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Strange World – Ambientalismo generazionale

Strange world (2022) di Don Hall è un lungometraggio animato di genere avventura, con un forte elemento fantastico-fantascientifico e una piccola morale molto interessante.

Peccato che nessuno ne stia parlando.

Il film è stato infatti un disastro commerciale: a fronte di una produzione piuttosto importante di 180 milioni di dollari, ne ha incassati ad oggi 66 in tutto il mondo.

E ormai è sbarcato su Disney+ e la sua vita in sala è finita…

Di cosa parla Strange world?

Jaeger Clade e suo figlio Searcher sono due avventurieri che stanno per scoprire cosa si nasconde dietro le montagne che circondano il loro piccolo mondo. Ma qualcosa di più interessante si trova su quelle montagne, che porterà le loro strade a dividersi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Strange world?

In generale, sì.

Strange world è un film fatto apposta per essere visto con tutta la famiglia, con un cast di personaggi piuttosto corale che mette in scena tre diverse generazioni, e i rapporti che le legano.

Oltre a questo, è una piccola avventura molto simpatica e piacevole, che sicuramente potrebbe allietare un pomeriggio in compagnia, senza particolari difetti. Più che altro il grande problema del film è il fatto che è molto dimenticabile

Ed è solo uno dei motivi del suo insuccesso…

Perché Strange world è un flop?

Strange world è stato un disastro commerciale.

Si potrebbe pensare che questo insuccesso sia dovuto unicamente alla scarsissima campagna marketing e alla recente antipatia della Disney per i prodotti animati al cinema, all’interno di una crisi del genere tutto.

Sia Red (2022) quanto Lightyear (2022) sono testimoni di questa tendenza.

Tuttavia, secondo me non è l’unico motivo.

La Disney si è trovata fra le mani un prodotto non particolarmente forte, per vari motivi: per quanto sia appunto un prodotto piacevole e davvero adatto al target familiare, è purtroppo davvero dimenticabile e non è così originale e memorabile sotto nessun punto di vista.

Questo sia per la trama molto semplice, ma sopratutto per la mancanza di canzoni: come mi ha ben fatto notare il caro collega di @cangius.movie, la parte musicale resta molto più facilmente in testa ed è parte del successo di un film Disney.

E Encanto (2021) lo testimonia perfettamente.

Per cui, davanti ad un prodotto non molto forte, che forse sapevano anche non avrebbe avuto un gran profitto, hanno deciso di non promuoverlo e scaricarlo il prima possibile su Disney+.

Con le conseguenze che abbiamo visto.

Un film per tutta la famiglia

Strange world è un film confezionato alla perfezione per colpire i diversi target: il bambino o ragazzino, il padre e anche il nonno, raccontando i conflitti e rapporti che definiscono queste tre generazioni.

Per quanto in qualche misura le risoluzioni sembrano un po’ affrettate e semplicistiche, colpiscono indubbiamente al cuore e raccontano delle dinamiche in cui un po’ tutti possono ritrovarsi, ed essere per questo coinvolti e commossi.

E la rappresentazione del conflitto generazionale è tanto più interessante in riferimento al tema di fondo.

Ambientalismo intergenerazionale

Il tema di fondo diventa tanto più evidente più ci si avvicina al finale.

Strange world vuole in realtà parlare di ambientalismo, di vivere in armonia con il pianeta che abbiamo colonizzato senza pietà per millenni e del male che gli stiamo facendo con la nostra scorsa allo sfruttamento selvaggio.

E questo tema si articola nei tre personaggi protagonisti.

Jaeger Clade rappresenta la generazione più vecchia e con una volontà distruttiva: come si vede, il personaggio si fa largo nell’ambiente in maniera aggressiva e mettendo solamente la propria persona al centro, considerando nemico ogni elemento che gli si pone davanti.

Più morbido il comportamento di Searcher Clade, che rappresenta la generazione fra i Millennial e la Generazione X, che comunque sfrutta l’ambiente in cui vive, nonostante questo provochi dei danni allo stesso.

E si sente anche nel giusto nel farlo.

In quest’ottica il Pando può essere associato a tutte le risorse della Terra che sfruttiamo all’inverosimile e al conseguente inquinamento dovuto all’ipersfruttamento e all’utilizzare tutto unicamente a nostro vantaggio.

La generazione di svolta è quella di Ethan, che fin da subito si sente in colpa nello sterminare esseri viventi, per quanto aggressivi, e che alla fine riesce insieme al padre a comprendere la verità sulla situazione in cui si trova e, di conseguenza, a salvare il proprio mondo.

Con un finale in cui le generazioni si ricongiungono in un messaggio di speranza.

Una rappresentazione positiva?

Strange world ha fatto un certo rumore per la rappresentazione del protagonista come esplicitamente omosessuale.

Durante la pellicola Ethan racconta più volte di essere interessato a Diazo, e tutti i personaggi accettano pacificamente, anzi felicemente, questa potenziale relazione. E tutta la rappresentazione del loro rapporto è molto tenera e naturale.

Tuttavia, io non sono del tutto convinta.

Mi rendo perfettamente conto che stiamo parlando della Disney che va con i piedi di piombo su questo argomento, ma a me sembra che ancora non sia abbastanza e che forse non sia la migliore rappresentazione auspicabile.

Il mio dubbio sta anzitutto nel character design sia di Ethan che di Diazo: volevano dare una rappresentazione del maschile che si sente più libero di avere una aspetto non rigidamente e stereotipicamente di genere, oppure stavano semplicemente giocando con uno stereotipo?

E qui sta tutta la differenza.

Oltre a questo, nonostante alla fine abbiamo una relazione, non si vede mai che si scambiano effusioni, a differenza di quanto succede piuttosto esplicitamente fra Searcher e Meridian.

Io personalmente, più che una buona rappresentazione, vedo ancora dei contentini e delle mani messe avanti…

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Bardo – Alla ricerca del nulla

Bardo La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu è un film di genere surreale misto al biopic, prodotto e distribuito da Netflix. Il regista, che ha avuto il suo successo internazionale con Birdman (2014) e The Revenant (2015), torna sui suoi passi con un’opera più intima e personale.

Forse anche troppo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Bardo – La cronaca falsa di alcune verità (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliore fotografia

Di cosa parla Bardo?

Silverio è un giornalista e documentarista messicano, che verrà premiato negli Stati Uniti per il suo ultimo documentario. E questo gli crea diversi ripensamenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bardo?

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Tendenzialmente, no.

Avendo avuto già una complessiva piacevole esperienza con il cinema di Iñárritu, riesco ad essere leggermente più morbida nella valutazione di questa pellicola, e non cadere nel totale respingimento come era stato per Madre! (2017).

E per certi versi i due film non differiscono molto.

Mi sono trovata davanti, in entrambi i casi, a due prodotti con un’interessante idea alle spalle, che però il regista è stato incapace di portare sullo schermo in maniera veramente interessante, diventando eccessivo e inutilmente ridondante.

È il classico film che potrebbe essere adorato da alcuni, anche per affezione nei confronti del regista, e invece odiato da altri. Se vi sentite molto vicini al suo cinema e ad Iñárritu umanamente parlando, e sopratutto vi piacciono i film con taglio profondamente onirico e surreale, potrebbe anche piacervi.

Io, personalmente, non lo consiglio.

Il problema del surreale

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Il genere surreale è uno dei miei preferiti, a livello davvero crossmediale: che sia cinema, fumetti, libri, è un taglio narrativo che apprezzo quasi sempre.

Proprio amandolo così tanto, sono anche consapevole che sia un’arma a doppio taglio: alla base di un racconto di questo tipo ci deve essere un’idea forte, che funzioni, e che riesca ad essere distribuita organicamente all’interno di una storia.

E non è così semplice.

Se non si riesce a gestirla con la giusta capacità e intelligenza, si rischia facilmente di andare ad impelagarsi in una narrazione che appare fine a se stessa, che magari ha un significato di base, ma che alla fine non si riesce a trasmettere.

E questo è un po’ tutto il problema di questa pellicola.

Inaccessibile

Daniel Giménez-Cacho García e Fabiola Guajardo in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Per quanto un autore voglia arroccarsi nella sua torre d’avorio e sentirsi incompreso, se la sua opera non viene letta e fruita, scompare.

E così, se un film è comprensibile solo per il suo autore, è un film solo per se stesso.

In Bardo troviamo un racconto fondamentalmente autobiografico e sicuramente sentito, ma che per molte parti diventa comprensibile solamente al regista stesso. Se infatti lo spettatore può complessivamente comprendere il messaggio di base, si perde inevitabilmente nell’oceano di riferimenti e di costruzioni della pellicola.

Ovviamente non mancheranno molti spettatori che avranno solo che piacere a perdersi nell’immensità del racconto dell’interiorità del regista, andandone a scovare tutti i significati nascosti.

Non è il mio caso.

Mancanza di interesse

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

A livello di esperienza personale, il film non solo mi ha confuso, ma ha smesso di interessarmi praticamente da subito.

Infatti ho seguito la narrazione di Iñárritu fin dove questa mi intrigava, ma mi sono bloccata davanti alla mancanza di chiavi di lettura possibili e a questa narrazione sicuramente intima e sentita, ma inaccessibile e, in ultimo, poco interessante.

