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Avventura Cinema per ragazzi Fantastico Fantasy Film I classici di Robin Williams

Jumanji – Le insidie della crescita

Jumanji (1995) di Joe Johnston è uno dei titoli più iconici della filmografia di Robin Williams e, più in generale, del cinema per ragazzi Anni Novanta.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 65 milioni di dollari – è stato un incredibile successo commerciale: più di 250 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Jumanji?

Alan Parrish è un ragazzino costantemente bullizzato che vorrebbe fuggire dalla propria vita. Ma quella che sembra una strada possibile forse è anche la meno desiderabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jumanji?

In generale, sì.

Non mi voglio sbilanciare nel consigliarvi questa visione perché la piacevolezza della visione può dipendere molto da che tipo di rapporto avete con questo film: Jumanji è in tutto e per tutto un classico del cinema per ragazzi, e, come tale, da adulti potrebbe risultare meno coinvolgente.

Nondimeno, è possibile leggere nella storia un sottotesto non banale riguardo alla paura di diventare adulti, in cui i personaggi più cresciuti sono i veri protagonisti della scena, mentre i ragazzini fungono più da contorno, da aiutanti della storia.

Insomma, a voi la scelta.

Inizio

Adam Hann-Byrd in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Jumanji deve gestire ben tre inizi.

L’antefatto della storia funziona a tratti: di per sé poteva essere uno spunto interessante per definire i contorni della minaccia in atto, in particolare introducendo l’inquietante tamburo che echeggia nei decenni fino ad arrivare al presente del protagonista, ma per certi versi risulta fin troppo abbozzato.

Il secondo attacco è l’inizio vero e proprio, che disegna il carattere e lo stato di partenza di Alan: un ragazzino continuamente preso di mira dai suoi compagni solamente per il nome che porta, che si trova involontariamente fra le mani una via d’uscita.

Adam Hann-Byrd in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

In questo frangente tocchiamo i primi elementi di debolezza della storia: come la fuga da parte di Alan è complessivamente credibile, meno lo sono le dinamiche che portano a coinvolgere anche Sarah nella partita, in uno snodo narrativo estremamente programmatico ai fini della storia, ma non molto pensato.

Soprattutto, si potrebbe rimanere leggermente spaesati davanti all’incontro fra i due, in quanto manca una costruzione significativa del loro rapporto, definito solamente da una breve battuta del protagonista e poco altro: per il resto, potrebbero essere due perfetti sconosciuti.

Ma la vera mancanza è successiva.

Pretesto

Bradley Pierce e Kirsten Dunst in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Judy e Peter sono i protagonisti?

Se la relazione fra Alan e Sarah è carente in molti punti, la caratterizzazione dei due giovani protagonisti del terzo inizio è un baratro di scrittura, in cui sembra mancare proprio un pezzo fondamentale: l’essere fuori posto dei due personaggi, esplicitato dal loro essere immediatamente richiamati nella loro nuova scuola.

Bradley Pierce, Kirsten Dunst, Robin Williams e Bonnie Hunt in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Insomma, il film vorrebbe riraccontare la storia di Alan sdoppiandola in due personaggi che si sentono altrettanto fuori posto, ma manca di scene significative in questo senso: avviene tutto fuori scena e la maggior parte della caratterizzazione avviene tramite le battute stesse dei personaggi.

In un certo senso, è come se il film fosse troppo affollato, con i personaggi adulti che soffocano totalmente la presenza dei più giovani, che riescono a smarcarsi dal ruolo di aiutanti incolori solamente grazie all’ottima prova attoriale di una giovanissima Kirsten Dunst.

Ma se fosse una mancanza voluta?

Crescere

Robin Williams in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Forse non vi stupirà sapere che Jumanji presenta dei punti di contatto piuttosto sorprendenti con Peter Pan.

In un altro senso, Alan è un bambino che non vuole crescere, che non è capace di affrontare le insidie della vita – la pesantezza del suo nome – e, soprattutto, lo snodo fondamentale della sua vita, che lo porterebbe a seguire le orme della famiglia, reagendo in maniera piuttosto capricciosa e irragionevole.

La stessa Jumanji può essere considerata un’occasione di fuga, una versione distorta dell’Isola che non c’è, un parco giochi costruito non sui sogni di un bambino, ma sui suoi incubi: tutte le insidie dell’Africa Nera, tratte dai racconti dei grandi esploratori…

Robin Williams in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

…o, in altro senso, una proiezione delle paure verso il futuro, verso una crescita incomprensibile.

Non a caso, proprio come Peter Pan è tormentato dalla sua maledizione – l’Oblio – così Alan è condannato all’Isolamento, riuscendo effettivamente a sfuggire dalle paure del suo presente, per essere catapultato in una realtà dove deve crescere ancora più in fretta, proprio quando non si sentiva ancora pronto per farlo.

E c’è un altro elemento che conferma questa teoria…

Paura

Un classico delle trasposizioni teatrali – e cinematografiche – di Peter Pan è far interpretare Capitan Uncino e Mr. Darling dallo stesso attore.

E, guarda a caso, in Jumanji Mr. Parrish e Van Pelt sono portati in scena dal medesimo interprete.

Ma c’è di più.

Il padre di Alan è il vettore di questa crescita improvvisa e imposta – andare in collegio – mentre il terribile generale che dà la caccia al protagonista semplicemente perché esiste ricalca le dinamiche di Uncino insegue Pan perché lo stesso rappresenta quello che non può più avere: la spensieratezza dell’infanzia.

Robin Williams in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Ribaltando la situazione, Van Pelt è la rappresentazione di quello di cui Alan ha più paura – e che non vuole affrontare: l’età adulta, come ben racconta l’ultimo momento della sua avventura, in cui finalmente si scontra faccia a faccia col nemico e viene ricompensato con la fine dell’incubo.

