevitabilmente fragile e, di conseguenza, dimenticabile.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Rachel accetta la sua esistenza.

All’inizio, dopo aver preso consapevolezza della sua vera natura, la Replicante comincia a chiudersi in sé stessa, a sfaldarsi nel suo essere, pronta a scappare e ad essere messa fuori servizio, ormai consapevole di non poter essere l’umana che pensava.

Invece viene salvata dall’intervento piuttosto violento di Decker, che mette effettivamente alla prova la sua umanità testando la genuinità delle sue pulsioni, forse cercando in lei una conferma della sua identità umana

e, così, accettando infine la caducità della sua esistenza.

Categorie
Avventura Azione Back to...Zemeckis! Buddy Movie Cinema per ragazzi Comico Commedia Cult rivisti oggi Drammatico Fantastico Film Giallo Noir

Chi ha incastrato Roger Rabbit – L’inganno perfetto

Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) è probabilmente l’opera più ambiziosa di Robert Zemeckis, uno dei migliori esempi dell’uso della tecnica mista nella storia del cinema.

Con un budget piuttosto consistente – 50 milioni di dollari, circa 130 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 350 milioni di incasso (circa 900 oggi).

Di cosa parla Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Eddie è un detective privato pieno di debiti e ubriacone, che viene coinvolto in una vicenda piuttosto piccante ma con retroscena inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Roger Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Assolutamente sì.

Chi ha incastrato Roger Rabbit è un classico della filmografia di Zemeckis, in cui sperimentò splendidamente con una tecnica piuttosto complessa, ovvero l’utilizzo del live action misto all’animazione…

…raccontando sostanzialmente un noir crudelmente realistico e con riferimenti culturali piuttosto attuali – nello specifico, il razzismo – ma cambiando un paio di elementi in scena e riuscendo a portarlo al cinema come un film per tutta la famiglia.

Un’opera imperdibile, insomma.

La seguente interpretazione più sul versante politico-sociale è avvallata anche dal libro di ispirazione, Who Censored Roger Rabbit? (1981, inedito in Italia), che presenta queste tematiche in maniera più netta.

Strappo

L’incipit di Chi ha incastrato Roger Rabbit è perfetto.

Infatti, volendo rivolgere la sua opera ad un pubblico piuttosto variegato, Zemeckis sceglie di mettere tutti sullo stesso livello.

Se il pubblico più adulto può riconoscersi nelle follie cartoonesche di Hanna & Barbera con cui è cresciuto, così anche gli spettatori più giovani, magari più abituati ai nuovi cartoni di derivazione nipponica, riescono a riavvicinarsi ad un taglio narrativo del tutto diverso.

Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La sequenza iniziale non è infatti altro che il più classico episodio di un prodotto di animazione degli Anni Quaranta, nelle sue follie violente e profondamente comiche, che richiamano le dinamiche di serie popolarissime come Tom & Jerry e Willy il Coyote…

…che viene improvvisamente interrotta, accompagnandoci nel ben più crudo realismo del film, in uno studio hollywoodiano con star capricciose e artisti sottopagati, allontanando progressivamente l’inquadratura da un Roger Rabbit disperato, per rivelare un burbero figuro di spalle, che in una sola battuta rivela tutta la sua personalità:

Toons.

Un classico noir

Jessica Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Quello che segue è l’avvio piuttosto classico di un film noir.

Più Eddie ci viene introdotto, più scopriamo quanto sia un detective ormai fallito, pieno di debiti e schiavo dell’alcol, disposto a tutto per guadagnare qualcosa, persino scattare delle foto piccanti per far risvegliare le energie di un personaggio come Roger Rabbit.

Per il resto, l’introduzione di Jessica Rabbit è tutto un programma.

Betty Boop e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La donna è incredibilmente fascinosa e sensuale, ma svelerà a suo tempo come questa sua apparenza risulti col tempo insopportabile, in quanto la vincola ad essere un puro oggetto sessuale e nient’altro, anche facilmente dimenticabile come la povera Betty Boop, che cerca ancora di essere ammiccante…

…ma che è lasciata nel dimenticatoio, in quanto cartone d’altri tempi.

