The Gray Man (2022) è un action movie uscito recentemente su Netflix. La pellicola si porta dietro un team che prometteva meraviglie: non solo i Fratelli Russo, registi di Captain America – The Winter Soldier (2014), Avangers Infinity War (2018) e Avengers Endgame (2019), ma anche gli sceneggiatori che si occuparono di tutti i loro prodotti per l’MCU.
Purtroppo The Gray Man conferma come ottimi registi e sceneggiatori, tolti dal contesto giusto, possano dimostrarsi meno capaci di quanto ci si potrebbe aspettare. Questa pellicola si inserisce infatti nella scia di prodotti di poco o nessun successo cui i Fratelli Russo hanno partecipato al di fuori dell’MCU, come Cherry (2021) e City of Crime (2019), in quest’ultimo caso come produttori.
Di cosa parla The Gray Man?
Court Gentry è un galeotto con ancora almeno dieci anni di reclusione davanti, che viene inaspettatamente reclutato dalla CIA per far parte di un progetto ombra, chiamato il progetto Sierra. Tuttavia, a dieci anni di distanza, Court comincia a scoprire inquietanti retroscena…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare The Gray Man?
In generale no, ma ci sono buoni motivi per cui questo film potrebbe quantomeno intrattenervi. Bisogna ammettere che ancora una volta i Fratelli Russo si dimostrano ben più di mestieranti, cercando di portare una regia interessante e dinamica.
Il principale problema è infatti rappresentato dalla sceneggiatura, di una povertà creativa devastante, che snocciola mano a mano tutti gli stereotipi del genere. E in generale, c’è anche poco tempo per la storia, visto che due terzi del film sono scene di azione neanche troppo originali. Insomma, non stiamo parlando di John Wick.
Per questo è un film che, se non siete patiti degli action movie, soprattutto di quelli più banali, non vi consiglio di guardare. Io, personalmente, me ne sono ampiamente pentita.
Non saper essere originali (ma proprio in niente)
Un grande problema, se così vogliamo dire, di The Gray Man è la sua totale mancanza di originalità. Il film è incredibilmente piatto, non porta nessuna idea interessante sul tavolo, ma è proprio il classico prodotto in serie basato sulle solite dinamiche che funzionano per il cinema commerciale.
E potrebbe essere la pellicola giusta all’interno della strategia di Netflix di rilasciare una marea di film ogni anno: prodotti usa e getta di cui si parla per un paio di giorni, per poi finire totalmente nel dimenticatoio. Tenendo però sempre alta l’attenzione sulla piattaforma.
Chris Evans: crederci
Personalmente sto assolutamente adorando la rinascita attoriale di Chris Evans, che sta cercando in tutti i modi di allontanarsi dalla figura di Captain America. E così, come in Knives Out (2019), anche in questa pellicola interpreta un personaggio anomalo e negativo.
Per questo ho ampiamente apprezzato l’ironia e l’impegno che Chris Evans ci ha messo in questa parte, pur probabilmente consapevole anche lui di star lavorando in un film di livello molto mediocre. E non è un caso che, per quanto mi riguarda, il suo personaggio è l’unico veramente interessante e convincente dell’intera pellicola.
Che bella cagnara
Come Chris Evans è stato convincente, il resto del cast è un generale pianto. Lo spreco maggiore è stato indubbiamente Ryan Gosling, attore con un’espressività molto particolare e che deve essere maneggiato con cura, posto nei giusti ruoli e con la giusta direzione creativa, come è stato per The First Man(2018).
In questo caso invece si vede quanto Gosling fosse poco convinto del prodotto e quanto poco questo ruolo fosse adatto a lui. Ed è atroce quando cercano di affidargli delle battute comiche, che cadono totalmente piatte per incapacità o cattiva direzione. La chimica fra lui e Evans, poi, è assolutamente inesistente.
E non è neanche la parte peggiore.
Ma che bei personaggi femminili all’avanguardia!
Al di là in generale dei dimenticabilissimi personaggi secondari, è stato al limite dell’imbarazzo vedere personaggi femminili inseriti così forzatamente per fingersi inclusivi, quando la storia è così evidentemente maschile (e non dovrebbe neanche essere un problema di per sé).
Poche volte ho visto personaggi femminili così insipidi, piatti e poco interessanti, che hanno un ruolo del tutto accessorio alla trama. Non si voleva appiattirli nel ruolo di femme fatale o di interesse amoroso dei protagonisti maschili. E quindi si è giustamente deciso di renderle totalmente futili alla narrazione.
Lightyear (2022) è l’ultimo film della Pixar uscito la scorsa settimana, il primo uscito in sala dopo quasi due anni. Ed il motivo è facile da capire: questa pellicola non è un film Pixar come lo intendiamo comunemente, ovvero un percorso di crescita e maturazione con un risvolto profondo. Si parla più che altro di una space opera, un film avventuroso in senso classico, che comunque gode di una robusta morale.
Tuttavia, per ora non sembra una scommessa vincente: la pellicola è infatti più o meno stroncata da gran parte della critica e ha aperto miseramente (appena 84 milioni la prima settimana), rischiando già il flop commerciale. E la causa potrebbe essere che in primis molti si aspettavano un film molto più collegato a Toy Story(cosa che non è) e forse che era un film meno spendibile per il grande pubblico, soprattutto infantile, di quanto si pensasse.
Di cosa parla Lightyear?
Buzz Lighyear è uno space ranger che si trova naufragato con la sua squadra in un pianeta sconosciuto e minaccioso. Dovrà quindi tentare di riparare la navicella per ritornare a casa, con molti tentativi che non andranno come si aspettava…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Vale la pena di vedere Lighyear?
In generale, Lightyear è un film che mi sento di consigliare, a patto di approcciarsi alla visione con la giusta mentalità. Infatti, come anticipato, il film c’entra veramente poco con Toy Storye le sue dinamiche. Ma non è per forza un difetto: dopo quel maledetto Toy Story 4 (2019), è anche ora di lasciare intatta la magia del brand.
Io, pur da grande purista della Pixar, sono andata in sala con grande tranquillità, con la consapevolezza che non sarebbe stato un film Pixar in senso stretto. E così sono riuscita a godermi un film sicuramente non perfetto, ma che riesce ad intrattenere ed a riallacciarsi (seppur debolmente) alle tematiche tanto care alla casa di produzione.
Quindi, se vi piacciono le avventure spaziali, che giocano con il genere del buddy movie, e se in generale vi piace Star Wars, è molto probabile che Lightyear vi piacerà. L’importante, appunto, è andarci con le giuste aspettative. Insomma, dimenticatevi Toy Story.
Distaccarsi da Toy Story: buona idea o commercialata?
Come anticipato, è Lighyear non è strettamente legato a Toy Story. I riferimenti sono infatti abbastanza sporadici: a parte dire che il film sia quello visto da Andy nel 1995 (di cui parleremo), il film si limita ad inserire qualche citazione e dinamica famosa della saga. Per il resto, prende tutta un’altra strada.
La pellicola sembra più decostruire il personaggio di Buzz, i suoi atteggiamenti abbastanza ridicoli di voler fare sempre rapporto e la sua ossessione di portare a termine la missione. Per il resto, la maggior parte dei personaggi sono totalmente nuovi o, nel caso di Zurg, rivisitati.
E, per me, non è stata una cattiva idea. Infatti, come ci insegnano eventi recenti di Star Wars, andare a rimettere le mani sul canone e portare collegamenti mal pensati, solitamentenon è una buona idea. Invece andare a sfruttare un personaggio molto amato come Buzz ed ampliare l’universo di Toy Story, senza intaccare il canone, è stata un’idea decisamente migliore.
Detto questo, si tratta sicuramente di un film prodotto con l’intento di far conoscere il personaggio ad un pubblico infantile e vendere molti giocattoli. Con una situazione che fra l’altro supera il concetto di metanarratività in maniera quasi agghiacciante.
Buzz Lighyear: un personaggio coerente?
Il personaggio di Buzz è stato fortemente criticato, soprattutto negli Stati Uniti, per via del suo doppiatore, Chris Evans, famoso soprattutto per aver interpretato Captain America nell’MCU. La critica ha sembrato rimpiangere la voce storica di Tim Allen, non considerando Evans per nulla all’altezza.
A me personalmente il doppiaggio di Buzz ha assolutamente convinto e non ho mai trovato straniante il cambio di doppiatore. Oltre a questo, secondo me il personaggio è scritto ottimamente, ampliando il suo carattere e la sua storia in maniera assolutamente coerente con il canone.
Troviamo infatti un Buzz sempre concentrato sulla missione, fino all’ultimo intestardito all’idea di portarla a termine, quasi ridicolo nei suoi atteggiamenti. Proprio il Buzz che vedevamo in Toy Story, soprattutto nel primo film.
Zurg: un cattivo a metà
Ho generalmente apprezzato il personaggio di Zurg: è coerente con quello di Toy Story ed è stato un bel colpo di scena. Il punto di partenza della morale più adulta del film, che però pecca in un elemento fondamentale: il minutaggio.
Al personaggio di Zurg non viene evidentemente dato il tempo di respirare: viene introdotto, viene spiegata la sua storia, ma nel giro di pochissimo tempo Buzz gli si rivolta contro. E da quel momento diventa semplicemente il personaggio di Zurg di Toy Story, ovvero un cattivo molto tipico e stereotipato. E con un minutaggio risicato.