Infatti questa scelta finale è la definitiva rappresentazione della maturazione del protagonista, che finalmente accetta non tanto di andare al collegio, ma piuttosto di affrontare la situazione come un adulto capace di ragionare, volendo riallacciare il rapporto col padre non più in maniera antagonistica, ma collaborativa…

…come ben racconta lo scambio finale fra i due:

(Mr. Parrish) Let’s talk over tomorrow. Man-to-man.
(Alan) How about, father to son?

(Signor Parrish) Parliamone domani, da uomo a uomo.
(Alan) E se ne parlassimo come padre e figlio?

Andando quindi a confermare definitivamente come Alan ha imparato la lezione, non volendosi infine sostituire al padre come adulto, ma bensì affidarsi a lui come ancora punto di riferimento per una maturazione più graduale e serena.

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Dramma storico Drammatico Film Robin Williams

Risvegli – La coscienza in gabbia

Risvegli (1990) di Penny Marshall è un film drammatico con protagonisti Robin Williams e Robert De Niro.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 29 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 108 milioni di dollari.

Di cosa parla Risvegli?

Malcom Sayer è il nuovo dottore in una clinica specializzata in pazienti affetti da catatonia. Ma forse una speranza c’è per queste statue umane…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Risvegli?

Robin Williams e Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

Assolutamente sì.

Nel suo piccolo, Risvegli è un racconto drammatico molto centrato, che riesce a portare in scena una vicenda reale già di per sé molto struggente, senza però mai eccedere sul lato del pietismo, senza banalizzarla per darla in pasto al pubblico.

Un risultato garantito anche per l’ottima coppia di attori protagonisti, fra cui spicca un superbo Robert De Niro in uno dei ruoli più complessi della sua carriera, anche solo per la responsabilità di non ridicolizzare una malattia così complessa.

Insomma, da riscoprire.

Inquadrare

Robin Williams in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

Le prime battute di Risvegli sono tutte dedicate all’inquadrare il protagonista.

In una dinamica piuttosto tipica della sua carriera in questi anni, il personaggio di Robin Williams si immerge in un panorama immobile e cerca di trovare la chiave per sbloccarlo, mentre le altre persone intorno a lui sembrano ormai scoraggiate o, peggio, del tutto indolenti nel risolvere la situazione.

Robin Williams in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

E la sua capacità è proprio il riuscire a vedere oltre l’apparentemente definitiva immobilità dei suoi pazienti, cercando di cogliere quella tenue scintilla di consapevolezza che, con i giusti stimoli, può essere risvegliata e alimentata.

Proprio per questo si apre lo spiraglio per una consapevolezza agghiacciante.

Gabbia

Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

I pazienti sono consapevoli?

Nelle sue meticolose quanto disperate ricerche il Dottor Malcolm si interfaccia con una prospettiva disturbante: e se queste figure così apparentemente immobili sia nel corpo che nella mente, fossero in realtà delle coscienze lucidissime intrappolate in un corpo che non risponde più?

Un’idea che è solo accarezzata dallo scambio con il Dottor Ingham, ma che il film ci tiene più volte a smentire dalla bocca di diversi personaggi, forse più per ammorbidire una storia già di per sé piuttosto angosciante, suggerendo piuttosto un’alternativa meno tragica…

Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

…ma forse non così tanto confortante.

I pazienti non sono consapevoli della loro condizione, ma sono piuttosto immersi in un costante stato di dormiveglia, ad un passo dal riprendere il controllo della loro vita e del loro corpo, ma incapaci di avere la consapevolezza e la forza mentale necessaria per farlo.

E, quando il miracolo del risveglio accade, il film sembra finito.

Oppure…

Scostante

Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

Ad una prima visione il ritmo di Risvegli potrebbe sembrare poco pensato.

Il primo atto sembra risolto in maniera piuttosto sbrigativa, con un risveglio improvviso di Leonard che conduce velocemente ad un atto centrale in cui riprende contatto con gli spazi, in un climax crescente che sembrerebbe non aver più niente da dire.

In questo frangente onestamente mi aspettavo un terzo atto che avrebbe funto più da epilogo rincuorante, in cui finalmente Leonard riusciva a trovare l’amore e a ricostruirsi una vita, diventando protagonista di una ribellione che rischiava addirittura di essere smaccata.

Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

E invece Risvegli mi ha sorpreso.

Guardando nel complesso della pellicola, il ritmo è rappresentativo proprio del dramma stesso di Leonard, che fin troppo velocemente riesce a risvegliarsi, sempre più istericamente desideroso di evadere dalla gabbia corporea in cui era stato costretto per interi decenni…

…ma che gradualmente ed inevitabilmente torna alla sua condizione iniziale, proprio quando ormai sia il protagonista che lo spettatore erano certi di questa nuova vita così faticosamente conquistata, creando un’importante connessione emotiva che ci conduce ad un finale agrodolce.

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Dramma familiare Drammatico Film Robin Williams Thriller

One Hour Photo – L’angolo

One Hour Photo (2002) di Mark Romanek è un thriller psicologico con protagonista Robin Williams in uno dei titoli più particolari della sua carriera.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – 12 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 52 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla One Hour Photo?

Sy è un dipendente del laboratorio di sviluppo fotografico della SaveMart ed è totalmente innamorato del suo lavoro. Una persona che non farebbe male ad una mosca…giusto?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere One Hour Photo?

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Assolutamente sì.

One Hour Photo vi sembrerà un titolo veramente anomalo se siete abituati ai personaggi bonari e confortanti della filmografia di Williams – come Mrs. Doubtfire (1993) e L’attimo fuggente (1989).

Ma, proprio per questo, è un’opera che vale la pena di essere scoperta, anche solo come ulteriore conferma di quanto fosse un interprete multiforme e pronto ad intraprendere i ruoli più diversi, soprattutto quando, come in questo caso, era premiato da una scrittura precisa e profondamente enigmatica.

