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Wish – Un’ubriacatura lunga cent’anni

Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn rappresenta il punto di arrivo di un centenario disneyano piuttosto drammatico…

…non a caso si prospetta già l’ennesimo flop commerciale per la Disney: a fronte di un budget piuttosto consistente – 200 milioni di dollari – ad un mese dalla sua uscita ha incassato neanche 150 milioni di dollari…

Di cosa parla Wish?

Asha si prepara alla cerimonia in cui il sovrano, Re Magnifico, realizza un desiderio di uno dei suoi cittadini. E la protagonista vorrebbe davvero che il sogno di suo nonno, ormai centenario, fosse esaudito…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wish?

Sasha e Valentino in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Dipende.

Personalmente non considero Wish un film particolarmente meritevole, anzi: mi sono trovata davanti ad un disordinato incontro di diverse intenzioni, fra uno sguardo gettato al passato e ai suoi Classici, e l’intenzione evidente di realizzare qualcosa di più al passo coi tempi.

Ne risulta un prodotto piuttosto incolore, che cerca di rifarsi a dinamiche narrative del passato, ma senza portare nulla di significativo, anzi perdendosi in una metanarrativa e in un citazionismo a tratti veramente esasperante.

Insomma, niente di imperdibile.

La volta buona

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

L’ambientazione di Wish è una delle poche scelte vincenti del film.

Rosas è infatti storicamente piuttosto credibile, pur in un contesto fantastico come quello del film: una metropoli probabilmente tardo-antica, un incontro verosimile fra diverse culture – greca, latina, araba… – come poteva essere, per esempio, Alessandria d’Egitto.

Quindi è del tutto verosimile che, in un panorama del genere, vi sia la presenza di diverse etnie.

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Purtroppo, i meriti si fermano qui.

Come già detto in precedenza, fra tutte le case di produzione, la linea puramente politica della Disney negli ultimi anni è quella che meno digerisco, proprio per il fatto che non vi è la minima traccia di genuinità sul lato dell’inclusività.

Così, anche in questo caso, la produzione sembra voler riempire delle caselle per poter accontentare tutti, con una varietà di figure veramente poco interessanti – nello specifico con l’inclusione di un personaggio disabile, inserito unicamente per far presenza.

Un debole incontro

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

La protagonista di Wish è un pasticciaccio.

Pur con qualche capitombolo lungo la strada, da Rapunzel (2010) in poi si può dire che la Disney abbia almeno tentato di portare in scena protagoniste femminili più tridimensionali ed estranee al concetto più classico di principessa.

Nel caso di Asha, ci troviamo in una drammatica via di mezzo: per molti versi il suo personaggio assomiglia a Rapunzel – e a tutte le principesse da lei derivate – quindi una ragazzina di buon cuore, un po’ sbadata e molto insicura di sé stessa…

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

…ma, al contempo, si cerca in tutti i modi di ricondurla al prototipo della principessa destinata ad un certo lieto fine – in questo caso dal valore discutibile – cercando anche di renderla più attiva, ma risultando comunque mancante di un effettivo arco evolutivo.

Infatti, il punto di arrivo della sua evoluzione è più che altro il riuscire a riunire la comunità sotto la sua figura di fata madrina ante-litteram, mancando però delle basi consistenti e convincenti in questo senso.

Diciamo che più che un punto di arrivo, sembra un punto d’inizio.

La banalizzazione involontaria

Magnifico in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Magnifico è una terribile occasione persa.

Anche in questo caso le intenzioni sono simili a quelle di Asha, con un incontro fra presente – un villain non semplicemente cattivo, ma con un background consistente – e passato – un antagonista volutamente negativo e spaventoso.

Il problema è che Magnifico non è nessuna delle due cose, ma piuttosto un villain piuttosto basilare e poco interessante, con una motivazione veramente banale – la conquista del potere – ed un arco narrativo estremamente prevedibile.

Magnifico in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

In questo senso, si potevano prendere due strade.

Si sarebbe potuto esplorare maggiormente la sua psicologia, legata ad un concetto genuinamente interessante – il controllo dei desideri delle persone per poterle sottomettere – e non renderlo semplicemente un sovrano frustrato per l’ingratitudine dei suoi sudditi.

Allo stesso modo si poteva aggravare la sua malvagità, magari arricchendola di colpi di scena più consistenti: fra questi, sarebbe stato molto calzante scoprire che Magnifico fosse l’autore della morte del padre di Sasha, agendo magari con la complicità della moglie.

Un vero peccato.

Persi in sé stessi

Magnifico, Valentino e Sabino in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Più che puntare sulla storia, sembra che Wish voglia semplicemente essere celebrativo della Disney.

Quindi si sottrae moltissimo alla scrittura di una storia originale ed interessante, preferendo invece abbondare fino alla nausea con riferimenti alla storia della casa di produzione, anche con inserimenti veramente fuori luogo.

Infatti, per quanto sarebbe stato interessante raccontare una sorta di origine del mondo Disney – in particolare molto carina l’idea di rendere Magnifico lo Specchio di Grimilde in Biancaneve e i sette nani (1937) – non pochi elementi non tornano.

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Anzitutto il riferimento alla fata madrina riguardante Asha – concetto introdotto nel panorama favolistico ben oltre l’epoca in cui è probabilmente ambientata la storia e legato fortemente alle storie Disney…

…e, soprattutto, l’inserimento di Peter Pan e, indirettamente, di Mary Poppins (1964), due personaggi con storie veramente troppo lontane dal contesto raccontato in Wish, e il cui inserimento va a togliere senso ai loro stessi film.

Insomma, non si poteva pensare a qualcosa di più sottile ed elegante, invece che questa sbrodolatura fin troppo entusiastica?

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2023 Avventura Azione Biopic Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Film di guerra Nuove Uscite Film Oscar 2024

Napoleon – Distruggere un mito

Napoleon (2023) è un biopic dedicato alla figura del mitico condottiero che portò la storia europea ad una nuova era politica e militare, ma con un taglio piuttosto inaspettato…

A fronte di un budget assai ingente – 200 milioni di dollari – è stato un importante insuccesso commerciale, con solo 218 milioni di dollari di incasso, anche se meno da quel disastro chiamato The Killers of the Flower Moon...

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Napoleon (2023)

in neretto le vittorie

Migliore scenografia
Migliori costumi
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Napoleon?

La pellicola ripercorre le più importanti tappe della vita di Napoleone Bonaparte, con un particolare focus sulla turbolenta relazione con la prima moglie, Joséphine.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Napoleon?

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Dipende.

Se vi aspettate un racconto preciso e documentaristico della vita politica e della strategia militare di Napoleone, non è il film che fa per voi: anche per via di un obbiettivo squilibrio fra le parti, il film di Ridley Scott si propone di raccontarne solo le tappe più importanti – e spesso in maniera neanche molto approfondita.

Al contrario, se vi può interessare una visione più brutalmente verosimile del dietro le quinte, un’effettiva distruzione del mito di uno dei personaggi più importanti della storia europea, potrebbe essere una visione gratificante.

A voi la scelta.

L’uomo

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

La parte più strettamente umana di Napoleon è quella più discussa.

Il Napoleone presentato è piuttosto lontano dal mito creato da lui stesso e dai vari storici nel corso dei secoli, andando invece a tratteggiare un uomo quasi ridicolo, pieno di debolezze e piccole e grandi ossessioni.

Ma, a differenza di quanto potrebbe sembrare, il ritratto del Napoleone di Scott è molto credibile.

Per quanto fosse un abile stratega e osservatore – come viene fra l’altro rappresentato – è altrettanto vero che, agli occhi delle grandi case aristocratiche europee, Napoleone non era altro che un buzzurro con un’origine non particolarmente brillante – la tristissima Corsica.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Allo stesso modo, Bonaparte era profondamente legato alla tradizione corsa, nello specifico al suo stringente tradizionalismo – infatti non fece certamente sue grandi battaglie sociali – e mosso da una strabordante ambizione.

In questo senso, per quanto sia d’accordo sul fatto che Phoenix sembri un po’ imbrigliato in una recitazione a tratti limitante, allo stesso modo la performance che ci porta in scena racconta perfettamente questo carattere ambiguo, con le sue luci e ombre…

Lo stratega e…

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

In Napoleon Scott si impegna a rappresentare lodevolmente la parte più meritevole dell’opera di Napoleone.

Ovvero, la sua capacità da stratega.

Bonaparte visse una carriera militare piuttosto lampante, che gli permise di collocarsi nel solco della Rivoluzione Francese, e così acquisire una posizione di grande potere politico, fino a diventare l’Imperatore della Francia post-rivoluzionaria.

Pur piegando date ed eventi a suo favore, in particolare nella scena della decapitazione di Maria Antonietta – storicamente inesatta – l’occhio attento di Bonaparte sull’apice della Rivoluzione ne racconta indirettamente la consapevolezza del mutato scenario politico tutto da riscrivere.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Per questo si impegnò in diverse campagne militari, sempre necessarie per riuscire a mantenere il potere politico, con una serie di guerre lampo – forse in questo caso anche troppo frettolosamente raccontate – che lo portarono agilmente al successo.

Per questo la scena del bombardamento in Egitto e dell’incendio in Russia sono complementari: in entrambi i casi Scott racconta in maniera molto semplice ed immediata per uno spettatore inesperto due momenti fondamentali della carriera militare del protagonista.

Infatti come l’Egitto fu una vittoria schiacciante e determinante per la sua popolarità, allo stesso modo l’incendio a Mosca – nella realtà storica solo accidentale – rappresenta il fuoco distruttivo di tutte le altre potenze europee che, infine, lo schiacciarono.

E, nondimeno, quell’incendio fu anche rappresentazione di un successo molto precario e momentaneo: anche a fronte di ambiziose conquiste come una capitale così simbolica, allo stesso modo le fondamenta del suo potere erano fin troppo fragili…

Concetto raccontato anche, con un simbolismo piuttosto calzante, nella scena del faccia a faccia con la mummia, a cui un Napoleone ancora all’inizio della sua ascesa pone in testa il suo capello, quasi si rivedesse in quella rappresentazione di una gloria assai passeggera…

Josephine o…

Vanessa Kirby in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Il focus fondamentale di Napoleon è il rapporto con Josephine.

