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Dawn of the Dead – I veri mostri

Dawn of the Dead (1978) di George Romero – in Italia uscito con il titolo di Zombi, ma spesso noto con nome di L’alba dei morti viventi – è probabilmente lo zombie movie più famoso della storia del cinema.

Purtroppo con la traduzione italiana si perse il senso di progressione della trilogia di Romero, cominciata nel 1968 con The Night of the Dead e continuata nel 1985 con The Day of the Dead.

Un prodotto che ebbe numerosi sequel e remake – in particolare quello di Zack Snyder del 2004 col titolo omonimo – parodie – lo splendido Shaun of the Dead (2004) di Edward Wright – nonché numerose citazioni e omaggi – non ultima quella di South Park in Illogistico (9×22).

Di cosa parla Dawn of the dead?

Dopo lo scoppio di una misteriosa pandemia che fa rinascere i morti, uno sparuto gruppo di sopravvissuti si rifugia in un centro commerciale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dawn of the dead?

Assolutamente sì.

Dawn of the Dead non è solamente un classico del genere horror, ma soprattutto un unicum per gli zombie movie.

Infatti, sotto l’apparenza di survival movie, si cela una ben più aspra critica agli Stati Uniti degli Anni Settanta e, più in generale, al consumismo e al capitalismo occidentale imperante.

Oltre a questo, la pellicola si distingue per un apparato tecnico davvero superbo, in particolare per un’effettitistica che si può annoverare fra le migliori di quegli anni, insieme ad Alien (1979) ed a La Cosa (1982).

Insomma, un film imperdibile, che fa riflettere ancora oggi.

Un assaggio

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Dawn of the dead, essendo un sequel, parte subito di corsa.

La pandemia è già iniziata, il pericolo è alle porte, e questo primo breve atto consente allo spettatore di avere un assaggio dell’orrore e della violenza così crudelmente materiale della pellicola, che non manca di mostrarci fiumi di sangue e membra strappate a morsi.

Questa mancanza di un’introduzione all’orrore è in realtà incredibilmente funzionale al messaggio del film, basato proprio sull’assenza di un’effettiva distinzione fra il prima e il dopo, fra gli zombie assetati di carne umana e gli umani stessi…

La fame

Se banalmente sembra che gli zombie vogliano, nella più classica delle tradizioni del genere, mangiare i cervelli e le carni dei sopravvissuti, in realtà lo scambio fra i protagonisti sul perché i non morti si dirigono in un centro commerciale è rivelatorio della loro vera fame:

They don’t know why, they just remember. Remember that they want to be in here.

Non sanno perché, ricordano solamente che vogliono essere qui.

Difatti il centro commerciale era una novità negli anni dell’uscita della pellicola…

…ed è il tipo di spazio che è definito come non-luogo: una realtà artificiosa, che mima le atmosfere di una piccola città – la piazza, i palazzi, i ristoranti – ma che in realtà è solo un meccanismo pensato per far alimentare la voracità consumistica dei suoi avventori.

Una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Di fatto il cliente quando entra in questi luoghi non ha bisogno di uscirne, non vuole di fatto farlo, perché vi trova tutto quello di cui ha bisogno, bombardato costantemente da nuovi stimoli a spendere, ad acquisire nuovi oggetti senza che questi siano di fatto necessari…

Per questo è ancora più indicativa la definizione che viene data dei non morti:

These creatures are nothing but pure, motorized instinct.

Queste creature non sono altro che puro istinto motorizzato.

Quindi gli zombie non sono altro che gli statunitensi stessi, del tutto lobotomizzati e incapaci di pensare razionalmente, schiavi di un desiderio consumistico insaziabile, che, persino da morti, li porta ad invadere questo luogo…

I veri mostri

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Se gli zombie sono dei personaggi quasi comici, financo grotteschi, per il loro modo di comportarsi e la musica che spesso accompagna le loro scene, il vero focus del film sono i protagonisti umani.

È come se, provocatoriamente, Romero ci chiedesse: i non morti e i sopravvissuti sono tanto diversi?

Anche se apparentemente sembra di sì, in realtà i protagonisti scelgono il centro commerciale come luogo in cui rifugiarsi non perché sia la scelta migliore in quel momento, ma perché irrazionalmente attratti dalla quantità di beni a disposizione, anche se questi non sono minimamente utili alla loro sopravvivenza.

Scott H. Reiniger in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

E per questo si mettono costantemente in pericolo, divertendosi come dei bambini a scorrazzare per i corridoi e gli infiniti negozi del centro, al punto da ricreare in un certo senso i loro spazi quotidiani – una casa perfettamente arredata – ma che, proprio come il centro commerciale, sono del tutto fittizi e artificiosi.

Un ulteriore spunto riflessivo sulla contemporaneità è suggerito dal terrificante contrasto fra le scene gioiose, quasi comiche, dei protagonisti che uccidono gli zombie ed esplorano gli spazi, e la crudeltà delle uccisioni, sbudellamenti, abbuffate che portano la maggior parte dei personaggi alla morte.

Con questo contrasto Romero racconta degli Stati Uniti affogati nel sogno capitalista e consumista, che si nutre di questo ideale totalmente illusorio, beandosi di una realtà alternativa e dimenticandosi gli orrori di cui è circondata – nel film gli zombie, nella realtà la guerra, la criminalità, il degrado sociale…

L’ossessione del possesso

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

La drammaticità dell’ossessione per il possesso e il consumismo viene ancora più svelata nell’atto conclusivo.