Aspettative

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

One Hour Photo gioca sulle aspettative.

E in due direzioni.

Da una parte, si basa sui personaggi più iconici della carriera di Williams, che per diversi anni aveva fatto innamorare il pubblico con le sue figure accoglienti e confortanti – anche nei titoli più drammatici come Will Hunting (1997) – fingendo di portare in scena un ruolo analogo…

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

…nonostante l’apertura del film ci porti in una direzione totalmente differente, suggerendoci (senza mostrarlo) che il protagonista si sia macchiato di atti sanguinosi e disturbanti, di cui parla con la massima tranquillità, interessato esclusivamente ai suoi preziosi scatti.

Eppure, anche questa è una falsa pista.

E solo una delle tante.

Ruolo?

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Sy vuole prendere il posto di Will?

Uno dei lati più inquietanti del protagonista è il suo atteggiamento nei confronti sia di Nina che del piccolo Jake, verso cui nutre evidentemente un interesse morboso, cercando con piccoli ed ingenui stratagemmi di inserirsi forzosamente nella loro vita.

E l’innocuo autoscatto con la fotocamera di famiglia è solo l’inizio.

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Per Nina Sy sembra volersi riproporre come un compagno più premuroso e attento, gettando l’esca con la comune lettura, con cui riesce ad attaccare facilmente bottone con la donna, di cui percepisce la profonda insoddisfazione nei confronti del marito.

Invece per Jake vuole essere il padre presente e accogliente che Will non è mai stato, diventando l’unico partecipante della sua partita di baseball, e pure sbilanciandosi nel voler difendere il bambino dal suo acre allenatore e pure comprandogli dei giocattoli sottobanco.

Ma la realtà è ben più complessa.

Ruolo

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Sy non vuole – e non può – prendere il post di Will.

Nel suo struggente monologo finale il protagonista rivela il suo ambiguo risentimento nei confronti della famiglia Yorkin, di cui vuole prendere parte non come nuovo patriarca, ma come un pezzo aggiuntivo di un nucleo affettivo che gli appare così tanto desiderabile.

Per questo il suo odio verso Will non deriva dall’impossibilità di sostituirlo, ma bensì dall’osservare come un uomo così egoista sprechi totalmente il grande regalo che la vita gli ha fatto, lontano dagli orrori dell’infanzia che hanno invece segnato l’esistenza del protagonista.

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Proprio per questo sulle prime Sy si immagina come una parte ormai integrata della famiglia, un vecchio zio che vizia il bambino e che, al contempo, tiene così tanto ai suoi parenti da volerli proteggere dalla disgustosa infedeltà di Will.

E nel finale tutto viene perfettamente rivelato.

Angolo

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Sy può vivere solamente nella finzione.

Il protagonista ha costruito una sceneggiata del tutto fittizia nei confronti di Will e della sua amante – come ci tiene più volte a ribadire durante la tortura – ma non per umiliarli, ma bensì per creare uno spazio di cui può fare finalmente parte.

Una realtà ideale rappresentata dalle foto perfette e idilliache che aveva sviluppato, dalla grottesca galleria di momenti della famiglia Yorkin nella sua stessa casa, creata con una serie di scatti rubati ed impressi nel tempo nella loro fugace perfezione. 

Ma di questa realtà Sy non può esserne il centro.

Infatti il focus dei suoi scatti finali non sono i due vergognosi soggetti umani, ma bensì gli oggetti di sfondo, di contorno, in cui Sy rivede perfettamente se stesso, incastonato in una panorama di cui può finalmente fare parte, anche se relegato agli angoli dell’inquadratura…

…gli unici dove gli è possibile stare.

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Comico Commedia Dramma familiare Film I classici di Robin Williams

Mrs. Doubtfire – L’amore disgregato

Mrs Doubtfire (1993) di Chris Columbus, noto in Italia anche col sottotitolo imbarazzante di Mammo per sempre, è un classico della cinematografia di Robin Williams.

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un enorme successo commerciale: 219 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Mrs. Doubtfire?

Daniel è un padre stupendo, sempre presente con i figli, ma molto meno sopportabile come marito. E, una volta sottoposto al divorzio, dovrà prendere altre vie per stare vicino ai suoi amati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mrs. Doubtfire?

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Assolutamente sì.

Mrs. Doubtfire è una splendida commedia familiare che riesce a riflettere – come già per Chris Columbus in Mamma ho perso l’aereo (1990) – in maniera piuttosto fuori dagli schemi sui modelli di genere, evadendo l’idea stringente della famiglia unita come prerogativa della felicità della stessa.

Tuttavia, un trigger altert è dovuto: come tipico di altri prodotti dell’epoca, è un film apertamente discriminatorio nei confronti della comunità queer, particolarmente delle persone transgender e transessuali, come purtroppo ci si poteva aspettare considerando il tema di fondo.

Eccesso

Robin Williams con i suoi figli in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Daniel è una forza irrefrenabile.

La prima scena inquadra da sola il personaggio, capace di regalare performance attoriali e vocali giocose e divertentissime, ma incapace di darsi un limite, di accettare le imposizioni esterne, persino a costo di perdere il lavoro.

Un entusiasmo che si conferma nella sequenza del compleanno del figlio, l’ultima goccia che fa definitivamente scoppiare il rapporto con Miranda, che si sente comprensibilmente scavalcata dalla figura del marito e che non riesce più a stare dietro alle sue continue follie.

E qui si apre un punto interessante.

Miranda (Sally Field) in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Mrs. Doubtfire avrebbe potuto semplicemente fare un’inversione delle parti, in cui la madre era il genitore assente e fissato con la carriera, e invece il padre appariva come il parente presente e attivo nella vita dei figli, nonché l’unico verso il quale andavano le loro attenzioni.