Esistono diverse opere – anche al di fuori dal mondo del cinema – che sono difficili da leggere e che presentano diverse chiavi di lettura. È il caso ad esempio di I’m Thinking of Ending Things (2020), uno dei film più complessi che abbia mai visto in vita mia. Tuttavia, in quel caso, mi sono trovata davanti ad un’opera aperta e piena di significati, che avevo interesse di scoprire.

In questo caso, l’unico modo per comprenderla sarebbe farmela spiegare dal regista stesso.

Mettere le mani avanti

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

C’è solo un elemento che mi ha fatto veramente arrabbiare di questa pellicola.

Come anche abbastanza comprensibile, davanti ad un’impresa così complessa come questa produzione Iñárritu si è sentito già sommerso dalle critiche che avrebbe potuto ricevere. E per questo ha deciso di rispondere alle stesse nella pellicola.

E nella maniera più antipatica e pretenziosa possibile.

Durante la festa infatti, il protagonista parla col pomposo Luis, che critica pesantemente il suo documentario. Così, metanarrativamente parlando, critica l’opera stessa di cui fa parte, dando voce a delle critiche che sinceramente io mi sento abbastanza di avvallare:

I think it’s pretentious. It’s pointless oneric. It’s oneiric cover up for your mediocre writing.

È pretenzioso. Inutilmente onirico. Lo è per mascherare la scrittura mediocre.

E davanti alla scena in cui il personaggio, e quindi il regista stesso, silenzia questa opinione – letteralmente – mi sono sentita personalmente colpita.

E non positivamente.

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Klaus – Un Natale diverso

Klaus (2019) di Sergio Pablos è un lungometraggio animato di produzione Netflix.

Un prodotto che non ebbe (purtroppo) l’eco che meritava, venendo candidato agli Oscar come Miglior Lungometraggio Animato, ma perdendo ancora una volta contro lo strapotere della Disney.

Un prodotto molto particolare, con una tecnica originalissima che mischia il 3D con il 2D in maniera superba.

Di cosa parla Klaus?

Jesper è un ragazzo ricco e viziato, che il padre cerca inutilmente di far maturare. Il suo ultimo tentativo è di farlo diventare il postino di una piccola città dispersa in una minuscola isola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Klaus?

Una scena di Klaus

Assolutamente sì.

Come detto, Klaus è una piccola perla dimenticata, la quale, oltre ad avere una costruzione narrativa incredibile, una storia meravigliosa, dei personaggi piacevolissimi, presenta anche una tecnica di animazione molto peculiare.

Insomma, non aspettatevi il solito film di Natale dei buoni sentimenti, né un racconto astruso e poco interessante dell’origine di Babbo Natale. Troverete anzi un racconto umano, avvincente e pieno di sorprese.

Insomma, se non l’avete visto, è ora di rimediare.

Il fascino dell’eroe negativo

Una scena di Klaus

L’eroe negativo è un topos molto in voga (anche troppo) nel cinema contemporaneo, ma che necessita di una certa costruzione che lo renda credibile e che lo faccia avvicinare allo spettatore.

E Klaus ci riesce benissimo.

Una scena di Klaus

Jesper parte da un apice negativo, come quasi un ragazzino viziato e capriccioso, che tendenzialmente lo spettatore mal sopporta, anzi quasi è felice che venga punito. Dopo però questo sentimento viene smorzato, sia per l’elemento comico grottesco, sia perché di fatto l’eroe diventa vittima degli eventi.

E in una situazione talmente eccessiva che non si riesce a non dispiacersi almeno in parte per lui, e a venir inevitabilmente coinvolti nella sua improbabile avventura.

E la sua risoluzione finale è in qualche misura prevedibile, ma per nulla banale.

Una costruzione perfetta

Una scena di Klaus

All’interno della improbabilità della vicenda, si crea una costruzione fondamentalmente perfetta che riesce a includere tutti gli elementi tipici della storia di Babbo Natale. E con una trama talmente perfettamente oliata e talmente costruita sui particolari che, anche dopo numerose visioni, non sarei capace di raccontare a memoria.

E infatti ogni volta riesco ad essere nuovamente sorpresa da come tutti gli elementi si incastrano perfettamente.

Fra l’altro, una narrazione quasi del tutto priva dell’elemento magico, anzi molto materiale e terrena, che gioca molto sulla negatività del personaggio, con elementi quasi grotteschi, come quando cerca di vendere le lettere ai bambini come fosse uno spacciatore…

Il Babbo Natale che non ti aspetti

Una scena di Klaus

Klaus viene presentato proprio come il contrario dell’immagine canonica di Babbo Natale: pauroso e lugubre, silenzioso e minaccioso.

Tuttavia tutta la sua evoluzione era già in nuce del personaggio: il suo essere silenzioso e impercettibile è un elemento che lo renderà così abile nell’entrare nelle case di notte, il suo essere circondato dalle renne per la sua futura slitta, essere un giocattolaio…

Ma, soprattutto, Klaus è segnato dal profondo lutto non solo della morte della sua compagna, ma dell’impossibilità di crearsi una famiglia. Ma Lydia in realtà è sempre con lui, fino alla fine, e gli permette di creare la famiglia che non hai mai avuto.

Quella dei bambini di tutto il mondo.

La splendida morale

Una scena di Klaus

Klaus propone diverse morali, ma quella più importante è racchiusa in una frase continuamente ribadita:

A true act of goodwill always sparks another.

Un atto di altruismo ne porta sempre un altro

Così, ampliando il discorso, mostra che anche l’ambiente più marcio e il cuore più indurito, con la giusta spinta, riuscirà a migliorarsi e a mostrare la sua parte migliore.

E questo miglioramento, nonostante non sia fatto con le migliori intenzioni, è capillare e coinvolge tutti i personaggi in scena in maniera lenta e ben costruita.

Cosa succede nel finale di Klaus?

Il finale lascia volutamente aperti molti interrogativi.

Spesso in film soprattutto per bambini si cerca di spiegare il concetto di Babbo Natale e tutto quello che lo circonda in maniera molto materiale e comprensibile per il pubblico infantile.

In Klaus l’elemento magico è una sorta di spintarella per i personaggi, ma in generale si mantiene un certo realismo nella vicenda. Sul finale invece lo stesso diventa preponderante, e lascia l’aura di mistero.

E si apre alle interpretazioni.

Per me nel finale Klaus viene richiamato da Lydia, in una sorta di regno ultraterreno, e continua il suo viaggio in una beatitudine eterna in cui può donare felicità ai suoi nuovi figli.

E, una volta l’anno, ritornare dal suo amico che gli ha permesso tutto questo…

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Mamma ho perso l’aereo – Un cult genuino

Mamma ho perso l’aereo (1990) di Chris Columbus è uno dei più classici film di Natale, che ha segnato l’infanzia di più di una generazione.

E non è certamente un caso.

Il film incassò benissimo: a fronte di un budget veramente contenuto di appena 18 milioni di dollari, se ne portò a casa 476 in tutto il mondo.

Di cosa parla Mamma ho perso l’aereo?

Il piccolo Kevin sta per partire per una vacanza insieme alla sua famiglia allargata. Ma un evento imprevisto lo porterà a essere dimenticato a casa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mamma ho perso l’aereo?

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Assolutamente sì.

Non parliamo di uno di quei film semplicemente amati perché parte dei ricordi d’infanzia, ma di un prodotto genuinamente bello e con un altissimo valore intrattenitivo, oltre che interpretazioni da far girar la testa.

E soprattutto come film di Natale si distingue per non essere la solita commedia dei buoni sentimenti, anzi.

Insomma, se non l’avete mai visto, esattamente cosa state aspettando?

Un’infanzia genuina…

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Un grande elemento di successo della pellicola è proprio il racconto dell’infanzia.

Molto spesso in questo tipo di film l’elemento infantile è quasi angelico, legato alla magia e all’importanza del Natale, più idealizzato che raccontato veramente.

Al contrario, in Mamma ho perso l’aereo il bambino protagonista è molto realistico: credibilmente capriccioso, pestifero, e che vive del sentirsi non compreso, ingabbiato in un sistema di regole e convenzioni che non comprende e che non accetta.

E infatti il suo più grande desiderio è rimanere da solo.

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

E quando lo fa, almeno all’inizio, gli sembra di vivere un sogno: può fare tutto quello che vuole, tutto quello che fino a quel momento gli era stato proibito.

Tuttavia, proprio per non volerlo banalizzare, da questa esperienza Kevin impara anche a responsabilizzarsi, a diventare grande. E mostra al contempo tutte le sue capacità non solo di adattamento, ma anche di incredibile inventiva nel contrastare due adulti ben più pericolosi.

…in un film non infantile

Kieran Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Proprio sulla china della verosimiglianza, i contenuti della pellicola non sono esattamente edulcorati.

Kevin subisce un bullismo sistematico, da parte del fratello Buzz, ma anche la cugina che gli dice che è incompetente e inutile – ma anche dagli adulti stessi – a cominciare dallo Zio Frank, che lo chiama little jerk (stronzetto).

Al contempo vengono messe in scena delle paure enormi come quella del terrificante vecchio Marley, oltre all’angoscia, dopo un po’ di tempo, di non avere la propria famiglia intorno e di essere per questo abbandonato.

Non dei temi semplicissimi, insomma.

Marley: un personaggio chiave

Il vecchio Marley è un personaggio chiave.

E per diversi motivi.

In primo luogo rappresenta la paura quasi atavica di Kevin, alimentata dalle storie di suo fratello. Un terrore potente che lo porta persino a scappare da un negozio senza pagare. La paura viene però superata e presentata anche come un arricchimento per il protagonista e per Marley stesso, quindi un doppio insegnamento sia per gli adulti che per i bambini.

