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1997: Fuga da New York – L’eroe anarchico

1997: Fuga da New York (1981) è una delle opere più note della filmografia di Carpenter, nonché l’inizio del sodalizio artistico con Kurt Russell, proseguito poi con The Thing (1982)

Con un budget veramente miserevole – appena 6 milioni di dollari, circa 22 oggi – fu un discreto successo al botteghino, con un incasso di 25 milioni (circa 93 oggi).

Di cosa parla 1997: Fuga da New York?

1997, New York. Ormai da dieci anni l’isola di Manhattan è diventata una prigione da cui è impossibile scappare, autogestita dai prigionieri stessi. E se qualcuno di importante ci finisse dentro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1997: Fuga da New York?

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Assolutamente sì.

1997: Fuga da New York è un classico della filmografia carpenteriana, in cui il cineasta statunitense predilige una fantascienza urbana e dark, ma che non manca neanche di tinte orrorifiche tipiche della sua filmografia, soprattutto nel suo precedente cult Halloween (1978).

A fronte di un budget veramente ridotto, Carpenter fu in grado di produrre un cult che sarà ricordato nei decenni a venire, grazie alle sue incredibili capacità di messinscena e di uso della fotografia.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Carne da macello

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Snake Plissken – Iena in italiano – è un eroe imperscrutabile.

Inizialmente membro di spicco dell’apparato militare statunitense, questo misterioso personaggio ha deciso di punto in bianco di mordere la stessa mano che gli dava da mangiare, diventando un pericoloso criminale.

L’efficacia del protagonista deriva anche dall’ottima performance di Kurt Russell, che lavora totalmente di recitazione corporea, muovendosi con decisione all’interno degli spazi del film e godendo di una presenza scenica che da sola racconta il personaggio.

Snake è infatti un criminale senza scrupoli, che può essere riutilizzato come carne da macello nella missione suicida per salvare il Presidente, tanto più che, in caso di fallimento, si avrà una scusa per portarlo definitivamente fuori scena.

Chi vince, insomma, è sempre quell’opprimente governo

Atmosfere

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Con 1997: Fuga da New York Carpenter ha utilizzato il poco che aveva per caricare la scena di atmosfere quasi orrorifiche.

Per la prima parte del film infatti gli spazi sono terribilmente vuoti, e, proprio per questo, fanno molta più paura: le minacce si muovono come spettri, ombre che scivolano sui palazzi in rovina, che strisciano fuori dai tombini, pronti a saltarti addosso…

Così, sfruttando le diverse location notturne, la regia riesce a raccontare un piccolo mondo che mostra i danni dell’anarchia che lo domina, sfruttando le diverse luci diegetiche per offrire al suo protagonista anche una maggiore drammaticità scenica.

Un viaggio impossibile

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Infatti, Snake si immerge in un mondo totalmente sconosciuto.

Il protagonista non conosce né le dinamiche né le regole di questo luogo estremamente sinistro, e per questo si muove alla cieca, riuscendo subito e solo apparentemente a concludere la missione per come era stata inizialmente concepita.

Ma l’unica guida a disposizione è stata distrutta.

Kurt Russel e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

E così Snake deve risalire la scala gerarchica per arrivare fino al Duca, dovendo passare per i suoi sottoposti – Caddie e poi Brain – che cercano a loro volta di assicurarsi la favolosa carta dell’Esci gratis di prigione.

Ma se nella sua scalata Snake sembrava imbattibile, riuscendo a farsi strada nella folla inferocita e derubando il Duca di una delle sue macchine, non può fare a meno di soccombere sotto i colpi degli scagnozzi dello stesso.

Così si trova finalmente davanti al temibile signore della guerra di New York, di cui diventa sostanzialmente il giullare, coinvolto in una lotta all’ultimo sangue per il personale ludibrio del Duca e della sua corte.

Dall’alto del mio muro

Isaac Hayes e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

La lotta per il salvataggio del presidente rappresenta la classica dinamica in cui i personaggi secondari cadono come mosche, così che il protagonista risulti come unico vincitore.

Ma c’è di più.

La sequenza è un’occasione anche per mostrare il vero carattere dei personaggi, anche i più secondari come Maggie, che sono pronti persino a sacrificare la propria vita per dei principi imprescindibili – l’onore e la vendetta – capaci per questi anche di lottare a mani nude…

…a differenza del Presidente degli Stati Uniti, che da solo rappresenta la mediocrità della classe dirigente, incapace di gestire il picco di criminalità, trattando i carcerati come bestie da abbandonare a sé stesse, da mettere l’una contro l’altra…

E per questo Snake lo mette alla prova.

Ribellione

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Come lo spettatore, anche il protagonista arriva al finale con la consapevolezza della vera natura del Presidente e di tutto il suo entourage.

Ma Snake offre all’uomo un’ultima possibilità di redenzione, chiedendogli il conto per tutte le vite sacrificate per salvare la sua persona, o anche solo un senso di umana comprensione e perdono.

Ma il Presidente, lo stesso che non è stato capace di affrontare il Duca ad armi pari, crivellandolo di colpi dalla posizione sicura del muro di cinta, mette da parte con noncuranza questo pensiero, considerando anzi la morte di quegli individui come dovuta.

Per questo Snake, ormai liberatosi dalle catene, sceglie di rivoltarsi tacitamente contro il Governo, anzi arrivando ad umiliarlo, scambiando le importanti informazioni militari della cassetta con una musica da sala d’attesa…

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Juno – Il fallimento della comunità

Juno (2007) di Jason Reitman è uno dei più importanti cult adolescenziali dei primi Anni Duemila, che fra l’altro lanciò Elliot Page come attore.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 6.5 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 232 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Juno?

Juno è una ragazzina di 16 anni che si trova davanti ad un problema molto più grande di lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://youtu.be/ldEt22KEKhU?si=lboYCLY1YdSHa8sQ

Vale la pena di vedere Juno?

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Dipende.

Juno è un film che terrei il più possibile lontano da bambini e adolescenti: è difficile quantificare quanto questo prodotto sia diseducativo e totalmente fuori dal tempo – anche se rappresentativo di aree politiche ancora molto reali…

Se siete abbastanza grandi da guardarlo con un occhio critico e volete immergervi in un prodotto che è la rappresentazione di tutto quello che c’era – e c’è tutt’ora – di sbagliato nella concezione del corpo femminile, sarà una bella avventura…

Una ragazza diversa

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Juno è una ragazza diversa.

Questo concetto viene riproposto in innumerevoli momenti del film, sia in senso positivo che negativo, ma andando a rincorrere un ideale incredibilmente popolare nei teen movie del periodo: dividere le donne in figure di serie A e di serie B.

Solitamente la protagonista femminile in questo tipo di prodotti viene premiata proprio per la sua diversità dal resto delle ragazze così superficiali, insipide e che inseguono le mode del momento, oltre ad essere molto spesso fin troppo sessualmente attive – per non dire altro…

La protagonista e il film stesso si nutrono profondamente di questo ideale, andando anzi ad elevare ancora di più il suo personaggio così tanto altruista e che, secondo la morale della pellicola, ha fatto la scelta che nessuna ragazza avrebbe fatto – e quella più giusta.

Il sesso meccanico

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Ancora più problematica è la rappresentazione del sesso.

Per quanto Juno dica che l’intercorso con Becker sia stato fantastico, la scena e i personaggi raccontano invece tutt’altro: la messinscena è nient’altro che la rappresentazione del sogno erotico maschile, della ragazza pronta a soddisfarlo, senza aver avuto bisogno di alcun preliminare…

… e non è un caso che si mostri il piacere di Becker, ma mai quello di Juno.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Ma il racconto del sesso da parte degli adulti è anche peggiore.

Nello specifico, Brenda spiega come gli adolescenti facciano sesso perché si annoiano, tenendo nello specifico a sottolineare che il rapporto con Becker è stata un’idea di Juno: una ragazza che va quindi colpevolizzata, e che deve portare fino alla fine i risultati della sua colpa, per riuscire a trarne qualcosa di buono.

La comunità ostile

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

La radice del problema va ricercata negli adulti, e in generale in tutta la comunità di cui Juno fa parte.

Anzitutto, è particolarmente problematica la rappresentazione di Woman Now, che dovrebbe essere un luogo che, come dice la stessa Juno, aiuta le donne, ma che invece nella realtà del film, le umilia, come ben raccontato dal modo in cui la ragazza al welcome desk si rivolge a Juno:

We need to know about every score and every sore

Devi metterci ogni scopata e malattia beccata.
Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Questo scambio ha, di fatto, due principali obbiettivi: anzitutto, raccontare questi luoghi come dei covi di donne con una sessualità esplosiva e quindi condannabile, financo disgustosa – in questo senso, lo scambio sui preservativi è tutto un programma.