Lightyear e una trama imperfetta
Complessivamente parlando, la trama di Lightyear mi è piaciuta: ben strutturata, con alcuni momenti abbastanza prevedibili, ma comunque toccanti. Per esempio, mi aspettavo assolutamente che Alisha morisse, ma lo stesso, vedendo Buzz che entra nell’ufficio vuoto, mi si è stretto il cuore.
Nonostante la trama riesca a ben posizionare le pedine in gioco, tende ad incartarsi nella parte centrale. Infatti i protagonisti vengono continuamente messi davanti a continui ostacoli, in maniera quasi estenuante.
Anche se non penso che fosse quello l’intento, questa dinamica dà taglio di verosimiglianza alla vicenda. Infatti, a differenza della finzione cinematografica, è molto più credibile che in una situazione reale i personaggi si sarebbero trovati davanti a una marea di imprevisti.
La doppia morale
Dal punto di vista della morale, il film si struttura su due livelli: la morale per il pubblico di bambini e la morale per il pubblico di adulti. Molto Pixar, senza dubbio.
La morale per i bambini, drammaticamente didascalica, riguarda l’importanza di non isolarsi e intestardirsi sulle proprie idee, ma cercare di lavorare di squadra. Infatti Buzz è per la maggior parte restio a lavorare con gli altri personaggi, sottovalutandoli, ma alla fine capisce il loro valore, proprio come Alisha aveva fatto con lui.
La morale adulta riguarda invece il non inseguire un sogno impossibile e non sapersi godere la propria vita per quello che è, con i suoi alti e bassi. Una morale davvero bella e toccante, con una messa in scene molto convincitene. Peccato che sia la stessa morale di Up (2009).
Una comicità non sempre vincente
Lightyear è un film che sembra volerti far continuamente ridere, buttando lì battute pensate probabilmente più che altro per un pubblico infantile. Soprattutto all’inizio, ho trovato quasi fastidiosa questa continua insistenza. Tuttavia, all’interno della pellicola ci sono diversi momenti in cui ho riso sinceramente.
La maggior parte, ovviamente, sono collegati a Sox, un personaggio su cui non contavo per nulla, ma che invece è stato fra i miei preferiti dell’intero film.
Lightyear è il film che ha guardato Andy?
Volevo aggiungere questa piccola coda alla fine della recensione, perché penso di non essere l’unica ad essersi fatta questa domanda. All’inizio del film viene detto esplicitamente che Lightyear è il film che vide Andy nel 1995 e che lo fece innamorare del personaggio.
Ovviamente, questo non è possibile. Il film di Lightyear nel 1995 non sarebbe mai stato un film dove il protagonista viene messo così tanto in discussione, con una morale del genere, con un cast così inclusivo.
Sarebbe stato al contrario un film alla Terminator, ma nello spazio, pieno di violenza edulcorata e un trash che solamente gli Anni Novanta possono regalarci.
Ma, ovviamente, qui parliamo di sospensione dell’incredulità totale. E va bene così.
Cip e Ciop: Agenti speciali (2022) è una delle ultime pellicole in tecnica mista uscite su Disney+ e che sta facendo parlare molto di sé. Il motivo è semplice: se pensavate che fosse un film per bambini, dovete ricredervi.
Io per prima pensavo quanto sopra, ma, grazie al passaparola positivo che ho ricevuto da diverse persone, mi sono convinta a recuperarlo. E non è nulla di quanto mi sarei mai potuta immaginare. Mi è sembrato di tornare a tanti anni fa, allo splendido Chi ha incastrato Roger Rabbit(1988), cult assoluto della mia infanzia, con tutto quello che ne consegue.
Di cosa parla Cip & Ciop agenti speciali
Cip e Ciop sono amici fin dall’infanzia e riescono a diventare protagonisti di uno show televisivo (che dà il nome al film e che è stato veramente trasmesso fra il 1989-90), ma si dividono inaspettatamente per il desiderio di Ciop di smarcarsi dall’ombra di Cip.
I due dovranno riunirsi molti anni dopo per salvare Monterey Jack, il loro ex-collega della serie.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perché Cip & Ciop agenti speciali non è niente che potreste aspettarvi
Come anticipato, io avevo bollato (ingiustamente) questo film come il solito revival di prodotti del passato per farli apprezzare alle nuove generazioni, come era stato appunto per il recente Tom & Jerry (2021) e altri prodotti simili. E mai come in questo caso ringrazio con tutto il mio cuore il buon passaparola che ho ricevuto.
Cip & Ciop agenti speciali è fondamentalmente un buddy movie nel senso più classico del termine, richiamando anche direttamente uno dei prodotti pionieristici del genere, 48 ore (1982). Due personaggi che partono come antagonisti (in questo caso divisi da un vecchio rancore) e che riusciranno a ricostruire il loro rapporto. Detto così, potrebbe sembrare un film innocuo. Niente di più sbagliato.
In realtà questo film non è minimamente pensato per un pubblico infantile, e forse neanche per un pubblico di ragazzini, ma principalmente per il target dei figli degli Anni Ottanta e Novanta, che conoscono i vari meme di internet e che sono cresciuti con i cartoni animati dell’epoca.
Nessuno pensa ai bambini!
Per quanto non sia detto esplicitamente, in Cip & Ciop agenti speciali si parla di dipendenza dalle droghe, quindi spaccio e traffico di esseri umani. Già questo getta un’ombra sul film, ancora più aggravato da scene non tanto spaventose, ma sottilmente disturbanti.
Oltre a questo, un bambino rischia di annoiarsi: per la maggior parte delle battute sono riferite a meme di internet e a prodotti degli Anni Novanta e Anni Duemila. Il massimo che potrebbe intrattenerlo sarebbe la storia raccontata, ma è impossibile (e per fortuna) che la capisca fino in fondo.
Perché dovreste vedereassolutamente Cip & Ciop agenti speciali
Fatte queste dovute premesse, Cip & Ciop agenti speciali è un film sorprendentemente geniale. La vera trama appunto riguarda temi abbastanza pesanti, cui si aggiunge il tema evergreen, già ben sperimentata in Bojack Horseman, ovvero quella riguardante la crudeltà dello show business hollywoodiano.
Un film profondo e maturo, pur con qualche ingenuità nel riprendere dei topoi molto abusati. Oltre a questo, soprattutto all’inizio, ci sono delle battute assolutamente geniali in riferimento a prodotti ormai entrati nella cultura popolare, in cui la Disney arriva a parodizzare sé stessa (e non solo). Un film gustoso e divertente, che dovreste assolutamente recuperare, soprattutto se fate parte della generazione che è cresciuta con questi personaggi.
Cos’è il genio?
Riuscire a mettere così tanti riferimenti alla cultura pop di un certo periodo non era semplice, ma è Cip & Ciop agenti speciali ci è riuscito alla perfezione.
Per me le battute più geniali sono state sicuramente quelle dell’animazione anni 2000 e soprattutto Ugly Sonic, uno dei casi cinematografici più discussi in tempi recenti. Per non parlare della quantità di riferimenti di prodotti animati, Disney e non.
Riuscire poi ad edulcorare tematiche pesantissime come il traffico di organi e di essere umani, lo sfruttamento di Hollywood e la dipendenza dalle droghe, riuscendo al contempo a contestualizzare tutto perfettamente nel contesto raccontato, non è cosa da tutti. Ma, ancora, questo film ci riesce perfettamente.
Il rapporto fra Cip e Ciop
Ho davvero adorato come il rapporto fra i due non sia affatto appiattito, non limitandosi a raccontare una banalissima dinamica da buddy movie.
Cip e Ciop erano due bambini molto soli e incompresi, in particolare Cip non riusciva ad avere amici e finalmente ha trovato un compagno di vita in Ciop: il suo racconto alla fine sul corpo esanime di Cip è uno schiaffo emotivo.
Un bellissimo racconto di amicizia, di come i rapporti possono essere guastati da una semplice parola non detta, accecati da un senso di inferiorità ingiustificato verso i propri amici, anche più stretti.
La scelta del rilascio in streaming
Il film è stato rilasciato direttamente sulla piattaforma Disney+, senza quindi passare per la sala. In questo caso, potrebbe non essere stata la scelta peggiore: probabilmente altri come me si saranno fermati davanti al titolo, bollandolo come un film per bambini.
Così il pubblico infantile e i genitori si sarebbero fiondati in sala, convinti di vedere un film pensato per loro. E, vista l’eccelsa capacità di rating dell’Italia (vi ricordo The Suicide Squad era classificato come film per tutti), probabilmente avremmo avuto una generazione di bambini traumatizzati per la vita.
Per questo probabilmente avrebbe avuto un pessimo passaparola e sarebbe stato un flop. Invece, rilasciandolo subito in streaming e rendendolo così più accessibile, ha permesso che fosse più facile che i vari influencer (adulti) lo vedessero e creassero un ottimo passaparola. E così è successo.
E non sarà né la prima né l’ultima pellicola che vivrà di migliore salute in streaming piuttosto che in sala.
Cip & Ciop agenti speciali citazioni
Il film conta più di 200 riferimenti a prodotti animati e non (altro che Ready Player One!). Ecco quelli che ho individuato io:
Flounder dalla Sirenetta (1989), Lumiere da La bella e la bestia (1998), Zio Paperone nella versione Ducktales, Paperino, Pumba da Il Re Leone (2018), Winnie The Poo, Rapunzel (2010), Cars (2006), Woody di Toy Story (1995), Paul Rudd, I Simpson,Alvin Superstar (2007), Polar Express(2004), Batman, Rick e Morty, Sonic – Il film (2020), Randy Marsh da South Park, E.T.(1982), Cats (2019), Fast & Furios, Mantis da Kung Fu Panda (2008), Casper (1995), My Little Pony, Peppa Pig.
