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C’è ancora domani – Il futuro è nostro

C’è ancora domani (2023) rappresenta lo splendido esordio alla regia di Paola Cortellesi, nonché uno dei più grandi successi commerciali e di pubblico del 2023.

Infatti, a fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 8 milioni di euro – ha trionfato con 32 milioni di euro di incasso.

Di cosa parla C’è ancora domani?

Italia, 1946. Dalia è intrappolata in un matrimonio violento, con un marito che la maltratta e la umilia costantemente. Ma il futuro è ancora tutto da scrivere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere C’è ancora domani

Paola Cortellesi e Romana Maggiora Vergano in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Assolutamente sì.

C’è ancora domani è una splendida opera prima che riporta sullo schermo un elegantissimo neorealismo – che ricorda titoli fondamentali della nostra filmografia come Una giornata particolare (1977) e Ladri di biciclette (1948) – ma per raccontare un tema assolutamente attuale.

Così la tematica della violenza di genere è ben contestualizzata in un’Italia appena uscita dal Ventennio, per una pellicola che riesce ad appassionare per la bellezza dei suoi personaggi e l’ottima scrittura, non ricadendo quasi mai in scelte banali e prevedibili, anzi.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La passerella

Paola Cortellesi in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

C’è ancora domani si apre con la passerella della vergogna.

Dalia entra nel nuovo giorno con uno schiaffo che le ricorda la pochezza della sua condizione: una casalinga rintanata come un ratto in un deprimente seminterrato – con un simbolismo molto potente che ricorda alla lontana Parasite (2019) – e in balia della violenza di un mondo ingiusto.

Infatti, dopo aver sopportato l’umiliazione dei due grandi patriarca della casa – il marito violento e la manina del suocero – la protagonista si immerge in un mondo che giustifica costantemente la sua condizione, il suo stare ai margini e, sopratutto, la violenza di Ivano.

Paola Cortellesi in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Tuttavia, Dalia non è del tutto in balia degli eventi.

Un senso sotterraneo di ribellione, di rivalsa è in qualche modo presente in lei – come si nota soprattutto nel modo in cui tratta il vecchio Ottorino – fomentata sia dalle ingiustizie che vede intorno a lei, sia dall’intraprendenza della sua amica Marisa.

In particolare, Dalia è consapevole di non essere quello che il marito le dice, ovvero una donna inutile e senza valore: al contrario, si impegna a trovare il suo angolo di libertà, si destreggia fra più lavori, mette da parte un piccolo gruzzolo, medita su come aiutare la figlia…

La danza

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

La danza con Ivano è rivelatoria.

Paola Cortellesi sceglie consapevolmente di non inserire una scena di violenza tanto per inserirla, ma proprio per caricarla di uno specifico significato: il ballo fra i due personaggi rappresenta la dualità del loro rapporto, fra violenza e amore.

Insomma, si racconta con una messinscena piuttosto indovinata la rete in cui ci si impiglia nelle relazioni violente: per quanto la violenza sia reiterata e devastante, la stessa è accompagnata da momenti di scuse, di giustificazioni, di bombardamento affettivo (love bombing) – infatti, successivamente, dopo averla picchiata, Ivano la invita a ballare.

Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Inoltre, nonostante Ivano sia un personaggio veramente terribile, il suo comportamento è ben contestualizzato nell’eredità della famiglia del Ventennio – e non solo – in cui è del tutto normale punire costantemente queste stupide donne.

E, soprattutto, la sua violenza è costantemente giustificata da sé stesso e dagli altri personaggi maschili – che lo scusano per l’essere nervoso, per aver fatto due guerre – e taciuta dai personaggi femminili, in particolare il terzetto dell’omertà delle donne del cortile che ascolta impotente le urla di Dalia…

Il tavolo

Paola Cortellesi e Romana Maggiora Vergano in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Il tavolo è un simbolo costante e fondamentale in C’è ancora domani.

Il film fa indirettamente riferimento al concetto di sitting at the table, proprio del pensiero femminista, che ribadisce l’importanza per le donne di avere coraggio di sedersi al tavolo delle decisioni, e così riprendere in mano il proprio futuro.

Per questo Dalia non si siede mai al tavolo, ma è sempre in piedi, rinchiusa nella sua figura ancellare, con due eccezioni: quando si siede al tavolo secondario della cucina – in cui è più volte scacciata – con la figlia…

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

…e, soprattutto, quando viene invitata dall’altro patriarca – il padre di Giulio – a sedersi al tavolo della domenica, per poi essere immediatamente scacciata dallo stesso dal marito, per poi riprovare a sedersi, ma proprio nel momento in cui i due uomini si alzano, per essere infine definitivamente esclusa quando Ottorino le ruba il posto.

Così Dalia cerca costantemente di far sedere la figlia Marcella al tavolo, quando nella prima scena la stessa si rifiutava di farlo, proprio nel suo costante tentativo di portarla lontano dalla sua deprimente condizione.

La gabbia

Romana Maggiora Vergano e Francesco Centorame in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Il rapporto fra Marcella e Dalia è fondamentale.

La loro relazione è fin da subito estremamente antagonistica, in particolare da parte della figlia, che disprezza esplicitamente la madre per non essere capace di liberarsi dalla sua condizione, ma anche del tutto ingenua davanti alla mancanza di alternative per Dalia.

Ma il maggior impegno della protagonista è proprio quello di poter offrire alla figlia una condizione di vita migliore – soprattutto dal punto di vista economico – mettendo da parte i soldi per portarle dare l’inizio migliore possibile: uno splendido abito da sposa.

Romana Maggiora Vergano e Francesco Centorame in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Per questo il risveglio di Dalia è profondamente legato alla figlia.

Quando la protagonista comincia a notare le stesse dinamiche che caratterizzarono i primi momenti del rapporto con Ivano – proprio nella classica dinamica dell’uomo violento nascosto in ogni ragazzo perbene – comincia a capire di star regalando a Marcella non un futuro, ma una gabbia.

Per questo sceglie finalmente di agire, anche in maniera piuttosto pericolosa, per vanificare quel futuro matrimonio violento, dal momento che i suoi tentativi più cauti di dissuadere la figlia nell’andare ad incastrarsi nel suo stesso incubo cadono nel vuoto.

Ed è solo l’inizio.

L’alternativa

Paola Cortellesi e Emanuela Fanelli in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

La condizione femminile non guarda alla classe sociale.

Per questo piuttosto interessante l’incrocio di sguardi fra Dalia, il ritratto della donna di un’epoca lontana nella casa in cui va a fare l’infermiera, e la padrona della casa stessa: con questo semplice rappresentazione, C’è ancora domani racconta una situazione femminile poco mutata nel tempo.

Se infatti persino una nobildonna del passato poteva godere di poco spazio nelle scelte politiche, così la padrona di casa che cerca di intervenire – sempre in piedi – nel tavolo di discussione degli uomini – figlio e marito – viene scacciata.

Paola Cortellesi e Emanuela Fanelli in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

L’alternativa è invece Marisa.

Fin da subito si racconta come l’amica sia in una situazione matrimoniale ben diversa, in cui riesce ad essere il capofamiglia e, sopratutto, a godere di un marito piuttosto affettuoso, e che, soprattutto, la sostiene come compagna, e non come serva.

Questo è particolarmente chiaro nella scena in cui Marisa vede passare una donna incinta e si intristisce, essendo probabilmente sterile, ma subito il compagno la cinge a sé, confermando che il suo amore non è vincolato al suo ruolo di madre e moglie.

Non a caso, quando si convince a ribellarsi, Dalia si raccoglie i capelli come l’amica.

Domani

Teoricamente, l’alternativa per Dalia è Nino.

Inizialmente infatti Dalia si convince a scappare con lui, così da sottrarsi al suo matrimonio da incubo e trovare finalmente qualcuno che la ama e la rispetta.

Questa scelta mostra un momento di un effettivo tentativo di indipendenza dal marito – in particolare nella fretta e nell’affronto di camminargli davanti – apparentemente del tutto vanificata dalla morte dell’altro patriarca.

Ma c’è ancora domani.

Con il suo splendido finale, la pellicola ci mostra qual è la vera alternativa alla società in cui viviamo: non scappare, non cercare una salvezza in uomini migliori, ma invece prendere un effettivo posto al tavolo delle decisioni.

E così finalmente Marcella guarda con rispetto e gioia la madre – che le sta regalando un vero futuro, con il voto e con la possibilità di un’istruzione – e finalmente Dalia non è in basso, per terra rispetto al marito, ma lo sovrasta in cima alle scale…

…spalleggiata da quelle stesse donne che non l’avevano aiutata fino a quel momento, che anzi l’avevano osteggiata, ma che ora diventano finalmente sue alleate.