Oltre a questo, questi luoghi, che dovrebbero appunto aiutare le donne, in realtà non sono per nulla accoglienti, anzi, sono degli spazi ostili, dove le donne dovranno far presente di tutta la loro vergognosa vita sessuale.

Al contrario, Brenda e soprattutto Vanessa sono figure materne e accoglienti, capaci di chiudere un occhio sulla cattiva condotta della protagonista, premiandola proprio per il suo essere così altruista nel portare avanti questo miracolo divino.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

La ciliegina sulla torta è Su-chin, la ragazza che Juno incontra davanti a Woman Now, che si fa portatrice di una retorica propria dei movimenti antiabortisti: i bambini che le donne abortiscono soffrono, e sono già molto più formati di quanto si creda.

Non penso di dover spiegare quanto queste argomentazioni siano deliranti, nonchè puro terrorismo psicologico.

Ma Juno è ancora più un fallimento della sua comunità perché la stessa non è stata in grado di fornirle un’adeguata educazione sessuale, che le permettesse in primo luogo di non vivere l’esperienza sessuale come un’alternativa alla noia, e che le insegnasse in particolare il misterioso concetto di sesso protetto.

Un figlio a tutti i costi

La rappresentazione del rapporto fra Vanessa e Mark è terrificante su più livelli.

Anzitutto per Mark, che non solo si mostra totalmente indifferente per tutta la dinamica della nuova famiglia, ma al contempo è anche un adulto incapace di crescere e maturare, del tutto ancorato all’immaginario adolescenziale.

Ovviamente l’elemento peggiore è come uomo di quasi quarant’anni intraprenda una relazione con una sedicenne, evidentemente cercando di essergli molto più che un amico, anzi sottintendendo di voler lasciare Vanessa per intraprendere un rapporto con lei…

Ma neanche Vanessa è molto meglio.

Ovviamente per il film il suo personaggio è quasi una donna angelica, il cui unico obbiettivo è diventare madre – non a caso, non sappiamo se abbia un lavoro e quale sia – e che celebra e santifica la gravidanza e la maternità come esperienze a prescindere splendide e imperdibili.

Ma se guardiamo più cinicamente il suo personaggio, sotto quest’aurea mariana intravediamo una maniaca del controllo, che si è costruita un matrimonio su misura, con un compagno che evidentemente – e anche legittimamente – ha altri interessi nella vita oltre all’essere un padre.

L’unica speranza è che sia una migliore come madre che come una compagna…

La gravidanza idilliaca

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Dei genitori giudiziosi avrebbero accompagnato la figlia verso la scelta più giusta per la sua età, e soprattutto per il suo reale desiderio.

Infatti, è veramente grottesco quanto Juno insista sul fatto di quanto non voglia quel figlio: non quindi una donna effettivamente altruista, ma piuttosto un’adolescente che anche comprensibilmente – vuole togliersi un peso.

Ma, di fatto, Juno è il sogno di ogni antiabortista.

Un discorso che viene spesso proposto per dissuadere le ragazzine ad abortire è l’idea di tenere il bambino e darlo in adozione – esattamente quello che succede nel film – del tutto ignorando cosa significa per una donna – soprattutto una giovane donna – affrontare una gravidanza.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

E infatti nel film fondamentalmente non vediamo mai alcun problema fisico o psicologico che la protagonista deve affrontare, ma al più i suoi turbamenti legati al rapporto tossico dei genitori adottivi, e a come Juno sia una martire a portare avanti la gravidanza, nonostante tutti le parlino dietro…

…elemento che, nei fatti, non viene mai mostrato.

Ed è tanto più semplice raccontare come Juno si disinteressi totalmente del bambino nato, lasciandole alle amorevoli cure di Vanessa, con una dinamica che sfiora la depressione post-partum, ma che viene portata in scena come una conclusione ideale.

Infatti, l’amore e la vita hanno trionfato.

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Tropic Thunder – La vera storia della finzione

Tropic Thunder (2008) è, insieme a Zoolander (2001), il progetto più ambizioso della carriera registica ed attoriale di Ben Stiller.

Con un budget abbastanza importante – 92 milioni di dollari – non fu un grande successo al botteghino – appena 195 milioni – ma divenne col tempo un cult imprescindibile.

Di cosa parla Tropic Thunder?

Cinque attori che non potrebbero essere più diversi prendono parte ad uno sgangherato film di guerra, che diventa più reale di quanto si aspettassero…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tropic Thunder?

Assolutamente sì.

Come detto, Tropic Thunder è uno dei progetti più incredibili di Ben Stiller, che ritorna dietro alla macchina da presa dopo l’ottimo Zoolander, da cui eredita anche alcune delle sue tematiche fondamentali, traslandole nella realtà cinematografica.

Un piccolo cult con un cast incredibile, fra cui spicca l’indimenticabile prova attoriale di Robert Downey Jr., che quasi ruba la scena all’altrettanto iconico personaggio di Ben Stiller, per un’accoppiata davvero esplosiva.

Insomma, non ve lo potete perdere.

È iniziato il film?

Il percorso metanarrativo iniziale di Tropic Thunder è magistrale.

Oltre a riuscire a confondere lo spettatore, che non è sicuro se il film è effettivamente iniziato o se stanno trasmettendo le pubblicità prima della proiezione – e il dubbio rimane quasi fino alla fine – la sequenza di apertura è uno spaccato perfetto del cinema dei primi Anni Duemila.

Il primo titolo è forse quello più rappresentativo: Scorcher 6, che parodizza le saghe infinite e senza senso di film action – alla Fast & Furious, per intenderci – che continuano ad essere prodotti unicamente per far cassa.

Il secondo film è un classico della comicità esilarante di quel periodo, che unisce le tre tendenze peggiori del genere: l’obesità comica, le divertentissime scoregge e l’utilizzo di un solo attore per diversi personaggi – idea che aveva già stancato dai tempi di Back to the future – Part II (1989).

Un film talmente eccessivo che forse era anche un modo con cui Jack Black voleva lavarsi la coscienza dal terrificante Amore a prima svista (2001) …

Chiude il terzetto Satan’s Alley, con protagonista l’attore premio Oscar Kirk Lazarus, al centro di un drammone storico che sembra anticipare L’ultimo dei templari (2011), arricchito con un elemento gettonatissimo per creare un film davvero scandaloso per l’epoca: l’omosessualità.

Se volete rivederli, eccovi serviti:

Sul viale del tramonto

Tugg Speedman è un attore che sembra già arrivato al capolinea.

Legato a doppio filo a film commerciali di grande successo, ma che ormai hanno stancato, ha cercato di rilanciarsi con un prodotto diverso e con cui pensava di riconquistare il pubblico, ma che è risultato invece un tremendo flop.

Ma neanche con Tropic Thunder, un kolossal di guerra di grande successo, le sorti sembrano a suo favore: come tanti colleghi prima di lui, anche Speedman è un attore capriccioso che non riesce a portare a casa la scena, anche per l’ostilità con Lazarus, con cui non ha alcuna chimica.

Pur parodistico, il suo arco evolutivo è quello più significativo: dopo l’iniziale incapacità di entrare nel personaggio, il protagonista si ritrova a vivere davvero in prima persona le avventure del film, riuscendo ad entrare nella parte più di quanto l’odiato collega sia mai riuscito a fare.

Dopo un primo momento in cui Speedman vive nel totale paradosso della situazione – in una capanna improvvisata, in una foresta insidiosa, ma con in mano il suo iPod – viene definitivamente riportato nel personaggio di Simple Jack e costretto a riportare in scena l’intero film.

E così una maschera di cui voleva liberarsi per sempre, diventa invece una via di fuga, nell’illusione di aver trovato un pubblico che finalmente lo apprezza, come testimonia l’irresistibile scambio con Lazarus sul finale:

You tell the world what happened here!
What happened here?
I don’t know, but you need to tell them!

Devi raccontare cosa è successo qui!
E cosa è successo qui?
Non lo so, ma devi raccontarglielo!

…con un precipitoso ritorno alla realtà, quando la tribù lo insegue per ucciderlo e il figlio adottivo lo accoltella.

Ed è veramente esilarante il fatto che la vittoria per il suo personaggio è l’ottenimento dell’Oscar, ovvero di quel riconoscimento per cui quell’industria senza scrupoli, pronta fino ad un attimo prima a metterlo da parte, lo riaccoglie fra le sue braccia…

Essere il personaggio

Kirk Lazarus è possibilmente il personaggio più iconico della pellicola.

Robert Downey Jr. interpreta una parodia vivente di quegli attori che, pur essendo anche interpreti molto validi, vengono esageratamente celebrati per la loro capacità di immedesimarsi nella parte, tanto da non uscirne mai

…almeno non fino ai contenuti speciali del DVD!