E invece la situazione familiare è ben più sfumata, e racconta un matrimonio che semplicemente non funziona più, ma dei figli che manifestano un attaccamento emotivo ad entrambe le figure genitoriali – non a caso, la madre non vuole mai abbandonarli o lasciarli a se stessi.

Ma c’è di più.

Valore

Nonostante la situazione familiare sia cristallina per noi spettatori, non lo è per la società.

In una sottile critica ad un sistema economico che inquina persino qualcosa di inquantificabile come l’affetto familiare, Daniel viene giudicato un padre poco adatto per la sua situazione economica instabile – e subito da risolvere.

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

E la scelta del protagonista non solo di accettare un lavoro abbastanza degradante per le sue capacità, ma di affiancarlo anche al lavoro domestico per la sua stessa famiglia, racconta perfettamente il suo imprescindibile bisogno di stare vicino ai suoi figli.

Ed è un valore della pellicola non spingere troppo sul lato della incapacità iniziale del personaggio maschile di non saper condurre l’economia domestica, utilizzandola solamente come spunto per qualche gag, ma risolvendola rapidamente con l’impegno del personaggio nel migliorarsi per il bene dei suoi figli.

Così i ruoli della storia non sono mai così netti.

Colpa

Robin Williams e Pierce Brosnan in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Daniel non è esente dalle colpe.

Ed è importante che lui stesso le riconosca.

In un altro contesto – come l’indimenticabile Genitori in trappola (1998) – si potevano facilmente giustificare i dispetti del protagonista nei confronti del nuovo interesse romantico di Miranda, e si poteva rendere lo stesso un evidente insidiatore della famiglia.

Al contrario Stuart è fin da subito raccontato come un personaggio attento e amorevole, capace di cambiare il suo punto di vista sui bambini per amore di Miranda, e per questo non merita davvero di essere punito da Daniel – che infatti si discolpa salvandolo dal rischio di soffocamento da lui stesso provocato.

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

In generale, la grande mascherata del protagonista è davvero maligna, in quanto mette la moglie in una posizione veramente complessa da accettare, tanto che la risoluzione felice del film non è immediata, ma anzi passa per un ulteriore scontro fra i due. 

E per questo il ritratto familiare che si compone alla fine è tanto più importante quanto durante tutto il film Daniel si è dimostrato un adulto attento alle esigenze dei suoi figli, e per questo viene infine ricompensato con un programma televisivo tutto suo e un felice compromesso per stare con i suoi bambini…

Robin Williams nella scena finale di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

…nonostante questo non preveda di ritornare con la moglie.

Il finale di Mrs. Doubtfire è infatti quasi avanguardistico nel raccontare come una famiglia possa trovare la propria felicità anche al di fuori di un matrimonio solido e di una presenza costante di entrambi i genitori, aprendo le porte a più tipi di nuclei familiari che, oggi come ieri, non sono sempre considerati adatti.

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Comico Commedia Dramma storico Drammatico Film di guerra Robin Williams

Good Morning, Vietnam – La guerra bugiarda

Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson è un dramma storico con protagonista Robin Williams.

A fronte di un budget abbastanza piccolo – 13 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 123 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Good Morning, Vietnam?

Saigon, 1965. Adrian Cronauer è la nuova voce della radio locale dell’esercito americano. Ma non è proprio il tipo di persona da lasciarsi minacciare dall’autorità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Good Morning, Vietnam?

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

In generale, sì.

Good Morning, Vietnam ricorda per molti versi il poco successivo L’attimo fuggente (1989): Robin Williams diede il meglio di sé nel ruolo di voce fuori dal coro che sbaraglia le carte in tavola in un contesto rigido e stringente, venendo per questo osteggiato dalle autorità in carica.

La narrazione circa la Guerra in Vietnam ovviamente non raggiunge i picchi di Vittime di guerra (1989), ma riesce comunque a puntellare un film sostanzialmente comico di momenti piuttosto drammatici e rivelatori sulla mala condotta statunitense durante il conflitto.

Insomma, un’opera meno conosciuta di questo magnetico interprete, ma che merita di essere riscoperta.

Presenza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Adrian Cronauer è fin da subito un personaggio fuori dagli schemi.

Introdotto dal neutro bollettino della radio locale, il protagonista sfida subito le autorità locali, dimostrandosi del tutto indifferente davanti alle velate minacce e al tentativo di imbrigliarlo all’interno di un sistema molto fragile e perfettamente calibrato.

E, infatti, fin dalla sua prima apparizione, dimostra di essere una minaccia.

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Cronauer non ha infatti alcun rispetto nei confronti dei maldestri tentativi del suo esercito di mantenere una certa facciata, ed esplode in un’irresistibile sequela di siparietti comici e irriverenti, conquistando il cuore dei militari in un’inarrestabile popolarità.

Ma questo suo essere fuori dagli schemi si riflette molto anche nei suoi rapporti con la popolazione locale.

Consapevolezza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Il protagonista non ha consapevolezza del conflitto e delle sue regole non scritte.

Cronauer si scontra infatti continuamente col feroce razzismo che domina il panorama politico, ma a cui si contrappone sia indirettamente – intrecciando sinceri rapporti con la popolazione locale – sia direttamente – prendendo di petto le ingiustizie, pure a costo di scatenare una rissa.

E, più in generale, il suo comportamento è ben diverso dal resto dei suoi conterranei anche per come affronta l’educazione dei vietnamiti, non limitandosi ad un’istruzione di base, ma fornendo ai suoi nuovi amici degli strumenti effettivi per affrontare la scomoda presenza straniera.

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

In maniera invece ben più irriverente, la sua posizione ribelle è ben raccontata dalla scelta di diffondere ufficiosamente una delle più tristi e recenti realtà del conflitto – l’attentato al bar – proprio a risvegliare le coscienze di un esercito che vive di un sogno filtrato dalle comunicazioni ufficiali.