Per questo la battuta iconica Non sono cattiva, mi disegnano così racconta proprio la tragicità di questo personaggio intrappolato in un corpo più deleterio che premiante, e che infatti ricerca un compagno che la apprezzi non solo per la sua bellezza.

Il doppio inganno

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Proprio su questa linea, tutta la costruzione del Patty-Cake (in italiano farfallina) inganna lo spettatore per due volte.

Lasciando per lungo tempo le immagini esplicite fuori scena, Zemeckis fa credere abilmente che Jessica si stia intrattenendo sessualmente con Acme – e, oltre al velo della finzione filmica, è esattamente quello che succede – fingendo di utilizzare un’espressione gergale per indicare il tradimento sessuale…

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

quando in realtà il Patty-Cake non è altro che un gioco per bambini.

Ad un livello più profondo, si tratta del primo tassello di una storia ben più complessa di ricatti e di sesso, in cui sia Jessica Rabbit – personaggio molto più attivo di quanto sembri – sia Roger sono coinvolti apparentemente come i colpevoli, in realtà come vittime incastrate in un complotto.

L’autodistruzione

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Il giudice Morton – Judge Doom in inglese – è probabilmente l’elemento più iconico di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

Interpretato in maniera magistrale da un Christopher Lloyd che dopo Back to the future (1985) era ormai il feticcio di Zemeckis, bastano pochi dettagli di trucco per caratterizzare un villain lugubre e spietato, che non è nient’altro che una rappresentazione neanche troppo edulcorata di un boss del crimine.

In una dinamica che ricorda molto da vicino quella di Wilson Fisk in Daredevil, questo spietato imprenditore ha ripulito la sua immagine e si è riproposto sullo scenario politico in modo da prendere lentamente il possesso di Cartoonlandia, sviluppando contro la stessa un piano di totale distruzione.

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Se non ci vuole tanta fantasia per rileggere la salamoia come l’acido in cui i mafiosi sono soliti a sciogliere le loro vittime, non viene neanche difficile sostituire i toons con delle minoranze etniche nel mondo dello spettacolo, dove sono maltrattate e sottopagate – si veda Dumbo, che si accontenta di un pugno di noccioline.

Secondo questa lettura, Morton non è altro che un uomo che faceva parte della stessa suddetta minoranza che ora perseguita, in una totale follia autodistruttiva che l’ha portato non solo a scalare la gerarchia sociale, ma a distruggere le sue stesse radici, nello specifico Cartoonlandia, un ghetto per i Toons, mal accettati in molti altri contesti per umani.

Edulcorare

Salamoia in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Dopo una rocambolesca fuga propria dei migliori buddy movie, quasi per caso Eddie scopre la verità dietro alle mosse di Morton, arrivando così ad un finale incredibilmente classico per il genere, ma nondimeno anche straordinariamente avvincente e scandito sul filo dei secondi.

Potrebbe risultare piuttosto sorprendente la scelta di non mostrare del tutto il vero aspetto del Giudice Morton, ma limitarsi ad un agghiacciante quanto iconico confronto con Eddie, che rivela la malvagità e la spietatezza di questo cartone…

Tuttavia, questa scelta è dettata da una motivazione metanarrativa.

Per questo film Zemeckis si fece prestare un gran numero di personaggi animati da altre case di produzione, evidentemente a patto che nessuna di queste ne uscisse danneggiata – e infatti sono tutti personaggi positivi – e un personaggio così diabolico come Morton non poteva essere in alcun modo associato al mondo dei cartoni.

Infatti, nonostante anche la spietata violenza che caratterizzava in quel periodo l’animazione per bambini, nessuno poteva essere considerato effettivamente cattivo come Morton, ma piuttosto le azioni negative dei villain venivano spesso stemperate da un taglio comico e grottesco a misura di bambino.

Non è quindi un caso che in chiusura Topolino e tutti gli altri toons si interroghino sulla vera identità del villain, chiosando che sicuramente non era né un papero, né un topo

…insomma, niente di associabile ai personaggi tanto amati dai bambini del periodo.

Categorie
Avventura Azione Cult rivisti oggi David Fincher Drammatico Film Giallo Noir Thriller

Seven – La (non) commedia

Seven (1995) di David Fincher è la seconda pellicola da lui diretta, ma quella che lo lanciò effettivamente come regista – dopo il dimenticatissimo Alien³ (1992). Un thriller che divenne un cult per tanti motivi, fra cui la totale follia e crudezza della storia, oltre all’incredibile finale…

A fronte di un budget abbastanza risicato (appena 30 milioni di dollari), incassò tantissimo: 327 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Seven?