La parodia si accompagna alla più aspra satira, con Alpa Chino che lo critica aspramente non tanto per aver fatto una black face, ma piuttosto per aver portato in scena una versione veramente parodistica, quasi offensiva, di un uomo afroamericano…

…e, parallelamente, condannando anche le produzioni di Hollywood per l’avere fra le mani una parte perfetta da affidare – per una volta! – ad un attore nero, ma scegliere comunque un interprete bianco.

Ed è incredibilmente interessante il parallelismo fra il suo percorso e quello di Speedman: quando Lazarus ritrova il collega e cerca di riportarlo alla realtà, è lo stesso Tugg a farlo sprofondare in una crisi d’identità…

…e, nel farlo, Speedman stesso indossa un trucco evidente, che definisce il suo personaggio – una white face, in un perfetto parallelismo.

Un crollo emotivo particolarmente devastante, in cui Lazarus si strappa di faccia la maschera – anzi le maschere! – che ha portato per tutto quel tempo, ma che paradossalmente era molto più credibile della sua vera faccia.

In questo senso, gli occhi di un azzurro artificioso e i capelli cotonati sono tutto un programma.

Ma in questi due estremi – la mancanza di identità e il calarsi troppo nel personaggio – i due riescono infine a ritrovarsi in una via di mezzo, ovvero riuscire a interpretare con passione e trasporto una scena che appare finalmente così reale…

Il lato peggiore di Hollywood

Oltre ad essere un personaggio assolutamente esilarante, Grossman – nomen, omen – rappresenta il lato più marcio di Hollywood.

Ad un livello più superficiale, il personaggio di Tom Cruise è una figura tirannica ed estremamente violenta, che tratta i suoi sottomessi senza alcuna pietà, anzi umiliandoli e minacciandoli costantemente.

Ma il suo vero volto è rivelato nella contrattazione con i trafficanti.

In quell’indimenticabile non trattiamo con i terroristi, Grossman racconta la facciata dietro cui l’industria si nasconde, raccontandosi come una realtà con una morale di ferro, per poi dimostrarsi più e più volte cinica e guidata solo dal desiderio di arricchirsi.

Nello specifico, lo spietato produttore propone a Rick Peck di scambiare la vita di Speedman con un elicottero e con un’importante somma di denaro, puntualizzando come ormai il suo cliente sia una causa persa, per cui non vale la pena di combattere.

In questa visione, gli attori – al pari dei modelli di Zoolander – sono delle figure usa-e-getta, da riempire di soldi ed attenzioni quando sono effettivamente delle macchine-fabbrica-soldi, ma del tutto sacrificabili quando ormai non attirano più l’interesse del pubblico…

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High School Musical – Un fenomeno generazionale

High School Musical (2006) di Kenny Ortega è stato uno dei più grandi fenomeni generazionali degli Anni 2000, riuscendo a mantenere intatto il suo culto anche negli anni successivi.

A fronte di un budget veramente irrisorio – appena 4 milioni di dollari – venne trasmesso in esclusiva su Disney Channel, ma ottenne la sua fortuna economica con l’uscita in home video, diventando il DVD di un film televisivo più venduto nella storia della televisione.

Di cosa parla High School Musical?

Troy e Gabriella sono due adolescenti che si sentono intrappolati nelle identità con cui gli altri li hanno bollati, ma provano ad intraprendere una nuova strada…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere High School Musical?

Zac Efron in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Assolutamente sì.

A differenza di altri fenomeni adolescenziali del periodo – come quel pianto di Camp rock (2008) – High School Musical deve il suo successo all’essere un prodotto con una narrazione abbastanza anomala per il periodo, oltre al farsi portatore di una morale che riuscì a conquistare gli adolescenti dell’epoca – e non solo.

Oltre a questo, nonostante non siano per la maggior parte professionisti, gli interpreti regalano delle performance di buon livello e sono protagonisti di numeri musicali assolutamente iconici ancora oggi.

Insomma, da recuperare.

Qualcosa di nuovo

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

I never opened my heart
to all the possibilities

Non mi sono mai aperto a tutte le possibilità

Il punto di partenza di High School Musical è già di per sé determinante.

I protagonisti sono inquadrati nella loro anomalia: nonostante si riveleranno delle figure estremamente popolari all’interno dei rispettivi gruppi, appaiono al contempo dei personaggi molto chiusi in sé stessi e nelle loro passioni.

E il loro duetto è determinante per più motivi.

I due vengono buttati a tradimento in mezzo alla scena per qualcosa che non avevamo mai provato prima: cantare, e nello specifico cantare i loro veri sentimenti, per di più davanti ad un ampio pubblico.

Così Troy e Gabriella ammettono timidamente di non essersi mai aperti a qualcosa di nuovo, condividendo il medesimo imbarazzo iniziale, ma riuscendo infine a spingersi vicendevolmente in questa nuova esperienza, con infine, anche un inaspettato entusiasmo.

Fuori dagli schemi

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Just keep ya head in the game

Devi stare concentrato sul gioco

Ma l’ambiente scolastico è molto più ostico.

Entrambi i protagonisti sono stati perennemente confinati nelle loro rispettive sfere di appartenenza, dovendo aderire a dei modelli sociali precisi, e da cui sembra impossibile sfuggire: la stella del basket e il genio della scuola.

Gabriella per prima sente di voler evadere questo modello, mentre Troy dimostra sulle prime ben poco coraggio nell’ammettere di aver trovato un’altra passione, fra l’altro una così mal considerata dai suoi compagni.

Zac Efron in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

E infatti la peer pressure è principalmente sulle sue spalle, come testimoniato dallo splendido numero Get’cha Head in the Game.

In questa scena Troy è letteralmente tallonato dai suoi compagni di squadra, che gli urlano addosso quello che già quello lui sente come il suo dovere: essere il capitano della squadra, concentrarsi sul campionato, e non pensare a nient’altro.

Ma il protagonista non si lascia annientare, e comincia così un rocambolesco inseguimento, una dinamica al gatto e al topo, in cui Chad lo bracca per i corridoi della scuola, cercando insistentemente di riportarlo nel suo ambiente naturale: il campo da basket.

Troy e Gabriella provino

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma arrivare alle audizioni non basta.

Nonostante l’incontro rivelatorio fra i protagonisti, i due rimangono comunque nascosti in fondo alla sala ad osservare i provini, non avendo il coraggio di fare il passo successivo, visto anche l’atteggiamento piuttosto tirannico della Darbus.

In questo caso, pur in ritardo sui tempi, è Gabriella è guidare l’azione, proponendosi per l’audizione e venendo infine, dopo tanta esitazione, spalleggiata da un Troy nel totale imbarazzo, che riesce a malapena ad alzare gli occhi da terra…

Così il secondo duetto è un parallelo del primo incontro, in cui i due protagonisti confermano il loro rapporto e la rispettiva passione per il canto.

E così accade l’inaspettato.

Una villain magnetica

Ashley Tisdale e Lucas Grabeel in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

I’ve never had someone as good for me as you

Appena arrivati a scuola, i protagonisti vengono subito messi alla prova dal villain principale della pellicola: Sharpay.

Il personaggio di Ashley Tisdale è uno degli antagonisti più indovinati dei teen drama di quel periodo – capace per certi versi di rivaleggiare con l’iconica Regina George di Mean Girls (2004) – con un atteggiamento velenoso e irritante, ma ben contestualizzato.

Sharpay Evans è infatti il personaggio forse più tragico della pellicola, quello che più difficilmente riesce ad accettare questo cambio di passo, in particolare l’abbattimento della torre d’avorio da lei – e da suo fratello – faticosamente costruita.

Ashley Tisdale e Lucas Grabeel in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma, soprattutto, ci mette veramente il cuore.

Sharpay e Ryan prendono davvero seriamente il teatro e il canto, portando in scena delle performance veramente splendide e iconiche, in cui mostrano il loro talento e la loro passione per il mondo dello spettacolo.

Ed è anche per l’impegno che ci mettono e per l’importanza che hanno queste esibizioni per la definizione della loro identità, che i due, e nello specifico Sharpay, temono così fortemente la competizione di due personaggi che ai loro occhi appaiono davvero come degli improvvisati.

Tanto che Sharpay, anche solo per il sospetto di una possibile concorrenza, intrappola Gabriella in quella identità da cui la stessa stava cercando di fuggire…

Lo status quo

Stick to the stuff you know

Chad e Taylor sono per lunghi tratti i villain secondari del film.

In particolare, Chad è il protagonista negativo della violentissima canzone Stick to the Status Quo, che è una sorta di ampliamento, pure più feroce, della precedente Get’cha Head in the Game, in cui impone ai suoi compagni di rispettare lo status quo, appunto.

