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Terminator 2 – Is this struttura narrativa?

Terminator 2 (1991) è il secondo capitolo della duologia omonima diretta da James Cameron, poi proseguita da diversi sequel dalle sorti alterne.

Arrivato a quasi dieci anni dal primo capitolo, fu un sequel di incredibile successo, considerato dagli appassionati anche migliore dell’iconico primo capitolo.

Con un budget enormemente superiore del precedente (100 milioni di dollari), fu un ottimo successo commerciale, con 502 dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator 2?

Sono passati diversi anni dal primo capitolo e Sarah Connor è rinchiusa in un centro di igiene mentale, mentre suo figlio, l’ancora giovanissimo John Connor, è il nuovo bersaglio di un viaggiatore del futuro...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Terminator 2?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Banalmente, sì.

Come avevo detto nella recensione del precedente capitolo, non ero stata così tanto colpita a livello intrattenitivo, nonostante riconoscessi l’ottimo livello tecnico e registico. Per questo film sono stata molto sul chi va là per paura che seguisse la medesima struttura narrativa del primo, che a mio parere era davvero debole.

E invece sono stata parzialmente sorpresa.

Terminator 2 mi ha permesso parzialmente di superare il mio disinteresse intrinseco per i film action, soprattutto perché la pellicola non può essere appiattita solo su questo (come neanche del tutto la precedente, in realtà). Di fatto, è un prodotto che, a otto anni di distanza, riprende in mano i fili narrativi, riesce ad innovarsi e a portare novità, rimanendo comunque fedele a sé stessa.

Se vi è piaciuto Terminator, guardatelo sicuramente.

Se non vi è piaciuto, vale la pena dargli un’altra possibilità con questo film.

Is this struttura narrativa?

Edward Furlong e Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Durante il primo film avevo trovato quasi estenuante la struttura narrativa.

Un infinito inseguimento che sembrava insolvibile, e che poi si risolveva sempre in maniera estenuante nelle sue dinamiche, con la punta di diamante che era ovviamente il Terminator di Arnold Schwarzenegger. E per questo ero molto dubbiosa su questo film.

Invece sono rimasta abbastanza soddisfatta.

Per quanto la parte action e degli inseguimenti sia una grossa fetta del film, non definisce tutto l’andamento narrativo, che invece prosegue a tappe con una serie di obbiettivi piuttosto interessanti e avvincenti. Un deciso miglioramento, che ha reso la narrazione più ampia e interessante.

E non è l’unico passo avanti.

Finalmente, Sarah Connor

Linda Hamilton in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Sarah Connor era un elemento piuttosto debole della prima pellicola. E per più motivi.

Anzitutto perché era un personaggio totalmente vittima degli eventi, la quale, tranne nell’ultimissimo momento, non agiva mai attivamente in scena. Invece in questo sequel il suo personaggio migliora da ogni punto di vista.

Oltre a diventare un personaggio incredibilmente attivo, ha una profondità narrativa e emotiva mille volte più interessante, che mi ha personalmente anche molto coinvolto. Oltre a questo, riesce finalmente ad essere una protagonista femminile di un film action che non è la vittima da salvare, ma anzi una donna forte e determinata che si allena per sconfiggere il nemico.

E io dico, finalmente vedo veramente la Sarah Connor che mi era stata promessa.

Un aggancio efficace

Edward Furlong e Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Un’ottima scelta della pellicola è stata l’introduzione di John Connor in versione adolescente.

In questo modo si è riusciti, a otto anni di distanza, a riagganciare i fan del primo film e a coinvolgere nuovissimi fan che vedevano sullo schermo come protagonista un ragazzino non tanto diverso da loro, destinato a diventare un eroe.

Oltre a questo, John Connor porta una comicità piuttosto simpatica e piacevole, che ammorbidisce i toni del film, oltre ad arricchire la pellicola di un taglio da buddy movie che non ho potuto fare a meno di apprezzare.

La meraviglia degli effetti speciali

Robert Patrick  in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Senza stare troppo a parlare di quanto sia fantastica la fotografia e la regia in generale di questa pellicola, sono rimasta senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali.

Tutti gli effetti legati a T-1000 in particolare sono qualcosa da far girare la testa: non riescono praticamente mai a deludere e sembrano così veri in scena, oltre ad essere incredibilmente creativi.

E stiamo parlando del 1991.

Unica piccola pecca è stata la sequenza in cui T-1000 muore, dove, come era anche per certe sequenze della prima pellicola, sembra molto bidimensionale e poco credibile. Ma è davvero una piccolezza all’interno di un comparto tecnico di prima categoria.

Un Terminator di troppo

Robert Patrick  in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Ma T-1000 è anche il punto debole della pellicola.

La sua presenza l’ho trovata veramente accessoria, tanto che l’inseguimento finale, che riprende le mosse dal primo capitolo, è la parte meno interessante dell’intero prodotto.

E il grande problema è che il povero Robert Patrick, che poi si è rifatto anche recentemente in serie come Peacemaker, non ha un’unghia dell’iconicità di Arnold Schwarzenegger.

E mi è sembrato davvero un elemento che dovevano inserire per far quadrare la storia e farla quantomeno assomigliare al film precedente, ma che in realtà diventa quasi un elemento sotterraneo della narrazione, che corre parallelamente al resto degli eventi.

Cameron, non ti capisco

So già cosa risponderanno gli appassionati di Cameron al mio dubbio, ma ci tengo comunque a prendermi questo piccolo spazio per parlarne.

Cameron aveva fra le mani una trama potenzialmente interessantissima come quella del futuro distopico di Skynet, che mostra brevemente solo in alcuni momenti delle pellicole da lui dirette. Poi, altri registi meno capaci hanno preso in mano la saga e fatto quello che probabilmente il pubblico si aspettava.

E invece James Cameron ha deciso di non incastrarsi in questa saga, ma di mettere un punto alla questione in maniera definitiva. E, per la sua carriera, a posteriori è stata indubbiamente la scelta migliore.

Ma è una scelta che comunque non riesco a capire del tutto…

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Il ritorno del re – Il peso dell’anello

Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re (2003) è il terzo e ultimo capitolo della trilogia diretta da Peter Jackson tratta dall’opera di Tolkien.

Un ultimo episodio che doveva reggere sulle spalle una conclusione epica di un racconto complesso e pregno di significati. E ovviamente la conclusione dell’avventura è incredibile, anche se…

Davanti ad un budget di 94 milioni, raggiunse un risultato tanto epico quanto il film: 1,140 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il ritorno del re?

Sam e Frodo vengono condotti in quello che sembra essere l‘unica via per raggiungere il Monte Fato, ma anche quella più ingannevole…

Nel frattempo, Aragorn e Gandalf devono gestire la complessa situazione politica e militare che ancora furoreggia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Il ritorno del Re?

Ian McAllen in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Ovviamente sì.

Se state guardando, soprattutto se per la prima volta, la trilogia di Peter Jackson non potete perdervi l’epico (e lo è davvero!) finale della saga. Come sempre rimarrete probabilmente senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali, della regia dinamica, della profondità narrativa di questa pellicola.

Incredibile come un film basato su un’opera così complessa abbia creato una saga così incredibile, che non ha perso praticamente mai un colpo, ma ha proseguito di gran carriera verso un incredibile finale, fra l’altro con tempi anche piuttosto stretti.

Uno di quei prodotti che non si può mancare di vedere almeno una volta nella vita, insomma.

L’aspetto battagliero

Ian McAllen in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

La parte militare è la parte che ho trovato personalmente meno interessante del film a livello intrattenitivo.

Per diversi motivi, fra cui il fatto che è in generale la parte che meno mi interessa dei film in toto, ma anche perché, diversamente dallo scorso capitolo, non vi è quasi nessuna costruzione narrativa oltre alla battaglia, ma è lo scontro il punto stesso del discorso.

Con tutto che le scene di battaglie sono dirette magistralmente, il lato tecnico è al limite della perfezione, e pieno di colpi di scena di grande interesse ed efficacia.

Ma c’è un grosso ma…

Lode all’odio (di nuovo) ne Il ritorno del re

Come avevo già raccontato per lo scorso capitolo, non riesco veramente a sopportare il personaggio di Eowyn.