Lo stesso, ha più funzioni.

Anzitutto, un racconto abbastanza naturale del proseguire degli eventi: tramite le lettere appassionate all’amata, Napoleone riesce a raccontare lo svolgersi degli eventi militari e politici, soprattutto quando era lontano dalla Francia.

In secondo luogo, rappresenta la grande debolezza del personaggio: anche se appassionatamente innamorato – come dimostrano le varie lettere a lei dedicate – Napoleone era anche un personaggio piuttosto opprimente dal punto di vista relazionale.

Joaquin Phoenix e Vanessa Kirby in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Se da una parte si dimostrò più volte un genitore e un amante affettuoso, è altrettanto vero che aveva una visione molto tradizionalista della donna, da cui l’atteggiamento oppressivo nei confronti di Josephine, e lo squallore delle scene di sesso, finalizzate unicamente ad un consolidamento della sua posizione.

E infine, Napoleone arrivò a soffocare la sua amante, tenendola da parte in un cassetto e portandola solamente ad essere più sola e triste, impedendole di vivere veramente una seconda vita relazionale al di fuori di lui.

Ma è possibile anche una seconda interpretazione.

…la Francia?

L’importanza del personaggio di Josephine all’interno della pellicola permette una seconda interpretazione.

In questa visione, la donna amata di Napoleone simboleggia la Francia stessa: qualcosa di cui Bonaparte, nonostante le sue origini, era profondamente innamorato, ma che gli portò anche diversi dispiaceri e angosce.

In questo senso il brusco ritorno in patria dall’Egitto – del tutto reale e documentato – per via del tradimento della moglie – non altrettanto veritiero – può essere letto come una sorta di presa di consapevolezza dello stato deplorevole della Francia in sua assenza – come testimoniato dal suo stesso scambio col Direttorio.

E così, la necessità di rimetterla in riga.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Allo stesso modo, la conclusione del matrimonio racconta un’altra tendenza del personaggio.

Napoleone non si accontentò mai di rendere sicura e compatta la Francia, ma aspirò sempre ad avere il controllo su molti altri territori, rivaleggiando con le diverse potenze europee, tanto da finire per utilizzare milizie non francesi per il suo esercito.

Una scelta spesso considerata motivo del fallimento finale della sua avventura, e che potrebbe essere proprio traslato nella scelta di abbandonare l’amore per Francia – Josephine – per conseguire le sue ambizioni politiche, proprio sposando una straniera – Maria Luisa d’Austria.

La riscrittura del mito

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Questa riscrittura storica potrebbe turbare molti spettatori.

Ma è proprio questo il punto.

La vera vittoria di Napoleone non è stata tanto l’aver incarnato il cambiamento della Rivoluzione e l’aver fatto tremare l’intera Europa per vent’anni, ma l’essere riuscito a costruire e a mantenere un mito personale che perdura tutt’oggi.

Questo elemento si nota particolarmente nell’ultima scena, che fa riferimento al fondamentale Memoriale di Sant’Elena: Napoleone fu, fino all’ultimo, attivo nel tramandare una storia e un’immagine di sé stesso il più vantaggiosa possibile, anche se deviata.

Non a caso, se si vanno meglio ad indagare i singoli eventi fondamentali – fra tutti, la possibile disfatta al Parlamento, salvata in extremis dal fratello Luciano – si scopre tutta la fragilità del mito e della quantità di momenti in cui la fortuna salvò la sua ascesa.

Per questo, è così sbagliato provare a mettere in bocca allo spettatore una storia che non ha mai sentito, piuttosto che la solita celebrazione di cui siamo ormai ubriachi?

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Killers of the flower moon – La strage silenziosa

Killers of the flower moon (2023) è l’ultima fatica di Martin Scorsese, autore arrivato a ormai più di cinquant’anni di carriera, ma ancora capace di sorprendere.

Il film è stato un enorme insuccesso commerciale: a fronte di un budget di ben 200 milioni di dollari, ne ha incassati appena 156 in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Killers of the flower moon (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista

Migliore attrice protagonista a Lily Gladstone Miglior attore non protagonista a Robert De Niro
Miglior fotografia
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore scenografia
Migliore colonna sonora
Miglior canzone

Di cosa parla Killers of the flower moon?

Anni Venti, Oklahoma. I membri della Nazione Osage scoprono un ricco giacimento di petrolio che li renderà ricchi. Ma non sono gli unici a metterci gli occhi sopra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Killers of the flower moon?

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Sì, ma…

Killers of the flower moon non è un film che si potrebbe definire scorrevole – né vuole esserlo: Scorsese torna al cinema con un film impegnato e pregno di significato, difficilmente apprezzabile se non ci si lascia travolgere dalla narrativa del film.

In un certo senso il regista statunitense scommette con lo spettatore, proponendogli un tipo di prodotto a cui non è abituato, con ritmi lenti e cadenzati, che vanno di pari passo con una regia molto curata ed una storia che necessita di un certo tipo di andamento per essere raccontata…

Siete pronti ad accettare la sua scommessa?

La baraonda, la calma

Dopo un breve prologo che racconta i sentimenti contrastanti degli Osage – l’euforia della ricchezza scoperta e la mestizia per il loro futuro incerto – l’arrivo di Ernest in scena mostra in poche sequenze la natura del mondo in cui è approdato.

Una realtà caotica, in cui domina una violenza senza significato, in cui due popoli si sono mischiati e sembrano in totale sintonia, almeno all’apparenza…

Poi, improvvisamente, la calma.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Il trasferimento nella più pacifica residenza di William Hale ci illude di essere sfuggiti alla baraonda, e così il pacato colloquio fra il patriarca e il protagonista: lo scambio appare con il più classico dei dialoghi fra il nonno e il nipote, che aggiorna il suo vecchio sull’andamento della sua vita.

Sulle prime ci lasciamo ingannare dalle parole di Bill, dal suo raccontarsi come amico degli indiani, del tutto fuori dalle dinamiche di guadagno e di potere che coinvolgono gli altri bianchi della città, invece unicamente interessato all’idea che il nipote si sistemi con una bella ragazza locale.

Ma la realtà è ben diversa.

La via obbligata

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

L’amore fra Mollie e Ernest sulle prime sembra genuino.

Il giovane uomo corteggia la donna che appare – anche comprensibilmente – molto restia a dargli confidenza, pienamente consapevole di come i bianchi stiano eliminando il suo popolo nelle retrovie, uno dietro l’altro…

Tuttavia, dal momento che la sua famiglia al tempo non è stata ancora toccata, infine Mollie si decide a sposare l’uomo.

Lily Gladstone in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma ci troviamo sulla soglia della tragedia.

In questo senso, da notare come Zio Bill si rivolge alla prima vittima dell’ancora non svelato piano di eliminazione sistematica.

La donna appare sofferente, provata, e l’uomo la sovrasta con tutta la sua statura e in maniera estremamente opprimente, rincuorandola su come potrà prendersi cura di lei e darle tutte le medicine di cui ha bisogno per farla stare meglio, quando è lui stesso ad essere il mandante della sua angosciante dipartita.

Una tragedia giustificata

Rovert De Niro in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Nel secondo atto, Bill rivela finalmente sua natura.

Il suo personaggio è indubbiamente il più significativo per il concetto fondamentale del film: al contrario di quei selvaggi violenti autori della strage di Tulsa, il caro zio è invece una figura accogliente, che voleva solamente fare in modo che le due famiglie si unissero pacificamente.

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

…rivelando in realtà una sorta di razzismo benevolo: per quanto Bill possa aiutarli, gli indiani rimangono comunque una razza inferiore, che viene facilmente stroncata da diverse malattie – anzitutto il diabete – per il naturale svolgersi degli eventi.

E allora è meglio salvare quello che si può salvare…

Una convinzione che il suo personaggio mantiene fino all’ultimo…

Il non colpevole.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è anche peggiore.

L’uomo si mostra fin da subito come un personaggio piuttosto ingenuo, la preda perfetta per le maligne bugie di Bill, pronto a farsi sottomettere e punire come un bambino a sculacciate, per non aver saputo tenere una mano ferma nel controllare la sua famiglia.

Ed infatti la sua mano è sempre incerta quando comincia a somministrare quella miracolosa medicina alla moglie, soprattutto quando deve sottoporle il siero letale, talmente combattuto con sé stesso da berne pure un bicchiere, come se questo potesse liberarlo dai suoi peccati…

Per questo, ad indagine avviata, Ernest diventa un burattino nelle mani delle due parti, convincendosi infine a mordere la mano del suo padrone, vedendo in questo gesto una possibilità per potersi redimere dalle proprie colpe, di potersi ricongiungersi pacificamente con la moglie e la sua famiglia.

L’ultimo degli Osage

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Quando sposa Ernest, Mollie si fida ciecamente.

Non a caso davanti alle continue morti della sua famiglia, fino all’ultimo si fida del marito, si fida a lasciare solamente a lui la gestione delle sue medicine, e fino all’ultimo non ha il minimo dubbio che i colpevoli siano da ricercare altrove, tanto che, ormai distrutta dal veleno, mentre viene portata via, chiede dove si trovi Ernest…

E così, dopo essersi ripresa nella mente e nel corpo, sceglie di dare al marito la possibilità di ricominciare, raccontargli prima un sogno in cui congiuntamente si lasciano alle spalle le colpe, ricominciando così a camminare insieme, per poi metterlo davanti alla domanda fondamentale:

Cosa c’era veramente in quella medicina?

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è incapace di prendersi le sue responsabilità, ormai sentendosi rassicurato nell’idea di aver aiutato la giustizia e di aver trasferito i suoi peccati sul capro espiatorio di turno, rimanendo così indenne dalle condanne, soprattutto agli occhi della moglie.

Invece così Mollie capisce che non potrà più fidarsi del marito.

Ma il suo non è un finale positivo.