Un sentimento che serpeggia in tutte le cliques presenti nella scuola, in cui una voce fuori dal coro, una personalità anche solo di poco fuori dai limiti dei modelli imposti, viene immediatamente silenziata e rimessa al suo posto, ribadendo come una persona può essere una cosa sola.

Zac Efron e Monique Coleman in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma la ribellione non può essere fermata.

Infatti, nonostante la maggior parte dei personaggi in scena continui a ribadire la necessità di non cambiare le cose, con un focus particolare sulla crisi isterica di Sharpay, sullo sfondo i personaggi che hanno scelto di rivelarsi ai compagni non fanno un passo indietro, anzi.

In particolare Zeke, che fino alla fine continua a riproporre la sua passione per i dolci, per quanto costantemente criticata da Chad.

E così anche i due protagonisti, pur continuamente stressati dai compagni nell’abbandonare il loro progetto canoro, pur continuando ad esercitarsi alla chetichella, portano comunque avanti la loro neonata passione.

Crescere

Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

There’s not a star in heaven
That we can’t reach

La bellezza del rapporto fra Troy e Gabriella è il suo non essere una banale storia d’amore.

Nonostante ci sia indubbiamente un sottofondo romantico, che verrà poi meglio approfondito nei sequel, con questa esperienza i due si arricchiscono vicendevolmente, sostenendosi in questo viaggio alla scoperta di sé stessi.

Per questo l’intrigo di Chad e Taylor è così crudele: è il primo momento in cui Gabriella veramente si arrende, davanti all’idea che Troy non consideri così importante il loro rapporto ed il loro progetto, sentendosi di conseguenza inevitabilmente sola.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Anche se questo conflitto viene risolto un po’ sbrigativamente, è un momento di passaggio fondamentale, in cui Troy capisce di doversi farsi perdonare per due volte: prima riallacciando i rapporti con Gabriella, poi aiutandola durante la loro esibizione.

Ed è splendido il loro duetto in cui finalmente, davanti a tutta la scuola, davanti ai loro compagni che finalmente sembrano sostenerli, cantano apertamente i loro sentimenti, sentendosi invincibili e finalmente abbastanza maturi per abbracciare la loro passione.

A questa scena così toccante segue un epilogo forse con un po’ meno mordente, ma che è fondamentale per ribadire il cambiamento che è avvenuto in tutta la scuola, non più divisa in gruppetti e fazioni, ma veramente unita e aperta a questo nvoo status quo.

High School Musical sequel

High School Musical ha avuto ben due sequel, entrambi di grandissimo successo – il terzo addirittura divenne un evento cinematografico.

Ma vale la pena di vederli?

In generale, sì.

Per quanto il primo capitolo rimanga il mio preferito, anche i successivi meritano una visione.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical 2 (2007) di Kenny Ortega

High School Musical 2 è un film dal forte sapore estivo – e infatti fu rilasciato nell’agosto del 2007 – in cui i protagonisti si ritrovano a lavorare per il resort della ricca famiglia di Sharpay.

La trama è abbastanza simile a quella del primo capitolo, ma più sulle note di Il diavolo veste Prada (2006), con Troy che interpreta la Andy di turno, diviso fra l’occasione di ottenere una borsa di studio e il pericolo di tradire i suoi affetti.

Il secondo capitolo è anche la pellicola in cui Sharpay ha il suo momento migliore come villain della saga, andando a toccare note ancora più tragiche – anche se molto stemperate dalla messinscena.

Inoltre, in High School Musical 2 ci sono alcune delle canzoni più indimenticabili della trilogia – le mie preferite sono Gotta Go My Own Way e Bet on it.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical 8 (2006) di Kenny Ortega

Il capitolo conclusivo è secondo me quello più debole, ma ha dalla sua un apparato tecnico e visivo estremamente cinematografico.

Con il passaggio al grande schermo, la produzione divenne ben più ambiziosa, investendo un budget quasi triplicato rispetto al primo capitolo, e godendo di una regia molto più consapevole e curata, per certi tratti assai teatrale.

Il taglio narrativo è quasi malinconico, e si concentra quasi del tutto sulla storia fra Troy e Gabriella e sulle rispettive scelte per il futuro, non sempre facili, lasciando comunque spazio anche al resto dei personaggi.

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Zoolander – Demenziale, ma non troppo

Zoolander (2001) è uno dei cult più particolari dell’inizio degli Anni Duemila, in cui Ben Stiller si mise in gioco come attore, regista e sceneggiatore.

Nonostante il riscontro al botteghino poco entusiasmante – appena 60 milioni di dollari a fronte di un budget di 28 milioni – divenne col tempo un film di culto, tanto da portare ad un sequel nel 2016.

Di cosa parla Zoolander?

Derek Zoolander è il modello del momento, ma la sua fama verrà scalzata in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zoolander?

Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Anche se la comicità nonsense non è nelle vostre corde, non potete veramente perdervi questa piccola perla dell’assurdo che, in un impeto di genialità, Ben Stiller riuscì a portare in scena nel lontano 2001 – nutrendo il futuro cast di Dodgeball (2004), fra l’altro.

Zoolander è uno dei cult più interessanti dei primi Anni Duemila, che colpisce sia per la sagacia con cui tratta tematiche ancora attualissime, sia per come riesce a non scadere mai nel banale, sorprendendo ad ogni scena.

Passato e presente

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Una delle tematiche principali di Zoolander è ancora drammaticamente attuale, anche a più di vent’anni di distanza.

L’obbiettivo dei villain è infatti quello di assassinare il neoeletto presidente della Malaysia, per le sue assurde ambiziose di mettere fine allo sfruttamento del lavoro minorile – molto conveniente per l’industria della moda.

Un tema molto caldo ancora oggi per la straziante tematica della fast fashion, non solo per l’impatto ambientale, ma proprio per il poco rasserenante panorama dello sfruttamento lavorativo, volto ad ottenere molti prodotti in poco tempo e a prezzi stracciati.

Ed è davvero incredibile trovare un tema del genere affrontato con tanta sagacia in un film come Zoolander.

Un adorabile idiota

Ben Stiller e Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Zoolander e Hansel sono due adorabili idioti.

Ho apprezzato particolarmente la scelta di renderli tali fino in fondo, senza cioè ricondurli al ben più infelice e rincuorante stereotipo dell’uomo bamboccione, un bambino troppo cresciuto che ha ancora bisogno di una balia – di solito, il personaggio femminile di turno.

I due protagonisti sono invece semplicemente del tutto limitati al loro piccolo mondo, fatto di invidie e di una competizione galoppante, una realtà che li venera e li celebra a fasi alterne, ma rimanendo incapaci in ogni altro ambito dell’esistenza.

Si genera così un umorismo che personalmente trovo esilarante, basato su delle incomprensioni così stupide da risultare surreali, financo grottesche – in particolare con l’assurda morte dei fratelli del protagonista mentre giocavano con la benzina.

I divi usa-e-getta

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Un’altra tematica non scontata è la concezione dei modelli come divi usa-e-getta.

Già la rivalità fra Zoolander e Hansel è indicativa: per sua stessa ammissione, il protagonista si sente minacciato dalla figura del concorrente proprio perché sembra poter mettere a rischio lo status tanto fortuitamente guadagnato.

E, se consideriamo che i due non hanno che pochi anni di differenza, appare evidente come la popolarità nel mondo della moda sia una condizione estremamente passeggera, legata ad un successo momentaneo e, soprattutto, al mito della giovinezza eterna.

Questo concetto è particolarmente evidenziato dal personaggio di J.P. Prewitt, il mitico manista, che però ho dovuto mantenere la sua mano in uno stato di ibernazione eterna proprio per evitare che invecchiasse e che, di conseguenza, perdesse di valore.

E il racconto di come generazioni di modelli siano state pedine in mano a sanguinari imprenditori senza scrupoli, che li utilizzavano per eliminare ogni tipo di ostacolo al guadagno, sottolinea ancora una volta la fragilità di questi idoli, che possono essere creati e sacrificati ad libitum.

Infatti, non mancherà mai qualcuno che potrà prenderne il posto.

Un femminile anomalo

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Il personaggio di Matilda mi ha particolarmente sorpreso.

Una protagonista femminile che diventa motore dell’azione, nonché personaggio estremamente attivo, in questo caso assumendo proprio il ruolo della figura ragionevole e, di fatto, risolutrice della vicenda.

Nondimeno Matilda non viene tratteggiata come una donna fredda che deve essere fatta sciogliere dal protagonista. Piuuttosto, i due si aiutano reciprocamente: Matilda impedisce che Zoolander diventi un assassino, e quest’ultimo le fa riscoprire il piacere sessuale.

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

E al contempo Matilda diventa anche la voce – pur in maniera molto semplicistica – dei danni che involontariamente il mondo della moda arreca soprattutto alle giovanissime, facendole vivere nell’ombra di modelli di bellezza irraggiungibili.