E ne Il ritorno del Re ho trovato incredibilmente forzato darle tutta quella importanza nella storia, quando il suo ruolo era assolutamente accessorio. E, soprattutto, è assolutamente poco credibile che, in una società così profondamente medievale, una donna sia in primo luogo capace di combattere.

Perché Eowyn non mena colpi a casaccio, ma riesce anzi ad evitare le botte di un personaggio come Angmar e a sconfiggerlo con veramente troppa facilità. E con la battuta più agghiacciante dell’intero film.

Ma capisco le necessità produttive.

Fine delle cose che non mi piacciono di questa pellicola.

Il peso dell’anello

Direi che non mi aspettavo niente di meno dalla conclusione della storyline di Frodo.

Il nostro protagonista è ormai avvelenato dal potere dell’anello, e viene ancora di più deviato dalle maligne bugie di Gollum. Così, per gelosia dell’anello, si rivolta contro il suo amico. Ma questa ovviamente è la scelta peggiore: appena si lascia alle spalle Sam, viene subito punito dagli eventi.

A dimostrazione ancora una volta che questa avventura sarebbe stata impossibile per Frodo senza Sam al suo fianco…

Il ruolo di Sam

Elijah Wood e Sean Astin in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Pellicola dopo pellicola, sono rimasta sempre più colpita da quanto sia fondamentale la figura di Sam e di come, di fondo, quest’opera sia un grande inno all’amicizia. Davanti ad una situazione disperata come quella della scalata del Monte Fato, davanti a Frodo distrutto dal viaggio, Sam fa l’impensabile: lo prende sulle spalle e scala il Monte.

E la fa soprattutto perché vuole che Frodo si liberi di questo fardello, che è quantomai evidente che lo stia distruggendo…

E questo, fra l’altro, dopo averlo salvato da morte certa.

Il fallimento di Frodo

Elijah Wood in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Mi ha personalmente sorpreso il risvolto che ha avuto la storia di Frodo.

Per quanto fosse evidente come la corruzione dell’anello l’avesse conquistato, mi aspettavo in ultimo un momento di ripensamento e redenzione. Invece Frodo si lascia del tutto conquistare dall’anello, rifiutandosi di distruggerlo, con l’intenzione di tenerlo per sé, come avrebbe fatto se Gollum non glielo avesse strappato così violentemente.

E solo davanti alla scelta estrema, fra morire per cercare inutilmente di recuperare l’Anello come Gollum, e tornare fra le braccia dell’amico, solo allora sceglie effettivamente di tornare in sé. Ma senza quella redenzione netta che mi sarei aspettata da un eroe di questo tipo.

Tuttavia, questo elemento, oltre ad essere originale e interessante, è quantomai fondamentale per il finale…

Perché Frodo parte per Valinor?

Ammetto che sulle prime non avevo ben compreso il finale.

Tuttavia, dopo essermi adeguatamente informata anche tramite un caro amico tolkeniano (che ringrazio), tutto ha avuto senso.

I motivi per cui Frodo lascia la Contea sono differenti. Il motivo più pratico, che non viene esplicitato in maniera così netta nel film, è trovare la cura per la malattia e per il dolore dato dalla puntura di Shelob.

Ma, più profondamente, Frodo è stato per sempre segnato dall’esperienza che ha avuto con l’Anello, anche perché lui stesso è consapevole di essersi alla fine lasciato vincere dallo stesso.

E, dopo un’avventura del genere, non può più essere il Frodo della Contea…

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The rise of the guardians – Cosa ci insegna l’infanzia

The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey, in Italia noto con il titolo infelice di Le 5 leggende, è un lungometraggio animato, risalente al periodo in cui la Dreamworks era ancora capace di far sognare…

Un prodotto per un pubblico infantile, ma che parla piacevolmente anche agli adulti, con tematiche profonde e raccontate in maniera incredibilmente brillante e originale.

Un film che purtroppo non portò ai risultati sperati: a fronte di un budget di abbastanza ingente di 145 milioni di dollari, incassò complessivamente 306 milioni, non riuscendo a rientrare nelle importanti spese di marketing.

Di cosa parla The Rise of the guardians

I guardiani dell’infanzia, North (Babbo Natale), Easter (il coniglietto pasquale), Sandman (L’omino dei sogni) e Tooth (la Fatina dei denti), di trovano a dover fronteggiare un nuovo nemico, Pitch Black, l’uomo nero…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The rise of the guardians?

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

La domanda forse più giusta sarebbe: vale la pena di vedere questa pellicola anche da adulti?

Per me assolutamente sì, perché è un prodotto con diverse chiavi di lettura, create con una cura e un’eleganza che poteva solamente provenire da questa casa di produzione ai tempi d’oro…

Ovviamente specifico che sono totalmente di parte: al tempo vidi il film al cinema quattro volte, con l’aggiunta delle infinite visioni domestiche. E non a caso, insieme a Rapunzel (2010), è fra i miei lungometraggi animati preferiti in assoluto.

Quindi non lasciatevi frenare (né qui né altrove) dal fatto che sia un prodotto animato: vi perdereste veramente una perla.

Jack Frost – La spensieratezza

Jack Frost è fondamentalmente il protagonista del film è anche, soprattutto da un certo punto in poi, il filo conduttore dell’intera vicenda.

Il suo centro non viene esplicitamente rilevato, ma, guardando con attenzione la pellicola, è quantomai evidente: Jack Frost rappresenta la spensieratezza, ma anche la capacità di andare oltre propri limiti e oltre le proprie paure.

Ma anche, in una lettura più adulta, può essere anche il non lasciarsi sopraffare dalla tristezza e dal buio interiore.

Il percorso di questo personaggio è alla ricerca della sua identità, che gli fa scoprire come sia sempre stato capace di vincere la paura, sua e degli altri. Così aiutare i Guardiani a ritrovare il contatto con i bambini che dovrebbero proteggere.

E come, per estensione, di come anche da adulti, sommersi dagli impegni, non possano dimenticarsi di quella spensieratezza tutta infantile che rende la vita un pochino più leggera da vivere…

North – La meraviglia

North, insieme a Easter, è il personaggio col character design più interessante e originale, di fatto inaspettato.

Il nome completo è Nicholas St. North, facendo quindi riferimento alla ben più antica figura di San Nicola, che poi coi secoli si è riadattata a quella di Babbo Natale.

Tuttavia è un Babbo Natale assolutamente atipico: è battagliero, rumoroso, guascone, ma anche la figura più saggia del gruppo. Un uomo dalla statura immensa più vicino allo stereotipo dell’uomo del Nord che alla figura tipica di Babbo Natale.

Ma, nonostante il suo aspetto, è il personaggio che racchiude la magia della meraviglia che i bambini provano davanti a questo mondo tutto nuovo e eccitante da scoprire

Ed è anche un invito all’adulto a non lasciarsi vincere dal grigiore della vita quando si è oppressi dalla pesantezza quotidiana, ma ritrovare la bellezza della scoperta e del lasciarsi (e volersi) far sorprendere ed emozionare.

Easter – La speranza

Easter, ovvero il Coniglio Pasquale, è indubbiamente il personaggio più interessante e a cui è legato il simbolismo più evidente.

Come viene più volte ripetuto, la Pasqua, e quindi anche la sua figura, sono legati alla speranza, che è ribadita anche in altri due elementi: il colore degli occhi, di un verde intenso, e che, quando una delle sue buche si chiudono, spunta un fiore, persino nella neve.

Entrambi elementi tradizionalmente associati al concetto di speranza.

Un concetto che sembra molto astratto, ma che in realtà è incredibilmente concreto: perdere la speranza, quindi la fiducia e l’ottimismo che è intrinseco per l’infanzia, è devastante per un bambino.

E infatti, la perdita della speranza rappresenta l’ultimo momento delle luci che si spengono. E la speranza si sgretola molto più facilmente una volta raggiunta la vita adulta, quando si ha effettivamente conoscenza del mondo…

Tooth – Il ricordo

Anche se forse Tooth, la Fatina dei denti, è il personaggio di per sé meno interessante, il suo potere è quantomai affascinante.

Il periodo dell’infanzia è il momento fondamentale della crescita, che getta le basi della nostra personalità e dei valori che in seguito si formeranno. E la perdita, il cambio per così dire dei denti, rappresenta il passaggio dal periodo infantile, più fragile, a quello adulto, dove si dovrebbe avere i denti più forti e definitivi.