Fuori scena scopriamo che la donna è morta comunque piuttosto giovane, distrutta da una malattia che i bianchi salvatori non hanno saputo curare, dopo essere stata al centro di una tragedia che una giustizia tardiva e approssimativa non è stata capace di salvare dalla dimenticanza di una storia scritta da vincitori.

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2023 Animazione Avventura Commedia Disney Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Nuove Uscite Film Oscar 2024 Pixar

Elemental – L’insostenibile leggerezza dell’inesperienza

Elemental (2023) di Peter Sohn è uno dei film Pixar più sfortunati degli ultimi anni, che ha avuto una sorte particolarissima al box office.

Partendo da un budget piuttosto elevato – ma medio per un prodotto Pixar – di 200 milioni di dollari, per via di un marketing scandalosamente superficiale è stato il peggior esordio per la casa di produzione, ma ha recuperato grazie al passaparola, arrivando ad incassare 484 milioni in tutto il mondo.

Comunque un flop, ma un flop molto meno grave di quanto si prospettava.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Elemental (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Elemental?

Bernie e Cinder Lumen sono una coppia di immigrati ad Element City, una città poco accogliente per la loro razza, ma in cui riescono a ricreare la loro comunità, sicuri di poter lasciare la loro eredità alla figlia, Ember…

Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo in quanto davvero poco rappresentativo del film:

Vale la pena di vedere Elemental?

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

In generale, sì.

Per quanto non sia uno dei migliori prodotti della Pixar – anche per la poca esperienza da sceneggiatore e regista di Peter Sohn – è un film piacevole, e che anzi si impegna a raccontare in maniera piuttosto interessante il tema dell’immigrazione e dell’integrazione sociale.

Purtroppo, il film soffre di una debolezza complessiva della scrittura, che sembra voler raccontare solo pochi concetti fondamentali, ma incapace di portarli in scena con una storia davvero convincente e ben strutturata.

Comunque, vale una visione.

La barriera all’ingresso

Ember e i genitori in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

L’inizio del film è anche la parte più interessante e incisiva.

I genitori di Ember arrivano in una città in cui vivono tutti i problemi che gravano sulle spalle degli stranieri che cercano di integrarsi in una nuova realtà sociale: la barriera linguistica – i loro nomi vengono adattati – le porte sbattute in faccia, una città non adatta alla loro sopravvivenza.

In particolare quest’ultimo aspetto è affrontato sotto diversi punti di vista: sia la ghettizzazione delle comunità immigrate, che la comunità è incapace di integrare, sia per il conseguente odio indiscriminato dei reietti verso l’ostica Elemental City.

Ember e il padre in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Così i due sono riusciti a costruire un punto di riferimento per il resto degli immigrati del fuoco che non trovano un posto altrove, ma che anzi costruiscono la loro città – o ghetto, più giustamente – intorno proprio al Focolare.

Al contempo il padre è costantemente inacidito contro il popolo dell’acqua, che considera nemico a prescindere, nonostante i diversi tentativi della figlia di fargli comprendere che una persona non rappresenta tutta la sua comunità.

E questo è proprio il cuore della sua evoluzione.

Creazione e distruzione

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ember, proprio per via dell’educazione del padre, è un personaggio incredibilmente chiuso in sé stesso, che ha un solo obiettivo nella vita – prendere possesso del negozio e così far felice il genitore – e per questo rifugge ogni contatto con l’esterno della sua comunità, non uscendo mai da Fire City.

Ma al contempo la protagonista è evidentemente molto fuori luogo nella stessa, incarnando l’aspetto più distruttivo del fuoco, e non riuscendo a vedere oltre lo stesso.

In realtà Ember ha molto più da offrire

Durante la pellicola riscopre il lato positivo del suo elemento, ovvero quello creativo: se fino a quel momento aveva usato il suo potere solamente per rimediare agli errori – le tubature, la diga rotta – con la cena con la famiglia di Wade si affaccia finalmente agli orizzonti di possibilità che le sue capacità le offrono.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Lo stesso incontro le permette di comprendere la limitatezza del suo pensiero fino a quel momento, aprendosi finalmente all’idea che due comunità diverse possono riuscire a convivere, pur con i giusti compromessi.

Persino con un elemento così opposto come l’acqua.

Persino l’incontro apparentemente disastroso fra Wade e Barnie, si rivela invece una possibilità di unione: un piatto così tanto caldo – con un gioco di parole sul doppio significato di hot, che significa anche piccante – può essere addolcito con un po’ d’acqua, rendendolo più digeribile anche al di fuori del popolo del fuoco.

Favola e realtà

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ma se le tematiche e la simbologia di Elemental sono complessivamente riuscite, al contrario la resa narrativa non è particolarmente vincente.

Elemental vuole sostanzialmente raccontare il comporsi e ricomporsi di due rapporti: quello di Ember con il padre e con il nuovo interesse amoroso, Wade. Il primo è quello che ho trovato complessivamente più azzeccato, soprattutto godendo di un minutaggio piuttosto importante.

Non a caso, è anche il rapporto più importante della pellicola, che viene suggellato nel finale, il momento di vero confronto, quando Ember richiede quell’approvazione paterna per lei fondamentale, che il padre non aveva trovato al tempo nella sua famiglia.

Un momento toccante e centrale nella narrazione, a fronte di un primo ricongiungimento fra i due personaggi non adeguatamente incisivo.

Wade e Ember Elemental

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, il rapporto con Wade non mi ha convinto fino in fondo.

Il film si propone di seguire strade piuttosto consolidate, con una sorta di enemy to lovers molto simile al ben più efficace Rapunzel (2010), che però sembra reggersi unicamente sui momenti fondamentali del loro rapporto, che mancano però di una costruzione sufficientemente robusta.

Sarebbe stato molto più interessante instaurare anche un piccolo mistero sulla diga – alla Zootropolis (2016), per intenderci – la cui risoluzione portava anche allo sbocciare dell’amore fra i protagonisti.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, la questione della diga è un elemento molto più debole di quanto mi aspettassi, quasi un meccanismo della trama, e allo stesso modo il regalo di Wade ad Ember – la visita del Garden Central Station – non ha abbastanza mordente.

Ancora meno mi è piaciuto il taglio favolistico, quasi tragico, che è stato affibbiato al loro rapporto: al di là della costruzione non del tutto convincente, l’ho trovata una scelta narrativa che risulta piuttosto stridente e fuori luogo in un film che si propone di essere per molti tratti estremamente verosimile.

Ma non è tutto da buttare.

Elemental animazione

L’animazione di Elemental è impeccabile.

Non è un caso che Peter Sohn – qui regista e co-sceneggiatore – lavori da più di vent’anni come animatore per innumerevoli prodotti Pixar (e non) e che sia riuscito ancora una volta a portare una tecnica e un character design davvero ineccepibili.

Era così semplice scadere nel banale per dei personaggi rappresentativi degli elementi naturali, e invece il film riesce a portare in scena delle figure infuocate e acquatiche vive e credibili.

Non a caso le fiamme del corpo di Ember e degli altri del Popolo del Fuoco continuano a muoversi e definiscono altri tratti del loro viso, in particolare il naso, così la rappresentazione dell’Acqua è molto variegata, giocando su diversi elementi, fra cui le onde del mare.

Ma il fiore all’occhiello è indubbiamente l’incontro fra fuoco e acqua, che porta Wade inizialmente a bollire e Ember a spegnersi, ma che poi cambia proprio la chimica dei due elementi, rendendoli compatibili.

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Barbie – Un film necessario

Barbie (2023) di Greta Gerwig è uno dei film più chiacchierati dell’anno, che a tratti ha entusiasmato, a tratti ha totalmente indignato il pubblico, viste le tematiche molto controverse che ha portato in scena.

Un film che più che un film è stato un evento cinematografico come non se ne vedevano da Spider-Man No Way Home (2021), con 1,4 miliardi di dollari di incasso – a fronte di un budget di appena 145 milioni di dollari – diventando il maggior incasso del 2023.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Barbie (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior attore non protagonista a Ryan Gosling
Migliore attrice non protagonista a America Ferrera
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliore canzone What Was I Made For?
Migliore canzone I’m Just Ken

Di cosa parla Barbie?

In Barbieland le varie Barbie vivono in armonia nelle loro case da sogno, con delle esistenze sempre più perfette ogni giorno. Ma qualcosa è cambiato per la nostra protagonista…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: come tutta la campagna marketing di questo film, è incredibilmente ingannevole, in quanto asciuga la pellicola di tutti i suoi significati, facendola apparire solo come una commedia leggera.

A voi la scelta:

Vale la pena di vedere Barbie?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Assolutamente sì.

Barbie è uno dei film più interessanti del 2023, un’operazione molto intrigante e ben pensata per lanciare messaggi che, pur nella loro estrema semplicità, sono assolutamente fondamentali per comprendere la società odierna.

Oltre a questo, dal punto di vista totalmente intrattenitivo, è un film delizioso, nutrito di un’ottima ironia, spesso anche volutamente metanarrativa, sia sul mondo di Barbie, le sue dinamiche e la sua storia, sia per le interazioni della protagonista con il Mondo Reale.

Insomma, guardatelo e fatevi una vostra opinione.

Un mondo perfetto?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno degli elementi più geniali di Barbie è la rappresentazione di Barbieland.

Si sarebbe potuta scegliere una blanda messinscena del mondo di Barbie come semplicemente una realtà più colorata e da sogno, ma sostanzialmente verosimile. E invece Barbieland è esattamente un giocattolo a grandezza naturale.

Tutto è di plastica, tutto è finto: dalle bottiglie non escono liquidi, il cibo è già pronto, le onde sono di plastica e non esistono le scale, ma solo gli scivoli e le mani invisibili dei bambini che muovono le bambole.

L’incrinatura di questa perfezione arriva quando appaiono i Ken in scena.

Margot Robbie, Ryan Gosling e Simon Liu in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

In questo senso il film lavora su due livelli: storico-sociale e metanarrativo.