Ed è drammaticamente ironica la risata che i due protagonisti si fanno sulla sua bulimia, derubricandola ad una condotta del tutto normale per la loro professione…

Lo sguardo che uccide

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

La storia del Magnum è tutto un programma.

Proposto inizialmente come il biglietto da visita del protagonista, il suo sguardo corrucciato è una costante della recitazione di Ben Stiller, che non esce mai dal personaggio, riuscendo ad essere assolutamente credibile in ogni scena.

In questo senso, ottima l’idea di affidare al villain il ruolo di dare la voce ad un pensiero probabilmente già proprio dello spettatore: i meravigliosi sguardi di Zoolander in realtà non sono nulla di che, oltre ad essere tutti identici.

E invece Zoolander ci sorprende con un’espressione che cambia le sorti del mondo, dimostrando come uno sguardo abbastanza affilato possa mettere al tappeto persino uno shuriken.

Un colpo di scena che è anche motivo del successo di questa pellicola.

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School of Rock – Imparare a ribellarsi

School of Rock (2003) di Richard Linklater è un piccolo cult dei primi Anni Duemila, nonché uno dei ruoli più iconici di Jack Black, in quel periodo fra le star comiche più quotate.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – incassò complessivamente molto bene: 131 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla School of Rock?

Dewey Finn è un musicista squattrinato e appena cacciato dalla sua stessa band. Ma troverà un modo inusuale per tornare sulla cresta dell’onda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere School of Rock?

Jack Black in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

In generale, sì.

Devo ammettere che da spettatrice ormai cresciuta, nonostante sia un film piacevolissimo, ho trovato School of Rock leggermente più debole rispetto al suo alter ego di qualche anno successivo, ovvero Bad Teacher (2010) – molto più consapevole e sfacciato.

Ma, proprio per questo, la pellicola con protagonista Jack Black è decisamente più accessibile, sopratutto per il pubblico di giovanissimi a cui è principalmente rivolta, offrendo anche degli spunti di riflessione – e, di fatto, pedagogici – non scontati.

Insomma, in generale lo consiglio.

Un protagonista miserabile

Jack Black e Joan Cusack in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

L’inizio del 2000 era terreno fertile per i protagonisti negativi.

Una maggiore complessità e tridimensionalità dei personaggi, protagonisti molto più grigi che presero piede sopratutto a partire da Shrek (2001), e i cui effetti si videro anche in School of Rock: Dewey Finn è un illuso, uno squattrinato che vive solamente di sogni.

L’apice della sua negatività è raggiunto immediatamente, quando sfila di mano un’ottima proposta lavorativa al coinquilino, con una crescente gravità: non solo si tratta di gestire dei bambini, ma sopratutto di farlo all’interno di una prestigiosa – e costosa! – scuola privata.

Francamente il suo personaggio sulla carta non è niente di particolarmente interessante, ma la sua mordente iconicità è garantita da Jack Black, grazie alla sua travolgente comicità e espressività, recentemente riconfermata anche in Super Mario Bros. – Il film (2023).

Un’occasione…di guadagno?

Jack Black e Rebecca Julia Brown in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il piano di Dewey è di fatto maligno, ma non è portato avanti proprio con le peggiori intenzioni.

Se infatti il principale motivo appare quello di ricreare una band che può controllare come gli pare e piace, in realtà in un certo senso il protagonista si prende a cuore la missione di educare questi bambini alla buona musica rock

…e, sul lungo periodo, di insegnare loro anche molto altro.

Infatti, nonostante sostanzialmente Dewey li privi di nozioni fondamentali per la loro educazione primaria, col tempo e quasi involontariamente offre ai suoi alunni degli insegnamenti molto più importanti: saper pensare fuori dagli schemi, essere creativi e coltivare le proprie passioni.

Infatti, tramite questa esperienza i bambini scoprono qualcosa di nuovo su sé stessi, godendo anche un inedito rispetto da parte di un adulto: fino a quel momento erano abituati a genitori e ad insegnanti con un atteggiamento molto più stringente e tirannico.

In particolare due personaggi – Zack e Tomika – diventano più sicuri di loro stessi, trovandosi anche ad essere valorizzati e premiati da un insegnante per qualcosa di non strettamente collegato alla scuola, ma al loro innegabile talento musicale.

Ma non è neanche l’insegnamento più importante.

Ribelli e consapevoli

Jack Black, Rebecca Julia Brown e Joey Gaydos Jr. in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il principale insegnamento di Dewey per i suoi alunni è il saper essere ribelli e non farsi sottomettere dall’autorità.

Infatti, sul finale riescono a portare a termine la loro missione in sostanziale autonomia, avendo dimostrato già in precedenza di essere molto più intelligenti e capaci di quanto gli altri adulti credessero – in particolare quando devono simulare una lezione in corso.

Oltre a questo, gli alunni si dimostrano anche più maturi del loro insegnante, capendo l’importanza di aver lavorato a qualcosa di creativo e di originale, senza necessariamente ricercare il riconoscimento da parte degli altri – quindi anche senza vincere la Battaglia delle Band.

Mike White e Sarah Silverman in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Al contempo è una lezione utile anche per gli adulti.

Infatti, sia Ned che Rosalie riescono a ribellarsi.

Fin dall’inizio Ned è sostanzialmente sottomesso alla compagna, che lo spinge ad essere un adulto sempre più chiuso e insicuro, totalmente incapace di inseguire i propri sogni, o anche solamente di vivere serenamente i propri hobby.

Allo stesso modo la preside Rosalie è sostanzialmente terrorizzata dalla sua posizione e dagli altri adulti, incapace di relazionarsi in maniera serena né con loro, né con gli alunni stessi.

Ma grazie a Dewey riesce a ribellarsi dalla sua posizione, accettando persino le avances di un ragazzo così particolare come Spider.

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Il diavolo veste Prada – Una donna troppo intraprendente

Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel è uno dei più grandi cult degli Anni Duemila, ricordato soprattutto per la fantastica performance di Meryl Streep e per aver lanciato la carriera cinematografica di Anne Hathaway.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 326 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Il diavolo veste Prada?

Andy è una giovane ragazza con un sogno: diventare una giornalista per le più importanti testate di New York. Ma la strada per arrivarci è strana quanto perigliosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il diavolo veste Prada?

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Assolutamente sì.

Il diavolo veste Prada è un cult imprescindibile, che riesce a raccontare molto di più sul dramma della femminilità dell’inizio del Millennio (e non solo) di quanto appaia ad una prima visione, con delle performance attoriali indimenticabili e una maturazione della protagonista tipica e atipica insieme…

Al contempo, questa pellicola è un racconto molto lucido delle difficoltà del mondo della moda e, più in generale, della realtà lavorativa statunitense – e non solo – soprattutto per una donna in un mondo dominato dalla visione maschile.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Una ragazza con un sogno

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

L’opening de Il diavolo veste Prada è già di per sé iconico.

Si alternano sullo schermo scene di diverse donne senza nome che si preparano per uscire indossando abiti favolosi e molto chic. Tutto il contrario invece della nostra protagonista, che ha un abbigliamento molto più semplice e – se così vogliamo dire – trasandato.

Quindi fin da subito capiamo un concetto fondamentale: Andy è fuori posto.

Ma non per questo si arrende.

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Nonostante fin da subito sia osteggiata da ogni parte, nonostante sia redarguita e sbeffeggiata per non essere vestita alla moda e per non venerare Miranda, Andy non si perde d’animo ed affronta a testa alta un colloquio che già capisce essere destinato al fallimento.

E ancora, nonostante Miranda la tratti con sufficienza e superiorità, la protagonista si lancia comunque in un racconto sincero e appassionato riguardo le sue capacità di lavorare sodo e di potersi quindi adattare anche ad un contesto così alieno per lei.

E per questo Miranda la sceglie.

Ostilità e epifania

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Fin da subito lavorare per Miranda si rivela un inferno.

Senza alcuna formazione, senza alcuna pietà, Andy viene travolta dal turbine di richieste impossibili e tiranniche che presuppongono che lei conosca già a menadito la rivista, i contatti e le abitudini della sua nuova capa.

Nonostante appaia impacciata, piena di dubbi e fuori posto, la protagonista non si arrende mai, dimostrandosi anzi ben cosciente che tutto quello sforzo è un passaggio necessario per percorrere la via più breve – ma anche più ardua – per conquistare il suo sogno.

L’epifania è l’iconica scena del ceruleo.

Nonostante sembri solo raccontare la cattiveria e la supponenza del personaggio di Miranda, in realtà rivela molto di più.

Miranda non se la prende con Andy perché non ne capisce nulla di moda: piuttosto la critica aspramente per la superficialità con cui sta approcciando il suo nuovo lavoro e l’ambiente di cui fa parte, considerando la moda come una roba che non la riguarda.