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Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Grottesco La musa Racconto di formazione Yorgos Lanthimos

La Favorita – Pennellate di distruzione

La Favorita (2018) è la prima produzione di Yorgos Lanthimos in cui non appare anche come sceneggiatore e la prima collaborazione con la sua futura musa, Emma Stone.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 15 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla La Favorita?

Inghilterra, 1708. Sul trono siede la Regina Anna, insidiata dalla sua vecchia amica e amante Lady Marlborough, che tiene in mano le redini del regno. Ma qualcosa sta per cambiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La Favorita?

Emma Stone in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

In generale, sì.

Per quanto l’abbia in generale rivalutato ad una seconda visione, non è un film che comunque mi entusiasma, ma se riuscirete a lasciarvi rapire dall’estetica barocca e da una storia per molti versi estremamente trucida, lo apprezzerete molto.

Personalmente per un period drama io preferisco una rappresentazione più romantica e dall’estetica più ricercata come in Marie Antoinette (2006), ma è indubbio che questo prodotto sia un passo avanti per l’opera di Lanthimos a livello di scrittura.

Peccato che non l’abbia scritto.

Controllo

Olivia Colman in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

La Favorita si basa sulla naturale debolezza che definiva la scena politica con al centro il potere regale.

Si poteva avere una regina che comandava con consapevolezza come un secolo prima Elisabetta I, oppure un personaggio molto più fragile come Anna Stuart, costantemente in balia dagli stimoli di personaggi esterni come Lady Marlborough, che di fatto governa al suo posto.

Olivia Colman e Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

E sono inutili i tentativi di Robert Harley di prendere di petto questa intraprendente nobildonna, e altrettanto futile provare a far ragionare una regnante del tutto incapace di comprendere la scena politica che dovrebbe essere in grado di governare.

Ma, come ci ricorda lo stesso Harley, il favore è un vento che facilmente cambia direzione…

Pennellata

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Come per tutto il terzetto di protagonisti, Lady Marlborough non è un personaggio del tutto negativo.

Sulle prime sembra abbozzato come il villain della storia, come una serpe che si approfitta dalle debolezze di Anna, lusingandola con l’attrattiva sessuale e approfittandosene per guidare le sorti del regno a vantaggio della sua famiglia.

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Al contempo, la sua posizione sembra talmente inscalfibile che può persino permettersi di maltrattare e insultare la sua stessa regina, con un comportamento che stupidamente rende spesso infelice la stessa, che vorrebbe essere semplicemente adorata e coccolata come una bambina.

E proprio in questo problema si insidia Abigail.

Insidia

Emma Stone in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Inizialmente, Abigail è un personaggio passivo.

Una nobile decaduta ridotta ad essere una sguattera della cucina, costantemente vessata, nonostante le sue buone intenzioni, riuscendo a salvarsi grazie alla sua inventiva e alla sua intelligenza, che le permette di diventare improvvisamente interessante per Lady Marlborough.

Comincia così un’apparentemente timida risalita, in cui, come una bambina, la donna osserva attentamente le dinamiche e le tattiche della sua nuova padrona, e rimane sulle prime restia, anzi quasi imbarazzata dalla malignità e i sotterfugi che affiggono la corte.

Infatti, sulle prime non vuole partecipare.

 Robert Harley la tenta immediatamente al suo grande gioco politico, avvertendola anche sulla fragilità della sua posizione, su come i modi per rafforzarla e renderla definitiva ci sono, se solo li volesse accettare – altrimenti…

L’ultimo atto di questa resistenza è il confronto con Lady Marlborough, che, sorprendentemente si mostra del tutto allergica a questa presunta fedeltà della sua sottoposta, e la minaccia in maniera non dissimile dal suo nemico.

E allora è il momento di cambiare.

Spazio

Abigail deve trovare il suo spazio.

E la sua tattica è rendersi prima di tutto un’alternativa allettante all’attuale favorita della Regina, sia per l’amabilità del suo carattere – mai ostile né punitivo come quello di Lady Marlborough – sia per la sua attrattiva sessuale – mostrandosi casualmente nuda davanti alla sua preda.

E se la sua padrona cerca di cacciarla in fondo alle scale, la giovane donna non ci sta, e tenta il tutto e per tutto: mostrarsi anche lei vittima delle angherie della terribile Lady Marlborough, rendendosi uno specchio doloroso,- ma al contempo allettante – della condizione stessa della regina.

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Ma la Favorita non è un ruolo facile da ottenere.

Proprio quando sembra essersi presa il suo posto accanto alla Regina, Abigail si rende facilmente conto che non sarà semplice scalzare la sua contendente, che può godere di una relazione profonda e duratura con Anna.

Così sceglie di metterla forzatamente fuori scena, diventando la protagonista della vita della Regina, acquisendo alleati politici fruttuosi che le permettono di ottenere quello che ormai sente di possedere di diritto: il titolo che gli è stato rubato.

E ormai fa parte del gioco.

Status

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Abigail e Lady Marlborough non hanno gli stessi obbiettivi.

Nell’ultimo atto le loro posizioni assumono dei contorni più netti: per quanto il principale risultato del suo status favorito per la Regina fosse una posizione politica chiave per la sua famiglia, Lady Marlborough aveva anche altri interessi in gioco.

Nella sua apparentemente malvagità e sfacciataggine, era evidentemente legata con un rapporto di profondo affetto per Anna, che sceglie infine di allontanarla non tanto per le sue ruberie, ma per averla costantemente tradita, per non aver mai cercato di risaldare i rapporti – o almeno così sembra…

Olivia Colman in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Invece Abigail è fin troppo sicura.

Mentre si gode la sua nuova posizione nell’ultimissima scena del film, la donna dimostra un’assoluta predominanza della situazione, che la porta fisicamente a schiacciare uno dei figli di Anna – e, per estensione, Anna stessa – semplicemente perché può farlo.

A questo punto arriva la drammatica realizzazione della Regina, spogliata del suo status e derubata di un effettivo affetto al suo fianco, che cerca di riportare al suo posto quella terribile sanguisuga, in un disperato tentativo di rivalsa…

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1917 Avventura Azione Dramma storico Drammatico Film Film di guerra i miei film preferiti Racconto di formazione

1917 – La guerra tragica

1917 (2019) di Sam Mendes è uno dei più ambiziosi film di guerra dello scorso decennio, anche solo per l’utilizzo totale del piano sequenza.

A fronte di un budget non poco importante – 90 milioni di dollari – è stato un grande successo commerciale: 384 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 1917?

1917, Fronte Occidentale. I due giovani soldati Tom Blake e William Schofield vengono incaricati di fare da messaggeri per una comunicazione fondamentale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1917?

Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Assolutamente sì.

1917 è un’opera di altissimo valore artistico, sia per l’utilizzo sapiente del piano sequenza – con diversi trucchi scenici per renderlo effettivamente possibile – sia per la grande sperimentazione sul lato della fotografia e della resa scenica.

Di fatto Sam Mendes riprende una trama tipica non tanto dei film di guerra, ma della narrativa bellica stessa – specificatamente quella statunitense – degli eroi per caso, riportandola però su un livello molto più terreno e realistico.

Insomma, da non perdere.

Il risveglio

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Io non so ben ridir com'i' v'intrai / tant' era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai (Inf. I, 10-12)

L’incipit di 1917 ci racconta già tutto del protagonista.

Will rimane per diversi minuti in primo piano, apparentemente addormentato, in realtà scegliendo consapevolmente di ignorare quello che gli succede intorno, preferendo invece sonnecchiare qualche momento in più.

Intanto, alle sue spalle, il compagno Blake si leva immediatamente, immediatamente è un soldato pronto all’azione, ed è anche il personaggio che incoraggia il protagonista a tirarsi in piedi e a cominciare la narrazione.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Così anche il dialogo seguente è rivelatorio.

Blake legge felicemente la sua lettera, dimostra un importante legame con la realtà oltre al fronte – anche per la presenza del fratello – mentre Will si dimostra piuttosto distaccato, e si rianima solo quando comincia a mangiare il suo panino.

Il panino – come poi il vino scambiato per la medaglia – rappresenta lo stato iniziale del protagonista: Will ha scelto di abbandonare la sua vita precedente, di non ritornare a casa e di vivere sul momento, pensando solo alle necessità immediate.

Per questo insiste così tanto nel non voler partire per la missione – cercando di distogliere il compagno da quell’idea in più occasione – non riuscendo a sentire il medesimo slancio nel voler portare a termine la missione.

Il limbo

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Allora si mosse, io li tenni dietro (Inf. I, 36)

La sezione della Terra di nessuno è incredibilmente ingannevole.