Qui potete trovare la lista completa dei riferimenti.
Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) è l’ultimo film Marvel uscito la scorsa settimana nelle nostre sale. Il ritorno alla regia di Sam Raimi, conosciuto e amato per la sua trilogia di Spiderman (2002-2007) e de La casa (1981-1992). Un ritorno fra l’altro dopo quasi un decennio di assenza dalla macchina da presa: l’ultimo film da regista è stato Il grande e potente Oz (2013).
Doctor Strange in the multiverse of madness è anche il primo film horror dell’MCU e sicuramente non potevano scegliere un autore migliore per questo compito. E non è sicuramente un caso che la pellicola ha aperto questo weekend con 450 milioni di dollari di incasso.
Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla Doctor Strange in the multiverse of madness
Doctor Strange in the multiverse of madness racconta di America Chavez, giovane ragazza con un potere davvero particolare: aprire i passaggi fra gli universi. Per questo è braccata da un terribile nemico che vuole impossessarsi delle sue abilità. La giovane ragazza chiederà quindi l’aiuto di Doctor Strage, che già aveva avuto contatti con il multiverso in Spiderman no way home (2021).
Questo, raccontato assolutamente senza spoiler.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
È davvero un film di Raimi?
La mano di Raimi si vede, e tanto. Le splendide dissolvenze incrociate, le inquadrature che si immergono negli occhi dei personaggi, la camera che ruota intorno alle scene, fino al taglio splendidamente horror.
Perché si, questo film ha davvero un taglio horror (ovviamente sempre horror per ragazzi, alla Raimi appunto), altro che un certo Moon Knight di mia conoscenza. Con fra l’altro scene di combattimento incredibili e ottimamente dirette, probabilmente le migliori di tutto l’MCU finora.
Vale la pena di vedere Doctor Strange in the multiverse of madness?
Per quanto mi riguarda, assolutamente sì, anche solamente pet la regia di Raimi, diversa dal solito, ma che ben si adatta ai ritmi ed alle tematiche dell’MCU. Di fatto, un buon prodotto supereroistico con una regia di primo livello.
Tuttavia, come ogni prodotto MCU, richiede delle conoscenze pregresse. Oltre ovviamente a Doctor strange (2016), anche Endgame (2019) ed Infinity war (2018). Per le serie, Wandavision è abbastanza importante per comprendere il personaggio di Wanda, Loki per il multiverso, mentre What if…? è accessorio.
Ovviamente se non siete appassionati dell’MCU non è un film che mi sento di consigliarvi, proprio per via dei collegamenti col resto della filmografia. Tuttavia, se siete fan di Raimi, forse potrebbe essere un modo permettere un primo piede dentro la porta di questo universo.
Wanda, una villain inaspettata
Non era del tutto sicuro che Wanda fosse la vera villain principale della pellicola: la logica avrebbe voluto Mordo al suo posto, visto come si era concluso Doctor Strange. Tuttavia, non mi posso lamentare: Wanda è uno dei pochi e buoni villain che l’MCU può contare.
E lo è anche perché abbiamo la possibilità di vedere un antagonista che ha un percorso di crescita e di redenzione. Infatti alla fine Wanda, messa davanti alla realtà, capisce il suo errore e si redime, accettando la distruzione del Darkhold e di sé stessa. Tuttavia secondo me la sua storia non è finita qui, anzi non è del tutto detto che sia veramente morta. La plot armor, quando serve, viene sempre in aiuto.
Al contempo però mi è dispiaciuto che il suo personaggio sia stato un po’ appiattito sulla questione dei figli, visto che questi erano solamente l’ultimo elemento di un dramma che aveva radici più complesse e profonde: nella sua infanzia, nell’origine dei suoi poteri e nel rapporto con Visione. Ma per questo, appunto, è richiesta la visione di Wandavision.
La necessità di Wandavision
Doctor Strange in the multiverse of madness è forse il primo caso nell’MCU dove davvero la necessità di vedere le serie tv collegate è abbastanza opprimente. Infatti, come anticipato, vedere Wandavision è abbastanza essenziale per capire veramente la profondità del personaggio di Wanda, che altrimenti potrebbe apparire forzata e quasi macchiettistica.
Invece, avendo bene in mente la sua storia e soprattutto la sua storia nella serie, si riesce ad entrare profondamente a contatto col personaggio e col suo dramma personale.
Orrore e frenesia
Doctor Strange in the multiverse of madness ha due elementi portanti: il taglio horror e la frenesia della narrazione (che non sempre va a suo vantaggio). Veniamo infatti fin da subito portati in medias res della vicenda e la trama non si prende praticamente mai un attimo di pausa, ma procede a grandi falcate e con un ritmo davvero frenetico, forse anche troppo.
Per quanto forse non sia nello stile di Raimi, non sarebbe guastato aggiungere del minutaggio, se questo avesse significato portare più elementi di introduzione e di conclusione, oltre che qualche maggiore approfondimento. Invece è una continua corsa, a tratti sfiancante.
Per il taglio horror invece niente da aggiungere: oltre a quanto già detto, splendida la citazione a The Ring (2001) quando Wanda esce dallo specchio a Kamar-Taj e da capogiro tutta la sequenza dell’insegnamento sotto al Baxter Building. Per non parlare dello splendido body horror costante. Non proprio un film per tutte le età, insomma.
America Chavez e il problema delle soluzioni fuori dal cappello
America Chavez è uno degli elementi più deboli della pellicola: il personaggio manca di un’introduzione interessante e che ci faccia affezionare, nonché di un arco narrativo convincente. Di fatto il suo percorso è esplorato pochissimo e la conclusione assolutamente improvvisa e poco credibile. Ho avuto davvero la sensazione di essermi saltata una serie o un film.
Il generale, America Chavez è uno degli elementi di Doctor Strange in the multiverse of madness che sono pensati più per essere funzionali alla trama che per essere veramente importanti per la stessa. Di fatto il suo personaggio serve per dare modo a Wanda di dare sfogo alla sua ossessione, come poteva esserlo qualunque elemento introdotto per l’occasione.
Allo stesso modo il Darkhold e il Libro dei Vishanti: problemi creati per essere risolti in maniera semplice e funzionale all’interno della trama. In particolare il Libro dei Vishanti sembra proprio una soluzione tirata fuori dal cappello, che poi si rivela non essere neanche l’elemento risolutivo della vicenda: un MacGuffin da manuale.
Il fan service dosato (e come potrebbe non piacere)
Un ottimo aspetto di questo film è la mancanza di elementi di fan service troppo ingombranti. Anzitutto John Krasinski come Mr Fantastic, ruolo richiesto dal fandom e dall’attore stesso da moltissimo tempo. Poi Patrick Stewart come il Dottor Xavier, ucciso da Wanda e secondo me anche il modo in cui la Marvel dice totalmente addio agli X-men dellaFOX. E, infine, Captain Carter da What if…?
Insomma, un fan service ben dosato, che però potrebbe essere dannoso per la pellicola. Infatti ho sentito della vibes non del tutto positive circa il gradimento del pubblico e ho idea che potrebbe essere dovuto anche a questo elemento.
Io per prima mi aspettavo molti più camei e molto più fan service, e forse altri si aspettavano uno Spiderman No Way Home seconda parte. Ed effettivamente non ti fa saltare sulla sedia allo stesso modo. Ma forse è meglio così.
La morale Doctor Strange in the multiverse of madness
Un altro elemento che ho particolarmente apprezzato di questo film è la morale: l’importanza di accontentarsi. La vita che abbiamo potrebbe non essere la migliore che potremmo mai avere, ma è quella che abbiamo e da cui dobbiamo cercare di trarre il meglio, nonostante le avversità.
Quindi Doctor Strange accetta di non essere lo Stregone Supremo e che lo sia invece Wong, inchinandosi infine davanti a lui e riconoscendo così la sua carica. Così accetta che Christine non potrà essere la sua compagna. E infine Wanda accetta che non potrà mai avere i suoi figli, perché questo significherebbe distruggere la loro vita in un altro universo e così quella di un’altra se stessa, oltre a dover uccidere America. In questo caso il peso della colpa e della vergogna la porta ad suicidarsi per il bene comune.
Ma, appunto, non è detta per forza l’ultima parola su questo personaggio.
The Northman (2022) è l’ultima pellicola diretta da Robert Eggers, cineasta attivo solo da pochi anni, ma che ha già lasciato un’impronta importantissima nel mondo del cinema. Infatti le sue due prime pellicole, The Witch (2015) e The Lighthouse (2021), sono dei piccoli capolavori.
The Northman è il primo prodotto ad alto budget in cui Eggers viene coinvolto, riuscendo comunque a mantenere la sua inconfondibile forma autoriale. Tuttavia, essersi aperto al cinema mainstream potrebbe non essere la scelta migliore per questo regista.
Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla The Northman
La trama prende ispirazione dall’Amleto di Shakespeare ed è ambientata nell’Europa del Nord del X sec. a. C. Il giovane Amleth è il primogenito ed erede al trono della dinastia del padre, il Re Corvo. Il genitore viene tuttavia ucciso davanti ai suoi occhi da un terribile tradimento, costringendo il giovane alla fuga, ma giurando vendetta.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
C’è un po’ di Eggers in questo film
Io sono una grande fan di Eggers: ho apprezzato il suo The Witch per la freschezza che ha portato al genere, e mi ha incantato con la sua follia in The Lighthouse. Quindi le mie aspettative erano ovviamente altissime.