I protagonisti vengono attaccati e devono difendersi, ma la lotta da nessuna delle due parti è per la sopravvivenza, ma piuttosto per, ancora una volta, una smania di possesso, che porta a delle scene veramente disturbanti…

…come i bikers che strappano gli anelli dalle mani degli zombie, l’ilarità quando si impossessano di soldi che ormai non hanno alcun valore e, soprattutto, la frase pronunciata da Stephen mentre punta il fucile contro gli intrusi:

It’s ours, we took it.

È nostro, lo abbiamo conquistato.

I protagonisti quindi sono incapaci di pensare lucidamente, del tutto dipendenti da questo mondo scintillante e pieno di false promesse, tanto che Peter dice esplicitamente di non volersene andare, e sceglie solo infine di seguire Fren, le cui parole riecheggiano dolorose per tutto il terzo atto:

What have we done to ourselves.

A che cosa ci siamo ridotti.
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Tropic Thunder – La vera storia della finzione

Tropic Thunder (2008) è, insieme a Zoolander (2001), il progetto più ambizioso della carriera registica ed attoriale di Ben Stiller.

Con un budget abbastanza importante – 92 milioni di dollari – non fu un grande successo al botteghino – appena 195 milioni – ma divenne col tempo un cult imprescindibile.

Di cosa parla Tropic Thunder?

Cinque attori che non potrebbero essere più diversi prendono parte ad uno sgangherato film di guerra, che diventa più reale di quanto si aspettassero…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tropic Thunder?

Assolutamente sì.

Come detto, Tropic Thunder è uno dei progetti più incredibili di Ben Stiller, che ritorna dietro alla macchina da presa dopo l’ottimo Zoolander, da cui eredita anche alcune delle sue tematiche fondamentali, traslandole nella realtà cinematografica.

Un piccolo cult con un cast incredibile, fra cui spicca l’indimenticabile prova attoriale di Robert Downey Jr., che quasi ruba la scena all’altrettanto iconico personaggio di Ben Stiller, per un’accoppiata davvero esplosiva.

Insomma, non ve lo potete perdere.

È iniziato il film?

Il percorso metanarrativo iniziale di Tropic Thunder è magistrale.

Oltre a riuscire a confondere lo spettatore, che non è sicuro se il film è effettivamente iniziato o se stanno trasmettendo le pubblicità prima della proiezione – e il dubbio rimane quasi fino alla fine – la sequenza di apertura è uno spaccato perfetto del cinema dei primi Anni Duemila.

Il primo titolo è forse quello più rappresentativo: Scorcher 6, che parodizza le saghe infinite e senza senso di film action – alla Fast & Furious, per intenderci – che continuano ad essere prodotti unicamente per far cassa.

Il secondo film è un classico della comicità esilarante di quel periodo, che unisce le tre tendenze peggiori del genere: l’obesità comica, le divertentissime scoregge e l’utilizzo di un solo attore per diversi personaggi – idea che aveva già stancato dai tempi di Back to the future – Part II (1989).

Un film talmente eccessivo che forse era anche un modo con cui Jack Black voleva lavarsi la coscienza dal terrificante Amore a prima svista (2001) …

Chiude il terzetto Satan’s Alley, con protagonista l’attore premio Oscar Kirk Lazarus, al centro di un drammone storico che sembra anticipare L’ultimo dei templari (2011), arricchito con un elemento gettonatissimo per creare un film davvero scandaloso per l’epoca: l’omosessualità.

Se volete rivederli, eccovi serviti:

Sul viale del tramonto

Tugg Speedman è un attore che sembra già arrivato al capolinea.

Legato a doppio filo a film commerciali di grande successo, ma che ormai hanno stancato, ha cercato di rilanciarsi con un prodotto diverso e con cui pensava di riconquistare il pubblico, ma che è risultato invece un tremendo flop.

Ma neanche con Tropic Thunder, un kolossal di guerra di grande successo, le sorti sembrano a suo favore: come tanti colleghi prima di lui, anche Speedman è un attore capriccioso che non riesce a portare a casa la scena, anche per l’ostilità con Lazarus, con cui non ha alcuna chimica.

Pur parodistico, il suo arco evolutivo è quello più significativo: dopo l’iniziale incapacità di entrare nel personaggio, il protagonista si ritrova a vivere davvero in prima persona le avventure del film, riuscendo ad entrare nella parte più di quanto l’odiato collega sia mai riuscito a fare.

Dopo un primo momento in cui Speedman vive nel totale paradosso della situazione – in una capanna improvvisata, in una foresta insidiosa, ma con in mano il suo iPod – viene definitivamente riportato nel personaggio di Simple Jack e costretto a riportare in scena l’intero film.

E così una maschera di cui voleva liberarsi per sempre, diventa invece una via di fuga, nell’illusione di aver trovato un pubblico che finalmente lo apprezza, come testimonia l’irresistibile scambio con Lazarus sul finale:

You tell the world what happened here!
What happened here?
I don’t know, but you need to tell them!

Devi raccontare cosa è successo qui!
E cosa è successo qui?
Non lo so, ma devi raccontarglielo!

…con un precipitoso ritorno alla realtà, quando la tribù lo insegue per ucciderlo e il figlio adottivo lo accoltella.