Ma proprio la direttrice di Runway le fa comprendere come invece il suo lavoro sia molto più trasversale e penetrante, molto più importante profondo di quanto creda: non solamente uno spreco di soldi per oggetti inutili, ma un’effettiva forma d’arte.

Ma sulle prime Andy questo non lo capisce.

Il diavolo veste Prada Nigel

Anne Hathaway e Stanley Tucci in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

La vera svolta arriva con il dialogo con Nigel.

Dopo l’amaro confronto con Miranda per non essere riuscita a riportarla a casa in tempo per la recita delle sue figlie, Andy si rivolge al braccio destro del suo capo per un conforto, sperando di trovare in lui una spalla su cui piangere.

Invece Nigel la sorprende.

Con il suo sentito monologo, l’uomo le fa comprendere una volta per tutte la faciloneria con cui ha approcciato il suo nuovo lavoro, scegliendo testardamente di non adattarsi e di continuare a sminuire Runway e tutto quello che – come spiega Nigel – effettivamente rappresenta.

La svolta superficiale?

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Con l’atto centrale il film comincia a combattere contro sé stesso.

Se da una parte infatti la sceneggiatura vorrebbe che il cambiamento di abbigliamento di Andy andasse di pari passo con il peggioramento del suo carattere, in realtà questa svolta rappresenta il momento di consapevolezza della protagonista.

Infatti, parallelamente al suo cambio di look, Andy si dimostra anche più spigliata, più sicura, più determinata nello sfruttare effettivamente questa opportunità che le è stata concessa, non scegliendo più di combattere l’ambiente, ma di trarre il meglio dallo stesso.

Ed è anche il momento in cui Miranda la mette maggiormente alla prova.

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Se il primo test di fiducia di Miranda fallisce miseramente – Andy è incapace di portare a termine una commissione così semplice come portare a casa il Book – la donna sceglie di metterla nuovamente alla prova con una missione impossibile quanto punitiva.

In questo modo, infatti, Miranda pensa di dimostrare definitivamente come Andy, pur essendosi adattata al suo mondo, sia comunque un’incapace.

E invece la protagonista incassa una vittoria dopo l’altra: prima superando brillantemente la prova impossibile del manoscritto di Harry Potter, poi dimostrandosi anche migliore di Emily alla Festa di Beneficenza.

Amici…serpenti

Sulla carta Il diavolo veste Prada vorrebbe raccontare come Andy abbandoni i suoi ideali e i suoi affetti, diventando una donna superficiale e spietata.

Nella realtà, vediamo tutt’altro.

Come detto, la protagonista si impegna sempre di più nel suo lavoro, ma non abbandona mai veramente i suoi amici o smette di preoccuparsi per loro, anzi cerca costantemente di conciliare la sua difficoltosa vita lavorativa con la sua sfera privata.

E dimostra anche di essere una buona amica quando ricopre i suoi amici di regali e li incoraggia continuamente nei loro sogni, al contrario degli stessi che si dimostrano costantemente ostili e di fatto poco rispettosi dello sforzo che sta compiendo.

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Ma Nate è il peggiore di tutti.

Il fidanzato di Andy non si impegna mai ad essere veramente supportivo nei suoi confronti, anzi la ostacola costantemente, la fa sentire in colpa per prendere sul serio il suo lavoro, e infine la accusa perfino di non avere una dignità.

Ma il suo punto più basso è indubbiamente sul finale, quando Andy gli dice che ha voltato le spalle alla sua famiglia e ai suoi amici e si chiede per cosa l’ha fatto, e al che Nate risponde

For shoes and shirts and jackets and belts.

Per le scarpe. E le camicette. E le giacche e le cinte.

dimostrando di non aver capito assolutamente nulla.

La vera morale

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Invece la vera morale della storia è racchiusa nel viaggio a Parigi.

Quando Miranda sceglie Andy al posto di Emily per la Settimana della Moda, non lo fa per metterla alla prova per un proprio tornaconto, ma per farle veramente comprendere cosa significa la strada che ha intrapreso, e se sia davvero disposta a percorrerla fino in fondo.

E Andy sceglie ancora una volta di mettere sé stessa al primo posto, dimostrando anche una grande maturità – a differenza dei suoi amici – nel capire finalmente l’importanza del lavoro che sta svolgendo e di quali opportunità le si stiano aprendo davanti.

Al contempo, tuttavia, Andy sceglie anche di distaccarsi da quel covo di vipere che è il mondo che ruota intorno a Miranda, fatto di sotterfugi, pugnalate alle spalle e odio intestino mal celato, scegliendo di aiutare la sua capa, con un’umanità anomala per l’ambiente.

Tuttavia, quando alla fine Miranda le spiana definitivamente la strada per continuare a lavorare per Runway, Andy sceglie di non proseguire fino in fondo: la protagonista non vuole smettere di essere una donna determinata, ma non vuole neanche perdere la sua integrità.

Di fatto Andy continua a seguire il suo sogno, ma alle sue regole.

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The Blues Brothers – L’arte di cavarsela

The Blues Brothers (1980) di John Landis è uno dei più grandi cult degli Anni Ottanta, un misto fra road movie, commedia nera e musical, sempre al limite fra il surreale e il camp più spinto.

Con un budget di 27,5 milioni di dollari – circa 100 oggi – incassò piuttosto bene: 115 milioni in tutto il mondo (circa 425 oggi).

Di cosa parla The Blues Brothers?

Elwood accoglie Jake, il fratello appena uscito di prigione, con cui si imbarca in un’improbabile quanto fondamentale missione per conto di Dio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Blues Brothers?

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Assolutamente sì.

The Blues Brothers, insieme a Prendi i soldi e scappa (1969), è fra i titoli che mi hanno formato al cinema, quindi sono molto di parte. Tuttavia, posso dire con serenità che, se questa pellicola è un cult, non è un caso.

Questo incontro così irriverente fra la commedia più improbabile e il disaster movie, con inseguimenti in auto che violano ogni legge della fisica – e non solo – e con performance musicali di alcuni dei più grandi artisti del tempo, sono tutti elementi che rendono questo film una visione davvero imperdibile.

Insomma, cosa state aspettando?

Un uomo di nulla

La lunga sequenza iniziale ci presenta immediatamente Jake senza mostrandocelo in volto.

Ma non serve.

Quando il protagonista riacquista i suoi averi nell’iconica scena dell’inventario, in pochi minuti abbiamo un quadro completo della sua personalità: un uomo legato strettamente a pochi elementi distintivi (il completo e gli occhiali neri), una vita sessuale piuttosto disordinata (i due preservativi) e con pochissimi soldi in tasca (appena 23 dollari e 50).

E il fatto che firmi con decisione con una semplice X, oltre ad essere un momento irresistibilmente comico, racconta perfettamente il totale menefreghismo del suo personaggio.

Ritrovare la via

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Nonostante i due fratelli sembrino l’uno la copia dell’altro, in realtà mostrano tendenze opposte.

Come Jake vorrebbe ritornare alla sua vecchia vita, Elwood cerca di farlo reintegrare all’interno di un panorama assai mutato: la Blues Mobile è stata venduta – per un microfono! – la banda si è sciolta ed è ora di tornare alle proprie radici.

La sequenza della suora è una delle più iconiche dell’intero film, dove Landis comincia ad inserire degli elementi quasi fantastici, raccontando una donna così tanto devota a Dio che ne assume anche l’onnipotenza.

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Già in questa irresistibile sequenza i due cominciano a capire che qualcosa deve cambiare: è ora di ritrovare la propria spiritualità.

Ma, invece che con delle dovute preghiere, l’epifania arriva da Dio stesso, che illumina Jake nella chiesa Triple Rock e gli fa capire che il suo destino è rimettere insieme la banda e salvare l’orfanotrofio.

Ma è una missione ben più difficile da quello che sembri.

Siamo in missione per conto di Dio!

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

L’ironia di fondo di The Blues Brothers risiede nel travolgente contrasto fra la missione per conto di Dio e i metodi con cui la stessa viene portata avanti.

Paradossalmente l’illuminazione divina è utilizzata ben poco come motivazione per convincere gli altri membri della banda a tornare a suonare insieme, mentre il metodo più gettonato è l’esplicito ricatto, in particolare nell’esilarante scena del ristorante.

Ma al contempo i due fratelli rappresentano un sogno lontano e apparentemente irraggiungibile, del rimettere insieme una squinternata jazz band e così godere di una vita veramente piena e soddisfacente, pur vissuta alla giornata.

Queste motivazioni sono utilizzate sia per convincere i membri di Murph and Magic Tones, ridotti a cantare canzoncine popolari in squallidi locali, sia, soprattutto, per persuadere Murphy, che ha ormai abbandonato la sua carriera musicale per gestire la tavola calda con la moglie.