E, nel complesso, non posso dire che siano state deluse. Come anticipato, la firma di Eggers si sente: splendide sequenze oniriche, sempre al limite del fantastico e del delirio, l’elemento magico ben contestualizzato soprattutto nella figura dell’animale simbolo sempre presente nelle sue pellicole, personaggi potenti e monumentali.
Tuttavia, questa pellicola non è Eggers fino in fondo, e i problemi produttivi sono esplicativi in questo senso: il montaggio è derivato da un compromesso fra la produzione e il regista. Quindi se da una parte abbiamo un film comunque complesso, costruito con grande cura, con una ricerca storica precisa e lucida, dall’altra abbiamo il tentativo di rendere un prodotto più digeribile per il grande pubblico.
Quindi, come The Lighthouse mi era sembrato il punto di arrivo di una carriera già fulminante di un cineasta di altissimo livello, The Northman mi è parsa in parte una soluzione di compromesso. Insomma, una pellicola che, se Eggers fosse stato lasciato a briglie sciolte, mi sarebbe piaciuta probabilmente di più.
Ma non per questo mi sento di bocciarlo, tutt’altro.
Il cast delle grandi occasioni
All’interno di una trama con uno scheletro narrativo complessivamente semplice, il protagonista è invece complessoe tridimensionale. Interpretato dall’ottimo Alexander Skarsgård, che è anche produttore e ideatore del film, Amleth è un personaggio profondamente tormentato, violento e ossessionato, oltre che estremamente fallibile. Quindi tutt’altro che un eroe di un’epopea in senso classico, ma un uomo guidato ed accecato da una profonda e terribile vendetta.
Oltre a questo, Eggers ha avuto come sempre a disposizione un cast di altissimo livello: anzitutto Anya Taylor Joy, attrice praticamente scoperta da questo regista, conosciuta soprattutto per la serie tv La regina degli scacchi, ma che ha dato prova di grandi capacità anche in prodotti più di nicchia come appunto The Witch e il più recente Emma (2020). Inoltre, un’ottima prova attoriale di Nicole Kidman: nonostante la difficoltà dell’espressività del volto dovuta alla pesante chirurgia plastica cui si è sottoposta (per sua stessa ammissione), è stata premiata da una regia indovinata, che le è stata cucita addosso per esaltare al meglio le sue capacità recitative. E infine l’inarrestabile Ethan Hawk, che appare per poco ma che è ancora in splendida forma (per quanto mi avesse fatto perdere le speranze nel recente Moonknight).
Un cast delle grandi occasioni, appunto.
The Northman fa per me?
C’è solo un prodotto a cui mi sento di paragonare The Northman, ovvero la serie Sky nostrana Romolus, creata dall’ottimo Matteo Rovere. Quindi se vi è piaciuta quella serie, guardate The Northman.
Nello specifico, se apprezzate le saghe epiche, con una contestualizzazione storica praticamente perfetta, un ritmo incalzante, in un contesto assolutamente brutale e violento, può fare certamente per voi. Tuttavia, se siete fan puristi di Eggers come me, ridimensionate le aspettative.
Rimandare la vendetta
Una delle cose che mi hanno poco convinto della pellicola è stato l’andamento del piano di Amleth: si ha la sensazione che il protagonista continui ad annunciare la sua vendetta, ma si prenda tantissimo tempo prima di metterla in atto.
Allo stesso modo, ho trovato quasi estenuante questo continuo rimando dello scontro finale, come se dovesse essere per forza costruito a tavolino. Capisco che Amleth volesse seguire la sua profezia, ma sembra quasi doverla forzare perché si avveri: ne è un esempio chiarissimo il fatto che debba darsi un appuntamento sul vulcano per il maledetto duello con Fjölnir, come prescritto dalla predizione, e questo non possa avvenire quando i due si trovano faccia a faccia, con ai piedi i cadaveri dei loro congiunti. Ma è l’unico problema effettivo che mi sento di segnalare, dovuto fra l’altro, a mio parere, al compromesso di montaggio di cui sopra.
Personaggi femminili vincenti
Una delle cose che riesco meno a sopportare, più dei personaggi femminili stile Mary Sue, sono i personaggi femminili forzati in situazioni dove appaiono totalmente fuori luogo. Uno degli esempi che per primo mi viene alla mente è quello della bambina protagonista di Dumbo (2019): povera in canna, realisticamente analfabeta, anacronisticamente interessata alla scienza, con un personaggio falsamente al passo coi tempi.
Invece la bellezza di questo film è anche di non aver neanche pensato a provare ad introdurre personaggi femminili irrealistici, magari donne guerriere fuori dal tempo. Invece si è deciso di sfruttare quello che si aveva disposizione nella realtà storica rappresentata, forti anche di una solida ricerca al riguardo: anzitutto Olga, ridotta schiava, legata al mondo della magia e dell’esoterismo, che si rifiuta violentemente di sottomettersi alla sua condizione e che aiuta il protagonista ad attuare il suo piano.
Ma soprattutto nota di merito per il personaggio di Nicole Kidman, Gudrún: invece di essere ridotta al ruolo di madre e moglie fedele, è una donna che ha ritrovato una vita felice alle spalle di un marito che l’aveva forzata ad una gravidanza e ad un matrimonio che non la rendeva felice. Un personaggio femminile che non ha paura di essere violento persino verso il figlio e di rivoltare la situazione del tradimento fratricida a suo vantaggio. Una donna terribile, certo, ma non ingabbiata in uno stereotipo pesante e datato. E, per questo, decisamente più interessante di quanto mi sarei aspettata.
Questo articolo è stato scritto a quattro mani da me e dal mio collaboratore, che mi ha dato un prezioso supporto.
Animali fantastici: I segreti di Silente (2022) è il terzo capitolo del franchise Animali fantastici, spin-off e prequel della saga di Harry Potter. La pellicola è diretta da David Yates, che si occupò della regia della saga principale a partire da Harry Potter e l’ordine della fenice, ed è stata scritta da J.K. Rowling, autrice della saga, e da Steve Kloves, che ha partecipato alla scrittura di tutti i film del franchise.
Il film arriva dopo quattro anni dal secondo capitolo, Animali Fantastici – I crimini di Grindelwald (2018), per via dello scarso successo economico e del riscontro del pubblico: 654 milioni di incasso contro un budget di 200 milioni. Non un disastro, ma comunque l’incasso più basso dell’intera produzione di Harry Potter.
Quindi questa era l’ultima chance per la saga, destinata altrimenti a chiudersi con questo film. Animali fantastici: I segreti di Silente è davvero l’ultimo chiodo della bara di Animali Fantastici?
Di cosa parla Animali fantastici – I segreti di Silente
Ambientato un anno dopo lo scorso capitolo, Animali fantastici: I segreti di Silente racconta del tentativo disperato di Silente, interpretato da Jude Law, di contrastare l’ascesa del mago oscuro Grindewald, ora interpretato da Mads Mikkelsen, che vuole scatenare una guerra contro i babbani per ristabilire il potere dei maghi, in particolare dei maghi purosangue. Per questo metterà insieme una squadra composta fra gli altri da Newt Scamander, interpretato da Eddie Redmayne, magizoologo autore del libro che dà il nome al franchise, Animali fantastici e dove trovarli.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Una produzione travagliata
Come nella migliore saga maledetta, la produzione di questo film è stata incredibilmente travagliata. E stranamente il covid non è stato neanche il problema più importante: lo scandalo maggiore ha coinvolto Johnny Depp, che ha interpretato Gellert Grindelwald fino al secondo film. L’attore infatti, dopo essere stato coinvolto in un ancora non chiarito caso di violenza domesticacon la moglie, ha fatto causa alla rivista britannica Sun, che l’aveva chiamato wife-beater (lett. picchiatore di moglie), perdendo. Per questo, la Warner Bros ha licenziato l’attore, per paura di paura di farsi cattiva pubblicità.
La parte di Grindelwald è stata quindi assegnata Mads Mikkelsen, attore noto al grande pubblico soprattutto per la serie Hannibal, ma che ha anche recitato nel recente ed acclamato Un altro giro (2020).
E non è finita qui.
Questo film non s’ha da fare
Oltre al caso sopra, le riprese sono state ovviamente bloccata dalle pandemia, anche se il film era già stato fin da prima rimandato di un anno, proprio per lavorarci maggiormente dopo l’insuccesso del secondo capitolo. Sia l’attrice Tina, Katherine Waterston, sia l’attrice di Nagini nel secondo film, Claudia Kim, non hanno partecipato al film o vi hanno partecipato pochissimo. L’una per una grave forma di Covid, durata diversi mesi, l’altra per uno stato di gravidanza avanzato.
Oltre a questo, Ezra Miller, che nel film interpreta Aurelius Silente, è stato recentemente arrestato per aggressione, e ha ricevuto un ordine restrittivo nei confronti della coppia che lo ospitava in quel periodo. Questo non ha influito sulla produzione del film, ma potrebbe farlo in futuro.
Dov’è la magia?
L’errore più grande di questa saga in generale, e in questo caso è particolarmente evidente, è stato far ritornare David Yates alla regia. Questo regista ha la capacità di spegnere ogni possibile magia, rendendo tutto inutilmente dark (anche nel senso letterale del termine) e, soprattutto, vestendo tutti i personaggi non solo come babbani, ma in maniera assolutamente poco originale.