In più momenti il film cerca di convincerci che Will sia il personaggio destinato a morire – quando si ferisce la mano nel filo spinato, quando rimane vittima della bomba… – e forse anche quello che in qualche maniera se lo merita di più.

Infatti, come Blake è sicuro e impegnato nella sua missione, mosso soprattutto dal desiderio di riabbracciare il fratello, al contrario Will è amareggiato e disilluso, con l’apice drammatico rappresentato dal suo racconto sul perché si è liberato della medaglia e sul perché non vuole tornare a casa.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Lo stesso paesaggio è illusorio.

I due personaggi si muovono in uno spazio dove tutto sembra ormai già successo, dove la tragedia si è già consumata, tanto che le vittime ormai fanno parte del paesaggio stesso, nel ruolo di grotteschi punti di riferimento.

Questo inganno prosegue fino alla fine della sezione – l’arrivo alla fattoria – raccontando un mondo apparentemente immobile, ma in realtà incredibilmente attivo e reattivo nei confronti dei viaggiatori, pronto ad intrappolarli

E infatti…

Fervore

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi (Pur. 49-51)

Con la morte di Blake, Will acquisisce nuove consapevolezze.

Avendo scelto ormai da tempo di chiudere il suo cuore a qualunque sentimento, davanti alla morte di un innocente, davanti all’impossibilità di salvarlo – nonostante la possibilità fosse a portata di mano – il protagonista si risveglia.

Per quanto già nella sequenza successiva sembri ingoiato dalla scena, rimanendo una presenza silenziosa durante i dialoghi dei soldati sul camioncino, in realtà al primo intoppo della missione si riscopre incredibilmente attivo e coinvolto.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

La morte di Blake rappresenta insomma per Will un risveglio di coscienza, la riacquisizione di un senso di impegno e di importanza, anche se non della guerra, ma, piuttosto, della vita umana: come il compagno è ingiustamente morto, così la vita di molti soldati è nelle sue mani.

Il distacco dai discorsi propagandistici è esplicitamente raccontato dal breve scambio fra i giovani sul camioncino: soldati che non parlano né di gloria né di nemici, ma bensì esprimono pensieri molto più pratici, splendidamente ingenui.

Fra tutti, mi ha colpito profondamente il discorso di uno dei soldati riguardo ai tedeschi:

Why they just don’t bloody give up? Don’t they wanna go home?

Perché cavolo non si arrendono poi? Non li aspettano a casa?

La Genna

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
e caddi come l'uom cui sonno piglia (Inf. III, 136)

Come in qualche modo gli aveva predetto il suo superiore – Giù nella Geenna (l’inferno) o su al trono nel cielo più rapido viaggia chi viaggia da soloWill si trova da solo nel primo effettivo fronte

…o il primo effettivo inferno.

E se la luce poteva aiutarlo a muoversi in un panorama meno angosciante, uno sfortunato incontro con il nemico lo porta a cadere svenuto per diverse ore, ritrovarsi infine sveglio in un panorama che vive di una totale dualità.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Quell'è 'l più basso loco e' l più oscuro, è 'l più lontan dal ciel che tutto gira (Inf. IX, 28-29)

Tenebra e fuoco.

Comincia così una corsa disperata fra l’oscurità e la fiamma, riuscendo solo in parte a portare a termine il suo nuovo proposito, ereditato da Blake: salvare più vite possibili lungo il suo cammino.

A poco serve la lieta sosta con la ragazza, con la quale si spoglia di tutti i suoi averi, perché il tocco improvviso delle campane gli ricorda che il suo viaggio non è finito: ci sono ancora nemici da uccidere, pallottole da evitare, tragedie da sventare…

La quiete

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Tratto m'avea il fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola (Purg. XXXI, 94-96)

L’inizio dell’atto conclusivo di 1917 ha più significati.

La fuga nel fiume sembra inizialmente portarlo ad un inferno ancora peggiore, trovandosi totalmente travolto dai flutti, sospinto verso una cascata, inghiottito dall’acqua che sembra volerlo seppellire…

…per poi riemergere, dolcemente accarezzato dalle prime luci del mattino, ormai distrutto dal viaggio, ma trovandosi circondato da un simbolo che gli ricorda indirettamente Blake e la sua missione: i petali di ciliegio.

E una melodia dolce correva per l'aere luminoso (Purg. XXIX, 22-23)

In questa apparente calma Will si trascina lentamente fuori dal fiume e attraverso il boschetto, guidato dal dolce canto dei soldati in lontananza, come raccolti in preghiera, a cui si mischia ormai provato dal viaggio.

Di nuovo Will è uno spettatore silenzioso, che si risveglia improvvisamente quando i personaggi intorno a lui gli fanno intendere che è arrivato alla fine del viaggio, ma che ancora deve affrontare l’ostacolo più arduo: riuscire a farsi credere.

Agli occhi dei soldati e soprattutto degli ufficiali infatti il protagonista non è altro che un ragazzino impaurito che farfuglia cose senza senso, mentre si vede sfuggire dalle mani centinaia di vite che non ha potuto salvare…

La corsa

È a questo punto che Will dimostra veramente di essere cambiato.

Se all’inizio della pellicola era un soldato cinico e ignavo, che non voleva neanche lasciare la sicurezza della sua trincea, ora è una forza irresistibile, pronto persino a buttarsi in mezzo alla battaglia pur di portare a termine la sua missione.

Ma la sua apparente vittoria non è che l’anticamera di una lenta ma fondamentale realizzazione: sia nel dare la notizia della tragedia scampata che della morte di Blake, Will trova nei suoi interlocutori una profonda impotenza, un’insoddisfazione, persino un malcelato nervosismo.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
se non che la mia mente fu percossa da un fulgore (Par. XXXIII, 140-141)

Probabilmente le sue azioni saranno premiate con una fondamentale spilla da portare al petto, ma il vero guadagno di Will è l’amara realizzazione che questo era solo un altro giorno al fronte.

La guerra non è finita oggi: oggi ha solo salvato un pugno di innocenti che domani probabilmente moriranno comunque, in questa spirale di dolore e violenza che è ancora lontana dall’esaurirsi.

Ma almeno ora il protagonista ha il coraggio di guardare le foto della sua famiglia, di ricominciare a pensare ad una realtà altra oltre a quella del fronte, un paradiso forse, a cui guardare in questo attimo di quiete…

…prima del prossimo massacro.

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Back to the future Part III – Una buona conclusione?

Back to the future Part III (1990) è il capitolo conclusivo della trilogia iconica creata da Robert Zemeckis.

A fronte di un budget complessivo fra secondo e terzo film – 40 milioni di dollari, circa 100 oggi – questa pellicola confermò il successo del precedente, anche se con un incasso leggermente inferiore: 245 milioni di dollari (circa 576 oggi).

Di cosa parla Back to the future Part III?

Dopo aver ricevuto la sua lettera dal passato, Marty raggiunge Doc nel Vecchio West…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future Part III?

Christopher Lloyd (Doc) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

Con Back to the future Part III Zemeckis riesce a mantenere una qualità costante anche per il finale della trilogia, pur ambientandolo in un contesto veramente anomalo per un’avventura fantascientifica, ma che invece permette di trovare nuovi spazi di esplorazione della storia e dei personaggi.

Il terzo capitolo infatti riprende i ritmi serrati e adrenalinici del film precedente, ma non manca di portare a compimento anche quegli spunti interessanti per l’evoluzione dei protagonisti già accennati nel secondo film.

Insomma, da vedere.

Il solito aggancio

Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Come per Back to the future Part II (1989), anche in questo caso il film si riaggancia direttamente al precedente.

Ma invece di ricalcare la scena finale del secondo capitolo, la pellicola fa rivivere allo spettatore l’iconico finale di Back to the future (1985), in cui il Marty del futuro si ricongiunge con il Doc del 1955, al tempo convinto di aver risolto tutti i problemi del viaggio nel tempo…

E bastano poche scene ben contestualizzate per preparare lo spettatore al nuovo scenario della pellicola – nello specifico, al nuovo villain – e ad introdurre un elemento già esplorato nei precedenti capitoli, ma ancora perfettamente funzionante: la morte di uno dei personaggi principali.

Due filoni

Ancora una volta Marty viene accolto nella casa dei suoi antenati…

…ma, in questo caso, introducendo il primo punto di riflessione del film – nonché il più importante: dalle parole del suo bisnonno il protagonista ritrova nel suo antenato defunto quel comportamento testardo e permaloso che attraversa tragicamente la sua famiglia.

Per il resto, i due antenati di Marty sono quasi del tutto limitati a questa funzione, rimanendo di fatto sullo sfondo per la maggior parte della pellicola, pur ben contestualizzati all’interno del panorama del Selvaggio West.