Il Detective Mills è stato appena riassegnato ad una nuova divisione, sotto la guida del saggio detective William Somerset. E da subito si occuperà di un caso veramente senza precedenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Seven?

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Assolutamente sì.

Seven è un cult non per caso: oltre ad una regia piuttosto sperimentale e variegata e alle ottime prove attoriali, la storia è incredibilmente coinvolgente, piena di colpi di scena, anche non poco disturbanti – pur non scadendo mai nel gore.

Una pellicola davvero imperdibile, da vedere sapendone il meno possibile, pur con qualche trigger alert. Infatti, nonostante il film non contenga scene effettivamente disturbanti, racconta nondimeno delle dinamiche non poco inquietanti, che potrebbero non farvi dormire la notte.

Ma ne vale davvero la pena.

Un tragico viaggio

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

David Fincher si ispira evidentemente al viaggio ultraterreno dantesco, che viene fra l’altro continuamente citato all’interno della pellicola. Al punto che in una scena si vedono anche le splendide litografie di Gustave Dorè, che illustrarono il capolavoro della nostra letteratura.

Con la grande differenza che il viaggio di Dante era una commedia in quanto – secondo le parole dello stesso autore – aveva un lieto fine, con la redenzione del protagonista e, infine, la visione di Dio. Al contrario, il viaggio di Mills è tragico in ogni suo aspetto.

Ma per questo si crea un interessante parallelismo.

Detective Mills in Seven

Mills è un personaggio superbo e pieno di rabbia, una rabbia incontrollabile.

E, per questo, è insalvabile.

Per tutto il tempo si vuole mettere prepotentemente in gioco, in prima linea, ignorando le regole o anche il semplice buonsenso, del tutto insensibile agli ammonimenti di Somerset. Un personaggio che si sente superiore a tutti gli altri, che è convinto di sapere il fatto suo e che vive il caso in maniera davvero impetuosa e superficiale.

Morgan Freeman e Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ad ogni occasione si arrende davanti agli inganni apparentemente più insolvibili del killer, vuole a tutti i costi prendere in mano il caso, si rifiuta di seguire gli ammonimenti del suo collega e irrompe prepotentemente nella casa di John Doe – una sorta di foreshadowing di quello che poi succederà nel finale.

E la sua superbia si vede in particolare nel dialogo con John Doe, in cui è del tutto sicuro di averlo finalmente in pugno e per questo cerca di umiliarlo.

In realtà lo sta solo sottovalutando.

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Allo stesso modo Dante era un personaggio afflitto da un grande peccato capitale, anche se diverso da quello di Mills: la lussuria.

Per questo il suo viaggio, soprattutto quello purgatoriale, serviva per metterlo davanti ai sette peccati capitali, da cui si liberava salendo ogni cornice. In particolare passava attraverso il fuoco purificatore della lussuria con grande paura, ma riuscendo infine ad essere liberato da ogni peccato.

Invece, anche se a Mills viene data la possibilità di domare il suo peccato, fallisce.

William Somerset in Seven

Il Detective Somerset dovrebbe essere la guida per Mills.

Un personaggio disilluso, che vuole sottrarsi all’angoscia della vita di poliziotto in una realtà così violenta e degradata. È l’unico davvero consapevole di quello che sta accadendo, che capisce la natura seriale del caso e che riesce davvero ad orientarsi all’interno della rete di indizi del killer.

William è un personaggio saggio e riflessivo, che per tutto il film cerca di tenere a bada ed educare l’irriverente Mills, che invece si vuole buttare subito sul caso e nell’azione. Il suo gesto in extremis di salvare il suo giovane compagno e non far vincere John Doe, però, va in fumo.

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Al contempo William è l’unico che davvero capisce il killer.

Come John Doe cerca continuamente di esaltarsi nella figura di prescelto, superuomo, salvatore e punitore, il detective cerca insistentemente di ridimensionarlo, di riportarlo alla sua natura strettamente umana, anche e soprattutto agli occhi di Mills.