Il caso più ridicolo è ovviamente Grindelwald, che a me non ha trasmesso assolutamente nulla: nonostante l’indubbia abilità dell’attore, il suo personaggio non è per nulla credibile. E per fare un cattivo credibile almeno per l’aspetto non ci vuole tanto: bastava semplicemente vestirlo da mago. Oppure mantenere l’estetica di Johnny Depp nel secondo film.
Oltre a questo, fateci caso: i personaggi del film non usano le bacchette come bacchette magiche, ma come pistole. Le puntano alle spalle per minacciare, non le usano praticamente mai per fare qualcosa di veramente magico e sono presenti anche sequenze a rallenty, in cui le magie lanciate sembrano dei proiettili,
Di fatto, Animali fantastici: I segreti di Silente sembra più un gangster movie che un film di Harry Potter.
Qualcosa di buono
In Animali fantastici: I segreti di Silente qualcosa di buono c’è: anzitutto, non è un film (almeno per me) noioso. Nonostante mi sentissi costantemente confusa, non mi sono mai annoiata. Talvolta le creature magiche tornano anche protagoniste della scena, anche se riciclando qualche gag già stantia.
Newt Scamander è obbiettivamente l’unico personaggio veramente credibile del film, che riesce a mantenersi coerente fin dal primo capitolo e ci regala anche qualche sorriso durante un film invece nel complesso abbastanza pesante.
Da qui farò spoiler.
Una sceneggiatura segreta
Come anticipato, la pellicola è stata realizzata da nomi importanti per il mondo di Harry Potter, che dovrebbero conoscere la saga come le loro tasche. Invece, oltre a fare degli errori palesi (come spiegherò più avanti), hanno ideato una trama che è un vero colabrodo.
All’inizio del film viene rivelato che Grindelwald è in grado di prevedere il futuro. Quindi, per confonderlo e impedirgli di scoprire quello che realmente stanno progettando, Silente affida ad ogni personaggio una missione differente, ma nessuno di loro è al corrente di quale sia il vero piano.
Ne risulta un susseguirsi di eventi completamente slegati fra loro e senza un particolare senso logico. Purtroppo, coerentemente con il titolo del film, sembra che Silente faccia del suo meglio per confondere non solo Grindelwald, ma anche lo spettatore: anche dopo aver finito il film, non risulta chiaro quale fosse il piano.
È come se gli sceneggiatori si fossero trovati davanti due strade: scrivere una trama coerente (cosa che richiede un certo livello di impegno e abilità), oppure fregarsene e scrivere una storia incoerente e giustificarla con un espediente narrativo. E hanno scelto la seconda.
I personaggi insulsi
Oltre a Grindelwald, su cui mi sono già espressa, praticamente tutti i personaggi sembrano in cerca di una direzione. Nel film Silente attua uno stratagemma per ingannare Grindelwald, creando cinque valigie uguali e consegnandone una a ciascuno dei protagonisti, ma solo una di queste contiene il prezioso qilin. Questa scena potrebbe costituire un’efficace rappresentazione della produzione del film: pare quasi che siano state scritte cinque sceneggiature diverse che sono state poi chiuse in buste tutte uguali e distribuite a caso agli attori, senza che nessuno sapesse quale fosse quella vera.
Partiamo dalla professoressa Eulalie Hicks, il cui impiego secondario è probabilmente la sceneggiatrice di Netflix; ha il ruolo di fornire a Jacob il riassunto delle puntate precedenti, e successivamente quello di essere una presenza sostanzialmente inutile e fastidiosa. Inoltre, l’unica cosa che poteva essere interessante, ovvero il fatto che fosse una professoressa di una scuola del Sud America, non è minimamente esplorato, né menzionato esplicitamente.
L‘unico compito di Jacob è quello di rimettersi con Queenie. Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non fosse che la loro relazione è davvero superficiale, oltre che esageratamente melensa. Queenie non sembra in principio convinta della sua scelta, poi sente obbligata, Jacob continua a inseguirla per parlarle, e alla fine si sposano. Nel complesso, noioso e poco interessante.
Per non parlare dell’indimenticabile personaggio di Yusuf, fratello dell’ancora più indimenticabile (nonché defunta) Leta Lestrange, il cui arco narrativo risulta, se possibile, ancora meno avvincente. Finge di allearsi con Grindelwald, ed ovviamente alla fine si scopre che era sempre stato dalla parte del bene. Personaggio che è apparso per pochissimo, ha detto due battute, e non ha avuto quasi alcuna influenza sugli eventi: perché dovremmo restare col fiato sospeso per la sua scelta?
Albus Silente?
Per quanto Jude Law possa essere un bravo attore, a me il suo Silente non convince per nulla. Questo è più una questione soggettiva che una critica oggettiva al film: sarà anche il fatto che non è vestito per nulla da mago, sarà che non vedo in lui la figura saggia ed enigmatica che dovrebbe diventare di lì a non molti anni, ma quando vedo Jude Law non riesco mai a pensare a Silente.
E, essendo uno dei personaggi più importanti non solo della saga, ma anche di questa storia, è veramente un dispiacere.
Il problema di Aurelius Silente
Una delle problematiche principali, che era sorta fin dal secondo capitolo, era la vera identità di Credence Barebone, alias Aurelius Silente. Si è discusso per anni della possibilità che fosse una frottola di Grindelwald, che ci potessero essere diverse spiegazioni, alcune anche piuttosto articolate come l’ipotesi che l’Obscuriale che lo possedeva fosse in realtà quello di Ariana Silente.
Tuttavia, alla fine, hanno optato per quella che sembra una pezza. Io non so se fosse che avevano in mente tutt’altri piani, forse troppo complicati, come traspariva effettivamente dal secondo film. Sta di fatto che la storiella di Aberforth è poco credibile e buttata lì.
Non ci viene detto nulla sulla madre, su come Aurelius sia effettivamente diventato orfano, nulla. Rimane una questione poco chiara e mal spiegata. Oltre al fatto che appare stranissimo che una questione così importante non sia mai stata citata prima nella saga principale. Ma tant’è.
Il voto infrangibile
Lasciando da parte le ovvie battute sul fatto che se il voto si chiama infrangibile dovrebbe essere tale, personalmente non mi è piaciuta la gestione di questo tema. Di fatto quello che propone il film non è logicamente sbagliato, ma l’ho trovato comunque poco chiaro. Non si capisce bene se il voto si infrange perché i due contendenti avevano intenzioni diverse (uno di protezione, l’altro di attacco), e quindi si ritornerebbe all’abusatissimo tema dell’amore protettivo, oppure se entrambi non volessero più far parte di questo patto e per questo si sia infranto.
L’ultima opzione, che sarebbe quella migliore, non avrebbe comunque senso perché il voto infrangibile dovrebbe proprio fungere da protezione in caso le parti volessero scioglierlo, ma in realtà mancano abbastanza informazioni in merito per avere una risposta chiara.
Una progetto fallimentare in partenza
Possiamo dire, senza troppo timore di essere smentiti, che Animali Fantastici era probabilmente un progetto fallito in partenza. Il primo film, nonostante non fosse piaciuto a tutti, era a mio parere gradevole: si percepiva la magia e, giustamente, il focus principale erano appunto gli animali fantastici, e solo secondariamente la trama politica.
Dal secondo film il focus principale è la storia di Grindewald e Silente, andando in parte a snaturare il progetto stesso. Si sarebbero potuti fare dei bei film su Newt che cercava animali fantastici, magari insieme a Jacob, e veniva occasionalmente richiamato per aiutare Silente. E chissà se avrebbero avuto successo.
Il citazionismo disperato
Altro problema del progetto, che si vede già dal secondo film, è la mancanza di esplorazione ulteriore del mondo magico. Nel primo quantomeno veniva approfondita la realtà magica americana, diversa da quella britannica anche solo per i nomi. Dal secondo capitolo in poi, questa idea si perde totalmente: a parte alcuni dettagli che ci fanno capire di essere prima a Parigi, poi a Berlino, l’ambientazione non ha alcun valore.
Sembrava che si sarebbe dovuto esplorare di più il mondo magico anche delle altre scuole di magia, solo accennate nella saga, e invece si è preferito il citazionismo esasperato. Oltre alla breve sequenza ad Hogwarts, in cui rivediamo tutti gli elementi iconici della saga, fra cui il boccino d’oro, il Quidditch e la Stanza delle Necessità, il film è pieno di citazioni veramente ingenue. La più terribile a mio parere è quella nel dialogo fra Aberforth e Aurelius, in cui Aberforth dice Sempre, una delle battute più iconiche e abusate dell’intera saga.
Dimentichiamoci di Harry Potter
In ultimo, nonostante le persone coinvolte nella scrittura, chi ha prodotto Animali fantastici: I segreti di Silente sembra non avere ben chiaro quello di cui sta scrivendo. Ed è veramente paradossale. Fra le varie cose, mi ha fatto veramente ridere vedere che all’inizio, quando la professoressa Eulalie Hicks si smaterializza insieme a Jacob, prima dicono che stanno usando una passaporta, poi i due appaiono a distanza di qualche minuto, l’uno smaterializzato, l’altra che sembra apparire dal fuoco magico del camino, ovvero tramite la Metropolvere (quella che si vede in Harry Potter e la camera dei segreti per capirci).
Tutto questo ignorando sempre il fatto che i maghi facciano spesso magie senza paura di farsi vedere dai babbani, questione che è sempre stata importante per la saga.
Insomma, Animali fantastici: dove trovarli? Nei titoli di coda.
C’mon C’mon (2021) è l’ultimo film di Mike Mills, autore fondamentalmente sconosciuto ai più, ma che ha avuto la grande fortuna di mettersi sotto l’egida della A24 e di poter dirigere Joaquin Phoenix.