Thomas F. Wilson (Biff) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Segue l’introduzione della parte più adrenalinica della pellicola, ovvero la minaccia di Biff Mad Dog: si comincia col più classico incontro fra il villain e Marty, che però a sorpresa non serve a portare ad una rocambolesca fuga del protagonista e alla conseguente umiliazione di Biff…

…ma piuttosto a reintrodurre in maniera veramente ottima Doc: con un breve scambio fra Brown e Biff si ripercorre una discordia emersa in precedenza – con al centro, come sempre, un antagonista sbruffone e spaccone – coronata dall’epifania di Marty sulla futura morte dell’amico.

La minaccia formativa

Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Tutta la dinamica fra Biff e Marty è funzionale alla maturazione del protagonista.

Trovandosi costretto ad affrontare Biff in un duello all’ultimo sangue, Marty raggiunge due consapevolezze: l’importanza di essere più scaltri che violenti, proprio riuscendo a sconfiggere il nemico non con la banale forza bruta, ma piuttosto la sua furbizia ed inventiva.

E, soprattutto, anche memore delle sue sconsolanti prospettive future, il protagonista riesce finalmente ad abbandonare quella sciocca permalosità che gli ha portato – e gli porterà – solamente guai, e a diventare molto più maturo e capace di scegliere le giuste battaglie da combattere.

Come confermato, fra l’altro, dallo scontro in auto evitato nel 1985.

Fughe & ritorni

Christopher Lloyd (Doc) e Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Per quanto riguarda le battute finali, Back to the future Part III delude.

Anzi, forse il piano per ritornare al futuro è il migliore della saga, perché inserisce l’incognita non tanto del possibile insuccesso – e del conseguente rimanere bloccati nel passato – ma proprio il pericolo di lasciarci la pelle, eventualità evitabile solamente sulla base di calcoli scientifici ed ipotesi totalmente teoriche.

Ma proprio per questo la conclusione è così emozionante e al contempo così ben contestualizzata nel panorama del film, con diversi picchi emotivi, non ultimo il ricongiungimento fra Doc e Clara, portando apparentemente ad un finale tragico sia per la macchina del tempo che per Doc.

Christopher Lloyd (Doc) e Mary Steenburgen (Clara) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Invece, il finale è perfetto.

Come Marty aveva avuto un assaggio del suo futuro, al contrario Doc non aveva niente di particolarmente esaltante a cui puntare. Per questo è fondamentale per il suo personaggio trovare una compagna con cui condividere la sua passione, e, di conseguenza, con cui poter continuare le sue avventure nel tempo.

Così la coppia di amici si lascia con delle ottime prospettive all’orizzonte: il destino di entrambi non è ancora scritto, ma è totalmente nelle mani dei protagonisti e nella loro capacità di giocare al meglio le loro carte per un futuro migliore.

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Season of the Witch – Evasione

Season of the Witch (1973), rilasciato più volte e con diverse edizioni e titoli – Jack’s wife e poi Hungry wives – è una delle opere minori e meno conosciute di George Romero.

Con meno di un milione di dollari di budget, ebbe un riscontro al botteghino sconosciuto.

Di cosa parla Season of the Witch?

Joan è una casalinga sola ed annoiata, che vive nell’ombra del marito assente, ma che avrà un’occasione per riscattarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Season of the Witch?

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

In generale sì.

Anche se è un’opera minore della filmografia di Romero, già qui si trova l’impostazione alla base del successivo Dawn of the dead (1978): utilizzare l’elemento horror per raccontare una tematica sociale, con anche un crudo realismo, nonostante la presenza dell’elemento fantastico.

Una pellicola indubbiamente complessa, quasi surreale, in cui la lettura simbolica è centrale, mentre l’elemento più strettamente narrativo risulta più secondario e quasi del tutto funzionale al significato complessivo del film.

Insomma, da riscoprire.

Incasellamento

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Il sogno iniziale definisce perfettamente il senso di angoscia della protagonista.

Portata al guinzaglio dal marito – letteralmente e metaforicamente – Joan vede la sua vita passargli davanti, definita da una serie di elementi – la figlia ribelle, le amiche con cui sparlare – che sembrano tutti cuciti su misura per la casalinga perfetta.

Una casalinga che però è sempre di più abbandonata a sé stessa, che ha perso i punti di riferimento che definivano il suo mondo come madre e moglie devota – il marito assente e la figlia ormai cresciuta ed indipendente.

Tuttavia, c’è una via di fuga.

Allo specchio

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Fin dall’inizio Joan ha l’alternativa davanti agli occhi.

Ricercando continuamente la sua identità perduta nel suo riflesso, la protagonista vi trova invece un’altra donna: una figura molto più invecchiata, austera, che le ricambia lo sguardo magnetico, tentandola verso una via alternativa.

Ovvero, quella della stregoneria.

Come per gli zombie in Dawn of the Dead, anche in questo caso l’elemento fantastico è del tutto simbolico: essere una strega non significa tanto compiere delle magie, ma piuttosto essere capace di evadere la quotidianità opprimente, e trovare un proprio soddisfacimento personale.

E gli stimoli sono fin troppo evidenti.

Evadere e invidiare

Il percorso di evoluzione di Joan passa per alcuni momenti fondamentali.

Anzitutto, la scena in cui salva Shirley, che esprime ad alta voce le angosce della protagonista stessa: aver ormai superato l’età della giovinezza e della bellezza, ed essere ormai un puro accessorio del marito – che l’aspetta in casa come un’ombra opprimente controluce…

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Poi, il momento in cui Joan entra in casa e sente l’amplesso fra la figlia e Gregg: percepito inizialmente come insopportabile, lentamente diventa lo spunto per la riscoperta la propria sessualità, nonostante il senso di vergogna che le fa provare Nikki quando la scopre e decide per questo di abbandonarla.

A questo segue il momento più umiliante per la protagonista, in cui le viene attribuita la colpa della fuga della figlia – anche se indirettamente – portando il marito a metterle le mani addosso in maniera violenta, a facendola sentire ancora più cagna di quanto si sentiva nei suoi sogni…

Il vero nemico

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Il terzo atto è un connubio fra sesso e violenza.

Anzitutto Joan utilizza i suoi neo acquisiti poteri stregoneschi per procacciarsi un amante, e non a caso sceglie Gregg, che ricollega indirettamente alla felice ed indipendente giovinezza della figlia, capace di non legarsi sentimentalmente ad un uomo per avere del piacere sessuale.

Al contempo, il sogno ricorrente del terzo atto rappresenta la sua vergogna.

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

la figura diabolica che la perseguita, che cerca di penetrare nella casa e di farle violenza – tipico simbolo del senso di colpa femminile nel godimento della sessualità – è imperscrutabile e impedisce alla protagonista di capire chi è il vero nemico.

Lo svelamento avviene quando Joan uccide per sbaglio il marito, che scambia – o forse riconosce – come un intruso che la vuole aggredire, riuscendo così a liberarsi dal vero autore della sua angoscia, diventando così una donna libera e consapevole.

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Juno – Il fallimento della comunità

Juno (2007) di Jason Reitman è uno dei più importanti cult adolescenziali dei primi Anni Duemila, che fra l’altro lanciò Elliot Page come attore.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 6.5 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 232 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Juno?

Juno è una ragazzina di 16 anni che si trova davanti ad un problema molto più grande di lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://youtu.be/ldEt22KEKhU?si=lboYCLY1YdSHa8sQ

Vale la pena di vedere Juno?

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Dipende.

Juno è un film che terrei il più possibile lontano da bambini e adolescenti: è difficile quantificare quanto questo prodotto sia diseducativo e totalmente fuori dal tempo – anche se rappresentativo di aree politiche ancora molto reali…

Se siete abbastanza grandi da guardarlo con un occhio critico e volete immergervi in un prodotto che è la rappresentazione di tutto quello che c’era – e c’è tutt’ora – di sbagliato nella concezione del corpo femminile, sarà una bella avventura…

Una ragazza diversa

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Juno è una ragazza diversa.

Questo concetto viene riproposto in innumerevoli momenti del film, sia in senso positivo che negativo, ma andando a rincorrere un ideale incredibilmente popolare nei teen movie del periodo: dividere le donne in figure di serie A e di serie B.

Solitamente la protagonista femminile in questo tipo di prodotti viene premiata proprio per la sua diversità dal resto delle ragazze così superficiali, insipide e che inseguono le mode del momento, oltre ad essere molto spesso fin troppo sessualmente attive – per non dire altro…

La protagonista e il film stesso si nutrono profondamente di questo ideale, andando anzi ad elevare ancora di più il suo personaggio così tanto altruista e che, secondo la morale della pellicola, ha fatto la scelta che nessuna ragazza avrebbe fatto – e quella più giusta.

Il sesso meccanico

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Ancora più problematica è la rappresentazione del sesso.