In ultimo, ha anche un valore pedagogico: nonostante la celebrazione dell’astuzia e della creatività di Kevin, il film non poteva far passare il messaggio che un bambino se la può cavare totalmente da solo e senza l’aiuto dell’adulto.

E infatti l’intervento di Marley sul finale è risolutivo.

L’altra faccia della medaglia

Catherine O'Hara in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Il coinvolgimento emotivo della pellicola è duplice, in quanto offre una sponda anche al pubblico adulto.

E lo stesso è rappresentato dalla piccola avventura di Kate McAllister, la mamma di Kevin, su cui grava fondamentalmente tutto il peso emotivo della vicenda, mettendo abbastanza in ombra – e prevedibilmente – la figura del padre.

La storia di Kate è un’avventura a parte, definita da poche tappe, ma che coinvolgono facilmente a livello emotivo e che hanno anche interessanti risvolti comici. Fra l’altro, la stessa è protagonista di una delle scene più iconiche del film, che è stata anche recentemente replicata dall’attrice su TikTok:

Riempire i buchi (ma con eleganza)

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Una sfida davanti alla quale indubbiamente si è trovato Columbus era quella di creare un’interessante parte centrale che non fosse solo un riempitivo, e che fosse piacevole e che costruisse adeguatamente la trama.

Ed era facile cadere nel banale.

Ma non è il caso di Mamma ho perso l’aereo.

Tutta la parte centrale è già iconica di per sé, oltre ad essere assolutamente funzionale alla trama complessiva: costruisce ottimamente le parti in scena, racconta la crescita di Kevin – in particolare nella spassosissima scena del supermercato – e rende tutta la vicenda interessante e tridimensionale.

Perché Mamma ho perso l’aereo è un cult?

Rivedendo Mamma ho perso l’aereo, è lampante perché questo film sia un cult.

Il cuore della questione è l’originalità.

Sia, come già detto, per la rappresentazione non idilliaca dell’infanzia e del racconto di Natale in genere, ribadito dall’indovinatissimo finale in cui Buzz urla contro Kevin per il disastro che ha trovato nella sua stanza.

Quindi una conclusione che, ancora una volta, non racconta buoni sentimenti, ma una vicenda vicina e reale di una famiglia reale.

Ma soprattutto proprio la trama era – ed è ancora oggi – fondamentalmente un unicum. E infatti si cercò di replicare il successo, prima con un sequel abbastanza piacevole e diversi altri prodotti derivati, ma nessuno dei quali arrivò alla stessa iconicità e bellezza del primo film.

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Avatar – La via dell’acqua – Dieci anni dopo

Avatar – La via dell’acqua (2022) di James Cameron è il sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo Avatar (2009).

Un film che prometteva grande innovazione tecnica. E c’è stata.

Ma per me, come per il precedente, non basta.

Forse non arriverà agli incassi del primo film, ma ha aperto in maniera molto promettente: 435 milioni di dollari in tutto il mondo, arrivando ad oggi a 441 milioni.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Avatar – La via dell’acqua (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Migliore scenografia
Miglior sonoro
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Avatar La via dell’acqua?

Dieci e più anni dopo, Jake Sully è riuscito a costruirsi una felice famiglia su Pandora. Ma l’incubo dell’invasione torna a palesarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Avatar – La via dell’acqua?

Sì, ma dipende.

Con questo intendo dire che se Avatar non vi ha entusiasmato, non aspettatevi niente di diverso da Avatar – La via dell’acqua, anzi. Lo scheletro narrativo è molto simile, si riciclano anche delle storyline, e la trama ha sempre lo stesso livello molto medio.

Se invece siete quelli che si sono lasciati e si lasciano conquistare dagli effetti visivi, non potete assolutamente perdervelo: è indubbiamente il punto forte del film ed è gestito ottimamente.

E non preoccupatevi per la durata importante: se lo prendete per il verso giusto, riesce a tenere sempre alta l’attenzione.

Vivere del punto forte

Sigourney Weaver (Kiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Guardando a posteriori, sembra davvero che il film sia stato costruito attorno agli effetti visivi e alle scene di impatto, e non il contrario. Perché è evidente che James Cameron avesse tutto l’interesse a portare elementi di grande innovazione tecnica.

E per questo ringraziamo.

La tecnica è sublime, curata nei minimi dettagli, tutto sommato molto credibile e semplicemente davvero bella da vedere, facendo anche un interessante passo avanti rispetto al primo film.

E infatti su questo non ho nulla da dire, anzi.

La trama, un elemento accessorio

Kate Winslet (Rolan) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Purtroppo, se si vanno invece a guardare più da vicino gli elementi della trama, la stessa si rivela in tutta la sua debolezza.

E per me è un elemento molto importante da considerare.

Personalmente ho preferito la narrazione del primo film: più semplice, lineare, e dritta al punto. E che infatti mi sono sentita di difendere. In questo caso, i difetti sono molteplici, ma il cuore del problema sta proprio nella volontà di voler gestire una struttura corale, ma non riuscire a dare il giusto spazio a nessuno dei personaggi portati in scena.

Ma andiamo con ordine.

Due fratelli, un fratello

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Un grande problema che ho riscontrato è stata la questione di Neteyam e Lo’ak, i due figli di Jake.

All’inizio li trovavo praticamente indistinguibili, e purtroppo ritengo che nessuno dei due abbia avuto lo spazio che si meritava. Il più lacunoso è indubbiamente Neteyam, il fratello maggiore, che doveva essere il grande dramma del film (che ovviamente non poteva mancare), ma che non ha uno screentime sufficiente per farti affezionare a lui.

Tanto che, arrivando alla fine, mi chiedevo sinceramente perché avrei dovuto dispiacermi della sua morte.

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Discorso diverso per Lo’ak, il minore: molto più protagonista rispetto al fratello, coinvolto in dinamiche interessanti, anche se molto prevedibili, ma al contempo caricato eccessivamente in ruolo non adeguatamente sviluppato.

La sua storia dovrebbe essere quella di un outsider, che si ritrova con qualcuno di simile a lui. Ma, obiettivamente, cosa ha fatto Lo’ak per essere raccontato come tale?

Semplicemente è molto avventato e si fa facilmente tirare in mezzo per così dire, ma sembra partire già con un conflitto con il padre, che però non sono riuscita a percepire per nulla nella sua effettiva gravità.

Tuttavia, ammetto che la scena dell’incontro con Payakan, il tolkun emarginato, l’ho apprezzata molto e mi ha emotivamente coinvolto.

Il miracolo dimenticato

Sigourney Weaver (Kiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Una storyline che andava decisamente più esplorata era quella di Kiri.

Gli indizi riguardo alla sua connessione con Ewya ci sono fin dall’inizio e sono anche ben posizionati. Tuttavia, dopo il picco drammatico della sua storyline, ovvero quando il personaggio si connette all’Albero delle Anime e rischia di morire, per un buon venti minuti ci si dimentica totalmente di lei.

E si arriva direttamente ad un pacifico scioglimento del problema, senza che ci sia stato il passaggio fondamentale in cui lo stesso veniva risolto.

Insomma, come se mancasse un pezzo…

L’inutile Spider

Jack Champion (Spider) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Per la maggior parte della pellicola mi sono chiesta quale fosse il ruolo e l’utilità di Spider.

Sono rimasta anzi abbastanza contraddetta da come, da una scena all’altra, Spider sembri aiutare e quasi assecondare l’azione dei villain. Per poi tornare sui suoi passi poco dopo, ma rimanendo per la maggior parte del tempo una figurina sullo sfondo.

Finché non arriviamo sul finale e il personaggio diventa artefice della mia personale frustrazione.

Incapaci di rinnovarsi

Stephen Lang (Miles Quaritch) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La storia del Colonnello Miles è stata per me un vero tormento.

Riproporre lo stesso inutile, ridicolo villain per la seconda volta l’ho trovata una scelta veramente poco indovinata e per nulla interessante.

Perché parte con l’idea che, prima di tutto, bisogna uccidere Jake per cominciare a mettere fine al popolo dei Na’vi. Poi la questione diventa totalmente una vendetta privata del personaggio, che fa completamente sparire di scena l’obbiettivo principale degli umani nella pellicola.

Infine, viene di nuovo riesumato per essere riportato in un eventuale sequel, quando è così evidente che non abbia più niente da dire.

E dopo fra l’altro un incredibile girotondo narrativo sul finale…

Appiattimento

Zoe Saldana (Neytiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La mia più grande delusione della pellicola è stata sicuramente Neytiri.

Come l’avevo apprezzata nello scorso film, non posso dire lo stesso in questo caso, dove il personaggio perde totalmente la testa e si appiattisce anche parecchio, sempre vittima del poco screentime.

E la cosa peggiore è quando minaccia di morte Spider e la cosa non sembra così fondamentale per i personaggi, ad ulteriore dimostrazione che sono gli stessi protagonisti a schifare il suo personaggio…

Colmare vuoti logici

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La questione della poca furbizia dei Na’vi nel combattere, che non si rendono conto di essere dei giganti rispetto agli uomini e con abilità di combattimento molto più avanzate, era una questione che mi ero sempre posta per il primo film.

Ma non ci ho insistito, perché tutto sommato poteva anche tornare.