Il numero musicale di Aretha Franklin è un unicum all’interno della pellicola, perché rappresenta il momento più strettamente da musical: a differenza degli altri numeri musicali, che sono effettivamente degli spettacoli in cui i personaggi sanno di cantare, in questo caso la donna sta facendo la ramanzina al marito, ma cantando.

Vivere alla giornata

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Pur rimettendo insieme la banda, trovare un incarico è tutto tranne che semplice.

Infatti, il primo lavoro è totalmente improvvisato e basato su un incredibile colpo di fortuna: trovandosi per caso vicino ad un locale che effettivamente aspettava una banda di musicisti – in ritardo – i Blues Brothers riescono a rubargli il lavoro.

Questa sequenza racconta la grande capacità di adattarsi e di cavarsela dei protagonisti: pur con una falsa partenza, la band riesce a convincere un pubblico molto ostile, suonando pezzi che soddisfino anche i loro palati così lontani dalla musica jazz e blues.

Ma ovviamente questa piccola vittoria si rivela in realtà un’inevitabile sconfitta, dovuta proprio all’ingenuità dei due protagonisti, che sono ancora costretti a filarsela, facendosi nuovi nemici lungo la strada…

Il punto di svolta

Il punto di svolta per i Blues Brothers avviene, come sempre, grazie al ricatto.

Riuscendo a mettere alle strette Maury Sline e ad ottenere lo spettacolo nella migliore sala del Palace Hotel, i due riescono a creare grande curiosità intorno al loro show, con un marketing piuttosto insistente e sfrontato, ma, in definitiva, vincente.

Ma la schiera di nemici che si è affollata lungo la strada crea non pochi ostacoli alla coppia, che comunque riesce a salvarsi ancora una volta con diversi e abili sotterfugi, mentre Curtis prepara il pubblico al loro grande debutto.

Ma è di nuovo ora di scappare.

Il vero nemico

Carrie Fisher in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Il vero villain di The Blues Brothers è la misteriosa donna che tenta continuamente di attentare alla loro vita.

La bellezza del personaggio di Carrie Fisher, al tempo già iconica per Una nuova speranza (1977), sta proprio nel contrasto fra la sua spietatezza, che la porta a distruggere palazzi e far saltare in aria cabine telefoniche, e la totale indifferenza delle vittime dei suoi attacchi.

In questo modo Landis crea un irresistibile interesse per il suo personaggio e per la sua misteriosa storia, che raggiunge il suo picco nell’indimenticabile confronto con Jake nel tunnel, in cui John Belushi regala la migliore interpretazione di tutta la pellicola.

Ma è solo uno dei tanti ostacoli.

I nemici lungo la strada

Personalmente non sono una grande amante degli inseguimenti in auto, anzi spesso finisco per annoiarmi.

Ma le fughe dei Blues Brothers sono forse la mia parte preferita del film.

Già all’inizio l’iconica scena del centro commerciale, in cui i due travolgono con assoluta tranquillità e piacere negozi, oggetti e persone, ma anche i diversi momenti successivi che punteggiano il secondo atto, con incidenti e distruzioni sempre più improbabili.

L’escalation della violenza e dell’intervento di forze di polizia sempre più massicce va di pari passo con l’incredibile capacità dei due fratelli di salvarsi da ogni situazione, arrivando al punto di far fare un salto carpiato alla loro macchina e così sconfiggere i Nazisti dell’Illinois, ritornando in carreggiata totalmente illesi.

The Blues Brothers inseguimento

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Tuttavia, non manca una certa amarezza.

All’interno di questa apparente invincibilità dal forte sapore comico, proprio davanti al Richard J. Daley Center di Chicago, i Blues Brothers vedono l’inizio della loro sconfitta: la macchina si distrugge davanti a loro sguardi ammutoliti.

Ma la protezione di Dio gli permette di arrivare illesi fino al 102° piano, riuscendo a consegnare i soldi per salvare l’orfanotrofio. Tuttavia, ormai la grazia divina è finita: neanche il tempo di prendere la ricevuta, e i due sono in manette con centinaia di armi puntate addosso.

Il finale è comunque positivo: persino in prigione, i Blues Brothers riescono a rianimare le folle e a tenere insieme la banda.

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Indovina chi viene a cena? – Un momento di passaggio

Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer è uno di quei cult senza tempo che riescono a fotografare l’epoca storica in cui sono usciti, ma al contempo rimanere attualissimi negli anni a venire.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 4 milioni di dollari, circa 36 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 56.7 milioni in tutto il mondo – circa 517 oggi.

Di cosa parla Indovina chi viene a cena?

Joey è una ragazza solare e apparentemente molto ingenua: nonostante venga da una famiglia bianca, sceglie di fidanzarsi con John, un uomo nero di grande successo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Indovina chi viene a cena?

Assolutamente sì.

All’interno di un impianto da commedia anche piuttosto leggera, Indovina chi viene a cena? racconta un passaggio fondamentale tra la generazione che pose le basi per superare uno scontro sociale secolare, e i figli della stessa che misero effettivamente in pratica le idee imparate dai genitori.

Infatti, nelle sue ultime battute, la pellicola abbraccia toni più drammatici e seriosi, offrendo diversi punti di riflessione.

Insomma, un manifesto antirazzista ancora attualissimo.

Guardami negli occhi

Il primo atto della pellicola è definito dagli sguardi.

Mentre Joey vive la situazione con la massima serenità, del tutto ignara delle espressioni delle persone che inevitabilmente giudicano le sue scelte relazionali, la regia si sofferma costantemente sulle reazioni dei personaggi con cui i protagonisti vengono a contatto.

Reazioni per la maggior parte dei casi mute, ma definite da espressioni assai eloquenti.

La peculiarità di queste situazioni risiede proprio nel fatto che di per sé la maggior parte delle persone non si sconvolge nel trovarsi davanti un uomo nero, anzi si mostra rispettosa nei suoi confronti chiamandolo dottore

…ma tutto cambia quando Joey annuncia la loro relazione, scatenando perplessità e disapprovazione.

Non vedere i colori

Katharine Houghton in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Joey rappresenta appieno la nuova generazione, cresciuta con ideali più inclusivi e pronta a metterli in pratica.

Una gioventù che manca totalmente di quel peso sociale della discriminazione fra bianchi e neri – in una visione ovviamente molto idealizzata e funzionale – al punto che la protagonista, prima ancora di informare i genitori dell’etnia del suo fidanzato, ne racconta il meraviglioso carattere.

Perché è davvero la prima cosa che vede.

Katharine Hepburn e Spencer Tracy in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

E allo stesso modo i suoi genitori sono del tutto disarmati, non riuscendo a trovare un solo motivo per opporsi al loro matrimonio, che non sia proprio un motivo razziale: John è semplicemente la migliore persona che potrebbero voler vedere al fianco della figlia.

E l’assoluta novità del film è il fatto di non mostrare né visivamente né nei comportamenti un’effettiva differenza fra le due famiglie – anche banalmente non utilizzando stereotipi poco felici – ma rappresentandole proprio come l’una lo specchio dell’altra.

Il primo risveglio

La prima persona che arriva effettivamente ad una consapevolezza positiva è Christina, la madre di Joey.

Ed è una consapevolezza che sopraggiunge nella maniera più brutale.

La donna, pur piena di dubbi, si trova a confrontarsi con Hilary, la sua collega di lavoro, che dimostra tutta il suo malcelato razzismo per la situazione di Joey, portando Christina a rendersi conto di starsi guardando in un orrendo specchio: quella potrebbe essere lei, se continua sulla strada del dubbio.

Per questo infine sceglie di diventare la principale promotrice della scelta della figlia, in primo luogo allontanando un personaggio scomodo come Hilary, ripromettendosi silenziosamente di non aver più certe persone intorno.

Lo scontro generazionale

Roy Glenn in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Il terzo atto è dominato da una regia quasi teatrale, con molte inquadrature fisse e semplici campi-controcampi, in cui i personaggi vengono inquadrati con mezzi primi piani, che li rendono gli assoluti protagonisti della scena, liberi di muoversi nella stessa.

Gli ostacoli al coronamento del sogno dei protagonisti sono due, ovvero i padri.

John Pertince Sr. sembra il personaggio più accanito, ma in realtà è quello che il figlio riesce più facilmente a sconfiggere.

Roy Glenn e Sidney Poitier in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Tramite il loro scontro, il film mostra esplicitamente e per la prima volta la sua vera faccia, delineando un discorso intergenerazionale in cui i padri richiedono rispetto per il mondo che hanno creato e per i sacrifici che hanno fatto per i loro figli.