Tuttavia quei denti persi non possono essere sprecati, perché raccontano un periodo che appunto non può essere mai dimenticato, e che ci definisce.

Altrimenti saremmo persi e senza un’identità come Jack Frost…

Sandman – Il sogno

Sandman è il guardiano del sogno e del sonno.

Tuttavia non si tratta solamente del sogno che si fa di notte, ma anche della capacità di immaginazione positiva, che crea immagini piacevoli e fantastiche. Così i bambini creano un universo alternativo, a loro misura, in cui rifugiarsi.

Ma il sogno è fondamentale anche per un adulto: insieme alla speranza è quello che non ci fa mai arrendere, e che ci ricorda che non c’è mai limite a quello che potenzialmente possiamo sognare e realizzare…

Pitch Black – L’incubo

Pitch Black significa buio pesto.

E il buio è una paura atavica, sia per bambini che adulti.

Infatti Pitch è un’ombra, uno spettro, che si nasconde effettivamente sotto ad un letto come il mostro sotto il letto, o l’uomo nero, per l’appunto.

La paura è anzitutto legata all’incubo, quindi il contrario dei sogni. Ma lo stesso è derivato da delle paure che possono essere molto più concrete, proprio come quelle di Jack Frost: non essere creduto, accettato, visto…

E la paura si evolve e si differenzia, con situazioni anche molto più diverso e gravi, ma il concetto rimane sempre lo stesso: con la spensieratezza, la speranza, la meraviglia e il sogno, la potremo sconfiggere.

Attraverso lo sguardo

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Gli occhi sono un elemento fondamentale della pellicola, quasi un fil rouge che unisce tutti i protagonisti.

La magia di Jack Frost si vede proprio attraverso gli occhi, la meraviglia di North è attraverso gli occhi enormi di un bambino, Jack Frost vede i suoi ricordi attraverso i suoi occhi e gli occhi della sorella…

Lo sguardo quindi la percezione, la percezione che può essere mutata e plasmata, con i sentimenti sia positivi che negativi. E così si può passare facilmente dalla paura al divertimento, alla spensieratezza, e con poco…

Il mascheramento smascherato

Tooth, doppiata da Isla Fisher, Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, North, doppiato da Alec Baldwin, Easter, doppiato da Hugh Jackman in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Guardando il film da un punto di vista più superficiale, appare evidente che sia stato concepito come una sorta di film di supereroi.

Infatti, come si cerchi di raccontare concetti importanti e di grande profondità, ma mascherandoli in una veste digeribile per il grande pubblico e, soprattutto, per il pubblico infantile. Tuttavia è evidente che non ha funzionato.

Questo probabilmente perché, per quanto il ritmo sia incredibilmente incalzante e la storia interessante, anche uno sguardo più superficiale intuisce che ci sia qualcosa di più rispetto a quanto viene mostrato. E questo di più non è per nulla immediato.

Aspetto che purtroppo potrebbe aver solo confuso il pubblico di riferimento…

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Wakanda Forever – L’indifendibile

Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler è il sequel di Black Panther (2018), prodotto a seguito della tristissima scomparsa di Chadwick Boseman, protagonista del primo film, nonché l’interprete che dava il volto all’eroe della storia.

Un triste avvenimento che ha scombinato totalmente le carte in tavola del progetto, dovendo portare un nuovo eroe e una nuova Pantera Nera, quando le basi per ovvi motivi non erano mai state buttate.

E, stranamente, non è neanche il maggiore problema del film.

Come era prevedibile davanti al riscontro e al fantastico incasso del primo capitolo, il film ha aperto benissimo nel box office mondiale, con 330 milioni di incasso. E probabilmente continuerà altrettanto bene.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Wakanda forever (2022)

Miglior attrice non protagonista a Angela Bassett
Migliore costumi
Migliore trucco e acconciatura
Miglior canzone
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Wakanda Forever?

Dopo la morte del suo re, il Wakanda si trova nella delicata situazione di dover gestire la sua posizione internazionale. Come se questo non bastasse, c’è un nuovo e pericolosissimo nemico all’orizzonte, che minaccia l’esistenza stessa del paese…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wakanda Forever?

Una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

Wakanda Forever è un film che vi consiglio solamente in due casi: se siete dei fan sfegatati dell’MCU e non potete perdervi nessun film, oppure se siete emotivamente molto legati al primo film e per questo attendete molto il sequel.

Per il resto, non è film che mi sento di consigliare.

Una pellicola inutilmente lunga, una trama colabrodo e scene action neanche così interessanti. Un prodotto MCU preso e inscatolato nella maniera più pigra e pasticciata possibile, decisamente peggiore del primo, che era sempre problematico, ma decisamente più quadrato.

Una grande delusione, per qualcuno che non si aspettava niente.

La drammatica indifferenza

Winston Duke in una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

È giusto cominciare questa recensione raccontandovi come mi sono sentita per sostanzialmente la totalità della pellicola.

In qualsiasi momento mi sarei potuta alzare, uscire dalla sala e dimenticarmi per sempre di questo film, senza avere alcun interesse a sapere cosa fosse successo dopo. La struttura narrativa di questi prodotti è molto spesso lineare e prevedibile, ma si regge su una buona capacità di intrattenimento e l’interesse verso il protagonista e le sue avventure.

Niente di tutto questo per Wakanda Forever.

I personaggi sono insipidi, la trama prevedibile e poco appassionante, anzi gira moltissimo su sé stessa, arrivando stancamente e stupidamente ad un punto troppo tardi e senza portare elementi di vero interesse.

Anzi, ci sono troppe cose veramente poco credibili, ultima solo la scelta dei protagonisti di portare la battaglia finale nel luogo più utile del loro nemico, lo stesso che può controllare animali mastodontici come le balene e le orche.

E sono questi gli eroi per cui dovrei tifare?

Una nuova e buona Pantera?

Letitia Wright, in una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

Uno dei pochi punti vagamente positivi della pellicola è il personaggio di Shuri.

Ma non perché sia una buona protagonista, ma perché ha almeno una costruzione emotiva e psicologica, grande differenza rispetto alla freddezza che ho provato vedendo T’Challa in Black Panther. Tuttavia, niente di nuovo, niente di interessante e, soprattutto, niente di ben scritto.

Teoricamente il suo percorso dovrebbe essere attraverso il lutto, poi il desiderio di vendetta e una sorta di incattivimento che la porta ad essere crudele nei confronti di tutti, soprattutto dei suoi nemici. Tuttavia, complice la scrittura e la scarsa capacità recitativa di Letitia Wright, ne risulta un racconto poco funzionante.

La stupidità di Namor

Namor è senza dubbio uno dei peggiori villain di tutto l’MCU.

Se per lo scorso film mi sono sentita di difendere il villain, perché tipicamente nei prodotti della Marvel è l’aspetto più debole.

Non posso farlo in questo caso: Namor è davvero indifendibile. La sua stupidità è talmente vasta che, proprio nel momento in cui sta distruggendo il Wakanda, decide di lasciare ai suoi nemici una settimana di tempo per riorganizzarsi contro di lui.

E non è credibile che questo avvenga per le sue motivazioni iniziali, ovvero di allearsi con il Wakanda: Namor dice letteralmente ho tanti guerrieri quanti i fili d’erba, ovvero migliaia, se non centinaia di migliaia, guerrieri col potere delle Pantere Nere. Per questo ha letteralmente nessun motivo per cercare ancora l’alleanza con il Wakanda, tanto più ora che gli si è dimostrata ostile.

Come se tutto questo non bastasse, è veramente imbarazzante che questo personaggio abbia in buona sostanza le stesse motivazioni e lo stesso piano del villain dello scorso film.

Poche volte ho visto una così profonda pigrizia narrativa.

Ramonda: racconto di una stronza

Ramonda, la regina, è per me uno dei peggiori personaggi del film, seconda solo a Namor.

Quasi come la figlia, è un personaggio totalmente incattivito, che si comporta in maniera impulsiva e ingiustamente cattiva. In particolare, l’ho trovata davvero terrificante nel suo comportamento con Okoye. Se non ve lo ricordate, la generale nel primo film aveva rivoltato la lama contro il suo stesso marito ed era sempre rimasta fedele al Wakanda, come aveva giurato.