Ed è veramente esilarante il fatto che la vittoria per il suo personaggio è l’ottenimento dell’Oscar, ovvero di quel riconoscimento per cui quell’industria senza scrupoli, pronta fino ad un attimo prima a metterlo da parte, lo riaccoglie fra le sue braccia…

Essere il personaggio

Kirk Lazarus è possibilmente il personaggio più iconico della pellicola.

Robert Downey Jr. interpreta una parodia vivente di quegli attori che, pur essendo anche interpreti molto validi, vengono esageratamente celebrati per la loro capacità di immedesimarsi nella parte, tanto da non uscirne mai

…almeno non fino ai contenuti speciali del DVD!

La parodia si accompagna alla più aspra satira, con Alpa Chino che lo critica aspramente non tanto per aver fatto una black face, ma piuttosto per aver portato in scena una versione veramente parodistica, quasi offensiva, di un uomo afroamericano…

…e, parallelamente, condannando anche le produzioni di Hollywood per l’avere fra le mani una parte perfetta da affidare – per una volta! – ad un attore nero, ma scegliere comunque un interprete bianco.

Ed è incredibilmente interessante il parallelismo fra il suo percorso e quello di Speedman: quando Lazarus ritrova il collega e cerca di riportarlo alla realtà, è lo stesso Tugg a farlo sprofondare in una crisi d’identità…

…e, nel farlo, Speedman stesso indossa un trucco evidente, che definisce il suo personaggio – una white face, in un perfetto parallelismo.

Un crollo emotivo particolarmente devastante, in cui Lazarus si strappa di faccia la maschera – anzi le maschere! – che ha portato per tutto quel tempo, ma che paradossalmente era molto più credibile della sua vera faccia.

In questo senso, gli occhi di un azzurro artificioso e i capelli cotonati sono tutto un programma.

Ma in questi due estremi – la mancanza di identità e il calarsi troppo nel personaggio – i due riescono infine a ritrovarsi in una via di mezzo, ovvero riuscire a interpretare con passione e trasporto una scena che appare finalmente così reale…

Il lato peggiore di Hollywood

Oltre ad essere un personaggio assolutamente esilarante, Grossman – nomen, omen – rappresenta il lato più marcio di Hollywood.

Ad un livello più superficiale, il personaggio di Tom Cruise è una figura tirannica ed estremamente violenta, che tratta i suoi sottomessi senza alcuna pietà, anzi umiliandoli e minacciandoli costantemente.

Ma il suo vero volto è rivelato nella contrattazione con i trafficanti.

In quell’indimenticabile non trattiamo con i terroristi, Grossman racconta la facciata dietro cui l’industria si nasconde, raccontandosi come una realtà con una morale di ferro, per poi dimostrarsi più e più volte cinica e guidata solo dal desiderio di arricchirsi.

Nello specifico, lo spietato produttore propone a Rick Peck di scambiare la vita di Speedman con un elicottero e con un’importante somma di denaro, puntualizzando come ormai il suo cliente sia una causa persa, per cui non vale la pena di combattere.

In questa visione, gli attori – al pari dei modelli di Zoolander – sono delle figure usa-e-getta, da riempire di soldi ed attenzioni quando sono effettivamente delle macchine-fabbrica-soldi, ma del tutto sacrificabili quando ormai non attirano più l’interesse del pubblico…

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Barbie – Un film necessario

Barbie (2023) di Greta Gerwig è uno dei film più chiacchierati dell’anno, che a tratti ha entusiasmato, a tratti ha totalmente indignato il pubblico, viste le tematiche molto controverse che ha portato in scena.

Un film che più che un film è stato un evento cinematografico come non se ne vedevano da Spider-Man No Way Home (2021), con 1,4 miliardi di dollari di incasso – a fronte di un budget di appena 145 milioni di dollari – diventando il maggior incasso del 2023.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Barbie (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior attore non protagonista a Ryan Gosling
Migliore attrice non protagonista a America Ferrera
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliore canzone What Was I Made For?
Migliore canzone I’m Just Ken

Di cosa parla Barbie?

In Barbieland le varie Barbie vivono in armonia nelle loro case da sogno, con delle esistenze sempre più perfette ogni giorno. Ma qualcosa è cambiato per la nostra protagonista…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: come tutta la campagna marketing di questo film, è incredibilmente ingannevole, in quanto asciuga la pellicola di tutti i suoi significati, facendola apparire solo come una commedia leggera.

A voi la scelta:

Vale la pena di vedere Barbie?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Assolutamente sì.

Barbie è uno dei film più interessanti del 2023, un’operazione molto intrigante e ben pensata per lanciare messaggi che, pur nella loro estrema semplicità, sono assolutamente fondamentali per comprendere la società odierna.

Oltre a questo, dal punto di vista totalmente intrattenitivo, è un film delizioso, nutrito di un’ottima ironia, spesso anche volutamente metanarrativa, sia sul mondo di Barbie, le sue dinamiche e la sua storia, sia per le interazioni della protagonista con il Mondo Reale.

Insomma, guardatelo e fatevi una vostra opinione.

Un mondo perfetto?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno degli elementi più geniali di Barbie è la rappresentazione di Barbieland.

Si sarebbe potuta scegliere una blanda messinscena del mondo di Barbie come semplicemente una realtà più colorata e da sogno, ma sostanzialmente verosimile. E invece Barbieland è esattamente un giocattolo a grandezza naturale.