La A24 è un’ambiziosa casa di produzione statunitense, che può vantare di aver prodotto pellicole di alto valore, come tutti i film di Robert Eggersfinora, fra cui quello che uscirà settimana prossima, The Northman (2022), nonché Macbeth(2021) di Joel Coen. E giusto proprio per dire due nomi di nessuna importanza.
Non a caso C’mon C’mon è un’opera a tratti sperimentale, certamente originale e con un comparto tecnico di alta qualità.
Di cosa parla C’mon C’mon
La vicenda ruota intorno a Johnny, interpretato da Joaquin Phoenix, un giornalista che gira le principali città degli Stati Uniti per intervistare giovani ragazzi sul loro futuro. Johnny riceve, dopo un anno che non si parlavano, una chiamata dalla sorella, Viv.
Questa deve partire per andare ad assistere l’ex-marito, e per questo deve lasciare a casa il figlio, Jesse. Johnny si offre quindi di stare con Jesse finché la sorella non farà ritorno. Con questa esperienza Johnny non solo riprenderà contatto con il nipote, ma ripenserà anche al suo passato e al suo rapporto con la sorella.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Perché vedere C’mon C’mon
Diversamente da quello che si potrebbe pensare dalla sinossi, C’mon C’mon non è un film né eccessivamente drammatico né particolarmente impegnativo. È invece molto intimo e toccante, e accompagna lo spettatore passo passo in una storia piccola, neanche troppo fuori dal comune, ma che ti entra nel cuore.
La regia è degna di nota: rinchiude i personaggi, con inquadrature rese ad arte e margini ristretti, in spazi piccoli e familiari. Poi li libera in spazi ampi e ariosi, con campi lunghi e lunghissimi, che abbracciano panorami urbani immensi.
Oltre ad una recitazione molto spontanea, con un Joaquin Phoenix sempre in formissima, lascia a bocca aperta la stella nascente di Woody Norman, che interpreta Jesse, che ci regala una recitazione di altissimo livello. Inoltre nel film le interviste sono a persone reali intervistate dallo stesso Phoenix, che danno ancora un tocco di autenticità a tutta la storia.
Insomma, da non perdere.
Perché non guardare questo film
Per quanto trovi che sia un film abbastanza accessibile e apprezzabile alla maggior parte del pubblico, ci sono motivi molto validi per cui potrebbe non piacervi. Anzitutto, se vi annoiano i film del genere familiare o, ancora più specificamente, quello con i rapporti fra un adulto ed un bambino, lasciate perdere. Se preferite film movimentati, con tanti colpi di scena o momenti di impatto, non è il film che fa per voi.
Insomma, per me un film assolutamente valido, ma sta a voi.
Cosa mi è piaciuto
Joaquin Phoenix. E potremmo anche chiuderla qui.
Sono sempre stregata dalla capacità di questo attore di interpretare ruoli sempre diversi e sempre convincenti (come avevo raccontato altrove). Come era stato abilissimo ad interpretare un personaggio disturbato e violento in Joker (2019), qui riprende una recitazione più intima come in Her (2015). È uno di quegli splendidi casi in cui sembra che un attore non stia interpretando una parte: Phoenix e Norman potrebbero star costruendo un bellissimo rapporto nella vita vera per quanto mi riguarda.
E parliamo di Jesse.
Un bambino, un ruolo
Di solito odio i bambini impertinenti nei film, però in questo caso la sua presenza è assolutamente funzionale alla trama, in quanto permette di fare le domande per lo spettatore. Molto delicato rappresentare un bambino non neurotipico senza dire mai esplicitamente di quale situazione si stia parlando.
Tuttavia riesce a raccontare con grande efficacia la difficoltà e i dubbi che giustamente sorgono ai genitori o agli adulti che si trovano in certe situazioni. Ma, ancora più importante, evita di rivestire la narrazione di un patetismo tipico di questo tipo di narrazioni.
Jesse è rumoroso, iperattivo, quasi estenuante in certe scene. Woody Norman è stata davvero una sorpresa: dovrei vederlo in un’intervista per capire quanto stesse recitando e quanto fosse un comportamento spontaneo, perché la sua recitazione è talmente naturale e credibile che davvero mi veniva da pensare che si fosse trovato per caso sul set. Spero che non sia una di quelle meteore di Hollywood, ma che faccia strada.
Raccontare una storia
Il modo in cui la storia è stata raccontata mi ha davvero coinvolto: quei flashback senza audio, quelle scene che sembra di guardare dal buco della serratura, sprazzi di realtà e di passato che ci vengono mostrati poco a poco, con di sottofondo la voce narrante dei personaggi.
Mi ha davvero colpito anche l’utilizzo delle favole o del punto di vista di Jesse per raccontare il passato, anche con questioni emotivamente pesanti come la condizione del padre.
Tuttavia, non sono andata fino in fondo.
Perché C’mon C’mon non mi ha preso fino in fondo
Metto le mani avanti: sono ingenuamente una grande fan di quel sottogenere dei buddy movie che costruiscono il rapporto fra un adulto e una persona più giovane, di cui il perfetto esempio è sicuramente Il Grinta (2016) dei Fratelli Coen, film che ho amato per quello e per altri motivi.
Tuttavia, visto che sono ormai avvezza ai trigger emotivi dei prodotti audiovisivi, mi sono resa conto che nelle scene in cui avrei dovuto versare copiose lacrime per il comportamento di Jesse, in particolare quando non mostra di voler vedere la madre, non ero coinvolta. Nel complesso mi sono sentita più toccata dalla esasperazione degli adulti per Jesse che per l’ingenuità e la frustrazione di Jesse stesso.
Forse è una conseguenza di voler rappresentare un bambino così tanto realistico.
Spencer è l’ultima opera di Pablo Larraín, cineasta cileno che si era già fatto notare nel cinema occidentale per Jackie (2016). In questo caso la pellicola racconta di Diana, la Principessa Triste.
Una pellicola che mi ha convinto appieno, con un comparto tecnico di primo livello e un taglio narrativo che mi ha sorpreso.
Poi c’è Kristen Stewart.
E quello è tutto un altro discorso.
Di cosa parla Spencer
Per chi seguisse The Crown, la storia prende temporalmente le mosse dal finale della quarta stagione, ovvero la famosa cena di Natale del 1991. Spencer ci porta in medias res, quando i rapporti fra Diana e Carlo sono già tesi, anche per via della relazione, ormai nota a tutti, fra il primogenito di Elisabetta e Camilla.
La narrazione si svolge nei tre giorni passati da Lady Diana durante le vacanze invernali nella tenuta della regina a Sandringham, con la famiglia reale al completo.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Perché Spencer funziona
Il film non ha alcuna pretesa di realismo in senso stretto, quindi non aspettatevi qualcosa come The Crown appunto (anche se anche la serie stessa inventa a sua volta). Il taglio della pellicola è molto intimo e favolistico, con elementi pseudo-magici, anche se ben contestualizzati.
La narrazione ruota praticamente tutta attorno alla figura di Diana e al suo dramma personale, tanto che non arriva a parlare con altri personaggi della famiglia prima di quasi metà del film. Durante la maggior parte del tempo viene accentuata la sofferenza della sua solitudine, del suo essere lasciata da parte, con grandi inquadrature profondamente vuote.
Un casting azzeccato
In particolare la sua diversità viene raccontata dai colori: nella maggior parte dei casi Diana indossa colori brillanti e carichi, che emergono dal grigiume delle tinte desaturate degli altri personaggi in scena.
Differentemente da The Crown, tuttavia, i membri della famiglia reale non sono rappresentati come persone deprecabili, ma semplicemente come freddi e distanti, ingabbiati in un rigido protocollo a cui Diana non riesce ad adeguarsi. Le scelte di casting in questo senso sono azzeccatissime: attori che già di per sé hanno dei volti taglienti e aristocratici, in particolare la Regina Elisabetta e il Principe Carlo.
Nota di merito anche a Timothy Spall, ottimo caratterista noto al grande pubblico per aver interpretato il personaggio di Codaliscia, il tirapiedi di Voldemort, nella saga di Harry Potter. In questo caso interpreta il maggiordomo Alistar Gregory, agli occhi di Diana estensione della rigidità delle regole della famiglia reale.
Poi c’è Kristen Stewart.
Il mio problema con Kristen Stewart
Partiamo dal presupposto che mi sono approcciata a questa pellicola con la stessa tranquillità del suocero di Giacomo in Tre uomini e una gamba (1997), quando lo aspetta all’entrata della casa col fucile in mano.
Io sono personalmente piuttosto scettica nei riguardi delle capacità recitative di Kristen Stewart. Dopo Twilight, a differenza di Robert Pattinson, non è mai riuscita a decollare. Ha preso pure parte a pellicole di importanti autori, come Café society (2016), dimenticabilissima pellicola di Woody Allen dove ha dato una dimenticabilissima interpretazione. Ma, a differenza di Gal Gadot, che nonostante tutte si impegna, ma almeno non viene esaltata, Kristen Stewart ha pure una schiera di sostenitori che rivendicano la sua capacità recitativa contro ogni evidenza.
Scomparire nel personaggio
Per comprendere il livello della recitazione di Kristen Stewart in questa pellicola bisogna pensare dell’annosa questione degli attori che interpretano se stessi: i casi più celebri sono Will Smith e Dwayne Johnson. In molte pellicole dove sono coinvolti questi non devono fare lo sforzo di entrare nei personaggi, perché i personaggi sono loro.