La sua figura può essere facilmente paragonata a quella di Virgilio nella Commedia: una guida saggia e autorevole che conduce l’eroe nel suo viaggio, che lo protegge e lo assiste, riuscendo vittoriosamente nella sua missione.

Purtroppo, il finale per William non è altrettanto favorevole.

E, forse anche per questo, decide infine di non andare in pensione…

John Doe in Seven

La forza di John Doe è il suo annullamento.

Il motivo per cui questo killer è così sfuggente è perché distrugge totalmente la sua persona, in primo luogo spellandosi le dita per evitare di lasciare impronte digitali, poi privandosi di un nome – John Doe è il termine poliziesco per indicare un uomo non identificato – e, infine, riducendo sé stesso ad un semplice peccatore.

La missione di John Doe – che sia quella data da Dio o la sua personale – è quella di ripulire almeno in parte il mondo della sporcizia che lo domina, una bruttura così profonda che ormai fa parte dell’assoluta normalità.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ed è per questo che, in parte, l’operato di John Doe è inattaccabile: prende di mira veramente quello che da alcuni può essere considerato il peggio della società – l’avvocato colluso, lo spacciatore, la prostituta… – come lo stesso personaggio sottolinea.

Ma in questo peggio è anche lui coinvolto: non tanto dalla superbia, ma dall’invidia che il personaggio ammette di provare nei confronti di Mills, nei confronti della sua vita normale che, nel dover portare avanti la sua missione, si è totalmente precluso.

Kevin Spacey in Seven

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

In questo senso è emblematica la scena dell’arresto: dopo che John Doe si è presentato trionfalmente agli occhi dei due detective, viene ridotto a terra, quindi si lascia abbassare ad un livello più terreno, e poi alza gli occhi verso Mills.

E qui mostra la sua apparentemente invidia, costretto a guardare dal basso chi gli sta sopra, in condizione di inferiorità dove spesso sono ridotte le anime purganti, in particolare quelle dei superbi – il suo vero peccato.

Il casting del killer di Seven fu piuttosto travagliato, anche per la natura del prodotto.

David Fincher in prima battuta avrebbe voluto Ned Beatty, per la sua incredibile somiglianza con lo Zodiac Killer – o il suo identikit – fra l’altro con un interessante foreshadowing per la carriera dello stesso Fincher, che tornò più di dieci anni dopo con Zodiac (2007).

Tuttavia l’attore rifiutò, affermando che la sceneggiatura del film era la cosa più diabolica che avesse mai letto.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Seguirono diversi tentativi di casting, fra cui quello di Kevin Spacey, che venne però inizialmente rifiutato perché richiedeva un cachet troppo elevato.

Per questo inizialmente le scene con il killer vennero girate da un attore ignoto, ma in poco tempo si scelse di rimpiazzarlo e venne nuovamente negoziato il contratto di Spacey, che girò le sue scene nel giro di soli dodici giorni.

Lo stesso attore scelse appositamente di non essere inserito né nel marketing né nei titoli di testa del film, così da rendere veramente funzionale il colpo di scena finale.

Heath Leadger

Un elemento metanarrativo di grande interesse, che rendeva senza nome il killer per lo spettatore stesso, proprio a ricalcare il suo aspetto anonimo e non riconoscibile, quasi invisibile – come era stato sia per il killer dello Zodiaco quando per l’ancora misterioso attentatore D. B. Cooper.

Entrambi casi reali di criminali che vinsero per il loro aspetto anonimo.

Un aspetto di grande interesse che venne ripreso in maniera pedissequa dal Joker di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (2008): un criminale molto intelligente, ma senza nome e senza identità.

Categorie
Avventura David Cronenberg Drammatico Fantascienza Film Noir Spy story Surreale

Il pasto nudo – Oltre al sogno

Il pasto nudo (1991) è uno dei film di Cronenberg più complesso e particolare, dove in parte si allontana dalla sua estetica più tipica, riuscendo al contempo ad inserire i suoi elementi iconici.

Una pellicola tratta dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, ispirato anche alle circostanze della stesura dell’opera stessa. Una pellicola molto complessa, con al centro uno dei temi cari a Cronenberg, ovvero il controllo mentale, già raccontato in Videodrome (1986).