Infatti, Ken come giocattolo nasce proprio come accessorio di Barbie, la vera protagonista della storia, tanto che molte delle bambine che ci hanno giocato si ricorderanno come il compagno maschile apparisse del tutto superfluo, facilmente sostituibile da altri generici personaggi maschili.

Dal punto di vista invece storico-sociale, i Ken sono sostanzialmente il corrispettivo delle donne nel Mondo Reale – ovviamente in maniera molto semplificata, e anche con riferimento ad epoche molto meno felici della nostra storia, senza quindi voler fare un parallelismo così netto.

I Ken vivono sostanzialmente in funzione delle Barbie che comandano il mondo, non hanno una propria casa – quindi una propria indipendenza economica – non hanno nessun merito e nessun riconoscimento dalle stesse, e appaiono anche piuttosto superficiali e sciocchi – proprio perché non hanno i mezzi e il background necessario per essere altrimenti.

Insomma, vivono oppressi in un matriarcato.

L’intrusione del tragico

Kate McKinnon in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’intrusione del tragico nella vita di Barbie è dovuta alla sua stretta correlazione con la bambina che gioca con lei.

Proprio per il fatto che Barbie, per sua natura, permette alle bambine di essere quello che vogliono, le stesse riversano nel gioco anche i loro sentimenti. Nel caso di Gloria, le insoddisfazioni e le paure di una bambina ormai cresciuta, che vive nell’ombra del modello irraggiungibile di Barbie.

In questo senso, anche vista la proposta della protagonista umana sul finale, la pellicola denuncia le pressioni sociali della donna contemporanea, spesso frustrata da modelli irraggiungibili – reali o ideali – che le impediscono di vivere ed essere felice anche nella sua ordinarietà.

Anche in questo caso si parla di un discorso molto semplicistico e volutamente accessibile, ma che racconta come il femminile a livello sociale non abbia ancora trovato la sua dimensione mediana, ma di come sia continuamente spinto a riconoscersi in modelli predefiniti – madre, donna in carriera, puttana – senza la possibilità di una via di mezzo.

L’oggettificazione

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’arrivo della protagonista nel Mondo Reale è una delle parti più riuscite del film.

La forza di questa sequenza è che non si parla mai esplicitamente di cat calling o oggettificazione – anzi, è la parte meno didascalica del film – ma si sceglie piuttosto di raccontare le sensazioni che prova una donna all’interno di un mondo ancora dominato dal punto di vista maschile.

Il corpo della donna, volente o nolente, è sempre un oggetto di discussione.

Nonostante Barbie scelga degli outfit normalissimi – anche se datati nonostante non voglia essere un oggetto sessuale, lo diventa comunque: continue allusioni, battute dirette, anche con la volontà di far sentire in colpa la vittima della situazione per non accettare dei complimenti.

Una realtà che purtroppo è incredibilmente reale e che porta spesso le donne a non sentirsi libere di vestirsi come meglio credono…

Alla scoperta di patriarcato

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il percorso di Ken richiede tutto un discorso a parte.

Ken, come detto, parte da una situazione di totale svantaggio ed esclusione sociale, vivendo appunto totalmente in funzione di Barbie – e delle donne in genere.

Appena approda nel Mondo Reale capisce che esiste una realtà dove, tutto sommato, non viene discriminato, ma anzi accettato e glorificato, in cui trova anche una coesione sociale con gli altri uomini, non divisi dalle invidie per le attenzioni di Barbie come in Barbieland.

Ovviamente anche in questo caso è una visione semplicistica e funzionale alla storia, nonché apertamente comica.

Ryan Gosling, Ncuti Gatwa e Kingsley Ben-Adir in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il risultato è, tuttavia, quello di sostituire un mondo ingiusto con un’altra realtà ancora ingiusta, ma in senso contrario: non sono più le donne a dominare il mondo, ma gli uomini, con le figure femminili che diventano del tutto ancillari e, di fatto, totalmente accessorie.

Tuttavia, appare evidente come lo stesso patriarcato danneggi gli uomini stessi: ubriacati in questo sogno di potenza, oltre a non rispettare le donne, sono così sicuri di sé stessi da apparire di fatto ridicoli e, soprattutto, facilmente manipolabili.

Oltretutto, l’odio intestino che sembrava essere risolto con l’avvento del patriarcato, in realtà è ancora più radicato, in una competizione per l’invidia e il possesso delle loro compagne che sfocia in una vera e propria guerra.

Il femminismo intergenerazionale

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno dei discorsi più interessanti di Barbie è il femminismo intergenerazionale.

La figura di Barbie, modello per la generazione precedente – Millennials e Gen X – viene del tutto rigettata dalla Gen Z, rappresentata da Sasha, che vede in questa icona molto controversa più gli elementi negativi che positivi.

Effettivamente Barbie è di per sé una figura contrastante: nata – come ci spiega l’inizio del film – anche con l’obbiettivo di dare alle bambine una prospettiva diversa sulla loro vita e il loro futuro, al contempo ha rappresentato negli anni un modello irraggiungibile di perfezione femminile.

America Ferrera in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Per questo Sasha la respinge in toto.

Tuttavia, la ragazzina col tempo si ricrede e infine accetta il modello che ha definito la crescita e la consapevolezza della madre – e quindi della generazione precedente – arrivando, su un altro piano, ad accettare le conquiste di un femminismo forse più datato, più controverso, ma assolutamente essenziale per le conquiste presenti e future.

E, anzi, come abbiamo visto sopra, proprio questa esperienza spingerà sia Barbie che Gloria a riscrivere in un certo senso l’icona della Mattel in qualcosa di più inclusivo.

Le strade si dividono

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il finale di Barbie è uno degli elementi più controversi del film.

La parte apparentemente più problematica è quella di Ken: con una lunga – e già iconica – canzone, il protagonista maschile esprime i suoi sentimenti e racconta di come si senta sempre il numero due, sempre messo da parte, vivendo in una costante insoddisfazione.

Per questo Barbie viene in suo aiuto con una riflessione che serve ad entrambi: la scelta di evadere i modelli, i simboli che sembravano definirli – sia nel patriarcato che nel matriarcato – ed intraprendere invece un percorso che li porti alla scoperta di una propria identità.

Insomma, come Ken ha un risveglio di coscienza grazie alle parole di Barbie – che ammette anche i suoi errori nell’averlo dato per scontato – allo stesso modo le Barbie, che erano state manipolate per accettare la semplicità del patriarcato, proprio come le donne di ieri, diventano consapevoli dell’ingiustizia della nuova realtà e decidono di ribellarsi.

E qui arriviamo al punto più discusso del film.

Nonostante non abbiano fatto lo stesso percorso di Barbie, anche le altre donne di Barbieland sono più consapevoli, e capiscono che non possono tornare in toto ad una realtà matriarcale ed esclusiva come quella in cui vivevano precedentemente.

Tuttavia, davanti alle richieste dei Ken di acquisire finalmente un ruolo di potere fondamentale, la Presidentessa sceglie invece di dargli un piccolo ruolo amministrativo – quello che potremmo definire ministero senza portafoglio.

Al che segue la seguente battuta della voce fuori campo:

Well, the Kens have to start somewhere, and one day the Kens will have as much power and influence in Barbieland as women have in the Real World.

I Ken devono pur cominciare da qualche parte, e un giorno avranno tanto potere ed influenza in Barbieland di quanto ne hanno le donne nel Mondo Reale.

Barbie finale spiegazione

La battuta è volutamente ironica e cattiva, e vuole raccontare quanto il problema delle discriminazioni e dell’inclusione sociale non si risolve per magia o con i buoni sentimenti, ma che serve un lavoro duro, continuativo e difficile, anche solo per arrivare ad un briciolo di parità sociale.

E, secondo me, è la scelta perfetta.

Sia perché non porta in scena una risoluzione ideale, nonché totalmente irrealistica e poco consapevole, sia perché non si sbilancia nella glorificazione femminile – in un film già molto sbilanciato in quel senso: in situazione analoga a quella del patriarcato, le donne avrebbero altrettanta difficoltà cedere i propri diritti e il proprio potere quanto gli uomini di oggi.

Un concetto che vuole ancora una volta dimostrare come non sia un problema od una colpa da addossare agli uomini in quanto uomini – come purtroppo certe correnti femministe si ostinano a sostenere – ma piuttosto un problema sistemico e sociale che va risolto dalle fondamenta.

La scelta di Barbie

Ryan Gosling e Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

La scelta finale di Barbie è forse la parte ancora meno compresa della pellicola.

Dopo aver vissuto nel Mondo Reale, con le sue difficoltà e incomprensioni, Barbie man mano durante la pellicola si libera sempre di più di quegli elementi e simboli che la definivano nell’apparentemente perfetto matriarcato in cui viveva – e che non voleva cambiare.

Una scelta sempre più consapevole di cercare la propria identità altrove rispetto al modello di Barbie Stereotipata – e quindi vuota – a cui si era rifatta per tutta la vita, scegliendo di vivere in un mondo molto più difficile ad antagonistico, ma che le offre anche molte alternative.

Ed è ancora più indovinato il finale in cui la novella Barbara sceglie come primo passo di farsi visitare dalla ginecologa, ad indicare come non sia immediatamente fatta assorbire dal modello capitalista per cui il valore di una persona passa dal suo lavoro.

Piuttosto la protagonista sceglie di scoprirsi in questo nuovo corpo, diventando finalmente più consapevole e serena per lo stesso.

Barbie 2023 citazioni

Barbie è un film pieno di citazioni ad altre pellicole.

Ecco le più interessanti.

Quella più evidente è ovviamente 2001: Odissea nello Spazio (1968) nell’iconico incipit, che è stato usato come teaser trailer per il film stesso:

Quando Barbie sceglie il suo outfit all’inizio del film, è un evidente omaggio al teen movie Clueless (1995) – in Italia noto come Ragazze a Beverly Hills – nella famosissima scena in cui la protagonista si prepara per andare a scuola:

La scena danzante nella mega party di Barbie alla fine della sua giornata è un riferimento visivo alla fantastica scena in discoteca in La febbre del sabato sera (1977):

All’inizio del film si cita anche Matrix (1999): invece che fra la pillola blu o la pillola rossa, Barbie deve scegliere fra la Birkenstock e Scarpa col tacco:

Nella scena in cui Barbie torna a Barbieland e vede i Ken giocare a pallavolo, si cita la scena analoga in Top Gun (1986):

Infine, l’ormai iconica scena di ballo della canzone I’m just Ken è un mix di riferimenti a Singin’ in the rain (1952) e Grease (1978):

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Spider-Man: Across the Spider-Verse – Il canone tirannico

Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson è il sequel del quasi omonimo film del 2018, con protagonista Miles Morale – l’altro Spiderman.