Tutto è di plastica, tutto è finto: dalle bottiglie non escono liquidi, il cibo è già pronto, le onde sono di plastica e non esistono le scale, ma solo gli scivoli e le mani invisibili dei bambini che muovono le bambole.

L’incrinatura di questa perfezione arriva quando appaiono i Ken in scena.

Margot Robbie, Ryan Gosling e Simon Liu in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

In questo senso il film lavora su due livelli: storico-sociale e metanarrativo.

Infatti, Ken come giocattolo nasce proprio come accessorio di Barbie, la vera protagonista della storia, tanto che molte delle bambine che ci hanno giocato si ricorderanno come il compagno maschile apparisse del tutto superfluo, facilmente sostituibile da altri generici personaggi maschili.

Dal punto di vista invece storico-sociale, i Ken sono sostanzialmente il corrispettivo delle donne nel Mondo Reale – ovviamente in maniera molto semplificata, e anche con riferimento ad epoche molto meno felici della nostra storia, senza quindi voler fare un parallelismo così netto.

I Ken vivono sostanzialmente in funzione delle Barbie che comandano il mondo, non hanno una propria casa – quindi una propria indipendenza economica – non hanno nessun merito e nessun riconoscimento dalle stesse, e appaiono anche piuttosto superficiali e sciocchi – proprio perché non hanno i mezzi e il background necessario per essere altrimenti.

Insomma, vivono oppressi in un matriarcato.

L’intrusione del tragico

Kate McKinnon in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’intrusione del tragico nella vita di Barbie è dovuta alla sua stretta correlazione con la bambina che gioca con lei.

Proprio per il fatto che Barbie, per sua natura, permette alle bambine di essere quello che vogliono, le stesse riversano nel gioco anche i loro sentimenti. Nel caso di Gloria, le insoddisfazioni e le paure di una bambina ormai cresciuta, che vive nell’ombra del modello irraggiungibile di Barbie.

In questo senso, anche vista la proposta della protagonista umana sul finale, la pellicola denuncia le pressioni sociali della donna contemporanea, spesso frustrata da modelli irraggiungibili – reali o ideali – che le impediscono di vivere ed essere felice anche nella sua ordinarietà.

Anche in questo caso si parla di un discorso molto semplicistico e volutamente accessibile, ma che racconta come il femminile a livello sociale non abbia ancora trovato la sua dimensione mediana, ma di come sia continuamente spinto a riconoscersi in modelli predefiniti – madre, donna in carriera, puttana – senza la possibilità di una via di mezzo.

L’oggettificazione

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’arrivo della protagonista nel Mondo Reale è una delle parti più riuscite del film.

La forza di questa sequenza è che non si parla mai esplicitamente di cat calling o oggettificazione – anzi, è la parte meno didascalica del film – ma si sceglie piuttosto di raccontare le sensazioni che prova una donna all’interno di un mondo ancora dominato dal punto di vista maschile.

Il corpo della donna, volente o nolente, è sempre un oggetto di discussione.

Nonostante Barbie scelga degli outfit normalissimi – anche se datati nonostante non voglia essere un oggetto sessuale, lo diventa comunque: continue allusioni, battute dirette, anche con la volontà di far sentire in colpa la vittima della situazione per non accettare dei complimenti.

Una realtà che purtroppo è incredibilmente reale e che porta spesso le donne a non sentirsi libere di vestirsi come meglio credono…

Alla scoperta di patriarcato

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il percorso di Ken richiede tutto un discorso a parte.

Ken, come detto, parte da una situazione di totale svantaggio ed esclusione sociale, vivendo appunto totalmente in funzione di Barbie – e delle donne in genere.

Appena approda nel Mondo Reale capisce che esiste una realtà dove, tutto sommato, non viene discriminato, ma anzi accettato e glorificato, in cui trova anche una coesione sociale con gli altri uomini, non divisi dalle invidie per le attenzioni di Barbie come in Barbieland.

Ovviamente anche in questo caso è una visione semplicistica e funzionale alla storia, nonché apertamente comica.

Ryan Gosling, Ncuti Gatwa e Kingsley Ben-Adir in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il risultato è, tuttavia, quello di sostituire un mondo ingiusto con un’altra realtà ancora ingiusta, ma in senso contrario: non sono più le donne a dominare il mondo, ma gli uomini, con le figure femminili che diventano del tutto ancillari e, di fatto, totalmente accessorie.

Tuttavia, appare evidente come lo stesso patriarcato danneggi gli uomini stessi: ubriacati in questo sogno di potenza, oltre a non rispettare le donne, sono così sicuri di sé stessi da apparire di fatto ridicoli e, soprattutto, facilmente manipolabili.

Oltretutto, l’odio intestino che sembrava essere risolto con l’avvento del patriarcato, in realtà è ancora più radicato, in una competizione per l’invidia e il possesso delle loro compagne che sfocia in una vera e propria guerra.

Il femminismo intergenerazionale

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno dei discorsi più interessanti di Barbie è il femminismo intergenerazionale.

La figura di Barbie, modello per la generazione precedente – Millennials e Gen X – viene del tutto rigettata dalla Gen Z, rappresentata da Sasha, che vede in questa icona molto controversa più gli elementi negativi che positivi.

Effettivamente Barbie è di per sé una figura contrastante: nata – come ci spiega l’inizio del film – anche con l’obbiettivo di dare alle bambine una prospettiva diversa sulla loro vita e il loro futuro, al contempo ha rappresentato negli anni un modello irraggiungibile di perfezione femminile.