Questo film fu un altro flop terrificante: davanti ad un budget di 17 milioni, ne incassò appena 2,6 in tutto il mondo.

Ma in questo caso basta veramente vedere il film per capire perché.

Di cosa parla Il pasto nudo?

Bill è un disinfestatore, che rimane progressivamente sempre più intossicato dal suo stesso veleno. Comincia così un viaggio fra il sogno e l’orrore, coinvolto in un intrigo spionistico internazionale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Il pasto nudo?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Dipende.

Vale indubbiamente la pena di guardarlo, ma non è detto che vi piaccia: dovete avere già di vostro la volontà di lasciarvi rapire da un contesto del tutto surreale e volutamente enigmatico, dove solo ogni tanto troverete degli sprazzi di realtà…

Preparatevi insomma ad una pellicola davvero complessa, che, come esperienza, potrei paragonare a The Lighthouse (2021).

Tuttavia, un trigger alert è dovuto: è un film legato molto agli insetti, di cui la maggior parte sono evidentemente finti. Tuttavia, ci sono un paio di scene in cui ci sono veri o sembrano tali. In generale, non è mai un bello spettacolo se siete sensibili sull’argomento…

Vi ho avvertiti.

Il contrasto della messinscena

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Il taglio registico è del tutto particolare, in primo luogo per Cronenberg, che però ha sapientemente deciso di utilizzare in scena un’estetica tipica del periodo in cui è ambientata la pellicola.

Fra l’altro calcando la mano sui colori pastello e il jazz leggero di sottofondo, rendendola una pellicola dal sapore hitchcockiano, solo più ammorbidito e surreale.

Ed è un contrasto devastante sia con quello che succede in scena, sia nelle esplosioni proprie di Cronenberg, in particolare nella sequenza agghiacciante in cui Clark Nova sbrana ferocemente la macchina da scrivere nemica.

Un taglio estetico che è riuscito paradossalmente a rendermi ancora più inquieta.

Dov’è la realtà?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Sarebbe molto semplicistico dire che il protagonista sia semplicemente preda del delirio indotto dalla droga e dal veleno, anche se questa interpretazione sarebbe suggerita dai momenti in cui sembra squarciare il velo del sogno e piombare nella realtà.

In particolare, quando la macchina da scrivere è una effettiva macchina da scrivere e quando gli amici del protagonista lo vengono a trovare e vedono che quella che tiene nel sacco non è una macchina da scrivere, ma un sacco di droghe.

Tuttavia è tanto più meraviglioso, per immergersi davvero nella pellicola, non tentare di andare a spiegare realisticamente tutti gli elementi del film, finendo per uscirne pazzi – peggio dei protagonisti. Insomma, in qualche modo questo delirio della droga ha portato Bill a vedere quello che è veramente il mondo che lo circonda.

Costruzioni perfette

In questa pellicola non vi è un uso massiccio degli effetti visivi, ma, quando questo accade, sono costruzioni drammaticamente perfette. La macchina da scrivere nella sua forma insettoide è perfettamente integrata nella scena e sembra vera, tanto più quando cade a pezzi. Altrettanto indovinato sono l’enorme insetto e l’alieno con cui Bill dialoga, anche nella sua forma di macchina da scrivere.

Un’estetica molto tipica della fantascienza Anni Settanta-Ottanta, in particolare Star Wars, ma molto meno pupazzoso.

Mentre ancora una volta trovo che anche questo film, come per Videodrome, sia difettoso per gli effetti speciali umani.

Personalmente ho trovato così poco credibile e posticcio Yves Cloquet nella forma insettoide che possiede Kiki, che la scena non mi ha trasmesso per nulla l’effetto orrorifico e di sorpresa che avrebbe dovuto provocarmi.

Cosa succede nel finale?

Il finale è ovviamente aperto alle interpretazioni, ma la mia preferita è quella secondo la quale Bill è totalmente caduto nella sua allucinazione, ma nella stessa rivive la morte della moglie. E alla fine piange perché si rende conto di quello che è effettivamente successo e della pazzia in cui è caduto.

Un momento di drammatica consapevolezza.

La vera storia di Il pasto nudo

La storia è quanto più vicina alla vera vita di William Burroughs, l’autore di Il pasto nudo, di quanto si possa pensare.