Per quanto Juno dica che l’intercorso con Becker sia stato fantastico, la scena e i personaggi raccontano invece tutt’altro: la messinscena è nient’altro che la rappresentazione del sogno erotico maschile, della ragazza pronta a soddisfarlo, senza aver avuto bisogno di alcun preliminare…

… e non è un caso che si mostri il piacere di Becker, ma mai quello di Juno.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Ma il racconto del sesso da parte degli adulti è anche peggiore.

Nello specifico, Brenda spiega come gli adolescenti facciano sesso perché si annoiano, tenendo nello specifico a sottolineare che il rapporto con Becker è stata un’idea di Juno: una ragazza che va quindi colpevolizzata, e che deve portare fino alla fine i risultati della sua colpa, per riuscire a trarne qualcosa di buono.

La comunità ostile

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

La radice del problema va ricercata negli adulti, e in generale in tutta la comunità di cui Juno fa parte.

Anzitutto, è particolarmente problematica la rappresentazione di Woman Now, che dovrebbe essere un luogo che, come dice la stessa Juno, aiuta le donne, ma che invece nella realtà del film, le umilia, come ben raccontato dal modo in cui la ragazza al welcome desk si rivolge a Juno:

We need to know about every score and every sore

Devi metterci ogni scopata e malattia beccata.
Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Questo scambio ha, di fatto, due principali obbiettivi: anzitutto, raccontare questi luoghi come dei covi di donne con una sessualità esplosiva e quindi condannabile, financo disgustosa – in questo senso, lo scambio sui preservativi è tutto un programma.

Oltre a questo, questi luoghi, che dovrebbero appunto aiutare le donne, in realtà non sono per nulla accoglienti, anzi, sono degli spazi ostili, dove le donne dovranno far presente di tutta la loro vergognosa vita sessuale.

Al contrario, Brenda e soprattutto Vanessa sono figure materne e accoglienti, capaci di chiudere un occhio sulla cattiva condotta della protagonista, premiandola proprio per il suo essere così altruista nel portare avanti questo miracolo divino.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

La ciliegina sulla torta è Su-chin, la ragazza che Juno incontra davanti a Woman Now, che si fa portatrice di una retorica propria dei movimenti antiabortisti: i bambini che le donne abortiscono soffrono, e sono già molto più formati di quanto si creda.

Non penso di dover spiegare quanto queste argomentazioni siano deliranti, nonchè puro terrorismo psicologico.

Ma Juno è ancora più un fallimento della sua comunità perché la stessa non è stata in grado di fornirle un’adeguata educazione sessuale, che le permettesse in primo luogo di non vivere l’esperienza sessuale come un’alternativa alla noia, e che le insegnasse in particolare il misterioso concetto di sesso protetto.

Un figlio a tutti i costi

La rappresentazione del rapporto fra Vanessa e Mark è terrificante su più livelli.

Anzitutto per Mark, che non solo si mostra totalmente indifferente per tutta la dinamica della nuova famiglia, ma al contempo è anche un adulto incapace di crescere e maturare, del tutto ancorato all’immaginario adolescenziale.

Ovviamente l’elemento peggiore è come uomo di quasi quarant’anni intraprenda una relazione con una sedicenne, evidentemente cercando di essergli molto più che un amico, anzi sottintendendo di voler lasciare Vanessa per intraprendere un rapporto con lei…

Ma neanche Vanessa è molto meglio.

Ovviamente per il film il suo personaggio è quasi una donna angelica, il cui unico obbiettivo è diventare madre – non a caso, non sappiamo se abbia un lavoro e quale sia – e che celebra e santifica la gravidanza e la maternità come esperienze a prescindere splendide e imperdibili.

Ma se guardiamo più cinicamente il suo personaggio, sotto quest’aurea mariana intravediamo una maniaca del controllo, che si è costruita un matrimonio su misura, con un compagno che evidentemente – e anche legittimamente – ha altri interessi nella vita oltre all’essere un padre.

L’unica speranza è che sia una migliore come madre che come una compagna…

La gravidanza idilliaca

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Dei genitori giudiziosi avrebbero accompagnato la figlia verso la scelta più giusta per la sua età, e soprattutto per il suo reale desiderio.

Infatti, è veramente grottesco quanto Juno insista sul fatto di quanto non voglia quel figlio: non quindi una donna effettivamente altruista, ma piuttosto un’adolescente che anche comprensibilmente – vuole togliersi un peso.

Ma, di fatto, Juno è il sogno di ogni antiabortista.

Un discorso che viene spesso proposto per dissuadere le ragazzine ad abortire è l’idea di tenere il bambino e darlo in adozione – esattamente quello che succede nel film – del tutto ignorando cosa significa per una donna – soprattutto una giovane donna – affrontare una gravidanza.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

E infatti nel film fondamentalmente non vediamo mai alcun problema fisico o psicologico che la protagonista deve affrontare, ma al più i suoi turbamenti legati al rapporto tossico dei genitori adottivi, e a come Juno sia una martire a portare avanti la gravidanza, nonostante tutti le parlino dietro…

…elemento che, nei fatti, non viene mai mostrato.

Ed è tanto più semplice raccontare come Juno si disinteressi totalmente del bambino nato, lasciandole alle amorevoli cure di Vanessa, con una dinamica che sfiora la depressione post-partum, ma che viene portata in scena come una conclusione ideale.

Infatti, l’amore e la vita hanno trionfato.

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High School Musical – Un fenomeno generazionale

High School Musical (2006) di Kenny Ortega è stato uno dei più grandi fenomeni generazionali degli Anni 2000, riuscendo a mantenere intatto il suo culto anche negli anni successivi.

A fronte di un budget veramente irrisorio – appena 4 milioni di dollari – venne trasmesso in esclusiva su Disney Channel, ma ottenne la sua fortuna economica con l’uscita in home video, diventando il DVD di un film televisivo più venduto nella storia della televisione.

Di cosa parla High School Musical?

Troy e Gabriella sono due adolescenti che si sentono intrappolati nelle identità con cui gli altri li hanno bollati, ma provano ad intraprendere una nuova strada…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere High School Musical?

Zac Efron in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Assolutamente sì.

A differenza di altri fenomeni adolescenziali del periodo – come quel pianto di Camp rock (2008) – High School Musical deve il suo successo all’essere un prodotto con una narrazione abbastanza anomala per il periodo, oltre al farsi portatore di una morale che riuscì a conquistare gli adolescenti dell’epoca – e non solo.

Oltre a questo, nonostante non siano per la maggior parte professionisti, gli interpreti regalano delle performance di buon livello e sono protagonisti di numeri musicali assolutamente iconici ancora oggi.

Insomma, da recuperare.

Qualcosa di nuovo

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

I never opened my heart
to all the possibilities

Non mi sono mai aperto a tutte le possibilità

Il punto di partenza di High School Musical è già di per sé determinante.

I protagonisti sono inquadrati nella loro anomalia: nonostante si riveleranno delle figure estremamente popolari all’interno dei rispettivi gruppi, appaiono al contempo dei personaggi molto chiusi in sé stessi e nelle loro passioni.

E il loro duetto è determinante per più motivi.

I due vengono buttati a tradimento in mezzo alla scena per qualcosa che non avevamo mai provato prima: cantare, e nello specifico cantare i loro veri sentimenti, per di più davanti ad un ampio pubblico.

Così Troy e Gabriella ammettono timidamente di non essersi mai aperti a qualcosa di nuovo, condividendo il medesimo imbarazzo iniziale, ma riuscendo infine a spingersi vicendevolmente in questa nuova esperienza, con infine, anche un inaspettato entusiasmo.

Fuori dagli schemi

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Just keep ya head in the game

Devi stare concentrato sul gioco

Ma l’ambiente scolastico è molto più ostico.

Entrambi i protagonisti sono stati perennemente confinati nelle loro rispettive sfere di appartenenza, dovendo aderire a dei modelli sociali precisi, e da cui sembra impossibile sfuggire: la stella del basket e il genio della scuola.

Gabriella per prima sente di voler evadere questo modello, mentre Troy dimostra sulle prime ben poco coraggio nell’ammettere di aver trovato un’altra passione, fra l’altro una così mal considerata dai suoi compagni.

Zac Efron in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

E infatti la peer pressure è principalmente sulle sue spalle, come testimoniato dallo splendido numero Get’cha Head in the Game.

In questa scena Troy è letteralmente tallonato dai suoi compagni di squadra, che gli urlano addosso quello che già quello lui sente come il suo dovere: essere il capitano della squadra, concentrarsi sul campionato, e non pensare a nient’altro.