Un film che promette molto bene al botteghino: a fronte di un budget di circa 100 milioni, ha già raddoppiato i suoi costi di produzione, con 208 milioni di incasso nel primo weekend.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Dopo più di un anno dall’incontro con lo Spider-Verse, Miles e Gwen stanno facendo i conti con i loro irrisolti problemi familiari…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Assolutamente sì.

Spider-Man: Across the Spider-Verse compie diversi ed importanti passi avanti rispetto al precedente film – che era già ottimo: una tecnica artistica che si evolve in nuove direzioni, raccontando visivamente in maniera nuova e fresca i diversi universi, retta anche da una scrittura molto più consapevole.

Infatti, questo film nasce inizialmente come un unico prodotto, ma si è scelto successivamente di dividerlo in due parti. E, a fine visione, sono sicura che di questo capitolo non avreste tolto un minuto: un’introduzione potente e robusta per una storia monumentale.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Ricominciamo da Gwen

Gwen Stacy in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spider-Man: Across the Spider-Verse ricomincia, a sorpresa, da Gwen.

Il suo personaggio è quanto essenziale, quanto poco esplorato nel precedente capitolo. In questo caso, invece, domina la scena per la primissima parte della pellicola, ri-raccontando per certi versi – ma in maniera più approfondita – il trauma personale che la definisce come Spider Woman.

E da qui si sviluppa anche il dramma del rapporto non risolto col padre, che si esplica anche in un senso di forte solitudine, di necessità di trovare un’identità e di far parte di un gruppo – ovvero la Spider Society.

Ma con una scelta che la porta – e per non poco tempo – ad abbandonare il padre stesso…

I super problemi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

La seconda parte del primo atto è invece dedicata a Miles.

Anche il giovane protagonista sta affrontando questioni non tanto dissimili da quelle di Gwen, anche se con un taglio narrativo decisamente molto più ironico – in funzione del finale, che invece raggiunge un picco drammatico non indifferente.

Ancora una volta, scopriamo Miles prima come Miles, e poi come Spiderman.

Un ragazzo che sta vivendo un momento di passaggio in realtà abbastanza tipico per il suo personaggio: pensare a che tipo di vita costruirsi oltre alla sua identità segreta, a vivere il peso di rivelare la stessa ai genitori – soprattutto al padre.

Ma anche Miles si lascia momentaneamente il problema alle spalle, per unirsi alla Spider Society.

Un villain di contorno?

Spot in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spot ha un ruolo tutto particolare.

Inizialmente sembra veramente un villain puramente comico, il villain della settimana, che Spiderman sconfigge facilmente, per poi passare al prossimo super problema.

Ma lui stesso si ribella da questo ruolo, riuscendo invece a riscoprire i propri poteri come molto più interessanti di quanto aveva compreso finora. Purtroppo, le sue motivazioni sono molto banali: vendicarsi su Spiderman.

Per questo motivo nel terzo atto di fatto scompare, rimanendo solo come una minaccia nell’ombra, che aggrava ancora di più una situazione già di per sé assai spinosa…

Il problema del canone

Il vero nemico di Spider-Man: Across the Spider-Verse è Spiderman stesso.

Con un ottimo gioco metanarrativo, si racconta come tutti gli Spiderman, proprio per riuscire a mantenere intatto quello che volgarmente chiamiamo Spider-Verse, devono accettare e di fatto sottostare alle regole del canone.

In questo modo si giustifica come il personaggio, nelle sue varie incarnazioni cinematografiche – in particolare quelle della Sony – ripercorra bene o male le medesime tappe e affronti i medesimi problemi, pur con le dovute differenze.

Ma è questo il vero dramma.

Miguel O'Hara in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spiderman per essere tale è costretto ad affrontare anche traumi davvero sconvolgenti, che solitamente riguardano la perdita degli affetti.

Per questo il personaggio di Miguel O’Hara è così tanto grigio: avendo vissuto sulla sua pelle cosa significa davvero andare contro il canone e vivere solamente per sé stessi, lo impone giustamente (?) anche a tutti gli altri.

Ma Miles è ancora troppo giovane, troppo inesperto – ancora una volta – e non è pronto ad affrontare un nuovo trauma in così poco tempo. Un trauma che, con ogni probabilità, lo porterebbe ad una distruzione della sua identità e a chiudersi in sé stesso.

E allora cos’è più importante?

Salvare sé stessi o salvare il multiverso?

Spider-Man: Across the Spider-Verse finale spiegazione

Il finale di Spider-Man: Across the Spider-Verse è piuttosto oscuro.

Quantomeno inizialmente Gwen ottiene un finale positivo: anche se scopre che per colpa sua il padre ha lasciato il lavoro da poliziotto, in questo modo non diventa capitano della polizia, non seguendo quindi la strada del canone che l’avrebbe portato alla morte.

Invece il finale di Miles è quasi macabro.

Finalmente pronto ad affrontare i suoi genitori per rivelare la sua identità segreta, il protagonista si confida con la madre, che sembra non capire di cosa stia parlando. E, se in un primo momento la situazione sembra credibile, minuto dopo minuto la verità comincia ad emergere…

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Miles ha sbagliato universo, è finito in quello da cui deriva il ragno che l’ha morso, dove proprio per questo manca uno Spiderman. E non è neanche la cosa peggiore: Miles, perdendo il padre e non essendo morso dal ragno, è diventato un supercattivo, Prowler.

Ed è piuttosto credibile: nel primo film veniva raccontato quanto Miles fosse legato allo zio, quindi è altrettanto comprensibile che, in mancanza di un’altra strada, si sia lasciato sedurre dalla possibilità di essere super, ma dalla parte sbagliata…

Spider-Man: Across the Spider-Verse Andrew Garfield Donald Glover

Spider-Man: Across the Spider-Verse è il miglior racconto del multiverso di Spiderman portato finora al cinema.

La tecnica narrativa e artistica si arricchisce, portando nuovi e fantastici personaggi, ognuno definito da una propria estetica, peculiare e unica: dallo Spider Punk all’Avvoltoio di Età Rinascimentale.

Ma anche Gwen ha una propria identità visiva, quasi espressionista: una realtà molto sfumata, che cambia a seconda delle sue emozioni.

Un multiverso incredibilmente intelligente, che riesce anzitutto a portare un’ironia metanarrativa particolarmente indovinata:

Ma, soprattutto, sembra mettere finalmente un punto al rapporto fra live action e realtà animata nell’Universo Marvel-Sony.

Semplicemente, i personaggi in live action rimangono tali, non cambiano entrando nell’universo animato. E così il film si collega a tutti gli altri Spiderman della Sony, in maniera molto più organica rispetto a No Way Home (2021).

Ma il collegamento più importante è anche quello che potrebbe sfuggire: Donald Glover nei panni di Prowler, che molti potrebbero essersi dimenticati che è apparso – pur con un minutaggio limitato – in Spiderman: Homecoming (2016):

Quindi già al tempo sapevamo dell’esistenza di Miles Morales nell’universo live action.

Quindi è probabile che questi due mondi – animato e live action – rimangano divisi – e che altrettanto probabilmente ci sarà un Miles Morales diverso in live action (nel già annunciato film) e un sequel di No Way Home, che sembra già essere in produzione.

Così, se tutto va bene, non faranno un disastro.

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2023 Avventura Azione Cinecomic Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Guardiani della Galassia MCU Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione

Guardiani della Galassia Vol. 3 – Farewell?

Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) è l’ultimo (?) capitolo della trilogia omonima creata e diretta da James Gunn per l’MCU.

A fronte di un budget piuttosto importante di 250 milioni di dollari, è stato il quarto maggior incasso del 2023, con 845 milioni di dollari al botteghino.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023)

in neretto le vittorie

Migliori effetti speciali

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 3?

Subito dopo lo Speciale di Natale, i Guardiani si trovano nella loro base, ma improvvisamente una nuova minaccia fa capolino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 3?

Chris Pratt in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In generale, sì.

Guardiani della Galassia Vol. 3 è un film fatto davvero apposta per i fan – dell’MCU, ma soprattutto del brand. Al punto che, per godere appieno della visione, è quantomai necessario vedere lo Speciale di Natale rilasciato nel 2022: la vicenda prende le mosse proprio da lì.

In generale, è un film che lavora moltissimo sul lato emotivo, con l’evidente intenzione – purtroppo per ovvi motivi – di chiudere dignitosamente tutti i personaggi, rischiando però in molti punti di forzare certe caratterizzazioni…

Ma, se siete fan dei Guardiani, ve ne innamorerete.

Il protagonista assente?

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Una particolarità di Guardiani della Galassia Vol. 3 è il cambio di protagonista.

Nonostante infatti si cerchi di dare più o meno spazio a tutti, il centro emotivo non è più Star Lord, ma Rocket e il suo passato. Tuttavia, il personaggio è assente dalla scena per la maggior parte della pellicola, vivendo solamente nei flashback.

Una storia piuttosto dolorosa, che ridimensiona il personaggio e lo porta su binari meno esplorati finora, con un’inedita crudeltà che domina la scena – pur perfettamente nascosta grazie ad una tecnica registica estremamente abile.

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Per quanto mi sia profondamente emozionata nel veder raccontare la sua storia – che ha toccato tutti i tasti giusti – d’altra parte un po’ mi è dispiaciuto vedere così poco in scena quel Rocket a cui ero abituata finora, uno dei miei personaggi preferiti dei Guardiani…

Ma ho comunque apprezzato che la missione della pellicola fosse il suo complesso e intricatissimo salvataggio, preferendola ad una narrazione più tipica con il villain di turno da sconfiggere – soprattutto per il collegamento emotivo che è riuscito a creare.