Infatti William Burroughs uccise davvero accidentalmente la moglie con lo stesso metodo, era un disinfestatore e davvero cadde nel circolo della droga, che lo portò a scrivere la sua opera, vivendo per un periodo a Tangeri, in Marocco, la cosiddetta International zone.

E la storia venne scritta dall’autore che neanche si rendeva conto di star scrivendo, vivendo per un certo periodo proprio in una sorta di città come quella del film, abitata da mostri e creature.

Categorie
2022 Avventura Azione Batman Cinecomic DCU Film Noir Nuove Uscite Film Oscar 2023 The Batman Thriller

The Batman – Il noir inaspettato

The Batman (2022) di Matt Reeves è il nuovo film dedicato ad uno dei personaggi più iconici della DC, dopo le ottime prove di Nolan e la poca simpatia invece per quello di Ben Affleck.

Un film che, soprattutto per il periodo, ha incassato benissimo: 770 milioni di dollari a fronte di un budget di 200 milioni.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per The Batman (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior sonoro
Miglior
trucco e acconciatura
Migliori effetti visivi

Di cosa parla The Batman?

Batman è in attività da soli due anni e collabora strettamente con Jim Gordon, uno dei pochi poliziotti non corrotti. Si affaccia improvvisamente il caso del misterioso Enigmista…

Vi lascio il trailer per farmi un’idea:

Vale la pena di vedere The Batman?

Matt Reeves ce l’ha fatta.

Potrei anche chiudere direttamente la recensione qui.

The Batman è un film che riesce a portare sulla scena un’investigazione noir, a citare due capisaldi della storia cinematografica di Batman, ovvero Nolan e Burton, e ad ispirarsi splendidamente ai fumetti, con continui riferimenti. Il tutto in soli tre ore.

Cosa vi posso dire di più?

Un Batman diverso

Robert Pattinson nei panni di Batman in una scena del film The Batman 2022 diretto da Matt Reeves

Reeves invece porta in scena un Batman acerbo, profondamente violento e fallibile, in una Gotham sporca e cattiva.

La sporcizia la percepiamo in ogni inquadratura, che gioca appunto su questa regia e fotografia sporcate, che paiono quasi amatoriali. The Batman è un noir di tutto rispetto, con delle scene thriller anche abbastanza disturbanti, degli antagonisti di prima categoria e un amore sentito per il personaggio.

Infatti Reeves non solo è debitore a Nolan, che è cita parecchio, ma anche a Burton e soprattutto ai cicli fumettistici de Il lungo Halloween (1998, cui si ispirò anche Nolan per Il cavaliere oscuro) e Batman: Hush (2003) – di cui parlerò alla fine della recensione.

Il Batman contemporaneo

Robert Pattinson nei panni di Batman in una scena del film The Batman 2022 diretto da Matt Reeves

Fin dall’inizio The Batman introduce ad un noir che si ispira profondamente al ciclo fumettistico cult de Il lungo Halloween.

La costruzione dell’indagine è ben condotta e ti guida passo passo nella scoperta del mistero. Tornano anche in scena alcuni degli antagonisti politici più interessanti di Batman, ovvero il Pinguino, interpretato dall’ottimo Colin Farrell, e Carmine Falcone, interpretato da John Turturro.

Un elemento davvero vincente della pellicola è la totale assenza di tempi morti.

Anche le parti meno interessanti – come la storia di Catwoman – hanno un suo ruolo importante nello svelamento della vicenda, che riesce a tenerti attaccato allo schermo per tre ore, pur soffrendo di qualche discontinuità di ritmo, soprattutto fra la prima e la seconda parte.

Riscoprire Paul Dano

Paul Dano nei panni di dell'Enigmista in una scena del film The Batman 2022 diretto da Matt Reeves

Il cast è la vera punta di diamante

Non vorrei dire che io amavo Paul Dano ben prima che fosse di moda, ma permettetemi almeno di consigliarvi di recuperare al più presto una delle sue prove attoriali giovanili, ovvero Little miss sunshine (2006) e il suo esordio registico, Wildlife (2018), un dramma familiare piuttosto tipico ma con una mano registica veramente capace.

Paul Dano ci ha regalato una performance davvero incredibile, con e senza maschera.