Ma il protagonista non si lascia annientare, e comincia così un rocambolesco inseguimento, una dinamica al gatto e al topo, in cui Chad lo bracca per i corridoi della scuola, cercando insistentemente di riportarlo nel suo ambiente naturale: il campo da basket.

Troy e Gabriella provino

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma arrivare alle audizioni non basta.

Nonostante l’incontro rivelatorio fra i protagonisti, i due rimangono comunque nascosti in fondo alla sala ad osservare i provini, non avendo il coraggio di fare il passo successivo, visto anche l’atteggiamento piuttosto tirannico della Darbus.

In questo caso, pur in ritardo sui tempi, è Gabriella è guidare l’azione, proponendosi per l’audizione e venendo infine, dopo tanta esitazione, spalleggiata da un Troy nel totale imbarazzo, che riesce a malapena ad alzare gli occhi da terra…

Così il secondo duetto è un parallelo del primo incontro, in cui i due protagonisti confermano il loro rapporto e la rispettiva passione per il canto.

E così accade l’inaspettato.

Una villain magnetica

Ashley Tisdale e Lucas Grabeel in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

I’ve never had someone as good for me as you

Appena arrivati a scuola, i protagonisti vengono subito messi alla prova dal villain principale della pellicola: Sharpay.

Il personaggio di Ashley Tisdale è uno degli antagonisti più indovinati dei teen drama di quel periodo – capace per certi versi di rivaleggiare con l’iconica Regina George di Mean Girls (2004) – con un atteggiamento velenoso e irritante, ma ben contestualizzato.

Sharpay Evans è infatti il personaggio forse più tragico della pellicola, quello che più difficilmente riesce ad accettare questo cambio di passo, in particolare l’abbattimento della torre d’avorio da lei – e da suo fratello – faticosamente costruita.

Ashley Tisdale e Lucas Grabeel in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma, soprattutto, ci mette veramente il cuore.

Sharpay e Ryan prendono davvero seriamente il teatro e il canto, portando in scena delle performance veramente splendide e iconiche, in cui mostrano il loro talento e la loro passione per il mondo dello spettacolo.

Ed è anche per l’impegno che ci mettono e per l’importanza che hanno queste esibizioni per la definizione della loro identità, che i due, e nello specifico Sharpay, temono così fortemente la competizione di due personaggi che ai loro occhi appaiono davvero come degli improvvisati.

Tanto che Sharpay, anche solo per il sospetto di una possibile concorrenza, intrappola Gabriella in quella identità da cui la stessa stava cercando di fuggire…

Lo status quo

Stick to the stuff you know

Chad e Taylor sono per lunghi tratti i villain secondari del film.

In particolare, Chad è il protagonista negativo della violentissima canzone Stick to the Status Quo, che è una sorta di ampliamento, pure più feroce, della precedente Get’cha Head in the Game, in cui impone ai suoi compagni di rispettare lo status quo, appunto.

Un sentimento che serpeggia in tutte le cliques presenti nella scuola, in cui una voce fuori dal coro, una personalità anche solo di poco fuori dai limiti dei modelli imposti, viene immediatamente silenziata e rimessa al suo posto, ribadendo come una persona può essere una cosa sola.

Zac Efron e Monique Coleman in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma la ribellione non può essere fermata.

Infatti, nonostante la maggior parte dei personaggi in scena continui a ribadire la necessità di non cambiare le cose, con un focus particolare sulla crisi isterica di Sharpay, sullo sfondo i personaggi che hanno scelto di rivelarsi ai compagni non fanno un passo indietro, anzi.

In particolare Zeke, che fino alla fine continua a riproporre la sua passione per i dolci, per quanto costantemente criticata da Chad.

E così anche i due protagonisti, pur continuamente stressati dai compagni nell’abbandonare il loro progetto canoro, pur continuando ad esercitarsi alla chetichella, portano comunque avanti la loro neonata passione.

Crescere

Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

There’s not a star in heaven
That we can’t reach

La bellezza del rapporto fra Troy e Gabriella è il suo non essere una banale storia d’amore.

Nonostante ci sia indubbiamente un sottofondo romantico, che verrà poi meglio approfondito nei sequel, con questa esperienza i due si arricchiscono vicendevolmente, sostenendosi in questo viaggio alla scoperta di sé stessi.

Per questo l’intrigo di Chad e Taylor è così crudele: è il primo momento in cui Gabriella veramente si arrende, davanti all’idea che Troy non consideri così importante il loro rapporto ed il loro progetto, sentendosi di conseguenza inevitabilmente sola.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Anche se questo conflitto viene risolto un po’ sbrigativamente, è un momento di passaggio fondamentale, in cui Troy capisce di doversi farsi perdonare per due volte: prima riallacciando i rapporti con Gabriella, poi aiutandola durante la loro esibizione.

Ed è splendido il loro duetto in cui finalmente, davanti a tutta la scuola, davanti ai loro compagni che finalmente sembrano sostenerli, cantano apertamente i loro sentimenti, sentendosi invincibili e finalmente abbastanza maturi per abbracciare la loro passione.

A questa scena così toccante segue un epilogo forse con un po’ meno mordente, ma che è fondamentale per ribadire il cambiamento che è avvenuto in tutta la scuola, non più divisa in gruppetti e fazioni, ma veramente unita e aperta a questo nvoo status quo.

High School Musical sequel

High School Musical ha avuto ben due sequel, entrambi di grandissimo successo – il terzo addirittura divenne un evento cinematografico.

Ma vale la pena di vederli?

In generale, sì.

Per quanto il primo capitolo rimanga il mio preferito, anche i successivi meritano una visione.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical 2 (2007) di Kenny Ortega

High School Musical 2 è un film dal forte sapore estivo – e infatti fu rilasciato nell’agosto del 2007 – in cui i protagonisti si ritrovano a lavorare per il resort della ricca famiglia di Sharpay.

La trama è abbastanza simile a quella del primo capitolo, ma più sulle note di Il diavolo veste Prada (2006), con Troy che interpreta la Andy di turno, diviso fra l’occasione di ottenere una borsa di studio e il pericolo di tradire i suoi affetti.

Il secondo capitolo è anche la pellicola in cui Sharpay ha il suo momento migliore come villain della saga, andando a toccare note ancora più tragiche – anche se molto stemperate dalla messinscena.

Inoltre, in High School Musical 2 ci sono alcune delle canzoni più indimenticabili della trilogia – le mie preferite sono Gotta Go My Own Way e Bet on it.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical 8 (2006) di Kenny Ortega

Il capitolo conclusivo è secondo me quello più debole, ma ha dalla sua un apparato tecnico e visivo estremamente cinematografico.

Con il passaggio al grande schermo, la produzione divenne ben più ambiziosa, investendo un budget quasi triplicato rispetto al primo capitolo, e godendo di una regia molto più consapevole e curata, per certi tratti assai teatrale.

Il taglio narrativo è quasi malinconico, e si concentra quasi del tutto sulla storia fra Troy e Gabriella e sulle rispettive scelte per il futuro, non sempre facili, lasciando comunque spazio anche al resto dei personaggi.

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Diario di una tata – La spersonalizzazione voluta

Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini è una piacevole commedia coming of age con protagonista una giovanissima Scarlett Johansson.

Con un budget molto contenuto – appena 20 milioni di dollari – ebbe un discreto riscontro al botteghino, con 47 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Diario di una tata?

Annie è una giovane neolaureata che, anche per le pressioni della madre, vorrebbe intraprendere una carriera in ambito economico. Ma il destino ha qualcos’altro in serbo per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Diario di una tata?

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

In generale, sì.

Anche se non è un film imperdibile, Diario di una tata è una commedia veramente piacevole, che offre diversi spunti di riflessione che, pur nella loro semplicità, non sono per niente scontati, ma che anzi raccontano una realtà ancora molto attuale.

Il film è inoltre impreziosito da un cast di primo livello: oltre alla fantastica Scarlett Johansson, troviamo anche Chris Evans, Laura Linney e il fantastico caratterista Paul Giamatti, oltre ad un’improbabile apparizione di Alicia Keys.

Insomma, ve lo consiglio.

La strada obbligata

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

La situazione iniziale di Annie è piuttosto tipica per i giovani di oggi e di ieri.

A fronte di un genitore che ha dovuto fare grandi sacrifici per un lavoro tutt’altro che semplice, la protagonista viene spinta dalla madre verso una carriera più redditizia e, almeno nella sua visione, molto più felice.

La questione viene sottolineata in particolare dal personaggio di Lynette, che rappresenta la voce degli immigrati di seconda e terza generazione che poterono sperare in una vita più agiata proprio grazie agli sforzi dei genitori, che spesso erano stati i servi delle ricche famiglie bianche statunitense.