Invece ho preferito che questo problema fosse superato in questa pellicola, dove i Na’vi sono invece abili e capaci di utilizzare tutte le proprie risorse: veloci e in grado di schivare i proiettili, precisi nella mira con frecce che sono praticamente delle lance, imbattibili nel corpo a corpo.

E soprattutto finalmente capaci di rivolgere le armi da fuoco contro i loro nemici…

retcon, che passione! in Avatar – La via dell’acqua

Come ampiamente prevedibile, la pellicola è piena di retcon.

Alcune che tutto sommato funzionano, altre che mi hanno convinto proprio poco.

Complessivamente mi hanno convinto quelle riguardanti i figli: anche se la questione non è mai stata raccontata prima, il fatto che la Dottoressa Grace e il Colonnello Miles abbiano avuto dei figli off screen non è neanche così male.

Per certi versi un’inutile complicazione, ma non mi ha dato fastidio.

Molto meno convincente il fatto che si dichiari apertamente che gli enzimi dei toluk siano il nuovo oggetto del desiderio che tenga insieme tutta l’operazione, mentre ci sia dimenticati del tutto dell’unobtainium, che sembrava così fondamentale nella prima pellicola…

Autocitazionismo e checklist in Avatar – La via dell’acqua

Ad ulteriore conferma di una sceneggiatura poco pensata, si può notare che per molti versi la trama proceda per riciclo di idee e autocitazionismo.

Già lo scheletro narrativo è abbastanza simile: parte iniziale con introduzione della colonizzazione, parte centrale concentrata nella scoperta del mondo, lunga battaglia finale. Così i figli di Jake riprendono le sue orme del padre, mostrandosi assolutamente speciali e unici.

Oltre a questo, la questione del materiale prezioso che tiene tutto insieme è ribadita in maniera identica al primo, con anche il personaggio del Dottor Garvin, biologo marino della nave che caccia i toluk, che è la pallida ombra della Dottoressa Grace.

Per non parlare del finale assolutamente identico, una pura citazione…

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Pinocchio di Guillermo del Toro – La caducità della pigna

Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro, prodotto e distribuito da Netflix, è una piccola sorpresa dell’animazione.

Un prodotto che ha avuto una produzione molto travagliata: pensato fin dal lontano 2008, si è potuto realizzare solo recentemente per l’acquisto dei diritti da parte della piattaforma, a causa degli alti costi, dovuti all’uso della tecnica stop motion (la stessa di Fantastic Mr. Fox, per capirci).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Pinocchio (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Pinocchio?

A sorpresa, non di Pinocchio.

L’opera di del Toro riprende alcuni elementi della favola originale, ma li reinventa in direzioni differenti, con anche una morale e un’ambientazione del tutto diversa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pinocchio?

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Assolutamente sì.

Dopo essermi asciugata le copiose lacrime che mi ha fatto versare, mi sono resa conto dell’incredibile qualità che il Pinocchio di Guillermo del Toro può vantare, allontanandosi anche molto dall’omonimo Classico Disney.

Ma da questo regista non mi aspettavo niente di meno

Oltre alla bellezza dell’animazione, l’originalità dei disegni, ho semplicemente adorato la preziosa reinterpretazione da parte di del Toro, che è riuscito a riportare in scena un classico italiano con un’opera di rara bellezza.

Guardatelo, e non ve ne pentirete.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro doppiato o in originale?

Meglio guardare il film doppiato o in originale?

Alcuni di voi potrebbero sentirsi personalmente infastiditi dal modo in cui vengono pronunciati alcuni termini italiani, fra cui i nomi dei personaggi.

Io preferisco sempre guardare i film in lingua originale a prescindere, in particolare i prodotti animati che hanno solitamente alle spalle un voice casting di alto livello.

Nel caso di Pinocchio, meno che non siate particolarmente sensibili, non avrete più fastidio di quanto ve ne avrebbe potuto dare Luca (2021), con la differenza che in questo caso il cast vocale proviene da attori inglesi e non statunitensi.

E vi assicuro che solo questo ci salva da molte storpiature…

Non il solito Pinocchio

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Nell’opera di Collodi, Pinocchio era un bambino totalmente scapestrato e ribelle, che non voleva andare a scuola, ma solo divertirsi, anche frequentandosi con personaggi poco raccomandabili...

Il Pinocchio di Guillermo del Toro mantiene l’idea di base, ma la sviluppa in altre direzioni. In questo caso Pinocchio non è semplicemente un bambino da rieducare, ma un bambino che deve riscoprire il mondo dall’inizio, e non ha idea di come lo stesso funzioni.

E per questo si comporta in maniera incontrollabile, nella sua incontrollabile voglia di scoprire e osare.

Tuttavia tutto viene portato su un piano più storicamente realistico quando si accorge di essere un peso per il padre adottivo – secondo lo stesso Grillo – e per questo abbandona il tetto familiare con l’illusione di poter lavorare e sostenere Geppetto.

Il dramma di Geppetto

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro con Geppetto e Pinocchio

Probabilmente la parte più straziante del Pinocchio di Guillermo del Toro è il dramma di Geppetto.

La sua tragicità prende le mosse anzitutto dall’insensata morte del figlio Carlo, che non riesce a superare, e che lo porta a creare un burattino che ne riprenda le forme. Ma solo grazie ad uno spirito della foresta – una fata turchina molto reinventata – riesce a ritrovare, dopo tanti anni, una luce nella sua vita.

E per tutto il film perde più e più volte il figlio adottivo, per la morte o per la fuga, distruggendosi – anche economicamente – per ritrovare l’unica cosa che poteva dargli felicità, nonostante non fosse proprio il figlio che voleva…

E qui si trova una grande sorpresa della pellicola.

Un bambino vero?

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Per tutta la pellicola mi aspettavo un finale analogo a quello di Collodi, in cui l’umanità di Pinocchio era una sorta di premio per la sua buona condotta. Nell’opera originale infatti l’idea era di insegnare ai bambini della neonata Italia unita che, se avessero seguito la retta via, avrebbero trovato anche una sorta di riconoscimento sociale.

Al contrario, nel Pinocchio di del Toro il protagonista non diventa mai umano.

Ed è lo stesso film che spiega perché questa scelta andrebbe a snaturare la pellicola, quando Pinocchio, davanti alle parole di Geppetto che gli dice che non vuole che sia niente di diverso da sé stesso, risponde:

Then I’ll be Pinocchio.

Perché in realtà questo finale racconta Geppetto deve finalmente accettare la morte di Carlo, e essere felice del dono che nonostante tutto la vita gli ha concesso.

Da un punto di vista più storico-politico, il Fascismo accetta Pinocchio perché è immortale e, soprattutto, perché è fatto di vero pino italiano, quindi di una buona materia prima che può essere plasmata.

Invece, anche con le sue azioni, Pinocchio rifiuta di sottomettersi, non diventando veramente un bambino della Gioventù Fascista, e quindi non snaturando in alcun modo la sua vera natura.

E qui si apre un altro elemento interessante.

Raccontare il fascismo

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Mentre guardavo la pellicola mi sono resa conto di quanto questa rappresentazione del fascismo, semplice ma molto diretta, mi lasciava un po’ contraddetta.

E ripensandoci mi sono resa conto che – per diversi motivi che potete immaginare da soli – il Nazismo e l’Olocausto sono portati anche sul piccolo e grande schermo fino alla nausea, con prodotti di minore o maggiore qualità.

Assolutamente non si può dire lo stesso con il fascismo italiano.

Ovviamente non nego che ci siano anche delle produzioni dedicate a quel periodo storico ancora oggi, magari in un cinema europeo meno esplorato, ma a livello di produzioni mainstream è un tema del tutto assente.

E come scelta in questo caso è stata del tutto azzeccata e interessante.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro Il simbolismo della pigna

Il simbolismo della pigna è più sottile, ma diventa assolutamente chiaro alla fine della pellicola.

La pigna è un elemento di vita e di morte insieme.

È un elemento di vita quando diventa un giocattolo per Carlo, per l’albero che nasce dalla stessa, con le pigne cresciute sullo stesso che rappresentano il ciclo della vita, quindi sempre la vita e la morte insieme.

Ma è definitivamente un simbolo di morte per la sua drammatica somiglianza con la granata, con un angosciante foreshadowing già nei momenti prima della morte di Carlo…

Ma la morale del Pinocchio di del Toro non vive di opposti.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro La morale amara

La morale finale del Pinocchio di del Toro è molto amara, ma al contempo confortante.

Il regista ci nega totalmente un finale da favola, senza quella tipica e indefinita felicità, ma preferendo un racconto su come la vita continui, felice anche se profondamente caduca.

E ci racconta come anche la morte, probabilmente arrivata alla fine per Pinocchio, sia l’amara ma giusta conclusione per una vita soddisfacente, proprio perché ha avuto una fine…

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Avatar – Un capolavoro?

Avatar (2009) di James Cameron è l’ultima pellicola di questo regista (finora) e anche il maggiore incasso della storia del cinema. Infatti più che di film possiamo parlare di un effettivo fenomeno di costume, dovuto anche (ma non solo) all’incredibile lancio della tecnica del 3D.

La pellicola incassò infatti quasi 3 miliardi di dollari in tutto il mondo, a fronte comunque di un budget piuttosto consistente di 237 milioni di dollari, rischiando di essere scalzato solo da un altro incredibile evento cinematografico, Avengers Endgame (2019).

Da molti è considerabile un capolavoro.

Ma è così?

Di cosa parla Avatar?