Ma sono i figli i primi a ribellarsi, e anche violentemente: con una retorica incredibilmente avanguardistica, John rigetta l’idea della colpa di essere nato, facendo ricadere le responsabilità dei sacrifici del padre sul genitore stesso.

Ma la svolta più significativa è quella di Matt.

Mettersi in gioco

Spencer Tracy in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

John mette il futuro suocero davanti ad un aut aut: o accetta in tutto per tutto la relazione della figlia, oppure questo matrimonio non s’ha da fare. Il giovane uomo si dimostra infatti ben più consapevole della fidanzata circa le difficoltà che dovranno affrontare come coppia mista.

E per questo vuole evitare di averne in primo luogo nella sua stessa famiglia.

Portando così Matt ad intraprende una riflessione per nulla scontata – ma non ci saremmo potuti aspettare di meno dal padre di Joey.

Spencer Tracy e Sidney Poitier in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Infatti, le sue riflessioni e le sue paure non sono pregiudizi razziali, ma piuttosto concrete preoccupazioni sul destino incerto e potenzialmente molto difficoltoso della coppia, non riuscendo, fino all’ultimo, ad essere veramente sicuro di volerlo approvare.

Invece alla fine, con un monologo quanto più semplice, quando più attuale possibile, mette finalmente in pratica quegli ideali che ha trasmesso così efficacemente alla figlia.

E così rigetta l’insensato razzismo che vorrebbe dividere una coppia meravigliosa solamente per la diversa pigmentazione della pelle. E proprio grazie a lui finalmente i componenti di questa neonata famiglia possono sedersi ad un tavolo come pari.

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Aliens – Il sequel muscolare

Aliens (1986) di James Cameron si impegna nel difficile compito di portare un seguito ad Alien (1979), uno dei più grandi cult della fantascienza, riuscendo tuttavia a creare un sequel a tratti ancora più iconico dell’originale, pur con un taglio narrativo ed estetico assai diverso.

Con un budget leggermente superiore al precedente – 18 milioni di dollari, circa 160 oggi – fu ancora una volta un enorme successo commerciale, con un incasso di 130 milioni di dollari (senza considerare le varie re-release negli anni) – circa 346 oggi.

Di cosa parla Aliens?

Dopo mezzo secolo di viaggio nell’ipersonno, Ripley si risveglia in un mondo cambiato e inconsapevole della minaccia degli xenomorfi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aliens?

Sigourney Weaver e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Assolutamente sì.

Aliens è davvero il sequel più indovinato per Alien, anche per la scelta di renderlo molto più digeribile e meno complesso rispetto al capostipite, abbondando con l’azione e le esplosioni, ed inserendo anche una comicità sostanzialmente assente nel precedente.

Insomma, forse artisticamente meno elegante rispetto all’opera di Ridley Scott, nondimeno un’ottima prova per James Cameron, già forte del successo di Terminator (1984), da cui eredita non pochi elementi registici.

Insomma, se amate già Cameron, amerete questa pellicola.

Se al contrario preferivate la complessità di Scott…

L’aggancio perfetto

Sigourney Weaver in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

L’incipit di Aliens è l’aggancio perfetto.

James Cameron era indubbiamente il regista più calzante per creare un sequel che sapesse intercettare il sempre più nutrito fandom del primo capitolo, riuscendo a cogliere gli umori e le aspettative del pubblico.

Il primo colpo di genio è stato spostare la storia diversi anni avanti rispetto al primo – così da non doverne essere troppo dipendente – e, soprattutto, rendere lo spettatore complice della protagonista: come nel primo, nessuno crede a Ripley, ma sia noi che lei sappiamo verso quale pericolo si stanno dirigendo i personaggi.

Allo stesso modo, Cameron è stato molto abile nel riuscire a riprendere l’iconicità della scena del parto, applicandola però a Ripley, andando al contempo a riportare in scena – all’inizio, ma anche nel resto della pellicola – il concetto di maternità mostruosa proprio di Alien, pur in chiave più semplice.

Una nuova atmosfera

Il cambiamento di tono della pellicola l’ho trovato esilarante su più livelli.

Anzitutto, perché Cameron ha avuto la libertà di costruire i personaggi secondari – anzi, secondarissimi – con un background – quello militare – in cui riesce a muoversi con molta scioltezza e familiarità, come dimostrerà anche e soprattutto in Avatar (2009).

Un cambio di passo che, anche se abbandona il concetto dell’eroe comune proprio del precedente film, gli permette anche di alleggerire i toni dal punto di vista drammatico, con dinamiche e battute molto più semplici, ma, al contempo, più godibili.

L’unico problema di questo cambio di passo è come – anche comprensibilmente – si scelga di far diventare Ripley l’assoluta protagonista, rendendo così il film di fatto mancante nella caratterizzazione dei secondari, che diventano in breve tempo semplice carne da macello per gli alieni.

La tensione

Uno degli elementi più vincenti della pellicola è la costruzione della tensione.

Si parte fin dall’inizio con Ripley – e, indirettamente, lo spettatore – che cerca di convincere tutti gli altri dell’esistenza dello xenomorfo, per poi essere coinvolta in una missione di salvataggio di una situazione di cui solo noi e la protagonista conosciamo la gravità.

Gli xenomorfi restano in realtà fuori scena per buona parte del primo e secondo atto, ma sono una presenza invisibile costante: proprio nei silenzi, nei dettagli, nel mutismo di Newt che si percepisce come il pericolo sia proprio dietro l’angolo…

Il picco drammatico è il ritrovamento degli abitanti della colonia, ormai posseduti, nella mente e nel corpo, dalla ancora sconosciuta Madre che porta avanti la sua gestazione proprio grazie a loro, con un breve quanto agghiacciante dialogo con uno dei prigionieri…

Ancora a pezzi

Lo xenomorfo in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Per la gestione degli xenomorfi, Cameron riprende le mosse da Scott, ma sceglie poi anche una via profondamente diversa.

Gli alieni vengono infatti mostrati sempre in contesti in cui quasi spariscono nel buio della scena, con degli angoscianti primi piani – anche ripetuti – sui loro volti, quasi delle soggettive delle vittime prima che vengano brutalmente divorate.

Quindi si sceglie ancora una volta di mostrare il nemico a pezzi, in maniera funzionale a renderlo una presenza costante e sfuggente, sottolineata anche da un ottimo utilizzo del finto documentario, tramite i messaggi estremamente confusi che vengono trasmessi dalle forze sul campo all’astronave.

Tuttavia, al contempo Cameron sceglie di distruggere l’icona dello xenomorfo, i cui rappresentanti vengono sconfitti molto più facilmente rispetto al primo capitolo, smembrati, bruciati, addirittura schiacciati come degli insetti…

…ma per un buon motivo.

La banalità funzionale

Queen Xenomorph e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Sul finale, Cameron inserisce un ultimo elemento fondamentale.

Ripley si pone una giusta domanda, che lo spettatore potenzialmente poteva essersi posto persino in Alien: se ci sono tutte queste uova, chi le sta deponendo?

L’abilità di scrittura in questo caso è nell’inserire questo quesito, e non dare subito una risposta, facendo avvenire l’incontro con la Madre quasi per caso, con un espediente piuttosto semplice ma funzionale: Newt viene rapita.

E così la terribile figura della gestante viene rivelata al pubblico in tutta la sua monumentalità e nel suo aspetto mostruoso, come una macchina che crea dei nemici pericolosissimi per l’uomo, mostrandosi lei stessa come un avversario ancora più micidiale…

Déjà-vu

Sigourney Weaver e Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Il finale di Aliens raccoglie tutta quella tensione quasi sopita per il resto del film.

Nonostante gli xenomorfi sembrino assai minacciosi, lo sono soprattutto perché sono in gruppo, ma in realtà appunto si rivelano per certi versi molto meno pericolosi rispetto al precedente capitolo, dal momento che sono sconfitti più e più volte.

La Madre è invece il nemico finale, e, a differenza dei figli, viene mostrata per la maggior parte del tempo nella sua immensa monumentalità, costruendo la tensione proprio sull’idea che sia un essere gigantesco e apparentemente impossibile da sconfiggere.

Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Tuttavia, il finale è proprio la parte che mi ha meno convinto.

Anche se mi rendo perfettamente conto che sarebbe stato veramente complesso trovare un nuovo modo per annientare un nemico così terrificante e potente, ho trovavo poco indovinata la scelta di far coincidere la sua dipartita con quella del nemico del primo film.

Allo stesso modo mi è ancora meno piaciuta l’idea di utilizzare il medesimo colpo di scena dello xenomorfo apparentemente sconfitto che si nasconde sulla nave.

Infatti, oltre ad essere incredibilmente prevedibile avendo visto Alien, lo è ancora di più nella scena apparentemente tranquilla di Ripley che dialoga con Bishop, che sembra proprio chiamare il plot twist che arriva un momento dopo…