America Ferrera in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Per questo Sasha la respinge in toto.

Tuttavia, la ragazzina col tempo si ricrede e infine accetta il modello che ha definito la crescita e la consapevolezza della madre – e quindi della generazione precedente – arrivando, su un altro piano, ad accettare le conquiste di un femminismo forse più datato, più controverso, ma assolutamente essenziale per le conquiste presenti e future.

E, anzi, come abbiamo visto sopra, proprio questa esperienza spingerà sia Barbie che Gloria a riscrivere in un certo senso l’icona della Mattel in qualcosa di più inclusivo.

Le strade si dividono

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il finale di Barbie è uno degli elementi più controversi del film.

La parte apparentemente più problematica è quella di Ken: con una lunga – e già iconica – canzone, il protagonista maschile esprime i suoi sentimenti e racconta di come si senta sempre il numero due, sempre messo da parte, vivendo in una costante insoddisfazione.

Per questo Barbie viene in suo aiuto con una riflessione che serve ad entrambi: la scelta di evadere i modelli, i simboli che sembravano definirli – sia nel patriarcato che nel matriarcato – ed intraprendere invece un percorso che li porti alla scoperta di una propria identità.

Insomma, come Ken ha un risveglio di coscienza grazie alle parole di Barbie – che ammette anche i suoi errori nell’averlo dato per scontato – allo stesso modo le Barbie, che erano state manipolate per accettare la semplicità del patriarcato, proprio come le donne di ieri, diventano consapevoli dell’ingiustizia della nuova realtà e decidono di ribellarsi.

E qui arriviamo al punto più discusso del film.

Nonostante non abbiano fatto lo stesso percorso di Barbie, anche le altre donne di Barbieland sono più consapevoli, e capiscono che non possono tornare in toto ad una realtà matriarcale ed esclusiva come quella in cui vivevano precedentemente.

Tuttavia, davanti alle richieste dei Ken di acquisire finalmente un ruolo di potere fondamentale, la Presidentessa sceglie invece di dargli un piccolo ruolo amministrativo – quello che potremmo definire ministero senza portafoglio.

Al che segue la seguente battuta della voce fuori campo:

Well, the Kens have to start somewhere, and one day the Kens will have as much power and influence in Barbieland as women have in the Real World.

I Ken devono pur cominciare da qualche parte, e un giorno avranno tanto potere ed influenza in Barbieland di quanto ne hanno le donne nel Mondo Reale.

Barbie finale spiegazione

La battuta è volutamente ironica e cattiva, e vuole raccontare quanto il problema delle discriminazioni e dell’inclusione sociale non si risolve per magia o con i buoni sentimenti, ma che serve un lavoro duro, continuativo e difficile, anche solo per arrivare ad un briciolo di parità sociale.

E, secondo me, è la scelta perfetta.

Sia perché non porta in scena una risoluzione ideale, nonché totalmente irrealistica e poco consapevole, sia perché non si sbilancia nella glorificazione femminile – in un film già molto sbilanciato in quel senso: in situazione analoga a quella del patriarcato, le donne avrebbero altrettanta difficoltà cedere i propri diritti e il proprio potere quanto gli uomini di oggi.

Un concetto che vuole ancora una volta dimostrare come non sia un problema od una colpa da addossare agli uomini in quanto uomini – come purtroppo certe correnti femministe si ostinano a sostenere – ma piuttosto un problema sistemico e sociale che va risolto dalle fondamenta.

La scelta di Barbie

Ryan Gosling e Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

La scelta finale di Barbie è forse la parte ancora meno compresa della pellicola.

Dopo aver vissuto nel Mondo Reale, con le sue difficoltà e incomprensioni, Barbie man mano durante la pellicola si libera sempre di più di quegli elementi e simboli che la definivano nell’apparentemente perfetto matriarcato in cui viveva – e che non voleva cambiare.

Una scelta sempre più consapevole di cercare la propria identità altrove rispetto al modello di Barbie Stereotipata – e quindi vuota – a cui si era rifatta per tutta la vita, scegliendo di vivere in un mondo molto più difficile ad antagonistico, ma che le offre anche molte alternative.

Ed è ancora più indovinato il finale in cui la novella Barbara sceglie come primo passo di farsi visitare dalla ginecologa, ad indicare come non sia immediatamente fatta assorbire dal modello capitalista per cui il valore di una persona passa dal suo lavoro.

Piuttosto la protagonista sceglie di scoprirsi in questo nuovo corpo, diventando finalmente più consapevole e serena per lo stesso.

Barbie 2023 citazioni

Barbie è un film pieno di citazioni ad altre pellicole.

Ecco le più interessanti.

Quella più evidente è ovviamente 2001: Odissea nello Spazio (1968) nell’iconico incipit, che è stato usato come teaser trailer per il film stesso:

Quando Barbie sceglie il suo outfit all’inizio del film, è un evidente omaggio al teen movie Clueless (1995) – in Italia noto come Ragazze a Beverly Hills – nella famosissima scena in cui la protagonista si prepara per andare a scuola:

La scena danzante nella mega party di Barbie alla fine della sua giornata è un riferimento visivo alla fantastica scena in discoteca in La febbre del sabato sera (1977):

All’inizio del film si cita anche Matrix (1999): invece che fra la pillola blu o la pillola rossa, Barbie deve scegliere fra la Birkenstock e Scarpa col tacco:

Nella scena in cui Barbie torna a Barbieland e vede i Ken giocare a pallavolo, si cita la scena analoga in Top Gun (1986):

Infine, l’ormai iconica scena di ballo della canzone I’m just Ken è un mix di riferimenti a Singin’ in the rain (1952) e Grease (1978):

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American Psycho – L’uomo impossibile

American Psycho (2000) di Mary Harron è uno dei più grandi cult del nuovo millennio, nonché la pellicola che lanciò Christian Bale, grazie alla sua fantastica ed indimenticabile performance.