E a questo proposito…

Il villain nelle retrovie

Will Poulter in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Adam Warlock, interpretato dalla stella nascente Will Poulter, era stato venduto se non come il villain principale, sicuramente come una figura importante nel film.

E invece è tutto il contrario.

Un personaggio che è stato quasi sicuramente riscritto e di gran lunga ridimensionato, diventando una sorta di antagonista di contorno, con una caratterizzazione piuttosto abbozzata ed un arco evolutivo altrettanto debole.

Per quanto non avrei personalmente voluto che fosse più centrale nella scena – anzi, l’avrei direttamente eliminato – mi dispiace per l’attore, per cui questo film doveva essere probabilmente un punto di svolta per la sua carriera…

Ma parlando del vero villain…

Un villain per ogni occasione

Chukwudi Iwuji  in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Ho decisamente apprezzato l’Alto Evoluzionario.

Come nel precedente capitolo, Gunn ha scelto di scrivere un villain che fosse profondamente legato ad uno dei personaggi. E questo carattere così altalenante, che passa da una finta docilità ad una rabbia distruttiva, unito al suo totale disinteresse per il valore della vita, ai miei occhi l’ha avvicinato ad un altro villain importantissimo dell’MCU.

Thanos.

Anche se ovviamente l’Alto Evoluzionario non ha la medesima profondità ed importanza, presenta la stessa malvagità giustificata del villain della Saga dell’Infinito, in questo caso nel ruolo di un dio generoso quanto vendicativo. E l’ottima performance di Chukwudi Iwuji ha fatto il resto.

I secondari al centro

Mantis in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Dovendo dire addio per sempre ai suoi personaggi, James Gunn ha voluto dare ad ognuno un proprio arco evolutivo ed una conclusione.

L’esempio più evidente è Mantis.

Personaggio introdotto come secondario in Guardiani della Galassia Vol. 2, con un ruolo da protagonista nello speciale, Mantis ha un’evoluzione essenziale quanto brusca: viene emotivamente più approfondita, diventando al contempo anche quasi aggressiva.

Inoltre, si scopre come i suoi poteri possano essere essenziali non solo come supporto emotivo per il gruppo, ma anche all’interno degli stessi combattimenti e delle intrusioni. E da quello ne deriva il suo finale: l’inizio di un viaggio per riscoprire sé stessa.

Drax in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Drax è un discorso a parte.

Il suo personaggio di per sé non ha un cambiamento significativo, anzi rimane per certi versi troppo uguale a sé stesso. Infatti, la sua comicità è fondamentalmente sempre identica: indubbiamente divertente ma, arrivati al terzo film, non ugualmente brillante come poteva apparire all’inizio…

Ma la parte importante è il suo finale: al pari di Star Lord, anche Drax capisce che è il momento di fermarsi, non essere più Il Distruttore, ma un padre per la nuova famiglia che si è creato. E, anche se è fin troppo didascalica, è comunque una conclusione che mi è parsa coerente e che ho nel complesso apprezzato.

Un protagonista indebolito?

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In questo capitolo, Star Lord è un personaggio estremamente legato all’emotività.

Sia per il salvataggio di Rocket – di cui è il principale motore – sia per la relazione con Gamora. Se per certi versi la sua rappresentazione è forse troppo melensa e il suo rapporto con l’ex-compagna troppo insistente, probabilmente non si poteva fare diversamente.

Infatti, Peter aveva mostrato fin da subito un interesse per una ragazza che faticava anche solo ad accettarlo nella sua vita, con un rapporto, soprattutto sulle prime, assai antagonistico – in particolare da parte di Gamora – che si risolveva solo alla fine del secondo capitolo.

Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Tuttavia, ho personalmente apprezzato la conclusione.

Gunn ha scelto saggiamente di non abbassarsi alle dinamiche più tipiche da commedia romantica, con un ricongiungimento amoroso sul finale, magari costruito in maniera pure poco credibile e interessante.

Si mostra invece come Gamora ritorni ad un’altra famiglia, quella che ha ritrovato in questa realtà, e che non deve per forza di nuovo legarsi né a Quill né ai Guardiani – e trovando come loro una inaspettata nuova forma.

Ci saranno altri film sui guardiani della galassia?

All’indomani dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, la maggior parte degli attori ha chiuso le porte a future partecipazioni alla saga.

Zoe Saldana (Gamora) non ha dimostrato ulteriore interesse per l’MCU – e, essendo legata all’estremamente redditizio brand di Avatar, non ne ha francamente neanche bisogno…

Dave Bautista (Drax) ha scelto una via più drammatica per la sua carriera – recentemente come protagonista di Army of the Dead (2021) e Bussano alla porta (2022). Gli altri due personaggi – Mantis e Nebula – per quanto interessanti, non sono così tanto di richiamo da farli riapparire né in singolo né in gruppo.

Come se non bastasse, Sean Gunn, fratello del regista, non solo interpreta l’ex-ravager Kraglin, ma dà anche le movenze a Rocket – e non è da sottovalutare la sua eventuale, ma quasi scontata, assenza…

Una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Quindi è l’ultimo film sui Guardiani?

Secondo me, per tutti i motivi di cui sopra, sì.

E questo anche perché questo brand è troppo legato alla figura di James Gunn, che nel prossimo futuro avrà decisamente molte e altre gatte da pelare…

Tuttavia, rimane la questione Star Lord – che, a quanto pare, ritornerà. Visto l’andamento di carriera di Chris Pratt, che avuto i suoi momenti più economicamente interessanti solo legandosi a grandi brand, non mi stupisce che abbia stretto un altro accordo con l’MCU.

Ma, per quali prodotti, è ancora un grande mistero…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 3?

Come i precedenti capitoli di Guardiani della Galassia, anche il terzo film della saga è totalmente autonomo.

E, nonostante sembri che siano passati solo pochi mesi da Guardiani della Galassia (2014), il film si colloca nel 2024, quindi sia dopo Endgame (2019), sia dopo lo Speciale di Natale.

È il secondo film della Fase Cinque.

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2023 Ari Aster Avventura Commedia nera Dramma familiare Drammatico Film Nuove Uscite Film Racconto di formazione Surreale

Beau is afraid – La madre rapace

Beau is afraid (2023) è la terza pellicola di Ari Aster, autore indie attivo da pochi anni, ma che si è proficuamente fatto strada nel panorama dell’horror autoriale grazie alla A24.

A fronte di un budget abbastanza consistente per questo tipo di prodotto – 35 milioni – ha aperto piuttosto male al primo weekend: appena 5 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Beau is afraid?

Beau è un uomo di quarant’anni che vive in un quartiere estremamente pericoloso, e sta per andare a trovare la madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Beau is afraid?

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Assolutamente sì, anche se…

Beau is afraid non è il film che potreste aspettarvi da Ari Aster: se vi immaginate un prodotto simile ai due precedenti – Hereditary (2018) e Midsommar (2019) – cambiate idea. Questa nuova pellicola è probabilmente un punto di svolta per la carriera di questo ambizioso regista, che sceglie un taglio alla I’m Thinking of Ending Things (2020).

E forse è anche il motivo per cui mi è piaciuto.

Non vorrei che Aster in futuro abbandonasse del tutto l’horror, ma apprezzo questa nuova via che ha intrapreso, anche se non tutti potrebbero esserne altrettanto contenti. Personalmente, non essendomi entusiasmata per i precedenti prodotti, è stato un passo fondamentale.

L’unico elemento che mi sento di segnalare è l’eccessiva pesantezza della narrazione, tipica di tutti i prodotti di Aster finora: nonostante la durata importante non mi abbia infastidito, al contempo la storia poteva essere notevolmente alleggerita.

Nell’occhio del ciclone

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

La prima scena Beau is afraid mostra una situazione apparentemente tranquilla.

Beau dialoga con il suo terapeuta, facendoci capire che sta per tornare nella sua casa natale, per l’anniversario della morte del padre.

Ma già in questa scena è presente un elemento di disturbo: la madre che continua ad intervenire – tramite chiamate e messaggi – in uno spazio che dovrebbe essere privato e confidenziale.

E l’intrusione è continua.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Così, anche quando il protagonista riesce ad arrivare illeso al suo appartamento, viene continuamente stressato dall’ambiente che lo circonda, anche e soprattutto per motivazioni che non sono colpa sua – rappresentazione esplicita del suo stato di ansia e di colpevolezza.

Infine, viene totalmente scacciato da quel piccolo spazio privato che era riuscito a costruirsi, ma che viene letteralmente invaso e distrutto. E, anche se poi cerca di riprenderne possesso, ormai è stato violato.

E si può solo scappare.

Madonna Beau is afraid

Nel primo atto è interessante il contrasto fra due elementi.

La madonna e il ragno.

Prima di tornare a casa, Beau compra un regalino per sua mamma, una statuina che rappresenta una candida scena materna, con una figura mariana con in braccio un bambino – rappresentazione del suo desiderio di amore materno.

E proprio su quell’oggetto il protagonista racconta la sua angoscia interiore, un ulteriore tentativo di scusarsi con la madre, per qualcosa che non è neanche colpa sua – la morte del padre.

La stessa immagine la troviamo nell’imponente statua davanti alla casa natale.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Ma nell’appartamento è presente una figura ben più minacciosa: il ragno dal morso mortale.

È la rappresentazione effettiva della natura della madre: insidiosa, potenzialmente mortale, costantemente presente nella vita di Beau, anche senza che lui se ne renda conto.

E questo tanto più se si considera che l’appartamento in cui abita, come si scopre in seguito, è stato costruito dalla madre stessa…

Un’apparente tranquillità

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Dopo essere fuggito dal suo appartamento ed essere stato totalmente spogliato, è come se Beau rinascesse, e fosse ricondotto alla sfera infantile, che forse non aveva mai effettivamente lasciato…

Infatti, si sveglia nella stanza di una ragazzina, viene vestito solo con vestiti da ospedale e con pigiami, proprio come un infante, e trattato come se fosse il nuovo figlio di questa strana famiglia, che lo accudisce teneramente.