In un futuro imprecisato, Jake Sully sostituisce il fratello defunto in un’ambiziosa operazione di colonialismo sul pianeta di Pandora, dove si trova un ambito giacimento di un metallo preziosissimo. E per questo deve farsi accettare dalla tribù locale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Avatar?

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

In generale, sì.

Col tempo ammetto che la mia opinione su questa pellicola si è molto ammorbidita, passando da un sincero odio fino ad un pacifico apprezzamento.

Non troverete in me una fanatica di questo film: lo considero un gran film di intrattenimento, con indubbiamente una tecnica innovativa e ambiziosa come quella del 3D, ma che io personalmente (anche al di là di questa pellicola) non apprezzo.

Se siete fra quelle pochissime persone che non hanno mai visto questa pellicola, vi consiglio di dargli una possibilità, senza aspettarvi niente di così clamoroso. Per me è un prodotto che per certi versi andrebbe ridimensionato, soprattutto davanti ad una tecnica che sicuramente era all’avanguardia, ma che non è invecchiata così bene come ci si potrebbe aspettare.

E forse ad un neofita oggi non farebbe lo stesso effetto…

Tuttavia, nonostante una lunghezza leggermente eccessiva, si parla di un film che intrattiene facilmente e che vale sicuramente la pena di recuperare.

Jake Sully: un protagonista perfetto

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Jake Sully è il protagonista più azzeccato fra quelli di Cameron.

Molto banalmente perché questo regista era ormai specializzato nel creare personaggi funzionali, e in questo caso ha fatto assolutamente centro con un protagonista che è incredibilmente accessibile, fallibile al limite del comico, ma che al contempo ha il coraggio di mettersi in gioco, anche nelle maniere più stupide e irresponsabili.

Insomma, un personaggio in cui lo spettatore può facilmente rivedersi e per cui viene facile fare il tifo.

Oltre a questo, presenta un’evoluzione, soprattutto emotiva, molto lineare e digeribile, quasi prevedibile, che non manca del classico racconto su come il nostro eroe sia speciale. E così, anche se impreparato, riesce a gestire le sfide meglio degli altri.

Oltre a questo, è un ottimo accompagnamento per lo spettatore nella scoperta di Pandora.

Raccontare la disabilità

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come ho avuto il piacere di scoprire recuperando la filmografia di questo regista, Cameron è molto attento a diverse tematiche sociali, soprattutto in Avatar.

In particolare ho particolarmente apprezzato la scelta di mettere al centro della vicenda un personaggio disabile, che soprattutto non ricadesse in quella sorta di patetismo molto tipico nel cinema occidentale – e anche di cattivo gusto.

In questo caso invece la disabilità del protagonista è un elemento importante della trama: anzitutto per una scena molto emozionante in cui il protagonista, dopo tanto tempo, può di nuovo godere dell’uso delle gambe e corre felicemente fuori dal laboratorio.

Al contempo, si accompagna ad un lato più drammatico, sia per le promesse del Colonnello per delle nuove gambe in cambio della sua collaborazione, sia quando Sully entra per la prima volta nella capsula e Grace cerca di aiutarlo, ma Sully sbotta faccio da solo.

Una rappresentazione molto genuina, che racconta le eccessive e inutili attenzioni che un disabile, magari del tutto autosufficiente come Sully, deve vivere ogni giorno.

Neytiri: una controparte non scontata

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Neytiri è allo stesso modo uno dei migliori personaggi femminili creati da Cameron.

Solitamente in questo tipo di prodotti, soprattutto se guardiamo a dieci anni fa, i personaggi femminili hanno un ruolo molto marginale e definito da pochi stereotipi molto ripetitivi. Invece Neytiri è un’ottima controparte del protagonista, che racconta in maniera davvero vincente le tradizioni e il sentimento del popolo a cui appartiene.

Oltre a questo, è un personaggio attivo, intraprendente, che ha un ottimo ruolo in tutta la vicenda e particolarmente negli scontri, dove mostra tutte le sue capacità, senza che questo appaia forzato.

Oltre a questo, ho particolarmente apprezzato che la relazione romantica con Jake non sia centrale alla vicenda: l’ho piacevolmente riscoperta, trovandola molto meno pesante e invadente rispetto ad altri prodotti.

Villain da barzelletta ma…

Stephen Lang in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non penso che molti avranno da ridire sul fatto che i villain di Avatar sono davvero una barzelletta.

Abbiamo da una parte il durissimo e temibile colonnello, con le sue ferite di guerra e i pettorali guizzanti, paragonabile per certi versi a Tiberius di Atlantis (2001), cattivo e piatto all’inverosimile. Dall’altra abbiamo il villain più politico, Parker: lo stereotipo nauseante del colonizzatore statunitense che non ha altro interesse che il guadagno.

Detto questo, sento di spezzare una lancia verso questi personaggi.

Perché è altrettanto evidente che sono assolutamente funzionali al dramma della trama: ci troviamo davanti a nemici terribili, con cui è impossibile discutere e che hanno un potere totalmente distruttivo, che si può solo sconfiggere.

E, soprattutto, come al solito Cameron ha privilegiato il lato estetico più che la profondità psicologica o la capacità attoriale degli interpreti.

Colonialismo e ecologismo in Avatar

Avatar può vantare due tematiche molto importanti: il colonialismo e l’ecologismo.

La parte riguardante il colonialismo è molto evidente: gli invasori, strettamente statunitensi, cercano di mettere le mani su un nuovo territorio con l’unica volontà di trarne il maggior profitto possibile. Ed è anche così evidente l’etnocrazia imperante del personaggio di Parker, quando dice:

Gli abbiamo costruito una scuola, gli abbiamo insegnato la nostra lingua

Sempre con l’idea che la società di provenienza, quella incredibilmente avanzata, sia l’unica giusta che deve cercare di portare un po’ di civiltà anche presso i selvaggi (come vengono ripetutamente chiamati).

Oltre a questo, a chiudere il cerchio la chiosa di Jake verso il finale:

Quando qualcuno è seduto su quello che vuoi, diventa il nemico

Ecologismo in avatar

Una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Altrettanto interessante il racconto dell’ecologismo.

Jake dice chiaramente che dal pianeta da cui veniva non c’era più verde, rappresentando quindi un approccio totalmente attuale (e coerente con la trama) in cui l’uomo ha spremuto la Terra quanto più poteva, così da trarne il maggior ricavo possibile.

E andando di conseguenza distruggerla.

Davvero una grande distanza rispetto alla popolazione dei Na’vi, che vivono in totale armonia con il loro pianeta, rispettandolo fino anche quasi all’ossessione.

Una concezione forse un po’ semplicistica, ma che funziona.

Avatar è un film invecchiato bene?

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Parto col dire che a me, del reparto tecnico di Avatar – né di altri prodotti – importa più di tanto.

Banalmente perché non è un aspetto che rappresenti un grande valore di un’opera, per vari motivi, anzitutto perché è un elemento che si può facilmente ridimensionare nel tempo, a differenza di altri aspetti.

Infatti secondo me complessivamente il reparto tecnico di Avatar è invecchiato bene – già solitamente i Na’vi sono incredibili – ma non manca di qualche elemento che non ha retto alla prova del tempo – e che magari ho notato solo io perché sono troppo pignola.

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Le due visioni recenti mi hanno confermato come nel primo atto percepisca un drammatico senso di horror vacui, nel senso più letterale del termine: la foresta mi sembra troppo spoglia e per certi versi sembra più preveniente da un videogioco che da un film.

Una sensazione che non ho più sentito per il resto della pellicola, ma che mi è rimasta molto impressa anche per il design dei Thanator, che in certe scene hanno quel fastidioso effetto lucido, tipico di un certo tipo di CGI non invecchiata benissimo.

E sono fortemente convinta che il lato tecnico di questo film sarà – anche involontariamente – ridimensionato con Avatar La via dell’acqua (2022).

E per ovvi motivi.

Perché il paragone fra Avatar e Pocahontas non ha senso

Questa è una delle polemiche più note e abusate riguardo a questa pellicola.

Per chi fosse vissuto sotto ad un sasso, molti accusano questa pellicola di avere una trama troppo esile e banale, troppo simile ad altri prodotti come appunto Pocahontas (1995) e Balla coi lupi (1990).

Ma per me è una polemica molto sterile.

Una trama semplice non rende un film di minore valore, perché il tutto dipende come la stessa si incasella all’interno del progetto complessivo e che tipo di profondità narrativa possiede.

Secondo me, come anche per la maggior parte dei film di Cameron, in Avatar la trama non gode di una particolare profondità narrativa – che non significa che sia un film piatto – ma è assolutamente funzionale al contesto.

E va bene così.

Per questo vi consiglio di provare a decontestualizzare le trame da film anche considerati universalmente capolavori, come per esempio Manhattan (1979).

Vi accorgerete che è un gioco ben più pericoloso di quanto sembri…

Avatar è un capolavoro?

Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con una persona che ha un’opinione opposta alla mia, così da presentare due punti di vista diversi sulla questione.

L’opinione de Il cinema semplice

Ho già ampiamente spiegato il mio punto di vista su cosa sia un capolavoro – concetto che, ribadisco, è molto fumoso e che non può essere definito in maniera netta e oggettiva. Stringendo molto il discorso, per me un capolavoro è un’opera che si distingue nettamente dal punto di vista artistico dal resto delle produzioni.

Per me Avatar, per quanto sia un ottimo film di intrattenimento e molto meno banale di quanto si racconti, non è un capolavoro.