Ma Ramonda decide di rinfacciargli questa, punendola ingiustamente e per pura cattiveria.

Non ho pianto la sua morte, sinceramente.

La pochezza estetica

Come nel primo film ero abbastanza interessata all’estetica e alla sua ispirazione del tutto particolare all’afrofuturismo, sono rimasta veramente delusa dalla scelta invece dall’estetica riguardo alla nuova nazione e ai villain.

Anzitutto per Talokan, che nel film evidentemente doveva sembrare un paradiso subacqueo, che invece ho trovato invece un incubo. Un luogo buio, tetro, spoglio, dove non vorrei mai mettere piede. Quindi quando Namor dice a Shuri vedi cosa devo proteggere, mi veniva quasi da ridere.

Poi in generale la maggior parte dell’estetica di Namor e del suo popolo l’ho trovata incredibilmente plasticosa e sinceramente brutta, molto lontana dall’eleganza che anche in questo film ho trovato nel Wakanda e nel suo popolo.

Per non parlare di quanto Namor appaia ridicolo con quelle alette ai piedi, che lo rendono un personaggio inutilmente cartoonesco e fumettoso, in maniera del tutto fuori contesto rispetto al resto del film…

Iron Heart: è ora di smetterla

Sono personalmente stufa delle introduzioni di nuovi supereroi in prodotti di altri. Mi rendo drammaticamente conto della necessità di marketing che c’è dietro: è la Marvel che imbocca forzatamente lo spettatore di qualcosa che non voleva, così da stuzzicarne la curiosità.

Perché, onestamente, quanti avrebbero accettato con entusiasmo e a scatola chiusa la serie dedicata a questo personaggio senza questa introduzione?

Ho sentito tanto entusiasmo intorno a questo personaggio, che dovrebbe seguire le orme di Ironman. Tuttavia, il tempo è poco e, nonostante si cerchi di mimare proprio le dinamiche del personaggio di ispirazione, Riri Williams mi è risultata davvero insipida.

Ma forse quello che mi ha fatto davvero arrabbiare è stata la battuta con cui il personaggio si auto introduce, che mi è sembrato quasi al pari del Ma sei una supereroina egiziana? in Moon Knight.

Insomma, quasi un modo per svelare un token.

Il rispetto di Wakanda Forever

Il racconto intorno al personaggio di Boseman non è stato così tanto di cattivo gusto come mi aspettavo, ma mi ha dato lo stesso fastidio.

Per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto limitare questo omaggio ad un semplice accenno, e non metterlo così tanto in scena, fra l’altro come elemento della narrazione in maniera così plateale sul finale.

Perché, per quanto ne vogliamo dire, mentre mi si stringeva il cuore ricordando la sua tragedia, mi sono anche resa conto che questa narrazione era anche finalizzata a lucrare sulla stessa.

E nessuna dichiarazione in merito alla bontà dell’operazione da chi ci ha lavorato potrà togliermi questo pensiero dalla testa.

Dove si colloca Wakanda Forever (2022)?

Come per il primo film, anche Wakanda Forever è un film abbastanza a sé stante.

È ovviamente successivo Endgame (2019) – le cui vicende si svolgono nel 2023 – ma, secondo la timeline di Disney+, si colloca fra Moonknight e She Hulk, ovvero la primavera del 2025.

È l’ultimo film della Fase 4.

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Piccole donne – Che chiasso!

Piccole donne (2019) di Greta Gerwig è un period drama tratto dal celebre romanzo omonimo. Un film che fu circondato da un grande chiacchiericcio, e non sempre per i motivi giusti. E non a caso ottenne numerose candidature, in parte per me assolutamente inspiegabili.

O, meglio, spiegabili nel contesto degli Oscar.

Un prodotto che ebbe anche un buon riscontro di pubblico: a fronte di un budget di appena 40 milioni, ne incassò complessivamente 206 in tutto il mondo.

Di cosa parla Piccole donne?

Inghilterra, seconda metà dell’Ottocento. La vicenda ruota intorno alle quattro sorelle March, con caratteri molto diversi ma che incarnano i topos delle eroine romantiche tipiche di quel periodo.

Fra matrimoni e amori infelici, un classico dramma strappalacrime, ma fatto con una certa cura.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Piccole donne?

Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh e Eliza Scanlen in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Dipende.

Dal mio personale punto di vista, non ha un grande valore artistico, ma potrebbe essere un film molto coinvolgente, se siete pronti a farvi catturare da certi ganci emotivi.

Io personalmente mi sono lasciata agganciare.

Infatti Piccole Donne è una storia molto emotiva, con una profonda esplorazione della psicologia dei personaggi, anche in maniera facilmente coinvolgente. E possono essere due ore molto piacevoli in un prodotto che vuole essere sicuramente lacrimevole, ma anche molto confortante, tutto sommato.

Innamorati di Saoirse Ronan

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Molti registi, soprattutto ad inizio carriera, hanno i loro attori feticcio. Di Caprio per Scorsese, Johnny Depp per Burton, e via dicendo.

Per Greta Gerwig è Saoirse Ronan, con cui aveva già lavorato per Lady Bird (2017).

E proprio come nel precedente film, non vedeva l’ora di farle interpretare un personaggio che si oppone testardamente a tutti, ma è fragile internamente. Per figure di questo tipo, che potrebbero risultare in qualche modo antipatiche allo spettatore, si lascia sempre loro lo spazio per ammettere le proprie debolezze.

E così è anche il caso di Jo.

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Tuttavia io non sono riuscita a farmi conquistare. Ammetto che mi ha non poco emotivamente colpito la sequenza sul finale, in cui Jo ammette che avrebbe infine sposato Laurie se glielo avesse chiesto, soprattutto per il suo senso di solitudine.

E non di meno ho apprezzato la costruzione di un personaggio femminile che risolve i suoi problemi al di fuori di una relazione romantica, ma piuttosto tramite una propria realizzazione personale.

Tuttavia per tutto il film non ho potuto fare a meno che darle ragione quando ammette che la sua situazione di tristezza sia unicamente colpa sua, della sua superbia e testardaggine.

Insomma, non sono riuscita a stare dalla sua parte.

Dalla parte di Amy

Florence Pugh in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Amy è il personaggio più bistrattato dell’intero film.

Anche se spiega comunque abbastanza esplicitamente il suo disagio sul business dei matrimoni, comunque viene complessivamente raccontata come la sorella invidiosa e aggressiva, che si oppone alla sorella ben più meritevole dell’affetto dello spettatore.

E al contempo appare anche come il personaggio che deve starci meno simpatico, perché non si sottrae al sistema oppressivo del mercato dei matrimoni come la sorella, appunto.

Eppure io sto dalla parte di Amy.

Sono riuscita molto di più ad empatizzare con la sorella non particolarmente brillante e che si sente la seconda scelta, ma che alla fine realisticamente riesce a sistemarsi economicamente e emotivamente con Laurie.

E l’ho sinceramente preferita, perché il suo dolore mi è sembrato molto più sincero rispetto a quello di Jo.

E non è neanche l’unico problema del suo personaggio.

Il premio dell’odio

Scherzosamente tra me e me mi piace pensare che avrebbero dovuto dare il Premio dell’odio alla costumista di Piccole donne per come ha vestito Florence Pugh. E con lei anche il reparto make-up.

Ma probabilmente tutto viene dalle mani della regista, per nulla innamorata di questa attrice, anzi.

Se si fa un confronto fra come è vestito e gestito esteticamente il personaggio di Jo rispetto ad Amy, la differenza salta subito all’occhio. Saoirse Ronan è alta e snella, e la fotografia, la scelta dei colori e dei vestiti la fanno apparire molto slanciata e ne esaltano la figura.

Florence Pugh è ben più bassa, ha il volto tondo e paffuto, e il fisico più massiccio. E giustamente si è deciso nei flashback di metterle le trecce e la frangetta, pessime per il suo volto, e di vestirla per la maggior parte delle volte con linee dritte e vestiti chiusi fino alla gola che la ingoffiscono.

Purtroppo non è la prima volta che lei o altre attrici non perfettamente snelle non siano messe in risalto, ma anzi si cerchi di nascondere il loro fisico ed ingoffirle.