Ma è tutta apparenza.

In realtà, più che una casa, è una prigione: Beau è inconsapevolmente incatenato – con la cavigliera che mostra la sua posizione – e costantemente controllato da telecamera di sicurezza, come scopre solo alla fine.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Al contempo, la nuova casa è anche il luogo della colpa.

Beau viene continuamente stressato dall’idea di doversi ricongiungere con la madre, di mostrare il suo affetto, mentre la sua assenza – nonostante sia giustificata da motivi del tutto validi – è raccontata come un’umiliazione.

La vera natura della nuova abitazione – luogo di conflitto e di violenza – viene particolarmente sottolineata in chiusura dell’atto, con la terrificante morte di Toni. E, ancora una volta, la colpa viene data a Beau.

E così deve ancora scappare.

Lo spettacolo di una vita

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Sulle prime mi era veramente poco chiaro il senso dello spettacolo che Beau si immagina mentre è nel bosco.

Poi, pensando agli elementi raccontati a posteriori, sono riuscita a formulare una mia interpretazione: questo viaggio mentale del protagonista è forse l’unica parte veramente irreale della storia raccontata.

Nonostante riprenda alcuni elementi della realtà e preveda anche gli eventi successivi, è una riscrittura di Beau della sua stessa vita. In essa, infatti, si ritrovano la maggior parte degli eventi raccontati, anche se re immaginati – come lo spezzare della catena (la cavigliera) e il cane che lo insegue (Jeeves).

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Tuttavia, vi sono due elementi di differenza fondamentali: la madre morta e la famiglia di Beau.

Nella sua immaginazione, il protagonista si è liberato dalla madre – che comunque ricompare nei panni della moglie – e vive una vita piena di insidie e pericoli. Tuttavia, riesce a guadagnarsi un finale idealmente felice.

Ma proprio lì si spezza l’incanto: quando i figli ritrovati gli fanno comprendere la contraddizione delle sue parole – la loro esistenza e la verginità del padre – la scena si interrompe bruscamente.

È il momento in cui Beau capisce che questa vita felice è per lui impossibile.

Ritornare a casa

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

L’ultimo atto è dedicato al ritorno a casa.

Come nella sua immaginazione Beau ritrovava i figli, nella realtà ritrova la madre. Ma prima si esplora l’immensa figura materna: una donna potente e minacciosa, che aveva costruito un impero commerciale, ma anche una trincea intorno al figlio.

Non a caso tutte le pubblicità dei suoi prodotti si concentrano sulla sicurezza e hanno molto spesso al centro Beau stesso: quindi rappresentano il continuo tentativo della madre di proteggere il figlio dal mondo esterno.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E allora Beau prova a prendersi la prima rivalsa.

Rincontrando Elaine dopo tantissimi anni, il protagonista ammette di essersi conservato per lei, di averla aspettata per poter condividere con lei la sua prima esperienza sessuale – e ancora una volta si parla quindi di una donna opprimente che cerca di limitarlo…

Tuttavia, il protagonista sembra avere il suo riscatto, vivendo – nonostante la paura – la sua prima relazione sessuale, la stessa che la madre gli aveva negato tutta la sua vita, terrorizzandolo tramite i terribili esiti che la stessa avrebbe portato.

In realtà la madre vince ancora.

La madre rapace

La natura rapace della madre si capisce fin dal primo atto, anche se non è presente in scena.

Sia per la foto che Beau tiene in bagno – con la mano della madre che gli regge la testa che sembra un artiglio – sia per le pressioni che la donna continua a buttargli addosso, accusandolo, fra le altre cose, di non volerla andare a trovare.

Insomma, Mona è un genitore narcisista, che affoga il figlio con amore e attenzioni, ma pretendendone altrettante indietro, pena terribili ricatti emotivi. E, proprio grazie alle registrazioni delle sedute con il terapista, Beau si rende conto della tossicità del loro rapporto.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E questo viene ancora ribadito dalla scena della soffitta.

Il sogno – in realtà un ricordo – racconta proprio il loro conflitto: se nella sua fantasia Beau poteva essere un bambino che si ribellava dalle continue invasioni della madre, la stessa aveva un potere tale su di lui da riuscire a sopprimere questi inaccettabili slanci.

La soffitta è soprattutto il luogo della distruzione della virilità: sia tramite la reclusione del padre, foce della più importante paura – quella verso il sesso – sia, in maniera estremamente esplicita, tramite la segregazione dei simboli fallici.

E allora avviene l’effettiva ribellione.

Beau is afraid finale

Sul finale Beau cerca di uccidere la madre, ma poi si pente – con una reazione piuttosto infantile.

Ma ormai è fatta.

E Beau scappa, definitivamente.

Ma si trova imprigionato nel terribile tribunale che lo mette davanti alle sue colpe, anche quelle apparentemente più assurde, che aprono la strada a due diverse interpretazioni della storia nel complesso: quella letterale e quella metaforica.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se seguiamo la lettura letterale, tutto quello che è successo – tranne due momenti – è fondamentalmente reale.

Il viaggio di Beau nasce dalla morte della madre, si sviluppa nel suo continuo scappare e trovarsi in situazioni di pericolo e di conflitto, in realtà create ad hoc dalla madre, che cercava ancora una volta di avere prova dell’amore del figlio.

Tutte scene reali, ad eccezione dell’immaginazione di Beau per lo spettacolo, e la scena finale col tribunale, che potrebbe essere in parte deviata dall’immaginazione del protagonista – ed essere in realtà un semplice dialogo con la genitrice.

Kylie Rogers in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se invece seguiamo l’interpretazione metaforica, tutta la storia racconta è un viaggio immaginario di Beau, con rappresentazioni visive delle sue ansie e del suo tentativo di superare il legame opprimente con la madre.

Tuttavia, in entrambe le visioni, alla fine Beau è vinto dall’eccessivo senso di colpa che lo opprime, e decide di non provare neanche a salvarsi, ma accettare la sua morte come giusta punizione per il suo comportamento.

Quindi, alla fine, Beau è sconfitto.

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Peter Pan & Wendy – Peter, dove sei?

Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery è il live action Disney tratto dal classico del 1953 e dall’opera teatrale di J. M. Barrie – almeno sulla carta.

Il film è stato rilasciato direttamente su Disney+.

Di cosa parla Peter Pan & Wendy?

Wendy è una giovane donna che sta per partire per un collegio lontano da casa, ma già rimpiange la sua vita da bambina, quando era tutto più semplice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Peter Pan & Wendy?

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Dipende.

Se volete vedere un film su Peter Pan, decisamente no: Peter Pan & Wendy, semplicemente, non parla di questo. Si tratta di tutto un altro tipo di storia, dal piglio fortemente drammatico, con al centro il racconto di un’amicizia – e non fra Peter e Wendy.

Il tutto condito da un girl power al limite del nauseante, che dimostra ancora una volta l’incapacità della Disney nel trattare temi delicati e nel metterli in scena in maniera credibile – e questo sia per i personaggi femminili, sia in generale per tutte le rappresentazioni inclusive.

Io vi ho avvertiti.

Uccidiamo Peter Pan!

Alexander Molony in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Peter Pan & Wendy sembra vivere del desiderio di togliere Peter di scena.

Per ben due volte il personaggio viene considerato morto, riapparendo magicamente praticamente solo nelle scene in cui è strettamente necessario per portare avanti quello scampolo di trama presente nel film.

Per il resto, il film vuole solo parlare di Wendy.

E neanche bene.

Alexander Molony e Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Manca del tutto una costruzione emotiva del rapporto fra lei e Peter, che sembrano quanto più divisi per la differenza di età: nonostante gli attori siano sostanzialmente coetanei, Peter sembra avere l’età dell’opera originale – un preadolescente – mentre Wendy dovrebbe avere almeno 15 anni.

In questo senso si sarebbe potuto lavorare sulla costruzione di un rapporto fra loro due come sorella maggiore e fratello più piccolo – come era accennato proprio nell’incipit del film. Ma niente di tutto questo: semplicemente, il loro rapporto non esiste.

Ma parliamo di Wendy.

Non voglio crescere

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Il personaggio di Wendy poteva essere riscritto in diverse direzioni.

All’inizio viene raccontato come la ragazza stia affrontando un momento di passaggio piuttosto fondamentale per la sua vita, ovvero andare a vivere lontano da casa. Troviamo quindi una Wendy già piuttosto matura rispetto alle precedenti trasposizioni – elemento che non sarebbe stato problematico di per sé.

In realtà i problemi sono molteplici.

Il primo problema riguarda l’eccessiva attualizzazione della sua storia al tempo presente: Wendy e i suoi genitori si comportano in maniera non tanto diversa da come si comporterebbero se vivessero nel 2023, mentre la storia è ambientata più di un secolo fa.

Emerge così un’evidente incapacità di raccontare le vere sfide che una donna all’inizio del Novecento doveva affrontare – come invece fatto ottimamente in Peter Pan (2003). Come se non bastasse, manca del tutto il suo percorso di maturazione emotiva che le faccia capire l’importanza di crescere.

Infatti, Wendy si limita a ripetere a pappagallo quello che la madre le ha detto.

E l’ambientazione non aiuta…

Fuggire l’infanzia?

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Uno dei concetti fondamentali di Peter Pan è L’isola che non c’è.

Nel racconto originale, Wendy e i suoi fratelli venivano tentati dalle delizie della vita piena di avventure e creature fantastiche, all’interno di un’ambientazione dal forte sapore favolistico. E infatti Peter Pan era incapace di affrontare le responsabilità della vita adulta, scegliendo invece questa confortante ed infinita giovinezza.

Tuttavia, era altrettanto evidente come questo luogo rappresentasse l’oblio: non solo Peter Pan si dimenticava continuamente sia delle sue avventure, sia dei personaggi che lo circondavano, ma anche Wendy col tempo si rendeva conto di essere assorbita da questo ambiente, dimenticandosi gli affetti che si era lasciata indietro.