Ma quindi cosa vuole davvero raccontarci Good Morning, Vietnam?

Speranza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Pur nella sua semplicità, Good Morning, Vietnam è un racconto di speranza.

La pellicola non vuole né semplificare né attenuare la gravità del conflitto, ma anzi la vuole sottolineare proprio affiancando ad una piacevole comicità pochi momenti struggenti e significativi, come a rappresentare il sogno fittizio di pace venduto agli statunitensi che viene facilmente svelato. 

E lo fa anche e soprattutto nel rappresentare i rapporti impossibili fra Cronauer e la popolazione locale: come una possibile relazione con Trinh è scoraggiata fin dall’inizio, anche la stessa amicizia con Tuan sembra minata dal profondo risentimento del giovane ragazzo verso la insopportabile presenza straniera.

Eppure, nonostante lo scoraggiamento temporaneo, il protagonista rimane fino all’ultimo una voce libera e irriverente, capace persino di sbeffeggiare il suo stesso presidente, rappresentazione, a più di dieci anni di distanza, della risposta di un paese affranto da una guerra bugiarda.

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Avventura Azione Cinema per ragazzi Commedia Dramma familiare Drammatico Fantastico Film I classici di Robin Williams Il rinnegato Steven Spielberg

Hook – Ti ricordi, Peter?

Hook (1991), in Italia conosciuto anche con il sottotitolo Capitan Uncino, è uno dei film per ragazzi più iconici non solo della filmografia di Steven Spielberg, ma in generale di tutta la produzione cinematografica degli Anni Novanta.

Nonostante il buon riscontro commerciale – circa 300 milioni di dollari a fronte di 70 milioni di budget – incassò ben al di sotto delle aspettative, e lo stesso Spielberg si dimostrò insoddisfatto del risultato.

E i motivi non sono difficili da immaginare…

Di cosa parla Hook?

Peter Banning è un avvocato aziendale, del tutto assorbito dal suo lavoro e incapace di passare del tempo con i suoi figli. Ma il passato sta venendo a bussare alla porta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hook?

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

L’insuccesso commerciale di questa pellicola è spiegabile proprio per il tono del film, che si allontana quasi immediatamente dal target infantile, inserendo alcuni elementi non solo poco adatti ad un pubblico di bambini – come la violenza e la morte – ma temi proprio non pensati per loro.

Infatti, Hook è una rilettura intelligente e consapevole della fiaba di Peter Pan, ma il cui protagonista rappresenta non un bambino troppo cresciuto, ma un adulto, un padre che deve riscoprire la meraviglia dell’infanzia e la bellezza del calore familiare.

Insomma, da adulti probabilmente lo apprezzerete di più.

Oblio

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Nell’incipit di Hook Peter è immerso nell’oblio.

Una caratteristica del protagonista che denota una profonda conoscenza dell’opera letteraria – l’oblio rappresenta l’altro lato dell’infanzia perpetua della sua controparte letteraria – e che permette di mettere in scena un primo atto per molti tratti agrodolce.

Il lato più drammatico è l’incapacità di Peter di rimanere bambino, arrivando fino a disprezzare proprio il concetto di infanzia, in particolare adirandosi davanti ai comportamenti infantili del figlio maggiore, mostrandosi interessato – anzi ossessionato – unicamente alla sua noiosa vita adulta.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Un gustoso paradosso che spesso sfocia anche nella comicità.

Particolarmente spassoso in questo senso il terrore del protagonista all’idea di salire su un aereo – il quale, ad un livello più profondo, racconta la totale perdita di spensieratezza che caratterizzava il vecchio Peter – e che gli permetteva di volare.

Al contempo, il protagonista è circondato dai suoi simboli identitari: oltre alla costante dimenticanza dei nomi dei personaggi che lo circondano, la sua ombra rivelatoria è sempre in agguato, la moglie prende il nome dalla nonna – Moira – col primo apice drammatico nella realizzazione di Wendy:

So Peter you became a pirate!

Peter, sei diventato un pirata!

Rivelazione

La rivelazione di Peter avviene in due parti.

Anzitutto tramite Wendy, che rappresenta una riscrittura piuttosto arguta del personaggio, togliendole il peso di quella maternità piuttosto costrittiva che la caratterizzava nel romanzo, e trasferendolo all’interno di tema più generale e meno opprimente – l’accoglienza degli orfani.

Il suo personaggio è un elemento chiave per un primo riavvicinamento di Peter alla verità sulla sua natura, prima sottilmente nelle diverse punzecchiature, poi più esplicitamente, mostrando direttamente al protagonista quello che è stato.

Ma ancora più fondamentale è l’intervento di Trilli.

Anche nel romanzo la fatina è sempre stata una compagna essenziale nella storia di Peter Pan, nonostante i numerosi contrasti fra i due, ed è emblematico che sia lei stessa a riportarlo nell’Isola che non c’è…

…andando così a risolvere un problema di fondo che altrimenti avrebbe rovinato la narrazione: ricordarsi come si vola è un passaggio fondamentale dell’arco evolutivo del protagonista, e come tale può arrivare solo nell’atto finale.

Annullamento

Dustin Hoffman in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

L’Uncino di Dustin Hoffman è un personaggio profondamente drammatico.

Nonostante non si tocchino i toni più tragici del personaggio di Jason Isaacs in Peter Pan (2003), anzi si cerchi in più momenti di ammorbidire la sua figura, il Capitano presenta una personalità malinconica, a tratti persino autodistruttiva.

Infatti, sotto alla patina di umorismo che il film propone, intravediamo un adulto disilluso e avvilito, che si rifugia nell’assurdo desiderio di vendetta nei confronti di Peter Pan – che rappresenta quello non è e che non può essere – nonostante lo stesso non ne abbia più interesse.