Era successa una cosa non molto differente in Black Widow (2021): mentre Scarlett Johansson ha la tutina attillata senza nulla sopra e che esalta il suo fisico, Florence Pugh è in molte scene ancora una volta ingoffita da una giacca smanicata sopra la tuta, oppure con abiti molto meno aderenti.

L’altra femminilità di Meg

Saroise Ronan e Emma Watson in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Un grande pregio del film è di saper raccontare diversi tipi di femminilità e soprattutto di eroine romantiche. Oltre all’eroina che va contro la femminilità imposta (Jo) e quella che invece vi cerca il suo posto (Amy), Meg è il personaggio femminile che sceglie l’amore nonostante l’aspetto economico.

E il classismo dilaga quando lei sente pesantemente il peso della sua scelta, di non poter essere felice come le altre sue coetanee ben più ricche e con i vestiti più belli. Ma alla fine anche lei trova la sua dimensione e accetta la bellezza che la sua vita comunque può offrirle.

Beth: l’eroina tragica

Beth è in tutto e per tutto l’eroina tragica.

Un elemento tipico della narrazione romantica è proprio quello della malattia, soprattutto quella che disabilitante.

In questo caso Beth è l’aggancio emotivo principale della pellicola, soprattutto per la scena della sua morte. All’inizio lo spettatore tira un sospiro di sollievo quando scopre che Beth sette anni prima non è morta, ma è altrettanto distrutto quando scopre che nel presente è invece successo.

Una figura fra l’altro angelica e innocente, con un genio inesplorato che riesce solo marginalmente a mostrare nella sua brevissima vita. Forse un personaggio un po’ di contorno, ma che ha una tutta una sua funzione molto ben bilanciata all’interno della pellicola.

Il posto giusto, il momento sbagliato

Qui non voglio togliere importanza a Greta Gerwig con autrice e regista, ma contestualizzare il successo che hanno avuto i suoi film.

Non me ne vogliano gli appassionati, ma secondo me Gerwig non è al momento il meglio che abbiamo nella scena del cinema contemporaneo, e credo che ci siano autrici decisamente più interessanti di lei, anche solo Jane Campion Il potere del cane (2021).

Già solo in Piccole donne la regia secondo me non è così eccezionale, non particolarmente ispirata, e anche troppo chiassosa.

Per ora questa regista per quanto mi riguarda ha fatto dei prodotti buoni, ma non eccezionali, che meritavano molto meno plauso di quanto hanno ricevuto.

E purtroppo, sopratutto per i discorsi che si facevano al tempo, ho paura che questa autrice sia diventata una sorta di token in un contesto delle premiazioni, soprattutto gli Oscar, dominate da registi uomini…

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La compagnia dell’anello – L’inizio di una grande avventura

Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello (2001) di Peter Jackson è il primo capitolo della trilogia cult tratta dalle opere di Tolkien. Dopo la mia parziale delusione di Rings of Power, da buona casual fan di questa saga ho voluto riguardarla da capo, dopo tanti anni dalla prima visione.

E secondo me è quantomai evidente quanto la serie abbia provato ad imitare la grandezza di queste opere, che però si sono rivelate davvero inarrivabili.

Questo film fu anche un incredibile successo economico: a fronte di un budget di 93 milioni di dollari, ne incassò quasi 900.

Di cosa parla Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello?

Dopo un ampio prologo dedicato alla creazione e alla perdita dell’Anello, veniamo catapultati nella Contea degli Hobbit, minuscole creature fantastiche che si troveranno al centro della storia. In particolare il nostro eroe, Frodo, si trova fra le mani questo oggetto preziosissimo, ma anche molto pericoloso, che deve essere distrutto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello?

Elijah Wood e Ian McKellen in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Ovviamente sì.

Molti si potrebbero sentire un po’ minacciati da quest’opera, soprattutto davanti alla durata piuttosto corposa, oltre al culto che la circonda. Tuttavia, vale assolutamente la pena di approcciarsi quantomeno al primo capitolo della saga, un caso abbastanza raro di un blockbuster che venne riconosciuto anche per il suo valore artistico.

E in effetti già questa prima opera, nonostante abbia dei tratti estetici tipici di un altro periodo, dimostra tutta la passione di questo autore nel portare sullo schermo l’opera di Tolkien, riuscendo a reggere magnificamente tre (e più) ore di film.

E a questo proposito…

Meglio la versione cinematografica o la versione estesa?

Una dura scelta.

Ma la scelta in realtà è più semplice da quello che sembri: se vi state approcciando per la prima volta a questo film, non vi consiglio di guardare la versione estesa. Non perché non ne valga la pena, ma perché le tre ore e venti di durata sicuramente si sentono, e potrebbe non dico guastare la visione, ma renderla più impegnativa del necessario.

Tuttavia, se state rivedendo i film e soprattutto se siete appassionati della saga, vale assolutamente la pena di approcciarsi alla versione estesa, che aggiunge scene magari non fondamentali, ma che sicuramente ampliano la narrazione.

Un eroe minuscolo

Elijah Wood in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Una delle caratteristiche più peculiari del film, e più in generale dell’opera di Tolkien, è la scelta dell’eroe. Frodo è un ragazzino, quasi un bambino, che non ha esperienza del mondo, e che anzi ha una statura minuscola, un personaggio che può essere schiacciato potenzialmente da chiunque.

E infatti è proprio il topos dell’eroe per caso, che porta sulle spalle l’importante peso di salvare il suo mondo, ma che al contempo è continuamente fallibile e impaurito. Ed è solo l’inizio di un grande percorso di crescita e di scoperta, che lo spettatore può seguire con grande affiatamento.

E infatti Jackson si è trovato per le mani un protagonista perfetto, che può essere quanto più possibile vicino allo spettatore, che si comporterebbe forse in maniera non tanto dissimile nella medesima situazione.

L’anello, il vero nemico

Always remember Frodo, the Ring is trying to get back to its master. It wants to be found.

Ricorda Frodo, l’Anello sta cercando di tornare dal suo creatore. Vuole essere trovato.

Un elemento di grande interesse della pellicola è come Sauron, il grande nemico, sia fondamentalmente assente. I personaggi vengono soprattutto a contatto con i suoi sottoposti, in particolare i terribili nazgol, nemici con un’estetica semplice, ma molto efficace.

Ma il vero nemico è l’anello.

L’anello è un nemico infido, che non si può effettivamente sconfiggere se non distruggendolo, con cui non si può dialogare, che è al contempo il nemico e l’oggetto del desiderio. Quindi il protagonista è minacciato da ogni parte: da chi vuole impossessarsene e dall’anello stesso che vuole essere posseduto.

E particolarmente interessante che l’anello non è desiderato per motivi di per sé negativi. Infatti, come dice Gandalf:

I would use this ring for a desire to do good.

Userei l’anello per il desiderio di fare qualcosa di buono.

E infatti anche Boromir alla fine se ne vuole impossessare perché attratto dal tipo di potere che quell’oggetto può dare. Teoricamente, quindi, per fare il bene del suo popolo.

Una regia dinamica

Elijah Wood, Sean Astin, Dominic Monaghan e Billy Boyd in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

Un grande pregio della pellicola, come per la saga di Scream e come Dune (2021), è la regia.

All’interno sempre di un prodotto dalla durata importante e con concetti non sempre facilmente digeribili, la messinscena e soprattutto i movimenti di macchina donano una tridimensionalità e una dinamicità incredibilmente coinvolgente alle scene.

Non di meno la fotografia e le ambientazioni sono molto più cupe di quando mi ricordassi, in parte anche figlie degli Anni Novanta e di certe tendenze nascenti nel millennio che era appena cominciato. Elementi che potenzialmente potevano far scadere il prodotto in un’estetica di seconda categoria.

Ma è tutto il contrario.

Una narrazione a tappe

Viggo Mortensen in una scena di Il Signore degli Anelli - La compagnia dell'anello (2001) di Peter Jackson

La struttura narrativa di per sé non è problematica, ma indubbiamente può apparire non poco pesante e forse meno coinvolgente per il fatto che è evidentemente solo la prima parte di un viaggio.

E tanto più che è una narrazione a tappe, in cui ognuna è anche una tappa del viaggio stesso. Quindi non si vede di per sé un’evoluzione della vicenda, ma il tentativo di portare avanti un’avventura complessa e che, tutto sommato, risulta fallimentare nella sua prima fase.