Alexander Molony e Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Al contrario, per stessa ammissione del film, L’isola che non c’è è un luogo deprimente.

È il luogo del conflitto continuo fra Peter e Uncino, con una scrittura piuttosto ambiziosa, che però si dimentica totalmente di inserire una narrazione coerente in merito: se Peter Pan è chiaramente contrario all’idea di ritornare a casa, manca tuttavia la spiegazione effettiva del perché.

Infatti, se già la mancanza della desiderabilità di Neverland era problematica, lo è ancora di più la scarsità del racconto del contesto storico dell’opera, che chiariva le paure di Peter di diventare un grigio e noioso adulto, dovendo mettere da parte i suoi sogni e le sue ambizioni.

Un uomo ridicolo

Jude Law in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

La riscrittura di Capitan Uncino è forse quella che ho meno digerito.

Il suo personaggio per sua natura è dotato di un fascino quasi magnetico, con i suoi abiti barocchi e sfarzosi, gli accessori che raccontavano il suo essere vanesio – come il bocchino per le sigarette di sua invenzione – e, più in generale, il suo modo di comportarsi.

Al contrario l’Uncino di Jude Law è un personaggio stanco, semplicemente miserabile, che porta strenuamente avanti la sua lotta con Peter Pan per motivazioni più personali che simboliche, ovvero la loro amicizia che si era conclusa tragicamente.

Jude Law in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

E se il concetto poteva comunque essere interessante nella scena della – apparente – morte del personaggio, che afferma di non avere pensieri felici, manca ancora una volta il percorso di maturazione di Peter per arrivare al perdono del suo eterno nemico.

Come se non bastasse, alla luce del contesto della storia estremamente angosciante e conflittuale, non si capisce neanche come lo stesso Peter possa essere così spensierato tanto da poter volare quasi senza bisogno della magia di Trilli, dal momento che si parla piuttosto di un personaggio davvero affranto…

Lavorare di sottrazione

Yara Shahidi in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

In Peter Pan & Wendy non sanno davvero cosa farsene del materiale originale.

Anche andando oltre gli aspetti più profondi dell’opera di cui sopra, manca tutto il resto: dove sono le sirene, le scene con gli indiani, i bimbi sperduti che cercano di uccidere Wendy istigati da Trilli?

Il film lavora incredibilmente per sottrazione, eliminando tutti gli elementi fondamentali della storia, e svuotando il film di un effettivo contenuto.

Ne risulta un prodotto che non è altro che un giro a vuoto intorno agli stessi due concetti, che manca totalmente di una parte centrale che permetta allo spettatore di conoscere i personaggi ed affezionarsi a loro, portando ad un finale freddo e distante.

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

E poi c’è il girl power.

Questo tentativo di rendere i personaggi femminili non solo più protagonisti del necessario, ma anche figure già formate, perfette e lodevoli, mi ha profondamente angosciato. Anzitutto Trilli, mancante totalmente della sua caratterizzazione da personaggio cattivello, pure smorzata come nel classico Disney.

Qui diventa un personaggio assolutamente perfetto e positivo, anzi inascoltato, come d’altronde tutti i personaggi femminili del film. Il picco di questa tendenza è rappresentato ovviamente da Giglio Tigrato, che più che un personaggio sembra la protagonista di una pubblicità di profumi

Peter Pan & Wendy politically correct

Ho rivisto recentemente il classico Disney Peter Pan, uscito nel 1953.

Prima dell’inizio del film compare un disclaimer che recita qualcosa tipo Questo film è pieno di rappresentazioni offensive, ma non vogliamo censurarlo. Il problema, anche se non è detto esplicitamente, è soprattutto la rappresentazione degli Indiani d’America.

Secondo i canoni odierni, l’idea di questo popolo come creatura fantastica di un mondo fantastico è già di per sé una feticizzazione. Ma, più in generale, anche la loro rappresentazione visiva piuttosto stereotipata, con anche la pelle rossa, poteva apparire offensiva.

Alyssa Wapanatâhk in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Per questo giustamente in Peter Pan & Wendy hanno deciso direttamente di eliminare i personaggi.

Rimane solamente il personaggio di Giglio Tigrato, presente in scena più del dovuto con il suo fantastico cavallo bianco, e non si mostra nulla del rapporto fra gli Indiani e i pirati, né con Peter.

Inoltre, con una mossa che per me non è neanche inclusività forzata, ma proprio l’inserimento di token fatti e finiti, i bambini sperduti si tramutano in una graziosa e molto conveniente pubblicità di Benetton, con anche l’inclusione di un attore con la sindrome di down.

Sulla carta non era una cosa che trovavo troppo problematica, perché sarebbe bastata una facile e giusta spiegazione di questa riscrittura. Tuttavia, come al solito, anche per questo manca del tutto una contestualizzazione storica credibile, e si preferisce includere a casaccio.

Ma, d’altronde, questo non è un film di Peter Pan, quindi perché dovrei stupirmi…

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2023 Biopic Commedia Drammatico Film Nuove Uscite Film

Air – Soldi, soldi, soldi

Air (2023), noto in Italia col sottotitolo di La storia del grande salto, è la nuova pellicola di Ben Affleck – che è anche interprete – con protagonista Matt Damon.

A fronte di un budget medio – fra i 70 e i 90 milioni – ha aperto abbastanza bene nel primo weekend: 30 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Air?

Sonny Vaccaro sta cercando di rilanciare la Nike nel mercato del basket: il brand fino alla metà degli Anni Ottanta era molto molto popolare nel mercato dei bianchi statunitensi appassionati di jogging, e non altrove. E quale migliore sponsor se non la giovane promessa Michael Jordan?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Air?

Matt Damon e Viola Davis in una scena di Air (2023) di Ben Affleck

In generale, sì.

Air è tutto quello che potreste immaginarvi da questo tipo di prodotto: la storia di un grande successo imprenditoriale, di un fantastico boom commerciale derivato dall’intraprendenza di un uomo – il nostro eroe – che ha avuto il coraggio di scontrarsi con un ambiente ostile.

Ma è anche un prodotto con un alto livello tecnico.

La fotografia è ottima, la regia l’ho trovata molto solida e mai banale, e le interpretazioni sono di alto livello, grazie anche al proficuo sodalizio fra Ben Affleck e Matt Damon. Inoltre, product placement a parte, è una pellicola che riesce a far immergere ottimamente lo spettatore nella realtà storica raccontata.

Insomma, se avete l’occasione e vi piacciono questo tipo di film, vale una visione.

Un tuffo nel passato

Ben Affleck in una scena di Air (2023) di Ben Affleck

L’immersione nel contesto storico raccontato è indovinata fin dal primo frame.

Nell’incipit ci troviamo davanti ad una carrellata di immagini che raccontano la cultura popolare del 1984 negli Stati Uniti, dai Ghostbusters a Mr. T. Niente di diverso da tanti altri prodotti analoghi, se non fosse che la fotografia è talmente tanto indovinata che, quando il film comincia effettivamente, sembra di essere ancora davanti ad un video originale dell’epoca rappresentata.

Inoltre, appare molto evidente il tipo di sforzo produttivo e di ricerca che Ben Affleck ha compiuto sulla sua pellicola, inserendo tutti i piccoli e strani comportamenti dei personaggi – come l’abitudine di Phil Knight di stare senza scarpe e calzini – oltre a descrizioni incredibilmente specifiche degli ambienti di lavoro delle compagnie concorrenti.

Vivere un sogno

Matt Damon in una scena di Air (2023) di Ben Affleck

Sapere già la conclusione di una storia prima di cominciarla potrebbe essere fastidioso per molti.

Non per me.

Riesco piuttosto facilmente ad appassionarmi alle storie di successi imprenditoriali, soprattutto perché solitamente le conosco piuttosto superficialmente. E riesco ad essere davvero coinvolta quando sono ben raccontate – come nel caso di Air, appunto.

Le dinamiche sono piuttosto classiche: un uomo con un sogno e una passione, che si trova osteggiato su tutti i fronti. E quindi osa dove nessuno avrebbe osato, andando persino a scavalcare l’aggressivo agente di Michael Jordan per parlare direttamente con la madre dell’atleta.

Matt Damon in una scena di Air (2023) di Ben Affleck

Nonostante anche in questo caso è un racconto abbastanza didascalico, ho comunque apprezzato la scelta di mostre il protagonista che impara da quello che lo circonda, anche da conversazioni che riguardano solo marginalmente con la sua missione – come il fondamentale dialogo con George Raveling.

Diciamo che da questo tipo di racconti preferisco trarre il meglio del messaggio, ripulendolo di una retorica che invece non apprezzo particolarmente…

Air – La storia del grande salto

Guardando Air ho avuto una sorta di déjà-vu.

Mi sono sentita in maniera abbastanza simile alla mia recente visione di Top Gun – Maverick (2022): per quanto nel complesso il prodotto mi stesse piacendo e intrattenendo, mi sentivo veramente lontana dalla morale raccontata.

Nel caso di Air, la pellicola mette in scena una mentalità estremamente statunitense, incentrata sull’idea dell’impegnarsi fino allo sfinimento per raggiungere i propri obiettivi, correndo anche grandi rischi, il tutto per arrivare al successo e, soprattutto, al guadagno.

E infatti tutta la parte conclusiva parla quasi esclusivamente di soldi, soldi, soldi…

Michal Jordan Air Jordan 2023

Michael Jordan non si vede mai nel film.

Non è la prima volta che vedo la scelta di nascondere il personaggio di punta della storia – per esempio in Bobby (2006) e nel recente She said (2022) – e in questo caso personalmente mi ha convinto a metà.

Capisco le intenzioni: sarebbe stato sostanzialmente impossibile portare in scena un giovane Michael Jordan, un mito per diverse generazioni, preferendo invece lasciarlo sempre in ombra, raccontandolo tramite video reali.

Tuttavia, Jordan è comunque presente in numerose scene che lo coinvolgono in prima persona, dove però non parla mai, comportamento obiettivamente poco credibile e non costruito in maniera davvero ottimale…