E questo perché, pur essendo all’interno di una costruzione molto ambiziosa, presenta una trama che è ottimamente funzionale, ma che manca di profondità narrativa, personaggi – soprattutto i villain – che sono abbastanza piatti e prevedibili, e come pellicola non ha particolari meriti artistici.

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non posso neanche parlare di capolavoro di genere, perché non appartiene così nettamente ad un genere e, soprattutto, non sarebbe neanche così innovativo, lato tecnico permettendo, se volessimo confrontarlo col resto della produzione di film action, di avventura o di fantascienza.

Secondo questo stesso concetto, potrei parlare di un capolavoro tecnico – ma per me è un discorso che non ha senso, perché è un concetto totalmente aleatorio e ridimensionabile nel tempo.

Insomma, ne riconosco l’innovazione e l’assoluta importanza storica che ha avuto, ne riconosco il valore, ma non vado oltre.


L’opinione di Intothenerdverse

Perché Avatar è un capolavoro?

Questa la domanda a cui mi è stato chiesto di rispondere da Il.cinema.semplice, che ringrazio per avermi concesso questo piccolo spazio sul suo sito. 

So che molti hanno una loro idea di cos’è un capolavoro, quindi prima di andare avanti penso sia necessario dirvi la mia. 

Reputo un capolavoro un’opera che ha settato un nuovo standard, un prodotto che riesce ad imporsi nel suo ambiente di riferimento come spartiacque. Per forza di cose, davanti ad un capolavoro ci troviamo davanti ad un prima del capolavoro e un dopo il capolavoro, essendo un’opera che si pone a capo di tutto ciò che c’è stato prima e che diventa modello e fonte d’ispirazione per ciò che ci sarà dopo. 

Il capolavoro è qualcosa a cui ambire, qualcosa da prendere come modello e che insegna. Un’opera che sconfigge la prova del tempo, riuscendo a suscitare sempre lo stesso effetto anche visto dopo anni e anni dalla sua prima uscita e a stupire per l’incredibile forza prorompente che ha avuto nel suo ambito.

Il capolavoro porta nel cinema novità e cambiamenti che ne scuotono le fondamenta e lo cambiano per sempre. 

Perché Avatar è un capolavoro

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come con Jurassic Park a suo tempo, con l’uscita di Avatar cambia per sempre il modo di concepire l’effetto visivo: Cameron ha introdotto tecniche che hanno modificato il modo di pensarli e realizzarli, realizzando un film avanguardista che guardava al futuro con almeno dieci anni d’anticipo.

Guardato oggi, Avatar sembra un film girato domani. 

E sono veramente pochi al giorno d’oggi (e ci devo davvero pensare per trovarne) i film che riescono a raggiungere un livello di cura e resa tale sul grande schermo. Il mondo dell’effetto visivo è cambiato grazie ad Avatar, e, probabilmente, muterà ulteriormente con il successivo capitolo di questa saga.  

Avatar è un capolavoro per il modo in cui ha impattato l’industria cinematografica, aggiungendosi a quel gruppo di film che sono riusciti ad innovare e cambiare il modo di fare film e riuscendo ancora oggi ad insegnare che l’effetto visivo di oggi è solo un’evoluzione del cinema artigianale degli inizi.

Il cinema è stupore, meraviglia, intrattenimento e magia.

E Avatar, dopo anni dalla sua uscita, riesce ancora a farci rimanere di stucco, rimanendo increduli di fronte a ciò che il cinema è in grado di offrire.

E non importa tra quanti anni rivedrete questo film. 

Non smetterà mai di farlo.

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Titanic – Un dramma monumentale

Titanic (1997) di James Cameron è uno dei film ad aver incassato di più nella storia del cinema, ad oggi al terzo posto dopo Avengers Endgame (2019) e Avatar (2009) dello stesso Cameron.

Una pellicola che fu la conferma di come questo autore fosse abile nel portare al cinema prodotti più diradati nel tempo, ma capaci di ottenere grandissimi successi, sia di pubblico che di critica.

Ma il grande incasso si accompagna alla qualità?

Di cosa parla Titanic?

Rose e Jack si imbarcano nel viaggio inaugurale del Titanic, la nave mastodontica e inaffondabile. Due personaggi con storie molto diverse: l’una intrappolata in un matrimonio infelice, l’altro un artista giramondo senza un soldo…

Eppure le loro storie si incontreranno in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Titanic?

Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

In linea generale, sì.

Vi consiglio di non farvi frenare dal fatto che sia principalmente un film romantico, anche se non è il vostro genere: nonostante qualche (anche vistosa) sbavatura, da questo punto di vista gode di una buona costruzione e non è eccessivamente zuccheroso.

Oltre a questo, nonostante la regia non mi abbia così tanto colpito, è tutto al limite dello spettacolare, nel suo incredibile dramma.

E la durata non l’ho sentita più di tanto.

La trappola dell’istant love

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Quando si costruisce una storia romantica, la fase più delicata è il racconto del momento dell’innamoramento. I più pigri saltano a piè pari questa fase e fanno innamorare i protagonisti immediatamente, cadendo nella trappola del cosiddetto instant love.

E, come conseguenza, lo spettatore più attento non riesce ad essere in alcun modo coinvolto con la relazione dei personaggi.

Per fortuna Titanic non cade in questo errore.

Lo sbocciare della relazione viene seguito abbastanza passo passo, in maniera complessivamente credibile e abbastanza coinvolgente. Non un meccanismo perfettamente oliato – non manca qualche piccola forzatura – ma complessivamente una relazione funzionante.

Ma la vittoria è molto sbilanciata.

Vincere e perdere

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Come ho trovato questo Di Caprio alle prime armi brillante e smaliziato, non posso dire lo stesso per Kate Winslet. Non arriverei a definirla una cagna maledetta (cit.), ma l’ho trovata del tutto fallimentare in alcune scene.

E le stesse scene le ho trovate anche molto forzate, e fatte apposta per essere citabili: fra queste, quando Rose chiede a Jack di guidarla fino alle stelle, oppure quando va a liberarlo e ammette che dentro di sé sapeva sempre che Jack non aveva rubato il diamante.

E per questo mi sembra di vedere un pattern.

L’estetica vince su tutto

Kate Winslet in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Ho la leggera sensazione che, in certi casi, Cameron privilegi la scelta degli attori per il lato estetico piuttosto che per la loro bravura.

Era il caso di Arnold Schwarzenegger in Terminator, ad esempio.

Kate Winslet è un’attrice con un’estetica semplicemente perfetta per il ruolo, un’icona romantica in tutto e per tutto: pelle molto chiara, che contrasta con il rosso dei capelli, messo continuamente in evidenza con il trucco – dal rossetto alle occhiaie profonde.

Tuttavia, forse non era l’attrice giusta per questo ruolo, dovendo tenere sulle spalle un personaggio per nulla semplice.

Cal: un villain al limite del comico

Billy Zane in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Cal dovrebbe essere il grande villain della pellicola, ma, per quanto sia effettivamente irresistibile nel suo ruolo, in certe scene appare quasi comico.

In particolare nel terzo atto più e più volte, invece che scegliere di salvare la propria vita, insegue la sua vendetta per salvare la sua virilità tradita dal comportamento della futura moglie.

Ed è davvero incredibile.

Ma è tanto più vincente come villain in diverse sequenze, come le varie volte in cui aggredisce Rose, o quando, nella maniera più meschina possibile, acchiappa una bambina per avere un posto sulla scialuppa.

Semplicemente iconico.

Mostrare i muscoli

Per quanto, come detto, la regia in questo caso non mi abbia particolarmente colpito, è indubbio che ci sia stato un particolare impegno dal punto di vista tecnico.

Tutto il terzo atto, in cui siamo catapultati nel dramma della tragedia del Titanic, è incredibile da vedere e trasmette perfettamente il senso di costante angoscia dei personaggi, ed è anche piuttosto credibile nelle sue dinamiche.

Altrettanto nelle inquadrature aeree della nave, dove non si vede quasi per nulla che questo film è uscito più di vent’anni fa.

Tuttavia, riguardo a questo ho percepito un problema…

Un senso di scollamento

Un elemento che alla lunga ho sentito nella pellicola è una sorta di scollamento fra il dramma del Titanic e il dramma romantico di Jack e Rose.

Insomma, ho avuto la sensazione che i due elementi non fossero ottimamente amalgamati.

I momenti dove ho avuto di più questa sensazione sono stati quando, nel presente, i personaggi discutono animatamente dell’assurdità del naufragio del Titanic, e Rose, come se la cosa non la toccasse minimamente, attacca a raccontare di come Jack le avesse fatto il ritratto.

E così quando Jack e Rose si trovano sul ponte con la nave che è quasi in verticale, Rose gli dice Questo è il luogo dove ci siamo incontrati, come se la cosa fosse di alcuna rilevanza.

Insomma, ad un certo punto mi viene anche da chiedermi: con qualche aggiustamento, la stessa storia romantica poteva funzionare anche al di fuori della tragedia del Titanic?

Per me sì.

Lode alla porta per due in Titanic

La questione di come la porta potesse in realtà contenere sia Rose che Jack è incredibilmente dibattuta, anche nei modi più stupidi possibili.

Tuttavia, andando ad analizzare la scena, tutto acquista totalmente senso: Jack in prima battuta cerca di salire lui stesso sulla porta, ma si accorge che, facendolo, la stessa si ribalta e rischia di far finire entrambi in acqua.