Con un budget veramente risicato – appena 8 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale, nonostante il riscontro economico assai ridotto: 34 milioni di dollari

Di cosa parla American Psycho?

Patrick Bateman è un consulente finanziario in una grossa azienda, in costante competizione con i suoi colleghi per essere il migliore, e con diversi scheletri nell’armadio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere American Psycho?

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Sì, ma…

Non stupitevi se all’inizio non ci capirete nulla: American Psycho è un film anche volutamente oscuro, che riesce a spiegarsi solo nel finale, ma lasciando in realtà aperte moltissime porte per l’interpretazione, in una voluta ed enigmatica ambiguità…

Tuttavia, è un cult non per caso: già solamente l’interpretazione veramente indimenticabile di Christian Bale vale la visione.

Anche se personalmente ho apprezzato di più altri prodotti che trattavano tematiche simili – come Il potere del cane (2021) o Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970).

Ma voi guardatelo e fatevi la vostra opinione.

Fit in

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Il mondo di Bateman è il mondo dell’apparire.

La totale ostentazione, definita da alcuni simboli ricorrenti: il biglietto da visita, gli abiti firmati, le carte di credito, e soprattutto, il riuscire a prenotare un tavolo al Dorsia, uno dei ristoranti più esclusivi.

E fin da subito Evelynn è la voce della ragione, che descrive perfettamente il personaggio: nonostante odi il suo lavoro, vi si impegna moltissimo, e non vuole lasciarlo – anche se probabilmente potrebbe trovarne facilmente un altro.

Il motivo?

Because I want to fit in

Perché io voglio far parte di qualcosa.

L’identità perduta

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Proprio per il suo esasperante tentativo di integrarsi, in realtà Patrick perde la propria identità.

Infatti, viene scambiato da Paul Allen per un suo collega, tanto sono identici nel modo di vestire, di mostrarsi e di pettinarsi. Ma comunque sceglie di mantenere quella maschera, perché di fatto la sua è un’identità intercambiabile.

Lo racconta molto bene la scena dei biglietti da visita: nonostante tutti i presenti cerchino di superarsi l’un l’altro con le grafiche e i font più smaglianti, in realtà sono uno uguale all’altro – stessa scritta, stesso ruolo…

La donna oggetto

American Psycho esaspera intelligentemente il concetto di oggettificazione della donna.

Infatti Patrick passa da una donna all’altra senza farsi particolari problemi, consapevole, anzi, in realtà, felice che la sua fidanzata lo stia tradendo, dal momento che lui sta facendo altrettanto.

Le donne che si muovono in scena sono quasi indistinguibili: bionde, belle, disperate, ognuna oggetto del desiderio di Patrick.

Ma non un desiderio sessuale.

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Patrick Bateman è con ogni probabilità un omosessuale represso.

Lo dimostra molto bene la scena in cui cerca di uccidere il tanto odiato Luis Carruther, e lo stesso interpreta il suo come un approccio sessuale. Da un personaggio con la mascolinità così esplosiva come Bateman, ci si aspetterebbe una reazione violenta.

E invece Patrick è visibilmente spaesato.

Come se questo non bastasse, è evidente che per lui il corpo femminile è solo un corpo da possedere, da ogni punto di vista, in cui sfogare i suoi impulsi violenti, da usare sessualmente solo come riprova sociale…

Sogno…

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Il finale sembra raccontarci che tutto quello che abbiamo visto è un delirio ad occhi aperti di Patrick.

Secondo questa interpretazione, l’unica violenza che è effettivamente avvenuta è quella che non abbiamo visto: quando Patrick porta per la prima volta le due prostitute in casa, la violenza che evidentemente si è svolta non viene mai mostrata.

Al contrario, tutte le altre sono presentissime in scena, e sono al limite del gore e della pornografia, ma in realtà, per come ci racconta il film, non sono altro che delle fantasie del protagonista, che non è mai riuscito a realizzare.

Anche se…

…o indifferenza?

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Un’altra interpretazione che ho maggiormente apprezzato è quella che mi ha fatto avvicinare questa pellicola a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

Secondo questa lettura, in realtà la violenza, le uccisioni, sono realmente avvenute, e rappresentano la vera faccia della realtà aziendale e sociale in cui il protagonista è immerso: bellissima e smagliante all’esterno, violenta e distruttiva all’interno.

E per questo il fatto che nessuno creda alla confessione di Patrick, ma che anzi si racconti che si sia immaginato tutto, rappresenta la generale indifferenza di quel mondo verso quella violenza che è, in realtà, del tutto ordinaria.

A voi la scelta.

American Psycho meme

Lo ammetto: ho scoperto American Psycho prima di tutto dai meme.