Per questo è tanto più interessante quando inconsapevolmente cerca di rubare a Peter il suo sogno.

Tramite una dinamica anche piuttosto tipica, con un tono ancora fortemente agrodolce, Uncino cerca di mettere Jack contro il padre, proprio andare a fare leva sulle mancanze del protagonista come genitore, cercando in qualche modo di prenderne il posto.

Un’idea che si traduce nell’iconica e meravigliosa sequenza della partita di baseball – uno dei momenti di più intelligente attualizzazione dell’opera letteraria – e nelle divertentissime lezioni con cui il villain avvelena la mente del ragazzino.

Dustin Hoffman in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Ancora più interessante il fatto che il suo personaggio non si affezioni mai veramente a Jack, dimostrando ancora più profondamente la sua incapacità di amare, la quale gli impedisce di trovare un riscatto – l’essere padre – nella sua realtà adulta.

Un totale annullamento che porta – a quanto pare più volte – Uncino a decidere di farla finita, non trovando più nessuna soddisfazione nella sua condizione attuale, ma ricercando nella morte, l’unica avventura a cui può ancora ambire.

Riscoperta

Il secondo atto di Hook è geniale.

Particolarmente intelligente anzitutto reimmaginare il covo dei Bimbi Sperduti, trasformandolo in niente di più che un quartiere periferico di New York, e riuscendo così a rappresentare la multiculturalità già propria del periodo di uscita del film.

Così si alternano momenti profondamente commoventi – come quando uno dei bimbi sperduti riconosce Peter – e sequenze più comiche, in particolare quando si cerca di far volare il protagonista, con delle dinamiche tipiche dei film per ragazzi del periodo.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Ma il primo momento di rivelazione è ancora più significativo.

La maggior parte dell’opera di Peter Pan si basa sulla finzione giocosa che scandisce i rapporti fra il protagonista e i Bimbi Sperduti, particolarmente per la cena immaginaria, che nel film è il primo momento in cui Peter riesce effettivamente a capire il potere dell’immaginazione.

Ma l’epifania è rappresentata dall’effettiva riscoperta del suo passato, in particolare della figura di Wendy, e del motivo che gli aveva fatto infine abbandonare l’Isola che non c’è, ovvero una felicità ignota, ma incredibilmente appagante: la paternità.

Ma è una rivelazione rischiosa…

Insidia

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Il ricordo del passato è il primo passo per un ulteriore oblio.

La condizione di totale spensieratezza di Peter Pan nell’opera letteraria rappresentava proprio il perdersi totalmente nei sogni d’infanzia, dimenticandosi di tutto il resto: così in Hook Peter Pan rischia di dimenticarsi della sua stessa famiglia.

Ancora fondamentale, quando struggente, è l’intervento di Trilli, che rappresenta l’altro lato della scoperta felice di Peter: come il protagonista prende il posto della Wendy letteraria – che riscopre il valore di una condizione che aveva finora disprezzato…

…allo stesso modo la fata prende il posto del Peter letterario, sentendosi esclusa dalla nuova vita del suo compagno di avventure, nonostante nella stessa sperava forse di trovare la maturità sentimentale che gli avrebbe permesso di condividere una vita insieme.

Una maturità che la stessa Trilli trova, anche solo per un momento, diventando abbastanza grande per poter contenere nel suo corpo un sentimento così importantele fatine sono troppo piccole per contenere più di un sentimento alla volta – ma inutilmente…

Equilibrio

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Nonostante lo straripante entusiasmo del protagonista, il suo punto di arrivo è all’insegna dell’equilibrio.

Nell’ultimo atto Peter non ha alcun altro interesse se non ricomporre la sua famiglia, mostrandosi del tutto indifferente davanti alle richieste di Uncino, che vorrebbe invece trovare sfogo per la sua personale ossessione.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Così, mentre Peter è già sulla via di casa e gli volta le spalle, Uncino lo trascina in un duello che inevitabilmente perde, rivelandosi come nient’altro che un vecchio ridicolo, che non riesce a trovare nessuna piacevolezza nella sua vita – e mai la troverà.

Infine, nel suo ritorno a casa, il protagonista mantiene la sua ritrovata felicità e eccitazione, ma senza cadere nel totale oblio che viveva in giovane età, ma trovando una buona via di mezzo.

Ovvero, essere un adulto, ma anche un padre affettuoso, non dimenticandosi della creatività e dell’immaginazione che teneva in vita il suo personaggio.

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Will Hunting – Tutta una vita davanti

Will Hunting (1997) di Gus Van Sant è uno dei film con una delle produzioni più ambiziose e sentite degli ultimi trent’anni: scritto e ideato dalla coppia Ben Affleck e Matt Damon, al tempo giovanissimi.

Diretto da un autore come Gus Van Sant – lo stesso che ha diretto film incredibili come Milk (2008) e che è riuscito ad avere l’idea allucinata di proporre un remake shot-by-shot di Psycho (1960). E, infine, la partecipazione di un attore così incredibile e iconico come Robin Williams.

Cosa poteva uscire da un progetto del genere?

Un film amatissimo e iconico: con solo 10 milioni di budget, incassò la bellezza di 225 milioni in tutto il mondo e vinse l’Oscar per la Migliore sceneggiatura.

Di cosa parla Will Hunting?

Will Hunting è un ragazzo di poco più di vent’anni, un genio capace di risolvere i più complessi problemi matematici, oltre che recitare a memoria libri interi. Ma al contempo è anche un ragazzo difficile, che vive per strada e che non è capace di prendere il volo e sfruttare la sua genialità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Will Hunting è un film imperdibile

Matt Damon in una scena di Will Hunting (2017) di Gus Von Sant

Will Hunting è un film capace di raccontare una generazione, nonché il tema degrado e il vivere per strada, senza banalizzare i personaggi come cattivi o una generazione perduta, elemento per nulla scontato per prodotti di questo genere.