Per questo, sempre tenendo fede alla volontà incredibilmente drammatica del film, decide di rischiare la propria vita restando nell’acqua ghiacciata e di salvare invece Rose, facendola stare sulla porta.

Quindi la questione è molto meno forzata di come appaia.

Una produzione incredibile

Non penso sia un mistero che la produzione di questa pellicola sia stata assolutamente incredibile.

Le riprese cominciarono da quando lo stesso James Cameron si impegnò nel filmare il vero relitto del Titanic. Da lì cominciò un ampio lavoro di scrittura della storia, impegnandosi nello studio della storia dell’affondamento e costruendoci intorno una storia d’amore per muovere profondamente lo spettatore.

La nave fu effettivamente costruita quasi per intero, compresi gli interni, e immersa in un’enorme piscina con la capienza di più di 260mila litri, dove gli attori erano effettivamente immersi per le scene in acqua.

Una produzione che costò non meno di 200 milioni di dollari, ma che sorprendentemente è solo al 48esimo posto nella classifica dei film più costosi nella storia del cinema.

Tuttavia, bisogna anche considerare che, con l’inflazione, 200 milioni nel 1996 sarebbero quasi 380 milioni di dollari ad oggi…

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La desolazione di Smaug – Solo alla fine

Lo Hobbit – La desolazione di Smaug (2013) è il secondo capitolo della trilogia prequel de Il Signore degli Anelli, sempre diretta da Peter Jackson. Un sequel che aveva la grande attrattiva di un personaggio così monumentale come Smaug, solo marginalmente rivelato alla fine del primo film.

Ma d’altronde questa saga vive di hype.

La pellicola incassò piuttosto bene, anche se con un riscontro leggermente inferiore rispetto alla saga originale: 958 milioni di dollari a fronte di un budget di 180.

Di cosa parla La desolazione di Smaug?

Bilbo e la compagnia dei nani di Thorin continuano la loro avventura alla volta della Montagna Solitaria, dove si annida un nemico molto minaccioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La desolazione di Smaug?

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Assolutamente sì.

Se avete visto lo scorso capitolo, non avete motivo per non continuare l’avvincente avventura di Bilbo, che viene ripresa proprio in medias res, ovvero dove era stata lasciata alla fine della scorsa pellicola.

Anzi, secondo me ci troviamo davanti ad un secondo capitolo anche migliore del precedente, con un terzo atto in particolare piuttosto avvincente, che mi ha colpito più di quanto mi aspettassi…

Una simpatica quest (ancora)

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Questo film mi ha trasmesso le stesse sensazioni del precedente, ovvero di una simpatica quest in tono decisamente più scanzonato rispetto alla saga originale. E senza che questo debba per forza essere un aspetto negativo: semplicemente, una simpatica avventura con deviazioni e imprevisti che mi ha piacevolmente intrattenuto.

La maggior parte delle vicende hanno un sottofondo comico e quasi cartoonesco, ben raccontato con la regia sempre fresca e dinamica di Peter Jackson, in particolare durante l’avvincente scena a fuga dagli elfi.

Una costruzione che mi ha lasciato un buon sapore in bocca, nonostante la maggior parte della pellicola sia concentrata su vicende che c’entrano in maniera veramente marginale Smaug, che era stato invece pubblicizzato (comprensibilmente) come il centro della vicenda.

Non dico che fosse un bait, ma poco ci mancava.

La grande attrattiva di Smaug

Martin Freeman e Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Ma tutto viene perdonato per quanto è intrigante ed avvincente la parte dedicata a Smaug. E questo è dovuto sia al perfetto character design del personaggio, sia alla fantastica interpretazione di Benedict Cumberbatch.

Infatti, in un momento di follia, Jackson ha deciso di portare in scena questo personaggio coinvolgendo Cumberbatch in una pazzesca motion capture, in modo che non gli desse solo la voce, ma anche movenze:

E anche la caratterizzazione è impressionante: Smaug non solo è avido e profondamente malvagio, ma è anche troppo sicuro di sé stesso, raccontandosi come un’arma mortale e invincibile. E invece…

…manca la vittoria dei personaggi.

Tutto per l’hype

Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Molta della narrazione de Il Signore degli Anelli è basata sull’idea che una piccola e apparentemente innocua creatura come un hobbit sia capace di battere nemici potenti come Sauron. E solitamente infatti la narrazione si concentra su come il minuscolo protagonista, grazie al suo coraggio e alla sua astuzia, riesca a vincere.

In questa pellicola invece, sembra che ci sia una costruzione per cui Thorin riesce a mettere insieme un complesso piano per sconfiggere Smaug, battendolo con l’intelligenza, non essendo capace di sconfiggerlo con la forza.

E invece il suo piano fallisce.

Anche se non ho dubbi che nel prossimo film – che non ricordo minimamente – i nostri eroi riusciranno a fare la pelle anche ai nemici più imbattibili, ricordandoci come non serve essere forti per essere vincenti…per ora è tutto stato sacrificato per l’hype e un cliffhanger inaspettato.

CGI, che passione!

Mentre ammiravo il fantastico character design di Smaug – uno dei meglio riusciti della trilogia – mi sono resa conto di quanto fosse scricchiolante in certi punti la CGI.

E Smaug è il meno.

Per me la bellezza de Il Signore degli Anelli era anche l’evidente utilizzo, per la maggior parte delle scene, di spazi reali e di trucco prostetico, che rendevano molte scene e personaggi magari più caserecci, ma decisamente più d’impatto e credibili.

E se posso tutto sommato accettare gli orchi, che per la maggior parte hanno un design interessante, ho davvero mal sopportato la nauseante costruzione tutta in digitale di alcune location, particolarmente Laketown.

E davvero certe scene di questo film sono invecchiate di gran lunga peggio rispetto a quelle de Il Signore degli Anelli

Tauriel: che bello essere dei token!

Martin Freeman e Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Un grande problema, se così possiamo dire, è che la materia originale de Il Signore degli Anelli non si presta particolarmente ad un cast inclusivo, in praticamente nessuna direzione.

Assolutamente comprensibile per un romanzo scritto cinquanta e più anni fa, ma di fatto poco vendibile.

E negli anni hanno cercato di metterci più di una pezza.

Il cast femminile ne Il Signore degli Anelli era al limite del disastroso: passavamo da Arwen, il classico personaggio femminile che sospira e si emoziona drammaticamente in una relazione romantica impossibile, a Eowyn, una forzatura su gambee di cui ho già parlato abbastanza.

L’unico personaggio più interessante era di fatto Galadriel, che non a caso è diventata protagonista di Rings of Power, che però nella saga ha uno screentime molto più limitato di quanto ci si ricordi.

E poi c’è Tauriel.

Devo ammettere però che, per quanto Tauriel sia senza ombra di dubbio un token, me la ricordavo decisamente peggio. Almeno per La desolazione di Smaug, è un personaggio femminile abbastanza funzionante, che si ribella, ma non in maniera forzata e poco credibile, ma tutto sommato interessante.

E almeno non ho trovato la sua storia romantica non è terribilmente noiosa e inutilmente drammatica come quella di Aragorn e Arwen.

Parliamo di Thranduil in La Desolazione di Smaug

Uno dei miei personaggi preferiti in assoluto della trilogia è senza dubbio Thranduil.

Oltre al fatto che adoro il suo character design, sono semplicemente innamorata di Lee Pace come attore – che fra l’altro abbiamo visto recentemente in un ruolo analogamente fantastico nella serie tv Fondazione.

E personalmente ho un interesse abbastanza limitato di quanto questo personaggio sia fedele o meno al canone tolkieniano.

Perché non riesco ad immaginare un elfo più elfo di questo personaggio.

Con tutto che indubbiamente l’attore ha caricato leggermente la recitazione nella scena del confronto con Thorin…

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Frozen – Il mediocre di successo

Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee è uno dei lungometraggi animati più redditizi della storia della Disney. Un prodotto che ebbe infatti un successo immenso, tanto che alcune parti del film sono ancora oggi assolutamente iconiche.

Per capire il tipo di riscontro che ebbe, a fronte di un budget di appena 150 milioni di dollari, incassò quasi 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Se avete vissuto nel periodo della frozen-mania saprete fino a che punto eravamo bombardati dalle infinite riproposizioni di Let it go e affini, da cui io stessa fui coinvolta. Tuttavia, andando a guardare il prodotto con un giudizio più analitico, e non di pancia, emergono tutte le crepe.

Di cosa parla Frozen?

Elsa e Anna sono due sorelle in un regno immaginario dal sapore germanico, e vivono un’infanzia spensierata. Se non fosse che Elsa possiede dei poteri apparentemente incontrollabili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Frozen?

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

No.

E potremmo chiuderla qui.

Ammetto di avere un malcelato fastidio per questa pellicola, che mi portò al tempo a vederlo due volte al cinema, non riuscendo per nulla a capire l’entusiasmo che aveva suscitato. Lo trovai un film assolutamente normale, anzi molto difettoso, una brutta copia di Rapunzel (2010), da cui pescava a piene mani, in maniera anche piuttosto maldestra.

Col tempo, mi resi conto di quanto questo prodotto dovesse il suo successo a pochi elementi di vincenti, che oscurarono tutto il resto. Per me è un film mediocre, mediocrissimo, ma se proprio volete vederlo, non aspettatevi gran che.

Sicuramente i bambini lo ameranno.