Perché Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello mi è piaciuto Perché Rings of Power no

Questa è ovviamente la mia opinione personale, ma non riesco a considerare Rings of Power all’altezza della saga madre. Rivedendo infatti questo film mi sono resa conto di quanto al confronto la serie prequel mi sembra non più che una grande fanfiction ad alto budget.

Tanto per cominciare di Rings of Power, come avevo già raccontato nella recensione dedicata, non mi è piaciuta la regia e le ambientazioni. Mentre in La compagnia dell’anello ho visto delle ambientazioni credibili e molto più dark, nella serie ho trovato principalmente setting anche molto belli, ma eccessivamente patinati e luminosi, e di conseguenza per me molto finti.

Un’altra cosa molto fastidiosa della serie è stata la mia alienazione.

Molti elementi della trama vengono inseriti senza essere spiegati, quando bastava veramente una riga di sceneggiatura per rendere la storia più comprensibile. Invece ne La compagnia dell’Anello ci sono tutte le didascalie necessarie, e mai ingombranti.

Insomma, non voglio distruggere la serie, ma finalmente mi è chiaro perché ho sentito questa grande differenza di apprezzamento fra i due prodotti.

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Ritorno al bosco dei 100 acri – Una favola di concetto

Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster è un prodotto ispirato ai racconti per l’infanzia di Winnie the Pooh e Christopher Robin.

Un film che cercava fare breccia nella nostalgia degli adulti, sia di agganciare un nuovo pubblico di bambini. Riuscendoci in parte: davanti ad un budget intorno al 70 milioni, ebbe un buon riscontro di 197 milioni di incasso.

Tuttavia, forse non era quello che si aspettavano. Infatti, in quel periodo uscirono due film analoghi, Paddington (2014) e il seguito, Paddington 2 (2017), costati pure meno e che per questo furono decisamente più redditizi: rispettivamente 282 milioni e 227 milioni.

Di cosa parla Ritorno al bosco dei 100 acri?

Christopher Robin deve abbandonare i suoi amici del bosco dei 100 acri per andare in collegio, esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ritorno al bosco dei 100 acri?

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

In generale, sì.

La pellicola ha molti punti forti, che lo rendono un film molto piacevole da guardare, con diversi momenti strappalacrime, oltre ai dolcissimi personaggi del bosco. Un film con una trama semplice e lineare, quasi prevedibile, ma che in molti punti scalda davvero il cuore.

Tuttavia, è un film che consiglio di guardare senza pensarci troppo: ad un’analisi più approfondita il film risulta difettoso in più punti, in particolare con una struttura narrativa un po’ traballante e tematiche più adatte ad un pubblico molto adulto che di bambini…

Inghiottiti dal lavoro

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

Il racconto del padre di famiglia che non si occupa adeguatamente dei figli e che li stressa per raggiungere il loro meglio è un topos narrativo molto tipico di questo tipo di film, fin da Mary Poppins (1964).

Tuttavia, in questo caso è raccontato in maniera forse più pesante del necessario: solitamente si associa questo tipo di racconto alla perdita dei sogni infantili e della spensieratezza una volta giunti alla vita adulta, ad uso e consumo del target infantile.

Invece in Ritorno al bosco dei 100 acri il protagonista è schiavo della retorica capitalista del col duro lavoro raggiungerai tutto quello che vorrai. Un tema drammaticamente attuale, che può essere facilmente comprensibile per un pubblico molto adulto, mentre potrebbe aver solo confuso un pubblico infantile.

Il bambino non protagonista

Forse un altro malus per la ricezione di questo film è stata proprio la mancanza di un protagonista infantile. Per due terzi della pellicola il personaggio principale è l’adulto che vuole tornare bambino, non il bambino stesso.

E, come detto, un adulto con dinamiche adulte, poco interiorizzabili da un pubblico infantile.

Infatti, il film e le sue tematiche dialogano non tanto con il sogno infantile della spensieratezza, ma al contrario con l’idea di dover tenere insieme un’azienda, fare il proprio lavoro e non rovinare la vita agli altri. E infatti, la risoluzione del problema, che cerca di scardinare un classismo di fondo della società, è un elemento poco chiaro per un bambino,

E poco importa se in parte la figlia del protagonista porta l’idea risolutiva.

Perché lei stessa è l’elemento più difettoso.

Il personaggio infantile

Quella che dovrebbe essere la protagonista del film, è in realtà catapultata al centro della scena sul finale per risolvere la situazione, senza che però il suo personaggio sia stato adeguatamente costruito, dando allo spettatore la possibilità di essere coinvolta con la sua storia.

Infatti, Madeline dovrebbe avere un’evoluzione durante il film per ritrovare la sua spensieratezza infantile, ma succede tutto troppo improvvisamente e senza dare il tempo al personaggio di respirare.

E questo è dovuto ad una struttura narrativa traballante, che sembra voler rispettare una serie di step obbligati di questo tipo di film, ma mancando di una robusta struttura che li tenga insieme.

Una scelta ottima…ma poco credibile

Personalmente ho davvero apprezzato la scelta di rendere i personaggi del bosco come bambole di pezza, realizzati in maniera molto credibile e che riescono a riprendere i caratteri dei personaggi originali, ma riuscendo anche ad adattarli al tono del film.

E la maggior parte dei loro discorsi toccano veramente nei punti giusti, e mi hanno sinceramente commosso.

Tuttavia, questa scelta è purtroppo poco credibile quando i personaggi del bosco dei 100 acri escono dal bosco stesso. La dinamica dovrebbe essere alla Toy Story, ovvero che si fingono delle bambole di pezza rimanendo immobili.

Ma questo succede troppo poco spesso e così troppo poco spesso gli altri personaggi umani si rendono conto della loro vera natura. I momenti in cui succede sono funzionali alla narrazione, ma per molto tempo del film io non riuscivo a credere a quello che vedevo in scena.

Perché Ritorno al bosco dei 100 acri non fu un grande successo?

Fra il 2014 e il 2018 sembra che fosse il grande momento dei buddy movie con un adulto e un orsetto.

Eppure, nessuno di questi fu un grandissimo successo: come detto quello che ne uscì meglio fu proprio la duologia di Paddington, che fu anche quella che costò di meno.

Anche peggio fu la produzione di Vi presento Christopher Robin (2017), che fu un flop al botteghino.

Nel caso de Ritorno al bosco dei 100 acri si trattò di un film ben più ambizioso, con un attore capace e quasi il doppio di Paddington. Un prodotto che però non riuscì particolarmente a distinguersi, azzeccando poco il target di riferimento e forse definendo la conclusione di un trend che era ormai saturo.

Lode a Ewan McGregor

Ewan McGregor è un attore che apprezzo moltissimo.

Soprattutto perché è uno di quegli interpreti magnifici che in ogni produzione ci mettono veramente impegno. Anche quando si trova in produzioni che non richiedono particolari doti interpretative e che, negli ultimi tempi, hanno portato a risultati spesso deludenti.

Partendo dal tentativo di rilancio di Trainspotting, che ha avuto un riscontro economico non particolarmente entusiasmante, il flop di Doctor Sleep (2019) e poi quello di Birds of prey (2020).

In particolare quest’ultimo è stato per me un film mediocrissimo, oltre che con la campagna di marketing e la distribuzione meno azzeccata nella storia del cinema. E comunque anche in quello McGregor ha fatto del suo meglio.

E così anche ne Ritorno al bosco dei 100 acri ha recitato per la maggior parte delle scene da solo in scena, riuscendo a dare un’interpretazione sempre convincente.

Non proprio una cosa da tutti.

Ed è veramente un peccato che il maggior successo che questo attore abbia avuto recentemente è stato con quella mediocrata di Obi-Wan...

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Will Hunting – Tutta una vita davanti

Will Hunting (1997) di Gus Van Sant è uno dei film con una delle produzioni più ambiziose e sentite degli ultimi trent’anni: scritto e ideato dalla coppia Ben Affleck e Matt Damon, al tempo giovanissimi.

Diretto da un autore come Gus Van Sant – lo stesso che ha diretto film incredibili come Milk (2008) e che è riuscito ad avere l’idea allucinata di proporre un remake shot-by-shot di Psycho (1960). E, infine, la partecipazione di un attore così incredibile e iconico come Robin Williams.