Non voglio dire che Kristen Stewart faccia parte di questo gruppo (anche perché non ha il carisma necessario), ma risulta evidente il motivo per cui Pablo Larraín l’abbia scelta. Il regista cileno voleva appunto raccontare la storia dellaprincipessa triste. E chi meglio di Kristen Stewart, la cui espressione naturale del viso è un misto di disperazione e confusione?
Tuttavia appunto la capacità di un buon attore è quello di riuscire a scomparire dietro al personaggio che interpreta. I più talentuosi sono ovviamente capaci di destreggiarsi nei ruoli più diversi, come l’ottimo Joaquin Phoenix, capace di raccontare un ingenuo solitario in Her (2013) e uno squilibrato delirante in Joker (2019).
Do nuovo, questo non è il caso di Kristen Stewart.
In Spencer funziona?
Nel complesso, mentirei se vi dicessi che Kristen Stewart in Spencer è stata pessima. Come spiegherò meglio nella parte spoiler, riesce ad essere complessivamente convincente nelle parti in cui deve essere genericamente triste, ma semplicemente perché questo non le richiede un grande sforzo interpretativo: quella è semplicemente la sua espressione normale.
Stesso potrei direi per la recitazione corporea, impacciata e rigida, che non è tanto diversa del suo normale portamento. Tuttavia quando deve cimentarsi in espressioni più complesse, quando deve piangere o essere in qualche modo spiritosa (per fortuna non succede spesso) non è per nulla convincente.
Io avrei preferito senza dubbio che fosse stata scelta un’altra attrice, possibilmente inglese (la differenza fra l’accento reale degli attori britannici e il suo affettato si sente) e che avesse una potenza espressiva ben più convincente.
Per me in definitiva Kristen Stewart non ha veramente nulla a che vedere con l’ottima Emma Corrin in The Crown, che riusciva perfettamente a modulare la sua recitazione per una perfetta Diana.
Spencer fa per me?
Se siete già fan di The Crown come me, molto probabilmente sì, anche se, come spiegato, la pellicola ha un taglio un po’ diverso. Non aspettatevi una pellicola scandalistica (come in parte immaginavo) che copra i principali momenti della seconda parte della vita di Diana e del suo rapporto con Carlo. Aspettatevi piuttosto una pellicola molto intima e profonda, con una messinscena ottima e una fotografia che lo fa sembrare un film veramente risalente agli anni in cui è ambientato.
Non un film perfetto, ma sicuramente da vedere.
Due parole in più con spoiler
Fin dall’inizio ci viene mostrata la freddezza della situazione contro la spensieratezza di Diana: da una parte rigidi militari che trasportano il cibo per famiglia reale, con pure regole severissime da seguire per i cuochi. E dall’altra parte opposta Diana, che si perde, che sogna la sua infanzia, che vuole ritornarci.
Tutto il film non è infatti altro che il racconto di come Lady D riesca a riappropriarsi della propria identità, quindi del suo cognome, che ha ovviamente perso con il matrimonio con Carlo. Non a caso, appunto, il film sia chiama Spencer e non Diana. Nel contesto storico, il film racconta la scelta di Diana divorziare da Carlo.
La solitudine
La solitudine di Diana è potente per tutta la pellicola: come detto, la vediamo conversare con un membro della famiglia reale solamente dopo 50 minuti di film. Per il resto del tempo è isolata, sola nella sua stanza, al massimo conversa coi domestici, che sono i suoi principali interlocutori.
La casa sembra una prigione: è opprimente, tutti i personaggi intorno a lei sono distanti e freddi, la rimproverano, la umiliano, la forzano. Lei è davvero ingenua, disperata e, molto spesso, delirante.
La malattia
Uno dei temi principali è la malattia di Diana: la vediamo in una sola scena mangiare effettivamente, il resto del tempo vomita o scappa dai pasti imposti dalla famiglia. O, peggio, si ingozza di nascosto. E Kristen Stewart ha proprio quel volto emaciato e magrolino che la rende molto credibile.
Eppure il tema del cibo è sempre presente: Diana è sempre richiamata ai pasti, le scene dei cuochi sono molte, e continuano costantemente a parlare del prossimo pasto da cucinare.
L’unica scena in cui mangia è veramente potente: Diana cerca di strapparsi quella collana, quasi una catena al collo, e ingioia sofferente la zuppa, che noi spettatori vediamo piena di perle, che sono come sassi di cui si ingozza.
L’unica scena che non mi è davvero piaciuta è il montaggio quando nella sua casa natale e sta per cadere dalle scale, una sorta di flusso di pensieri. Oltre a non esserne riuscita a coglierne la logica, avrebbe decisamente potuto durare di meno ed è essere molto più efficace.
Due parole in più su Kristen Stewart
Ci sono un paio di scene che mi hanno particolarmente colpito, e non positivamente. Anzitutto la scena iniziale alla tavola calda: Diana si comporta come se fosse una scolaretta impacciata, in maniera così caricata che ero in imbarazzo per lei.
Così riesce a fallire anche in una scena di sofferenza: quando parla col cuoco dei suoi sogni, sembra che cerchi di forzare l’espressione del viso, in maniera totalmente innaturale. Probabilmente complice anche il fatto che non riesce a parlare naturalmente con l’accento britannico.
Ma la cosa peggiore è la scena della notte di Natale con i due figli. Provate a fare questo esperimento: fate partire quella scena e ascoltatela senza guardare. Poi guardatela normalmente: sembra che siano due attrici diverse. Per quanto riesca a modulare adeguatamente la voce, la sua espressività risulta rigida e per nulla eloquente. Quasi come si fosse ridoppiata.
Sul resto mi sono già espressa, ma in conclusione posso affermare con grande sicurezza non gli andava riconosciuto alcunché.
La questione degli Oscar 2022
Come anticipato, Kristen Stewart non doveva essere premiata per nulla, neanche con una candidatura. È stata vagamente meglio del solito, ma presenta una recitazione veramente altalenante. Comunque infine non ha vinto, ma il premio è andato alla ben più meritevole Jessica Chastain per Gli occhi di Tammy Faye(2021).
Questo film poteva essere invece candidato a Miglior colonna sonora e anche Miglior fotografia. Un peccato, secondo me, che venga presentato con la sua parte più difettosa.
Miglior film Miglior regista Miglior sceneggiatura originale
Licorice Pizza (2021) è l’ultimo film di Paul Thomas Anderson e anche probabilmente una delle pellicole più strane in cui mi sia imbattuta in tempi recenti. E infatti sono in dubbio sul fatto di averne colto il vero significato.
Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla Licorice Pizza
La vicenda ruota intorno a Alana, una ragazza di 25 anni interpretata dalla cantante Alana Haim, e Gary, un quindicenne interpretato dal giovanissimo Cooper Hoffman. I due intraprendono una relazione travagliata, per l’evidente gap di età, invischiandosi in continui e strani progetti commerciali.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Perché Licorice Pizza è un film strano
La trama di per sé non è complessa: stringi stringi, è esattamente quanto ho detto sopra. La stranezza sono le dinamiche fra i due personaggi: ci troviamo davanti ad un interesse romantico abbastanza disturbante, da cui Alana cerca continuamente di sottrarsi andando con uomini più grandi, che puntualmente si rivelano partner terribili.
Tuttavia Gary, nonostante la giovane età, non è da meno: è un personaggio possessivo e ossessionato dalla figura di Alana, anche a livello erotico, che non accetta il fatto che lei potrebbe non accettarlo nella sua vita. Per questo le fa continuamente pressioni emotive quando la vede con altri uomini.
Da parte sua Alana continua a buttarsi in relazioni sbagliate per i più svariati motivi. Ogni volta che un uomo sembra interessante o anche semplicemente entra nella sua vita, alla fine si rivela viscido e approfittatore. E per questo Alana torna periodicamente nelle braccia di Gary e nella sua ultima impresa finanziaria.
La definizione di relazione tossica, ma con un taglio romantico che mi ha spiazzata.
Gli adulti terribili
La scena è popolata da diverse figure di adulti, che vengono soprattutto in contatto con Alana, e che cercano appunto sistematicamente di approfittarsene. Fra questi spicca Jack Holden, interpretato da Sean Penn, e Jon Peters, interpretato da Bradley Cooper, l’allora compagno di Barba Streisand. In particolare Bradley Cooper, pur nel poco minutaggio, l’ho trovato più in parte qui che in tutto The Nightmare Alley(2021).
Anche Alana è un adulto terribile: è animosa, umilia Gary quasi quanto Gary umilia lei e, come detto, si avvicina costantemente agli uomini sbagliati e alle relazioni più tossiche, rimanendone ogni volta delusa.
Un film brillante?
Dal punto di vista della regia e della scrittura, entrambi di Anderson, nulla da dire: una regia peculiare, una fotografia perfetta, dialoghi brillanti e ben scritti.
In particolare posso fare un plauso a questo film per aver messo al centro della scena e come oggetto del desiderio una ragazza dalla bellezza non convenzionale come Alana Haim. La quale fra l’altro, nonostante fosse il suo primo film, è stata davvero convincente.
Rimango comunque ancora spiazzata da questa pellicola, forse dovendola pacificamente accettare come un’opera con un taglio profondamente realistico, che rappresenta una storia bislacca e disturbante, ma, appunto, profondamente vera.
Licorice Pizza fa per me?
Una interessante domanda, a cui posso rispondere in negativo: probabilmente vi innamorerete di questo film per i motivi per cui io non me ne sono innamorata.