Quello più in voga e più immediato è la scena, già ironica all’interno della pellicola, in cui Bateman cammina con faccia seria e di bronzo per l’ufficio, ascoltando Walking on the Sunshine, su cui sono state ridoppiate moltissime altre musiche:

Ma un altro che adoro è quello del dialogo finale fra Bateman e il suo avvocato, che si può ovviamente riproporre in diverse situazioni, ma questa è la mia preferita:

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Il castello errante di Howl – Il gioco delle maschere

Il castello errante di Howl (2004) è uno dei miei prodotti preferiti di Miyazaki, nonché di uno dei progetti più ambiziosi del maestro nipponico.

A fronte di un budget non particolarmente sostanzioso – 2,4 miliardi di yen, circa 24 milioni dollari – fu un incredibile successo commerciale, incassando 236 milioni di dollari. In Italia uscì nel 2005 e in DVD nel 2006, il primo film Ghibli distribuito dalla Lucky Red.

Di cosa parla Il castello errante di Howl?

Sophie è una modesta cappellaia di paese, che sembra non voler abbandonare il negozio di famiglia. Ma la sua vita prenderà una via inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il castello errante di Howl?

Testa di rapa e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Ammetto che dopo una recente revisione de Il castello errante di Howl l’avevo un po’ rivalutato in negativo, per via di alcuni snodi di trama che mi sembravano poco chiari e comprensibili.

In realtà, rivedendolo, mi sono resa conto che, comprendendo la chiave di lettura, tutto assume un senso.

Oltre a questo è un superbo film di avventura, con un world building paragonabile per bellezza solo a La città incantata (2001), ma che prende strade nuove e anche più importanti, pur con temi comuni.

Insomma, non ve lo potete perdere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il castello errante di Howl è incredibilmente basso.

Come detto, questo fu il primo film distribuito dalla Lucky Red e anche il primo doppiaggio dello Studio Ghibli curato da Cannarsi. Proprio perché era agli inizi e non aveva neanche tutto questo potere decisionale, fece un lavoro incredibilmente accettabile.

Ovviamente non mancano gli arcaismi, i dialoghi che suonano a tratti artificiosi, ma niente che vi porterà a voler abbandonare la visione.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Un’origine modesta

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

L’incipit racconta anche solo visivamente il carattere della protagonista.

Una ragazza dall’aspetto e dai comportamenti molto riservati e modesti, che si scontra continuamente con il carattere e l’estetica molto più chiassosa delle altre donne della sua vita, soprattutto la madre e la sorella.

In particolare la sorella, ragazza piacente e corteggiata da molti uomini, si oppone all’idea della sorella maggiore di rimanere per sempre ancorata al suo nido paterno, per condurre una vita riservata e senza grandi sorprese.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per questo l’incontro con Howl è così sconvolgente.

Il mago è infatti un personaggio emotivo e travolgente, che trascina improvvisamente Sophie nella sua vita. Una vita fatta di fughe e di colpi di scena, in cui la protagonista sembra costantemente di star partecipando ad un gioco di cui tutti conoscono le regole, tranne lei.

Ovviamente Sophie è subito – comprensibilmente – folgorata, ma si lascia anche abbastanza facilmente l’accaduto alle spalle.

Una nuova maschera

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Il primo incontro-scontro con la Strega delle Lande è tanto più determinante.

Sophie mostra abbastanza in fretta di non essere così tanto docile come potrebbe apparire, reagendo piuttosto fermamente alla scortesia della donna. Potrebbe sembrare che questo suo comportamento sia il motivo della maledizione…

…ma non è così.

La strega, così come Howl, è un personaggio sfacciato e pieno di se stesso, così altrettanto indifferente delle conseguenze delle proprie azioni. Per questo, avrebbe comunque punito Sophie per aver aiutato il suo nemico.

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

In realtà, questa maledizione è un’opportunità.

Sia in senso positivo che negativo.

In senso positivo, Sophie può cambiare vita: la protagonista non ci mette molto ad accettare la sua nuova condizione, e si rifugia in realtà abbastanza divertita dietro una serie di luoghi comuni e battute frizzanti che il suo nuovo aspetto le permette.

In senso negativo, Sophie ha una nuova maschera dietro cui nascondersi: anche se riesce comunque a mostrarsi più intraprendente e decisa nel suo agire, in qualche modo finisce per trovare anche un altro rifugio per il suo tanto agognato quieto vivere.

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per questo, Sophie non è tanto diversa da Howl.

Con queste nuove vesti da vecchietta innocua ma decisa, si ritaglia il suo spazio nella vita del mago, senza arrendersi mai neanche davanti alle proteste degli altri personaggi.

Ma è ancora una volta un’apparenza dietro cui nascondersi, per celare tutta la sua insicurezza e paura, che non a caso emerge di tanto in tanto, anzitutto col primo (ri)incontro con Howl, mentre sta cucinando…

Una sfacciata apparenza

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Howl è un giovane favoloso.

All’apparenza è un uomo attraente e sicuro di sé, che si muove abilmente in tutte le situazioni della vita con anche una certa giocosità, fin dalla sua primissima apparizione quando si trova tampinato dagli sgherri della Strega delle Lande.

Questo aspetto viene ancora confermato, anche se in senso diverso, dalla sua attività segreta: scegliere di non allearsi per principio con il Re per combattere la guerra, ma boicottarla segretamente, mettendo in pericolo la sua stessa vita.

E proprio qui avviene il punto di svolta.

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Da un errore apparentemente innocuo – una tinta per capelli andata male – Howl svela la sua prima insicurezza.

L’ossessione per la bellezza esteriore.