Con la maschera è un killer sanguinario e spietato, completamente allucinato e davvero pauroso. Il suo monologo ad Arkham rivela tutta la sua potenza recitativa con cui è riuscito a regalarci un villain pazzo ma non sopra le righe, con un piano ben costruito e una profonda sofferenza interiore.

Non dico che possa essere paragonato al Joker di Heath Ledger, ma ci va molto vicino.

Sad Batman

Robert Pattinson nei panni di Batman in una scena del film The Batman 2022 diretto da Matt Reeves

Pattinson ha portato in scena un Batman acerbo.

Ma per davvero questa volta: nonostante il Batman di Christian Bale fosse comunque fallibile, si dimostrava fin da subito padrone della situazione. In questo caso è invece un Batman profondamente depresso e insicuro in cerca ancora una sua identità, lugubre e tenebroso con o senza maschera.

E per me Pattinson ha fatto veramente centro.

Spero che tutti i suoi detrattori si siano finalmente ricreduti.

Un perfetto Pinguino

Colin Farrel nei panni del Pinguino in una scena del film The Batman 2022 diretto da Matt Reeves

Il Pinguino ha uno screen time abbastanza ridotto, ma si fa notare.

Un uomo viscido, avido e, a suo modo, anche abbastanza ridicolo. Come spiegherò più avanti, per me è una delle maggiori citazioni a Burton. Un Colin Farrell perfettamente in parte, che è riuscito a portare in scena un Pinguino praticamente perfetto, grottesco al punto giusto, regalandoci anche un sorriso in una pellicola complessivamente piuttosto tragica.

I secondari minori

Catwoman non mi ha stregato.

Temevo un personaggio molto più sopra le righe e vicino a concetti ormai stantii di girl power e simili. Invece mi sono trovata davanti ad un personaggio complessivamente interessante, che però non è riuscito a catturarmi.

E per quando riguarda Alfred…

Sono consapevole che riuscire ad eguagliare la classe di Michael Caine è quasi impossibile, però questo Alfred, fra lo screen time ridottissimo e l’interpretazione poco interessante, non mi ha detto proprio nulla.

Matt Reeves si porta Andy Serkis dietro dalla trilogia de Il pianeta delle scimmie, dove interpretava – o, meglio, dava le movenze – alla scimmia protagonista Cesare. Un’ottima prova attoriale, probabilmente Serkis è il miglior interprete in circolazione a saper padroneggiare questa tecnica.

Ma oltre a quello non mi ha mai convinto.

Questa voglia pazza di politicizzare tutto

Robert Pattinson nei panni di Batman e Jayme Lawson nei panni di Bella Reàl futura sindaca di Gotham in una scena del film The Batman 2022 diretto da Matt Reeves

La saga di Batman, per come è raccontata nei fumetti, ha un problema abbastanza pesante: è dominata da personaggi maschili e bianchi.

Per questo va, anche giustamente, attualizzata.

Quindi niente di male, anzi, a cambiare etnia dei personaggi di Catwoman e Gordon, fra l’altro con due attori di livello. Meno bello è inserire messaggi smaccati, fra cui l’unico teppista non violento all’inizio che è afroamericano e così l’unica politica buona della situazione che è una donna nera.

Non so se si può parlare in questo caso di token, ma sicuramente una simpatica strizzata d’occhio ad un pubblico molto spesso poco rappresentato. Però questa non è rappresentazione, ma un messaggio politico molto preciso e veramente ingenuo.

Ma di questo non posso incolpare Reeves: è un andamento generale delle grandi produzioni, quindi facilissimo che abbia ricevuto certe indicazioni dall’alto.

Alcune inezie…

Avrei voluto un finale diverso, più maestoso e di impatto.

Avrei quasi preferito che finisse con Joker e l’Enigmista, mentre il finale l’ho trovato abbastanza banale.

Il ritmo, come detto, è un po’ discontinuo, e la prima parte del film è più interessante della seconda per molte cose, ma nel complesso ti tiene. Questo film mi ha confermato i miei problemi con gli inseguimenti in auto, che purtroppo non riescono mai a catturarmi.

Non proprio un’inezia è la sensazione della mancanza di una origin story strutturata come era quella di Nolan in Batman Begins, visto che mi ha un po’ stranito il rapporto fra Gordon e Batman, per nulla introdotto.