L’atmosfera nostalgica degli Stati Uniti degli Anni Settanta, quella della fine della Guerra del Vietnam e della crisi del gas del 1973: lo sfondo di tutta la vicenda e che ha fatto innamorare molti. Così gli USA del capitalismo rampante e distruttivo, che coinvolgeva anche i giovanissimi, di una realtà televisiva ormai tramontata, quasi ridicola vista oggi.
Tutto questo troverete in Licorice Pizza. Io l’ho trovato, ma non sono riuscita a farmi travolgere.
Red (2022) è l’ultimo film Pixar uscito questo venerdì sulla piattaforma Disney+. La pellicola era inizialmente pensata per l’uscita in sala, ma all’ultimo si è deciso per una distribuzione esclusiva in streaming (e più avanti nell’articolo ipotizzo il perché).
Nel complesso Red è una pellicola gradevole, fortemente ispirata ai teen drama dei primi anni 2000 (pur non essendolo fino in fondo), riuscendo ad includere al suo interno tematiche piuttosto tipiche della casa di produzione.
Tuttavia, il film presenta un problema veramente ingombrante: le didascalie.
Candidature Oscar 2023 per Red (2022)
(in nero i premi vinti)
Miglior filmd’animazione
Di cosa parla Red?
La protagonista, Mei, è una ragazzina di tredici anni che eccelle in tutto, ma è al contempo oppressa dalla figura iperprotettiva della madre, che le impedisce di esprimersi come vorrebbe. La situazione si complica quando, per via di una maledizione che opprime le donne della famiglia, Mei si trasforma, ogni volta che prova emozioni troppo forti, in un enorme panda rosso.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perché Red funziona e perché no
Come anticipato, Red è un film tutto sommato gradevole. La storia è veramente semplice e ridotta all’osso, e la potete ritrovare in una buona quantità di teen drama dei primi Anni 2000. Non a caso è ambientato proprio nel 2002. E io, da grande fan dei teen movie 2000s, non ho potuto fare a meno di apprezzare questo aspetto.
Oltre a questo, le animazioni sono una bella novità per la Pixar, che negli ultimi anni si era un po’ fossilizzata su uno stile sicuramente gradevole, ma allalunga ripetitivo. In questo caso invece le animazioni sono evidentemente ispirate alla produzione animata giapponese, con una grande esagerazione delle espressioni e delle reazioni dei personaggi, disegni poco realistici e più stilizzati. Un esperimento visivo che in generale mi ha convinto.
Ma quindi perché secondo me Red non funziona fino in fondo?
Il problema del film: le didascalie
Red può essere piacevole ad una visione più superficiale, ma se si mettono un attimo da parte le emozioni che indubbiamente provoca, ci si rende conto che è un film con la profondità di una pozzanghera. Questo soprattutto perché all’inizio sembra voler dare un certo tipo di messaggio tramite una metafora decisamente potente, ma alla fine il tutto viene estremamente banalizzato. Oltre a questo, la pellicolaè terribilmente appesantita da una narrazione fortementedidascalia, che spiega fondamentalmente cosa succede sullo schermo nonostante sia estremamente ovvio. Fra l’altro troncando ogni possibilità di interpretazioni ulteriori e banalizzando tutto quello che mette in scena.
La bellezza delle produzioni Pixar è che molto spesso non c’è bisogno di una spiegazione effettiva della situazione messa in scena. Anzi, frequentemente la profondità del film Pixar risiede proprio nei suoi silenzi (pensiamo solo a Wall-E).
E spero che nessuno abbia il coraggio di venirmi a dire ma è un film per bambini, perché la Pixar ci ha abituati per anni a film profondamente adulti e con vari livelli di lettura. Quindi è questo quello che mi aspetto.
Red fa per me?
Partendo dal presupposto che Red mi sembra un film che può piacere un po’ a tutti, lo apprezzerete particolarmente se, come me, siete appassionati di un tipo di teen drama alla Mean Girls(2004), perché le dinamiche sono veramente quelle. In generale, se cercate un film leggero, che comunque riesce a commuovere e coinvolgere, guardatelo.
Se invece siete dei puristi della Pixar, sempre come me, potrebbe non convincervi fino in fondo, in quanto fra le uscite degli ultimi anni è sicuramente fra i più deboli. Ma non per questo non si può dargli una chance.
Raccontare l’adolescenza
Nessuno si accorgerà di niente
Una delle cose che mi aveva più convinto all’inizio era il modo in cui viene raccontato il personaggio di Mei: si presente come una ragazzina ormai indipendente e brillante, che sceglie per se stessa. In realtà questa narrazione è subito smentita quando, alla richiesta delle sue amiche di passare il pomeriggio insieme, Mei spiega che deve, come tutti i giorni, aiutare la madre al tempio turistico.
Da qui capiamo subito quanto la madre sia una figura castrante: nonostante evidentemente con tutti le buone motivazioni, ha programmato a puntino la vita della figlia e vuole che sia sempre sotto al suo stretto controllo.
Una presenza ingombrante
La situazione le sfugge di mano quando Mei diventa effettivamente un panda rosso. La scena del bagno mi è piaciuta particolarmente perché, oltre a raccontare un tema poco affrontato soprattutto in questo tipo di prodotti, sembra (e sottolineo sembra) utilizzare una metafora potente per rappresentare il passaggio all’adolescenza.
Il panda rosso è qualcosa di enorme, ingombrante, inaspettato, in cui non si riconosce. Il corpo che cambia, i sentimenti incontrollabili, tutte cose che avvengono da un giorno all’altro e che hanno sconvolto la maggior parte di noi in età adolescenziale. E per Mei è veramente difficile tenere tutto dentro: una ragazzina così esplosiva e piena di emozioni, che la madre vuole limitare, riportandola ad una dimensione infantile e controllabile.
Tutta questa bellissima immagine è rovinata da quello che viene detto dopo.
Il problema della narrazione didascalica
Come anticipato, questo film è drammaticamente didascalico. C’era veramente bisogno di spiegare che Mei aveva un problema con la madre, che voleva ribellarsi? Ma, soprattutto, c’era bisogno di banalizzare la metafora del panda a un lato sbarazzino della personalità di Mei? Secondo me no. E l’ultima frase del film è esplicativa in questo senso, con una battuta che sembra veramente ripresa dalla sigla di una serie tv di Disney Channel ai tempi d’oro.
E io personalmente, seguendo la Pixar quasi da quando è nata, mi aspetto molto di più.
Qualcosa di bello
Al di là di queste problematiche di fondo, ci sono delle cose che ho veramente apprezzato di questo film. Anzitutto, rappresenta finalmente una realtà culturale più variegata e realistica. In scena si vedono non solo personaggi di diverse etnie, ma anche di religioni diverse. E per lo stesso motivo anche due delle amiche di Mei, oltre che Mei stessa, sono POC: Priya è di origini indiane, Stacy coreane.
Oltre a questo, il tema dell’amicizia l’ho trovato veramente toccante, pur nella sua semplicità: Red ci ricorda quanto sia importante avere dei buoni amici intorno quando stiamo passando dei momenti difficili, e gli amici di Mei lo sono senza dubbio. E, in particolare Miriam ha un rapporto veramente sincero con Mei.
Non andare fino in fondo
Una cosa che veramente non ho capito, e che anzi ho trovato veramente limitante, è il finale stesso. Se il film, come urla a gran voce, ci vuole incoraggiare a sentirci liberi di esprimerci, perché le altre donne della famiglia non hanno la stessa occasione? La cosa non è per nulla chiara: se posso capire la problematica della madre, il cui problema era veramente ingombrante, non capisco perché la nonna e le zie non hanno potuto approfittare di questa occasione per liberarsi anche loro dal fardello che loro stesse si erano imposte. La loro scelta non viene fra l’altro per nulla drammatizzata, ma sembra semplicemente come doveva andare le cose. Punto.
Il film sembra voler ribadire lo status quo che era presente all’inizio del film, e gli altri problemi dei personaggi non vengono affatto risolti. Un vero peccato.
Ma questo, a mio parere, si inserisce anche nel problema della rappresentazione della Cina.
Come raccontare la Cina
È troppo plagiata
Nonostante possa sembrare il contrario, questo film non è pensato per un pubblico cinese, ma piuttosto per immigrati cinesi di seconda generazione in America, come era stato anche al tempo per Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli (2021). Entrambe le pellicole sono infatti accumunate da una rappresentazione della cultura cinese se non stereotipata, comunque evidentemente negativae limitante, soprattutto se paragonata alla apparente bellezza della cultura occidentale.
Da una parte la cultura rigida e matriarcale, del dovere e del rispetto, dall’altra la cultura occidentale, affascinante e scintillante, regno della libertà. Così infatti le belle cose che Mei ci racconta all’inizio non sono altro che una rappresentazione dei desideri della madre, che, come tipico della cultura orientale, pretende dalla figlia l’eccellenza e un controllo totale sulle sue scelte.
Non è un caso che le autrici della pellicola sono due donne americane di origini cinesi.
In questa rappresentazione potrebbe annidarsi uno dei motivi della decisione di distribuire il film solamente in streaming. La Disney si è fatta due conti in tasca e, fra pandemia e qualche buon centinaio di milioni non garantiti per la mancanza di distribuzione in territorio cinese, ha pensato bene di evitare questo rischio.
Per quanto mi faccia piacere dare voce ad una parte della società poco raccontata finora, riesco ad abbracciare fino ad un certo punto certe stereotipizzazioni di culture non americane, oltre che ad una idealizzazione dalla cultura occidentale.