Spinta verso questa identità costruita a puntino, Annie tenta il colloquio che dovrebbe cambiarle la vita, ma che si rivela tanto più impossibile quando le viene chiesto di raccontarsi, di darsi un’individualità che la distingua da tutti gli altri candidati.

Proprio in questo mondo tutte le sicurezze della protagonista vanno ancora più in pezzi, andando a ricercare nella giungla newyorchese una nuova identità in cui ritrovarsi, e che la possa finalmente definire come persona.

La nuova non-identità

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

E la nuova identità arriva, ma non la definisce.

Trovandosi per caso a salvare un bambino distratto mentre già pensava di diventare una barbona, Annie si trova davanti un ventaglio di possibilità inaspettato: diverse donne che bramano per averla al loro servizio e un’incredibile – per quanto temporanea – via di fuga.

Per quanto confortata da questa opportunità, Annie è del tutto consapevole di star facendo un errore e di star rinnegando le possibilità che la madre ha costruito apposta per lei, motivo per cui le mente così spudoratamente.

Scarlett Johansso e Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

L’identità di tata è infatti confortante quanto spersonalizzante, come testimoniano le parole della stessa Annie:

I’m referred to as “Nanny” by all the people in the X’s social network.

Sarò chiamata “tata” da tutti gli appartenenti al ceto sociale dalla signora X.

La tata non è altro che una figura usa-e-getta, una donna che viene coinvolta da queste ricche e disperati madri per essere spremuta fino all’inverosimile non tanto per crescere i loro figli, ma piuttosto per essere tutto quello che loro non vogliono – e non possono – essere.

La catena di miseria

Laura Linney e Paul Giamatti in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Il circolo vizioso della miseria di mogli e dei figli parte dai padri.

I padri sono figure misteriose, sostanzialmente assenti nella vita familiare, micidiali imprenditori a cui interessa solo guadagnare il più possibile, riuscendo comunque a mantenere sotto scacco i due simboli sociali altrettanto preziosi per il loro status: la sposa e la prole.

Le mogli – come i figli – per i mariti non solo altro che accessori, trofei da esibire in pubblico per dimostrare di aver successo non solo nella sfera lavorativa, ma anche in quella familiare, mentre dietro le quinte la loro mancanza di interesse per la stessa è micidiale.

Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Così si creano delle madri tremendamente assenti e delle donne troppo impegnate a costruirsi un’identità sociale rispettabile tramite gli eventi sociali e l’acquisizione di simboli materiali – gioielli, vestiti… – per provare anche solo ad essere delle mamme.

Per questo scelgono di trasferire i loro obblighi genitoriali ad una terza persona, anzi ad una schiera di altre persone che si avvicendano continuamente nella vita dei loro figli, donne che possono tranquillamente strapazzare senza paura delle conseguenze.

E Annie si lascia strapazzare.

Going native

Scarlett Johansso in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Nonostante questa situazione ai confini della realtà, Annie viene inevitabilmente coinvolta emotivamente dai problemi di questa terribile famiglia.

Vivendo così vicino a questi animali sociali, la protagonista, una volta superati i capricci di Grayer, riesce ad entrare nelle sue grazie ed a ricevere il suo affetto e la sua approvazione, tanto da diventare in un certo senso la sua vera madre.

Allo stesso modo, Annie non può non provare pena per la terrificante situazione matrimoniale e famigliare della Signora X, arrivando a prendersi sulle spalle la responsabilità della riuscita del matrimonio della stessa.

Per questo, fino all’ultimo, la protagonista non riesce a distaccarsi da questa situazione, di cui lei stessa è consapevole di essere dipendente.

Una nuova strada

Scarlett Johansso e Laura Linney in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Tramite questa esperienza, Annie acquisisce un’importante consapevolezza.

Infatti, la protagonista si rende conto di quanto sia molto più importante costruirsi un’identità seguendo le proprie inclinazioni e passioni, piuttosto che inseguire un sogno di ricchezza, che però non garantirà alcun tipo di felicità personale.

Questa consapevolezza è confermata dalla relazione con Hayden, che inizialmente Annie respinge anche per la differenza delle loro condizioni sociali, di cui ha una concezione totalmente idealizzata.

Scarlett Johansso e Chris Evans n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Infatti, il ragazzo – nel ruolo quasi da pixie girl – le fa ancora di più comprendere come queste situazioni di agiatezza economica non si accompagnano sempre – anzi, davvero raramente – ad una vita perfetta e desiderabile, anzi.

Secondo una consapevolezza non tanto dissimile, la Signora X riesce a grazie ad Annie a rendersi conto di essersi incastrata all’interno di un modello apparentemente felice – la moglie ricca e devota – che la porta solo ad essere una donna infelice ed una pessima madre.

E non è un caso che sul finale si rivela per il suo vero nome, Alexandra – un’Alexandra nuova di zecca.

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School of Rock – Imparare a ribellarsi

School of Rock (2003) di Richard Linklater è un piccolo cult dei primi Anni Duemila, nonché uno dei ruoli più iconici di Jack Black, in quel periodo fra le star comiche più quotate.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – incassò complessivamente molto bene: 131 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla School of Rock?

Dewey Finn è un musicista squattrinato e appena cacciato dalla sua stessa band. Ma troverà un modo inusuale per tornare sulla cresta dell’onda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere School of Rock?

Jack Black in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

In generale, sì.

Devo ammettere che da spettatrice ormai cresciuta, nonostante sia un film piacevolissimo, ho trovato School of Rock leggermente più debole rispetto al suo alter ego di qualche anno successivo, ovvero Bad Teacher (2010) – molto più consapevole e sfacciato.

Ma, proprio per questo, la pellicola con protagonista Jack Black è decisamente più accessibile, sopratutto per il pubblico di giovanissimi a cui è principalmente rivolta, offrendo anche degli spunti di riflessione – e, di fatto, pedagogici – non scontati.

Insomma, in generale lo consiglio.

Un protagonista miserabile

Jack Black e Joan Cusack in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

L’inizio del 2000 era terreno fertile per i protagonisti negativi.

Una maggiore complessità e tridimensionalità dei personaggi, protagonisti molto più grigi che presero piede sopratutto a partire da Shrek (2001), e i cui effetti si videro anche in School of Rock: Dewey Finn è un illuso, uno squattrinato che vive solamente di sogni.

L’apice della sua negatività è raggiunto immediatamente, quando sfila di mano un’ottima proposta lavorativa al coinquilino, con una crescente gravità: non solo si tratta di gestire dei bambini, ma sopratutto di farlo all’interno di una prestigiosa – e costosa! – scuola privata.

Francamente il suo personaggio sulla carta non è niente di particolarmente interessante, ma la sua mordente iconicità è garantita da Jack Black, grazie alla sua travolgente comicità e espressività, recentemente riconfermata anche in Super Mario Bros. – Il film (2023).

Un’occasione…di guadagno?

Jack Black e Rebecca Julia Brown in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il piano di Dewey è di fatto maligno, ma non è portato avanti proprio con le peggiori intenzioni.

Se infatti il principale motivo appare quello di ricreare una band che può controllare come gli pare e piace, in realtà in un certo senso il protagonista si prende a cuore la missione di educare questi bambini alla buona musica rock

…e, sul lungo periodo, di insegnare loro anche molto altro.

Infatti, nonostante sostanzialmente Dewey li privi di nozioni fondamentali per la loro educazione primaria, col tempo e quasi involontariamente offre ai suoi alunni degli insegnamenti molto più importanti: saper pensare fuori dagli schemi, essere creativi e coltivare le proprie passioni.

Infatti, tramite questa esperienza i bambini scoprono qualcosa di nuovo su sé stessi, godendo anche un inedito rispetto da parte di un adulto: fino a quel momento erano abituati a genitori e ad insegnanti con un atteggiamento molto più stringente e tirannico.

In particolare due personaggi – Zack e Tomika – diventano più sicuri di loro stessi, trovandosi anche ad essere valorizzati e premiati da un insegnante per qualcosa di non strettamente collegato alla scuola, ma al loro innegabile talento musicale.

Ma non è neanche l’insegnamento più importante.

Ribelli e consapevoli

Jack Black, Rebecca Julia Brown e Joey Gaydos Jr. in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il principale insegnamento di Dewey per i suoi alunni è il saper essere ribelli e non farsi sottomettere dall’autorità.

Infatti, sul finale riescono a portare a termine la loro missione in sostanziale autonomia, avendo dimostrato già in precedenza di essere molto più intelligenti e capaci di quanto gli altri adulti credessero – in particolare quando devono simulare una lezione in corso.

Oltre a questo, gli alunni si dimostrano anche più maturi del loro insegnante, capendo l’importanza di aver lavorato a qualcosa di creativo e di originale, senza necessariamente ricercare il riconoscimento da parte degli altri – quindi anche senza vincere la Battaglia delle Band.