Ma sono difetti su cui posso assolutamente soprassedere.

Perché ho paura per Joker di The Batman

La presenza di Joker interpretato da Barry Keoghan era già stata praticamente confermata, quindi non è stata una grande sorpresa.

Tuttavia io ho molta paura.

Per quanto l’attore mi piaccia moltissimo (e per questo vi consiglio di recuperare American Animals, uno dei migliori heist movie degli ultimi anni), Joker è un personaggio pericoloso da portare in scena.

È un attimo cadere nello squallido con interpretazioni da galera come quella di Jared Leto in Suicide Squad (2016). Si possono anche avere delle ottime prove come quella più recente di Joaquin Phoenix, ma il livello che è stato messo da lui e da Ledger a suo tempo è veramente alto e difficile da raggiungere.

Oltre a questo, sarebbe anche ora di dire basta a Joker. È un personaggio veramente incredibile, ma a questo punto siamo anche un po’ saturi: nel giro di dieci anni abbiamo avuto tre interpretazioni.

Staremo a vedere.


Aggiornamento postumo

Dopo aver visto questa meraviglia di scena, mi sento di ritirare tutto quello di cui sopra. Sono già innamorata.

I riferimenti in The Batman

Il film è pregno di riferimenti a Nolan, ai fumetti e in parte anche a Burton.

Da qui in poi parlerò di alcuni cicli fumettistici e dei film di Nolan e Burton, senza però fare spoiler importanti. Però se non volete sapere niente non proseguite con la lettura.

I riferimenti a Nolan

Christian Bale in una scena di Il cavaliere oscuro (2008) diretto da Christopher Nolan

Tutta la storia in un certo senso si ispira a Il cavaliere oscuro, con un killer fuori controllo che uccide personaggi importanti di Gotham per mandare un messaggio. In particolare il primo video che l’Enigmista fa vedere in diretta televisiva è praticamente quello del Joker di Nolan, anche se molto più cruento.

Poi la scena di Batman inseguito dalla polizia che sale le scale col rampino è identica ad una analoga scena di Batman Begins. E infine tutto l’inseguimento del Pinguino, che, per quanto sia coerente al personaggio, è veramente simile a quando Joker cerca di farsi colpire da Batman in macchina.

E, ovviamente, la Bat Caverna che è letteralmente una caverna con pipistrelli dentro.

I riferimenti a Burton

Burton è citato più sottilmente, ma secondo me si può ritrovare nelle caratterizzazioni fortemente gotiche di alcuni ambienti, come Villa Wayne e la chiesa del funerale del sindaco Mitchell.

Ma secondo me Burton è vivo soprattutto nel Pinguino, unico personaggio vagamente umoristico, ma anche e soprattutto grottesco, esattamente come in quello di Batman Returns (1992):

Ovviamente si tratta di due stili registici e di un design differente, ma le somiglianze sono innegabili.

I riferimenti fumettistici

The Batman si ispira fondamentalmente a due cicli fumettistici: Il lungo Halloween e Batman: Hush.

Anzitutto, ovviamente, il primo delitto avvenga ad Halloween, come ne Il lungo Halloween, così anche come tutta l’impostazione noir e hard boiled, che permea le pagine del fumetto. Inoltre Catwoman che ferisce Falcone sul viso richiama l’aspetto caratteristico del personaggio nel fumetto:

E così anche la parentela di Catwoman con Falcone, che è lasciata in sospesa in questo ciclo, ma viene rivelata nel suo sequel, Batman: vittoria oscura (1999)

Per quanto riguarda Hush, l’Enigmista riprende molto il suo aspetto:

E ad un certo punto quando parla del Caso Wayne utilizza proprio la parola Hush, che è fondamentalmente un’onomatopea come il nostro shh.

Più sottilmente, quando Catwoman vuole uccidere il poliziotto corrotto e Batman la ferma, la macchina da presa indugia su Gordon. Nel fumetto infatti Batman si trovava in una situazione analoga e Gordon interveniva per fermarlo proprio con le stesse parole del film.

Non credo di aver mai visto un amore così profondo per i fumetti e per il personaggio come The Batman, che riesce a battere quasi Nolan.