Cosa poteva uscire da un progetto del genere?

Un film amatissimo e iconico: con solo 10 milioni di budget, incassò la bellezza di 225 milioni in tutto il mondo e vinse l’Oscar per la Migliore sceneggiatura.

Di cosa parla Will Hunting?

Will Hunting è un ragazzo di poco più di vent’anni, un genio capace di risolvere i più complessi problemi matematici, oltre che recitare a memoria libri interi. Ma al contempo è anche un ragazzo difficile, che vive per strada e che non è capace di prendere il volo e sfruttare la sua genialità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Will Hunting è un film imperdibile

Matt Damon in una scena di Will Hunting (2017) di Gus Von Sant

Will Hunting è un film capace di raccontare una generazione, nonché il tema degrado e il vivere per strada, senza banalizzare i personaggi come cattivi o una generazione perduta, elemento per nulla scontato per prodotti di questo genere.

Ed è un film imperdibile anche solo per vedere i primi passi che muovevano sia Matt Damon, l’attore prodigio, sia un inedito Ben Affleck nel ruolo del bad boy. E ovviamente Robin Williams in uno dei ruoli più profondi e memorabili della sua carriera.

Il tutto all’interno di una storia profonda ed emozionante, che coinvolge e appassiona fin dalla prima scena.

Will Hunting: la genialità perduta

Will è un ragazzo perduto, che si nasconde dietro alla sua genialità e alla corazza strafottente per mascherare tutte le sue insicurezze interiori, che lo rendono incapace di avere delle relazioni vere e durature. Lo si vede molto bene nel suo rapporto con Skylar, con cui non è capace di fare il passo finale.

Un ragazzo indurito da una vita difficile, che si limita da solo, andandosi ad invischiare in crimini di strada e buttando via il suo talento. E, per la maggior parte del film si comporta come uno spaccone, andando a vanificare tutti gli sforzi che il professore fa per lui, opponendosi testardamente all’idea di cambiare vita.

Insomma, Will dà sempre il peggio di sé.

Solo Sean riesce a prenderlo nella maniera giusta, perché è l’unico capace di ridimensionarlo e, alla fine, rompere la facciata e fargli capire la sua vera potenzialità, liberandolo della paura che ha vissuto per tutta la vita.

Sean: il maestro di vita

Come detto, Sean è l’unico che riesce a rompere la facciata di Will, ma è anzitutto quello che riesce a porre dei limiti alla sua avventatezza.

In particolare, nella prima seduta non ha problemi a mettergli le mani al collo quando osa dire qualcosa sulla moglie morta, scendendo proprio al livello di Will.

E ancora più potente è il monologo che segue il loro secondo incontro, quando Sean ridimensiona del tutto la persona di Will, creata artificialmente solamente tramite i libri, mancando totalmente di esperienza di vita effettiva.

Sean non forza mai Will, e non ha intenzione di farlo, nonostante quanto sia spinto dal professore. E infatti alla fine Will riesce a trovare sé stesso, ad uscire dal suo guscio perché è spinto gentilmente e coi giusti tempi in quella direzione.

E alla fine, come riesce a far capire a Will che può prendere il volo senza sentirsi in colpa, così anche lui capisce che non è mai troppo tardi per riprendere in mano la propria vita.

Chuckie: non essere banali

Chuckie è il personaggio su cui il film poteva essere il più banale possibile, e dove invece ci ha regalato un ottimo personaggio secondario. La pellicola fino alla fine fa sembrare che lui e il gruppo di amici siano quasi contro questa genialità di Will.

E ci si aspetterebbe che proprio Chuckie avrebbe ostacolato la scelta di Will di lasciare finalmente il nido. E invece è lo stesso che dà all’amico la spinta definitiva, che gli fa infine prendere la giusta decisione.

Una scena che ci offre una lezione semplice ma non meno importante sull’amicizia:

La cosa migliore che possiamo fare per le persone a cui teniamo è incoraggiarle ad ottenere il meglio dalla loro vita, anche se questo significherà allontanarle da noi.

Cosa ci insegna Will Hunting ancora oggi

Matt Damon in una scena di Will Hunting (2017) di Gus Von Sant

Will Hunting ci insegna a non avere paura.

A conoscerci, a non avere vergogna delle nostre capacità, di non farci ingoiare dalle nostre insicurezze per non avere il coraggio di prendere il volo. Spesso tendiamo a rannicchiarci nella nostra tranquilla e confortante quotidianità, non riuscendo a metterci alla prova con nuove sfide, che potenzialmente potranno migliorarci.

E, soprattutto, ci insegna che non è mai troppo tardi per rimettersi in gioco.

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Harry ti presento Sally – L’incubo delle relazioni

Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner è un cult del genere rom-com. Divenne un modello sopratutto per il sottogenere dell’enemy to lovers, ovvero le storie romantiche incentrate su due personaggi che passano da una condizione di antagonismo ad una di amore.

Un cult non per caso: pur non incassando moltissimo, per un film del genere portarsi a casa 93 milioni contro un budget di 16 fu indubbiamente un grande successo commerciale.

Ma perché Harry ti presento Sally è diventato un cult?

Di cosa parla Harry ti presento Sally?

La vicenda si dipana nell’arco di dieci anni (o più) da quando Sally e Harry si incontrano per un viaggio e poi si perdono e si rincontrano negli anni successivi. E da un rapporto cominciato non con i migliori presagi, nascerà qualcosa di inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Harry ti presento Sally può fare per me?

Meg Ryan in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

I motivi per cui questo film è diventato un cult non sono da ricercare nei suoi meriti artistici, ma nel fatto che è indubbiamente una commedia romantica per nulla banale. Indubbiamente alcune dinamiche le avrete già viste in commedie recenti, ma con ogni probabilità le stesse prendono le mosse proprio da qui.

Ma tanto più questa pellicola può essere piacevole anche per chi (come me) non ama questo genere cinematografico.

Infatti, non andandosi ad arenare su dinamiche semplici e prevedibili, ma raccontando una storia di più ampio respiro con anche tematiche non scontate, è un film che può dare più soddisfazioni di quanto si potrebbe pensare.

Perché Harry ti presento Sally è un cult?

Banalmente, Harry ti presento Sally è diventato un cult perché non è banale.

In particolare, due elementi sono stati vincenti in questo senso: raccontare le reazioni in maniera autentica e non buttarsi via con l’instant love.

Gran parte del film, ancora prima di arrivare alla stessa relazione fra i protagonisti, è dedicata all’incubo delle relazioni, a questo inseguire la necessità di essere accoppiati, pena mancare il match perfetto. Ed è una sensazione in cui, oggi come al tempo, molti spettatori si possono ritrovare.

Così anche la mancanza dell’instant love, ovvero quella modalità narrativa tipica delle rom-com, soprattutto di scarso livello, in cui i due protagonisti si innamorano istantaneamente.

Ovviamente nella vita reale sono cose che possono anche succedere, ma quando vediamo un film vogliamo una storia interessante e strutturata, che ci appassioni. Oltre a questo, ovviamente, la pellicola è diventata un modello nel genere nelle sue dinamiche, particolarmente l’appassionante dichiarazione d’amore finale.

L’incubo delle relazioni

Meg Ryan in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

Harry ti presento Sally ha la capacità di raccontare in maniera interessante il mondo delle relazioni sentimentali.

Infatti, i personaggi sono costantemente frustrati dall’idea di doversi trovare un compagno, di doversi sistemare.

E al più presto possibile.

Perché, se non ci si accalappia il compagno subito, questo andrà a qualcun altro. E noi rimarremo per sempre soli. Un modo molto meccanico, ma di fatto anche credibile, di raccontare queste dinamiche, come una giostra da cui si continua a scendere e salire.

L’unico elemento in cui si perde, ma è anche motivo del suo fascino, è l’idea che Harry e Sally siano fatti per stare insieme, e che quindi dopo più di dieci anni riusciranno a raggiungere una relazione soddisfacente solamente se si metteranno insieme.

Ma, appunto, mancando questo elemento, la storia amorosa non avrebbe funzionato.