Elsa: un’adulta irrequieta

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Elsa non è un bel personaggio.

E con questo intendo dire che la sua figura è stata particolarmente esaltata come un grande passo avanti per la Disney a livello di rappresentazione dei personaggi femminili, dal momento che è forse la prima che non abbia una storia romantica all’interno del suo percorso.

Tuttavia questo non significa che sia un passo veramente avanti né un buon esempio per il target di riferimento.

Infatti il problema non è tanto avere o meno un interesse romantico, ma essere definito dallo stesso: protagoniste come Mulan e Rapunzel vivono indipendentemente dalle loro storie romantiche, e hanno una crescita emotiva molto più interessante.

Elsa è infatti un’adulta irrequieta, prigioniera (per motivi che poi affronteremo) della sua stessa famiglia, e che non è capace di vivere serenamente la sua vita e che, da un momento all’altro, perde la testa e lascia totalmente a briglia sciolta i suoi poteri.

E tutta la sua storia manca di un’evoluzione emotiva degna di questo nome.

I problemi non risolti

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

L’evoluzione emotiva di Elsa dovrebbe portare alla risoluzione di un profondo conflitto interiore che la rendeva incapace persino di uscire dalla sua stanza.

Tuttavia questo prende anzitutto una strada del tutto negativa, dove lei sembra quantomeno risolvere (senza che questo abbia una chiara spiegazione) il valore distruttivo dei suoi poteri, rendendoli invece positivi e costruttivi.

Ma nulla si risolve dal punto di vista emotivo.

E infatti la troviamo ancora piuttosto tormentata sia quando Anna la va a trovare, sia dopo, con intere scene in cui mostra la sua irrequietezza. E la risoluzione di tutti i suoi problemi sembra l’accettazione dell’amore della sorella e, per estensione, l’accettazione di tutti gli altri.

Ma senza che di fatto ci sia stata una vera evoluzione o un vero percorso, se non una sorta di terapia d’urto con la morte della sorella. Senza che sappiamo nulla sull’origine dei poteri, di come infine riesca a controllarli.

Nulla.

Anna: il bilanciamento drammatico

Anna (Kristen Bell) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Anna è di fatto la vera protagonista della pellicola.

E non è di per sé un personaggio problematico, ma è piuttosto appiattita nella figura della principessa ingenua e ingiustificabilmente positiva, che riesce facilmente a farsi circuire da un personaggio assolutamente ridicolo come Hans.

Ma c’è un chiaro motivo.

Elsa è un personaggio troppo drammatico per un prodotto con target infantile, troppo tormentato per essere effettivamente digeribile ed essere effettivamente protagonista del film.

Per questo ha bisogno di un bilanciamento drammatico da parte di Anna, nonostante il suo comportamento sia totalmente poco credibile, in quanto dovrebbe avere almeno la metà dei drammi emotivi di Elsa.

Invece Anna sostiene tutto il peso emotivo della sorella, la va a cercare e in ultimo la salva effettivamente. E si salva da sola.

Insomma, un personaggio che poteva essere ben più interessante di come è stato scritto.

L’anello debole

Anna (Kristen Bell) e Kristoff (Jonathan Groff) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

La storia romantica di Anna e Kristoff è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Complice anche lo screentime veramente scarso che gli è stato concesso.

Di fatto, Anna e Kristoff si devono innamorare, e devono intraprendere una relazione perché la trama lo richiede. Dal punto di vista emotivo, Anna non ha effettivamente imparato così tanto, perché capisce di amare il suo compagno di viaggio dopo non tantissimo tempo che stanno insieme e dove non sembra che ci sia un’effettiva evoluzione del loro rapporto.

E questo è così tanto diverso dall’apparente rapporto idilliaco con Hans?

Banalmente, basterebbe confrontare l’eccellente costruzione del rapporto fra Flynn e Rapunzel in Rapunzel: i due partono da una relazione incredibilmente antagonistica, vivono una precisa e interessantissima evoluzione, con una relazione romantica va molto oltre il semplice amore, ma che ha un significato ben più profondo.

Possiamo dire lo stesso per Anna o concludiamo che si tratta dell’ennesima principessa che si innamora perché deve innamorarsi?

Alla faccia del passo avanti…

Una relazione quasi grottesca

Inoltre, relazione fra Anna e Kristoff è talmente forzata da risultare quasi grottesca.

Il punto più drammatico è quando i due si recano dai troll per curare Anna, ma la scena si trasforma in una sequenza senza senso, anzi piuttosto fastidiosa, in cui i troll pensano che Kristoff voglia sposare Anna e li costringono quasi a farlo.

Per concludere con la più classica paraculata Disney del vero amore che vince su tutto.

E a questo punto Anna viene riportata a palazzo per essere salvata da Hans, per poi inseguire in maniera anche abbastanza disturbante Kristoff per farsi baciare. E per fortuna questa idea è sventata dal film stesso, in cui mostra che il vero amore è quello fra Anna e Elsa.

Elemento che, però, va ancora più a svalutare la relazione fra Anna e Kristoff.

Un viaggio dispersivo

Anna (Kristen Bell), Kristoff (Jonathan Groff) e Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Altro elemento problematico di Anna è la gestione del suo viaggio.

Anna intraprende il viaggio per andare da Elsa, non risolve assolutamente niente, e si lascia inutilmente trasportare da Kristoff verso un siparietto agghiacciante (di cui sopra), e infine si mette in trappola da sola.

Quindi sostanzialmente Anna diventa vittima degli eventi stessi, riesce a salvarsi sul finale, ma di fatto, da circa metà del film in poi, si dimentica del problema principale della pellicola, ovvero sua sorella, e mette (anche comprensibilmente) al centro della trama la sua salvezza personale.

E tutto viene risolto magicamente negli ultimi minuti.

I genitori: i veri villain

La conclusione più surreale di questa pellicola è rendersi conto che i genitori sono i veri villain.

Non stiamo parlando certo di popolani che devono proteggere la figlia dal linciaggio della massa, ma regnanti che potenzialmente potevano rendere la loro figlia una figura di culto, persino un’arma, e modellare l’opinione pubblica a loro uso e consumo.

Invece, giustamente, non solo non cercano neanche di provare ad aiutarla a capire i suoi poteri, magari cercando una persona che potesse darle una mano, ma la fanno sempre più rinchiudere in sé stessa, traumatizzandola definitivamente.

Un meccanismo della trama senza alcun costrutto.

O piuttosto una forzatamente versione positiva del rapporto distruttivo fra Rapunzel e Madre Gothel…

Olaf: un disastro estetico

Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

So che molti non saranno d’accordo, ma io detesto Olaf.

Le sue canzoni sono veramente di cattivo gusto a livello estetico, plasticose e totalmente fuori contesto, non mi piace l’ironia e il punto chiave della sua personalità, ovvero amare un elemento contrario alla sua natura.

Ma soprattutto detesto il suo character design, che trovo molto abbozzato e sinceramente brutto, secondo solamente a quella mostruosità del mostro marshmallow che caccia Anna e Kristoff dal palazzo di Elsa.

Ed è un problema anche più ampio.

L’unica cosa che funziona

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Nonostante tutti i difetti, la relazione fra Anna e Elsa è l’elemento più solido della trama, e forse anche quello che tutto sommato la tiene insieme.

Un elemento emotivo molto forte, forse anche più importante da raccontare ad un pubblico infantile piuttosto che replicare nuovamente la questione del vero amore romantico. E infatti una delle canzoni più iconiche della saga è Wanna build a snowman?, con tutto il carico emotivo che si porta dietro.

E la scelta di rendere il salvataggio della protagonista per mano della sorella e non di un uomo appena conosciuto, nonostante si incastri male nel contesto, era una buona idea, almeno sulla carta.

Perché Frozen ha avuto tutto questo successo?

Il successo di Frozen, ovviamente, è stato veicolato dal pubblico infantile che si è innamorato del prodotto, e in particolare del personaggio di Elsa.

Perché, nonostante tutte le mie analisi, è indubbio che Elsa sia un personaggio intrigante e sicuramente diverso dal solito. Ma soprattutto il suo character design è davvero incredibile, ben pensato e davvero vendibile.

E infatti per me ancora rimane un mistero come abbiamo fatto un lavoro creativo così ottimo con questo personaggio e così pessimo col resto.

Stesso discorso vale per Let it go, canzone che personalmente apprezzo, sia per la scena, sia perché è stata cantata da un’artista di grande talento come Idina Menzel, sia per il valore emotivo che l’accompagna.

Un altro elemento molto iconico, in un mare di canzoni, con l’eccezione di Wanna build a snowman?, piuttosto mediocri e dimenticabili.

Insomma, un prodotto con pochi elementi vincenti e iconici in un oceano di mediocrità.

Frozen 2 – La rivelazione

Mi sono fatta delle grassissime risate con Frozen II (2019).

Sia perché il film si presta molto di più (volontariamente o involontariamente) alla risata, sia perché sono state confermate tutte le mie ipotesi sul successo del primo film, di cui sopra.

Se ci avete fatto caso, questo prodotto, nonostante un incasso sempre straordinario, è stato accolto molto più tiepidamente dal pubblico non in target, che invece aveva tanto lodato la prima pellicola.

E questo perché, secondo me, Frozen II è un film che mostra la stessa mediocrità del primo, con la differenza che manca degli elementi iconici che avevano definito il successo del precedente film.

Tuttavia un ottimo modo per vendere nuovi giocattoli, indubbiamente.