Mike White e Sarah Silverman in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Al contempo è una lezione utile anche per gli adulti.

Infatti, sia Ned che Rosalie riescono a ribellarsi.

Fin dall’inizio Ned è sostanzialmente sottomesso alla compagna, che lo spinge ad essere un adulto sempre più chiuso e insicuro, totalmente incapace di inseguire i propri sogni, o anche solamente di vivere serenamente i propri hobby.

Allo stesso modo la preside Rosalie è sostanzialmente terrorizzata dalla sua posizione e dagli altri adulti, incapace di relazionarsi in maniera serena né con loro, né con gli alunni stessi.

Ma grazie a Dewey riesce a ribellarsi dalla sua posizione, accettando persino le avances di un ragazzo così particolare come Spider.

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Il diavolo veste Prada – Una donna troppo intraprendente

Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel è uno dei più grandi cult degli Anni Duemila, ricordato soprattutto per la fantastica performance di Meryl Streep e per aver lanciato la carriera cinematografica di Anne Hathaway.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 326 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Il diavolo veste Prada?

Andy è una giovane ragazza con un sogno: diventare una giornalista per le più importanti testate di New York. Ma la strada per arrivarci è strana quanto perigliosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il diavolo veste Prada?

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Assolutamente sì.

Il diavolo veste Prada è un cult imprescindibile, che riesce a raccontare molto di più sul dramma della femminilità dell’inizio del Millennio (e non solo) di quanto appaia ad una prima visione, con delle performance attoriali indimenticabili e una maturazione della protagonista tipica e atipica insieme…

Al contempo, questa pellicola è un racconto molto lucido delle difficoltà del mondo della moda e, più in generale, della realtà lavorativa statunitense – e non solo – soprattutto per una donna in un mondo dominato dalla visione maschile.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Una ragazza con un sogno

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

L’opening de Il diavolo veste Prada è già di per sé iconico.

Si alternano sullo schermo scene di diverse donne senza nome che si preparano per uscire indossando abiti favolosi e molto chic. Tutto il contrario invece della nostra protagonista, che ha un abbigliamento molto più semplice e – se così vogliamo dire – trasandato.

Quindi fin da subito capiamo un concetto fondamentale: Andy è fuori posto.

Ma non per questo si arrende.

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Nonostante fin da subito sia osteggiata da ogni parte, nonostante sia redarguita e sbeffeggiata per non essere vestita alla moda e per non venerare Miranda, Andy non si perde d’animo ed affronta a testa alta un colloquio che già capisce essere destinato al fallimento.

E ancora, nonostante Miranda la tratti con sufficienza e superiorità, la protagonista si lancia comunque in un racconto sincero e appassionato riguardo le sue capacità di lavorare sodo e di potersi quindi adattare anche ad un contesto così alieno per lei.

E per questo Miranda la sceglie.

Ostilità e epifania

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Fin da subito lavorare per Miranda si rivela un inferno.

Senza alcuna formazione, senza alcuna pietà, Andy viene travolta dal turbine di richieste impossibili e tiranniche che presuppongono che lei conosca già a menadito la rivista, i contatti e le abitudini della sua nuova capa.

Nonostante appaia impacciata, piena di dubbi e fuori posto, la protagonista non si arrende mai, dimostrandosi anzi ben cosciente che tutto quello sforzo è un passaggio necessario per percorrere la via più breve – ma anche più ardua – per conquistare il suo sogno.

L’epifania è l’iconica scena del ceruleo.

Nonostante sembri solo raccontare la cattiveria e la supponenza del personaggio di Miranda, in realtà rivela molto di più.

Miranda non se la prende con Andy perché non ne capisce nulla di moda: piuttosto la critica aspramente per la superficialità con cui sta approcciando il suo nuovo lavoro e l’ambiente di cui fa parte, considerando la moda come una roba che non la riguarda.

Ma proprio la direttrice di Runway le fa comprendere come invece il suo lavoro sia molto più trasversale e penetrante, molto più importante profondo di quanto creda: non solamente uno spreco di soldi per oggetti inutili, ma un’effettiva forma d’arte.

Ma sulle prime Andy questo non lo capisce.

Il diavolo veste Prada Nigel

Anne Hathaway e Stanley Tucci in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

La vera svolta arriva con il dialogo con Nigel.

Dopo l’amaro confronto con Miranda per non essere riuscita a riportarla a casa in tempo per la recita delle sue figlie, Andy si rivolge al braccio destro del suo capo per un conforto, sperando di trovare in lui una spalla su cui piangere.

Invece Nigel la sorprende.

Con il suo sentito monologo, l’uomo le fa comprendere una volta per tutte la faciloneria con cui ha approcciato il suo nuovo lavoro, scegliendo testardamente di non adattarsi e di continuare a sminuire Runway e tutto quello che – come spiega Nigel – effettivamente rappresenta.

La svolta superficiale?

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Con l’atto centrale il film comincia a combattere contro sé stesso.

Se da una parte infatti la sceneggiatura vorrebbe che il cambiamento di abbigliamento di Andy andasse di pari passo con il peggioramento del suo carattere, in realtà questa svolta rappresenta il momento di consapevolezza della protagonista.

Infatti, parallelamente al suo cambio di look, Andy si dimostra anche più spigliata, più sicura, più determinata nello sfruttare effettivamente questa opportunità che le è stata concessa, non scegliendo più di combattere l’ambiente, ma di trarre il meglio dallo stesso.

Ed è anche il momento in cui Miranda la mette maggiormente alla prova.

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Se il primo test di fiducia di Miranda fallisce miseramente – Andy è incapace di portare a termine una commissione così semplice come portare a casa il Book – la donna sceglie di metterla nuovamente alla prova con una missione impossibile quanto punitiva.

In questo modo, infatti, Miranda pensa di dimostrare definitivamente come Andy, pur essendosi adattata al suo mondo, sia comunque un’incapace.

E invece la protagonista incassa una vittoria dopo l’altra: prima superando brillantemente la prova impossibile del manoscritto di Harry Potter, poi dimostrandosi anche migliore di Emily alla Festa di Beneficenza.

Amici…serpenti

Sulla carta Il diavolo veste Prada vorrebbe raccontare come Andy abbandoni i suoi ideali e i suoi affetti, diventando una donna superficiale e spietata.

Nella realtà, vediamo tutt’altro.

Come detto, la protagonista si impegna sempre di più nel suo lavoro, ma non abbandona mai veramente i suoi amici o smette di preoccuparsi per loro, anzi cerca costantemente di conciliare la sua difficoltosa vita lavorativa con la sua sfera privata.

E dimostra anche di essere una buona amica quando ricopre i suoi amici di regali e li incoraggia continuamente nei loro sogni, al contrario degli stessi che si dimostrano costantemente ostili e di fatto poco rispettosi dello sforzo che sta compiendo.

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Ma Nate è il peggiore di tutti.

Il fidanzato di Andy non si impegna mai ad essere veramente supportivo nei suoi confronti, anzi la ostacola costantemente, la fa sentire in colpa per prendere sul serio il suo lavoro, e infine la accusa perfino di non avere una dignità.

Ma il suo punto più basso è indubbiamente sul finale, quando Andy gli dice che ha voltato le spalle alla sua famiglia e ai suoi amici e si chiede per cosa l’ha fatto, e al che Nate risponde

For shoes and shirts and jackets and belts.

Per le scarpe. E le camicette. E le giacche e le cinte.

dimostrando di non aver capito assolutamente nulla.

La vera morale

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Invece la vera morale della storia è racchiusa nel viaggio a Parigi.

Quando Miranda sceglie Andy al posto di Emily per la Settimana della Moda, non lo fa per metterla alla prova per un proprio tornaconto, ma per farle veramente comprendere cosa significa la strada che ha intrapreso, e se sia davvero disposta a percorrerla fino in fondo.

E Andy sceglie ancora una volta di mettere sé stessa al primo posto, dimostrando anche una grande maturità – a differenza dei suoi amici – nel capire finalmente l’importanza del lavoro che sta svolgendo e di quali opportunità le si stiano aprendo davanti.

Al contempo, tuttavia, Andy sceglie anche di distaccarsi da quel covo di vipere che è il mondo che ruota intorno a Miranda, fatto di sotterfugi, pugnalate alle spalle e odio intestino mal celato, scegliendo di aiutare la sua capa, con un’umanità anomala per l’ambiente.

Tuttavia, quando alla fine Miranda le spiana definitivamente la strada per continuare a lavorare per Runway, Andy sceglie di non proseguire fino in fondo: la protagonista non vuole smettere di essere una donna determinata, ma non vuole neanche perdere la sua integrità.

Di fatto Andy continua a seguire il suo sogno, ma alle sue regole.