Un enemy to lovers mai banale

Billy Crystal in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

Il sottogenere dell’enemy to lovers è intrigante quanto facilmente banalizzabile.

Lo vediamo in molti prodotti di scarso valore come il recente Bridgerton, e spesso i protagonisti si perdono in relazioni sciocche e adolescenziali, in cui l’antagonismo nasce non da basi concrete, ma da motivi fumosi e poco credibili.

Al contrario questa dinamica in Harry ti presento Sally viene costruita fin dall’inizio e con grande abilità: Harry e Sally sono due personaggi diversi e in contrasto, ma per motivi mai banali.

Infatti Harry è un uomo, soprattutto all’inizio, piuttosto sgradevole, totalmente mancante di una maturità emotiva, anzi che sente di sapere tutto sulle relazioni e sulle sue dinamiche.

Sally è la sua giusta controparte: un personaggio che si sente comunque oppresso dalle dinamiche relazionali, ma non si lascia mai ingoiare dalle stesse. Quindi, anche dopo molti anni di relazione, lascia il suo fidanzato, si approccia sessualmente ad Harry con grande genuinità ed ha soprattutto l’energia per tenergli testardamente testa.

E non può infine accettarlo, se non quando lui gli dimostra di essere emotivamente maturato.

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Men – Il maschile fragile

Men (2022) è l’ultima pellicola di Alex Garland, cineasta noto per pellicole come Ex Machina (2015) e Annientamento (2018).

Ovviamente ha avuto un incasso molto limitato: appena 11 milioni in tutto il mondo, davanti ad un budget finora sconosciuto, ma che dovrebbe aggirarsi fra i 5-10 milioni di dollari.

Di cosa parla Men?

Harper è una giovane donna che, dopo essersi separata tragicamente dal marito, decide di concedersi una meritata vacanza in una piccola tenuta di campagna. La sua vita e la sua permanenza vengono però minacciati dalla presenza opprimente di diversi uomini…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Men?

Rory Kinnear in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Men è un film molto complesso, che presenta diversi livelli di lettura e che in un certo modo si perde nell’elemento onirico e fantastico, non sempre spiegabile. Quindi non aspettatevi di trovarvi davanti ad un horror classico e facilmente comprensibile, ma piuttosto ad un prodotto molto più vicino alla cripticità di un The Lighthouse, per esempio.

In generale comunque è un film che vale assolutamente la pena di vedere, per godersi un prodotto che racconta la figura dell’uomo e del suo rapporto con la donna in maniera interessante e inusuale. Tuttavia è giusto sapere che è anche una pellicola con una violenza e un orrore molto fisico e esplicito, che potrebbe essere non digeribile per alcuni.

Ma, se questo elemento non è per voi un problema, correte a guardarlo.

Un uomo, mille uomini

Rory Kinnear e Jessie Buckley in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Un aspetto peculiare di Men, di cui non ci si accorge immediatamente, è che tutti gli uomini in scena, ad eccezione dell’ex-marito James, sono interpretati dallo stesso attore, ovvero l’ottimo Rory Kinnear.

Questa scelta offre molteplici chiavi di lettura, a partire dal fatto che molti personaggi appaiono fasulli: in particolare il prete, con una parrucca visibilmente finta, il padrone di casa Jeffrey, con i suoi dentoni bianchissimi, e il ragazzino, con il viso che è un evidente deep fake.

La chiave di lettura più immediata è che questa esperienza permette ad Harper di raggiungere la consapevolezza che tutti questi uomini sono in realtà fatti della stessa pasta (tanto che si partoriscono l’un l’altro).

E che, di conseguenza, rappresentano anche la figura opprimente del marito di cui cerca di liberarsi.

La mascolinità minacciosa…

Per la maggior parte della storia il maschile appare minaccioso, aggressivo e per certi versi anche incomprensibile.

Partiamo dall’aggressione più velata di Jeffrey, che parla in maniera fastidiosa a Harper in quanto donna non sposata, e così anche il poliziotto, che banalizza il pericolo che la donna sente di correre per l’uomo nudo che la perseguita.

Il maschile poi diventa via via più violento fisicamente e soprattutto sessualmente.

la casa, che rappresenta evidentemente il corpo di Harper (anche solo per le pareti rosse che sembrano le sue interiora), viene continuamente penetrata dal maschile: non a caso, quando Harper parla dell’uomo che ha cercato di entrarle in casa, usi due volte la parola penetrare.

Il simbolismo del film porta ad una traslitterazione dalla mano al pene.

Molta attenzione infatti su queste mani maschili che cercano di afferrare il corpo di Harper e penetrare dentro la casa attraverso la buca delle lettere, ma che diventano appunto un fallo quando il ragazzino mima l’atto sessuale sull’uccello con la maschera di donna.

…e il maschile debole

Jessie Buckley in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Ma il maschile diventa debole quando di fatto Harper lo castra: nel momento massimo dell’aggressione, ovvero quando il prete cerca di violentarla, lei invece lo penetra con il coltello e lo uccide.

E così anche quando la mano cerca di penetrare dentro alla casa e la donna gliela taglia a metà, momento in cui la regia enfatizza la superiorità di Harper rispetto al personaggio maschile con inquadratura dal basso verso l’alto.

Infatti, quando rientra infine in casa, Harper non cerca più di chiudere la porta: non ha più paura, ma vede invece una mascolinità ormai fragile, debole, che cerca di avvicinarsi a lei, ma non più in maniera minacciosa.

Quello è il momento di consapevolezza della radice del maschile violento, ovvero la sua ricerca, a partire dalle parole del marito, dell’affetto e dell’attenzione del femminile (e non solo).

L’uomo solo

Rory Kinnear in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Il film può avere un’ulteriore chiave di lettura proprio dal personaggio del marito.

Infatti, James è distrutto dall’idea di perdere la moglie e, di conseguenza, il suo amore.

Tuttavia è di fatto incapace di affrontare il problema in maniera sana, ma solo violenta e minacciosa: minacciando di suicidarsi, cercando di riappropriarsi della donna e anche cercando di sottometterla fisicamente.

E questo racconta un effettivo problema sociale dell’uomo che è socialmente incapace di raccontare le sue emozioni in quanto istruito a nascondere, pena l’essere paragonato al femminile debole. Al contrario il maschile viene anche educato alla violenza, e solo con quella riesce ad esprimerla.

Per questo alla fine Harper capisce che la fragilità del marito e la sua ricerca di amore è un problema intrinseco, di cui lei di fatto non ha colpa e che non poteva veramente risolvere.

E infatti alla fine appare sollevata e finalmente libera da questo peso.

Il regista di Men odia gli uomini?

Può sembrare una domanda molto stupida, ma non lo è per niente.

Questo è il classico film estremamente divisivo in cui il target della critica potrebbe sentirsi attaccato. Per questo è giusto puntualizzare che il film non è tanto banale da voler dire che tutti gli uomini sono dei molestatori e degli stupratori.

Al contrario, vuole raccontare un problema sociale di grande importanza, ovvero quello dell’approccio anche involontariamente insano dell’uomo nei confronti della donna, in tutti i modi più disparati mostrati nel film.

Fra l’altro mettendo a fuoco un problema sociale altrettanto importante, ovvero la radice della violenza di questa mascolinità, senza andare a rendere semplicemente mostruoso il maschile.

Il simbolismo di Men

Il simbolismo di Men è piuttosto peculiare e si presta a diverse chiavi di lettura.

L’elemento centrale è rappresentato dallo strano bassorilievo della chiesa, che viene ripreso più volte durante il film: il volto dell’uomo nudo alla fine, in generale i vari urli di Harper, in particolare quando urla nella vasca da bagno sul finale.

Quella raffigurazione è il green man, simbolo antichissimo con vari significati, ma che di base rappresenta la rinascita. All’interno del film può essere proprio interpretata come la figura della mascolinità violenta e di come vede invece la femminilità passiva, in particolare sessualmente passiva.

E invece la femminilità si rivolta contro il maschile, diventando Harper stessa appunto il green man che urla.

Come lettura in più, il prete nella vasca da bagno sembra citare la vicenda di Agamennone e Clitemnestra, l’apoteosi della donna vendicativa. Lo conferma anche lo sfondo della scena: il bagno con la vasca da bagno, la stessa in cui Clitemnestra uccide il marito all’interno del mito.