Ed è un film imperdibile anche solo per vedere i primi passi che muovevano sia Matt Damon, l’attore prodigio, sia un inedito Ben Affleck nel ruolo del bad boy. E ovviamente Robin Williams in uno dei ruoli più profondi e memorabili della sua carriera.

Il tutto all’interno di una storia profonda ed emozionante, che coinvolge e appassiona fin dalla prima scena.

Will Hunting: la genialità perduta

Will è un ragazzo perduto, che si nasconde dietro alla sua genialità e alla corazza strafottente per mascherare tutte le sue insicurezze interiori, che lo rendono incapace di avere delle relazioni vere e durature. Lo si vede molto bene nel suo rapporto con Skylar, con cui non è capace di fare il passo finale.

Un ragazzo indurito da una vita difficile, che si limita da solo, andandosi ad invischiare in crimini di strada e buttando via il suo talento. E, per la maggior parte del film si comporta come uno spaccone, andando a vanificare tutti gli sforzi che il professore fa per lui, opponendosi testardamente all’idea di cambiare vita.

Insomma, Will dà sempre il peggio di sé.

Solo Sean riesce a prenderlo nella maniera giusta, perché è l’unico capace di ridimensionarlo e, alla fine, rompere la facciata e fargli capire la sua vera potenzialità, liberandolo della paura che ha vissuto per tutta la vita.

Sean: il maestro di vita

Come detto, Sean è l’unico che riesce a rompere la facciata di Will, ma è anzitutto quello che riesce a porre dei limiti alla sua avventatezza.

In particolare, nella prima seduta non ha problemi a mettergli le mani al collo quando osa dire qualcosa sulla moglie morta, scendendo proprio al livello di Will.

E ancora più potente è il monologo che segue il loro secondo incontro, quando Sean ridimensiona del tutto la persona di Will, creata artificialmente solamente tramite i libri, mancando totalmente di esperienza di vita effettiva.

Sean non forza mai Will, e non ha intenzione di farlo, nonostante quanto sia spinto dal professore. E infatti alla fine Will riesce a trovare sé stesso, ad uscire dal suo guscio perché è spinto gentilmente e coi giusti tempi in quella direzione.

E alla fine, come riesce a far capire a Will che può prendere il volo senza sentirsi in colpa, così anche lui capisce che non è mai troppo tardi per riprendere in mano la propria vita.

Chuckie: non essere banali

Chuckie è il personaggio su cui il film poteva essere il più banale possibile, e dove invece ci ha regalato un ottimo personaggio secondario. La pellicola fino alla fine fa sembrare che lui e il gruppo di amici siano quasi contro questa genialità di Will.

E ci si aspetterebbe che proprio Chuckie avrebbe ostacolato la scelta di Will di lasciare finalmente il nido. E invece è lo stesso che dà all’amico la spinta definitiva, che gli fa infine prendere la giusta decisione.

Una scena che ci offre una lezione semplice ma non meno importante sull’amicizia:

La cosa migliore che possiamo fare per le persone a cui teniamo è incoraggiarle ad ottenere il meglio dalla loro vita, anche se questo significherà allontanarle da noi.

Cosa ci insegna Will Hunting ancora oggi

Matt Damon in una scena di Will Hunting (2017) di Gus Von Sant

Will Hunting ci insegna a non avere paura.

A conoscerci, a non avere vergogna delle nostre capacità, di non farci ingoiare dalle nostre insicurezze per non avere il coraggio di prendere il volo. Spesso tendiamo a rannicchiarci nella nostra tranquilla e confortante quotidianità, non riuscendo a metterci alla prova con nuove sfide, che potenzialmente potranno migliorarci.

E, soprattutto, ci insegna che non è mai troppo tardi per rimettersi in gioco.

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L’attimo fuggente – Perchè leggiamo la poesia?

L’attimo fuggente (1988) di Peter Weir è uno dei maggiori cult a cui è associata la figura del compianto Robin Williams. Fra l’altro un prodotto nato da un grande autore, regista di The Truman Show (1998), fra le altre cose.

Una pellicola che, non a caso, fu un incredibile successo commerciale: incassò 235 milioni a fronte di un budget ridottissimo di 16 milioni.

Di cosa parla L’attimo fuggente?

Il collegio maschile di Welton è rinomato per essere piuttosto severo e rigido, dove la futura classe dirigente viene formata. Un gruppo di ragazzi viene stupito dall’eccentrico Mr. Keating, che cercherà di insegnare loro qualcosa di più delle semplici nozioni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché L’attimo fuggente è un cult imperdibile

Robin Williams in una scena de L'attimo fuggente (1988) di Peter Weir

L’attimo fuggente è diventato un cult imperdibile perché riesce a parlare ad una generazione, alle sue insicurezze e alla sua ribellione contro una vita che sembra già scelta per loro, con una serie di dinamiche ancora molto attuali.

La pellicola è un film corale che ci accompagna alla scoperta di questi personaggi così semplici e fallibili, ma anche pieni di sogni e speranze apparentemente irrealizzabili. Una pellicola fra l’altro con un Robin Williams in una delle sue migliori interpretazioni, con momenti veramente toccanti e profondi che ci parlano anche a trent’anni di distanza…

Insomma, se non l’avete mai visto, non potete perdervelo.

Un contrasto micidiale

Gale Hansen, Josh Charles e Allelon Ruggiero in una scena del film L'attimo fuggente (1988) di Peter Wier

La pellicola si apre con un contrasto micidiale fra il comportamento dei protagonisti e l’ambiente in cui sono letteralmente costretti: si dimostrano, anche se in modo diversi, pieni di sogni, ambizioni ed energia da vendere, ma in un ambiente che cerca il più possibile di metterli in difficoltà e domarli.

Oltre al contrasto fin da subito fra Neil e il padre, la carrellata di lezioni mostrate offre fin da subito un’idea chiara del tipo di ambiente: quasi per dovere, i ragazzi sono continuamente frustrati e spinti verso l’impossibile. Per questo la lezione di Mr. Keating appare ancora di più così diversa.

Mr. Keating: il buon maestro

La figura di Mr. Keating è ben costruita nella sua anomalia all’interno dell’ambiente. Anzitutto, perché è stato appositamente scelto un attore con physique du role che è assolutamente perfetto: piacente e rassicurante, in contrasto con l’aspetto austero e rigido degli altri insegnanti, in particolare il Preside.

E fin da subito questo professore non ha la volontà di domare questi adolescenti, di imbottirli di nozioni e nient’altro. Al contrario vuole fare in modo che ritrovino il loro spazio, seppur minimo, dove potranno esprimersi.

E non è un sognatore senza controllo, ma un buon maestro consapevole dalla realtà della vita, ovvero di come questi ragazzi indubbiamente diventeranno quei banchieri e avvocati come ci si aspetta da loro.

Ma al contempo vuole insegnare loro che la vita non è solo quello, ma che potranno trovare sempre la libertà di essere davvero se stessi.

Neil: l’eroe tragico

Neil è anzitutto un eroe perché si trova a combattere con una realtà che gli è ostile e che cerca in tutti i modi di cambiare. Il suo nemico principale, il suo mostro da sconfiggere, è il padre. Un uomo fondamentalmente impossibile da cambiare, indurito da una vita in cui, per sua stessa ammissione, non ha potuto avere le stesse possibilità del figlio.

Il padre deriva infatti da una realtà sociale molto più complessa, in cui ci si doveva mettersi in gioco molto più duramente per emergere a livello economico. Un contesto in cui non ci si poteva aspettare di perdersi in sciocchezze come le proprie passioni.

E proprio per questo Neil è tragico, perché si trova a combattere contro una realtà che non può cambiare, in cui è drammaticamente costretto. A primo acchito il suo suicidio potrebbe sembrare forzato, ma in realtà, riuscendo effettivamente ad immedesimarsi nel personaggio, si può capire la profondità del suo dolore.

Todd: il timido bardo

Todd è un personaggio che appare inizialmente come di sfondo per la vicenda: incredibilmente silenzioso e sulle sue, ma di cui vediamo alcuni sprazzi che ci permettono di empatizzare con lui. È anche il personaggio che più profondamente assorbe la lezione di Mr. Keating, cercando di scrivere poesie proprio per esprimere il suo essere.

E, quando finalmente il professore lo sblocca, facendogli recitare una poesia concepita al momento, rivela le sue incredibili capacità e la profondità del suo animo. Ed è anche quello di fatto che soffre maggiormente la perdita di Neil, che era diventato il suo punto di riferimento per la rivalsa che lui stesso stava cercando.

E così è anche quello che, infine, porta tutti gli altri alla ribellione.

Charlie: il satiro

Charlie è una figura che appare subito come quella dello spaccone, che nell’ambito dell’immaginario classico può essere associato al satiro: figura con comportamenti eccessivi e che viene continuamente osteggiato dalla società in cui vive, persino emarginato (e infatti alla fine è espulso dalla scuola).

Però al contempo rappresenta anche una forza vitale, inarrestabile, i cui due strumenti sono la poesia irriverente e l’amore per le donne, che riesce facilmente a procacciarsi proprio per il suo fascino da eroe maledetto.

Charlie è il personaggio che forse vince più di tutti: non sapremo mai cosa gli è successo fuori scena, ma in qualche modo è riuscito eroicamente a smarcarsi da una situazione che gli stava più che stretta, non facendosi sottomettere come in qualche modo hanno dovuto fare i suoi compagni.

Knox: l’innamorato

Knox appare come un personaggio forse minore all’interno della storia, ma è comunque un altro lato dell’insegnamento di Keating: lasciar liberi i propri sentimenti e avere il coraggio di esprimerli.

E Knox è veramente l’innamorato senza speranza, quello che farebbe di tutto per conquistare la donna amata, anche senza di fatto conoscerla come succedeva d’altronde in molta poesia classica e medievale.

Tuttavia, è uno dei pochi personaggi che alla fine vincono per così dire, riuscendo effettivamente a conquistare, pur non sempre con metodi del tutto giusti, la ragazza dei sogni.

Cosa ci insegna L’attimo fuggente sulla letteratura

Robin Williams e Norman Lloyd in una scena de L'attimo fuggente (1988) di Peter Weir

L’attimo fuggente critica più o meno consapevolmente un tipico modo di insegnare la letteratura e l’arte nelle scuole, in particolare nella scuola italiana. Che sia il liceo o l’università, è quanto mai frequente che la stessa sia raccontata nella maniera più pesante e nozionistica possibile, facendoci ingoiare definizioni e opere senza la giusta preparazione o maturità per farci approcciare ad essa.

Per questo ci troviamo spesso a dover leggere ed affrontare opere solamente perché siamo obbligati a farlo, non perché abbiamo piacere a farlo.

E, forse sempre inconsapevolmente, L’attimo fuggente critica una corrente letteraria ancora purtroppo molto viva ad oggi, ovvero lo strutturalismo. Semplificando la definizione della Treccani, si tratta di una critica letteraria basata sul giudicare solamente l’aspetto formale di un’opera, senza valutarne il valore artistico di per sé.

Per semplificare molto, è il tipo di teoria alla base del modo in cui vi hanno insegnato la letteratura al liceo (e nei casi più gravi anche all’università), ovvero analizzando in maniera meccanica l’opera con concetti come narratore onnisciente, racconto in prima persona e simili.

Concetti del tutto accettabili, a livello superficiale.

Ma, come ci racconta L’attimo fuggente, la letteratura è molto più di questo.