Infatti basta questo piccolo ostacolo per farlo crollare in una profonda depressione, tale da annientarlo completamente e fisicamente, oltre a mettere in pericolo anche chi gli sta intorno. E in questo momento la sfuriata di Sophie è più fondamentale di quanto sembri…

Una svolta inaspettata

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Come un bambino imbronciato, Howl si chiude in camera sua.

Un contesto già in apparenza assai infantile – con molti giocattoli che ricordano quelli di Bō, il figlio di Yubaba, ne La città incantata – ancora più sottolineato dal suo non voler parlare e non accettare le cure di Sophie.

Tuttavia, Howl ha già imparato qualcosa.

Ha accettato almeno una parte del suo aspetto, scegliendo di non tingersi più – neanche successivamente – i capelli, ma mantenere il suo aspetto originale. Insomma, la sfuriata di Sophie contro la sua vanità incontrollata ha avuto un inaspettato effetto positivo.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Inoltre, da questo momento Howl comincia a fidarsi di Sophie.

Per quanto sia probabile che Howl abbia riconosciuto subito la ragazza appena se l’è trovata in casa, proprio la notte che torna dal combattimento la vede addormentata col suo vero aspetto, e così conferma il suo sospetto.

E per questo, consapevole della determinazione della protagonista, le affida una missione importante per riuscire ad affrontare faccia a faccia Madame Sullivan, non essendo capace lui stesso di fronteggiare le trappole della maga.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

E infatti, in un gioco delle parti piuttosto intraprendente, Howl entra nel luogo che aveva da così tanto tempo avuto paura di penetrare.

Sia lui che Sullivan sono fin da subito consapevoli di star giocando – Howl sa che Sullivan l’ha riconosciuto – ma è l’unico modo per cui il mago riesce finalmente a dire alla sua ex-maestra che non vuole prendere parte a questa guerra.

Ovviamente la maga non si arrende così facilmente, e cerca di insidiarlo con diverse e spaventose illusioni, in cui lui rischia inevitabilmente di soccombere, se non fosse ancora una volta per l’intervento di Sophie.

La lenta trasformazione

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

La prova del palazzo è un punto di svolta anche per Sophie.

È infatti il primo momento in cui la protagonista esprime apertamente i suoi sentimenti felici, che la fanno ritornare improvvisamente al suo vero aspetto. Aspetto che è per tutto il tempo sotto gli occhi di tutti, ma che lei è l’unica a non voler accettare.

Dal rientro al castello, Sophie comincia piano piano ad abbandonare la sua maschera, ringiovanendo lentamente, ma visibilmente:

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Da questo momento Howl comincia sempre di più a mostrare il suo amore e la sua riconoscenza verso la ragazza: non solo col trasloco le dà una stanza tutta per sé, ma con lo stesso ricrea la casa natale della protagonista.

Ma il picco è il rifugio nella natura.

Il mago le fa questo meraviglioso regalo, che la fa scoppiare di felicità, facendola ritornare improvvisamente al suo aspetto reale. Nella stessa occasione Sophie prova anche ad esternare le sue paure, e Howl le risponde con forza per rassicurarla, ma riuscendo solo a farla rinchiudere di nuovo in se stessa.

Sophie  e Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Il momento effettivo è quando Sophie si rende conto delle intenzioni di Howl.

Quando infatti la protagonista accetta finalmente l’amore del mago, accetta di essere amata nonostante non sia bella, e quando altresì la paura la domina definitivamente, si ribella ai suoi stessi timori e prende in mano la situazione.

E ritorna definitivamente al suo aspetto.

Distruzione e costruzione

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Pur armata di grande determinazione sulle prime, Sophie è un personaggio umano, che quindi può sbagliare.

Anzitutto la protagonista accetta la sua vera forma, anzi sceglie di prenderne una nuova: regalare la sua treccia a Calcifer, e cambiando del tutto aspetto. Ed è anche il primo momento di distruzione di Howl, tramite il castello stesso, che rappresenta questa apparenza dietro a cui il mago continua a nascondersi.

Ma l’inseguimento non va a buon fine.

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Questo momento di apparente sconfitta – Sophie è convinta di aver ucciso Howl gettando l’acqua su Calcifer – in realtà è il momento della rivelazione. Grazie all’anello che l’amato le aveva regalato, la ragazza riesce a trovare Howl, scoprendo il suo segreto.

Sophie capisce così come salvare il mago da se stesso, ridonandogli quella vera natura che ha cercato di fuggire per tutta la vita – ovvero il suo cuore. E Howl è ancora più felice quando vede Sophie nella sua splendida, migliore forma.

La strega delle lande spiegazione

Nel terzo atto, le azioni della Strega delle Lande e Heel, il cane di Madame Sullivan sono apparentemente incomprensibili.

In realtà, sono facilmente spiegabili.

La Strega delle Lande ha vissuto tutta la vita con un solo obbiettivo: possedere Howl – le interpretazioni sul come vuole possederlo le lascio alla vostra immaginazione.

E neanche quando è privata dei suoi poteri, non si arrende.

Cerca infatti giocosamente di boicottare Howl, in modo da indebolirlo e potersene impossessare. Per questo dà in pasto l’insetto spione a Calcifer – che viene annientato e non può più proteggere la casa.

Infatti per questo il castello viene preso di mira, portando Howl a tornare e ad intestardirsi nel difenderlo, ma essendo anche in costante difficoltà.

E infatti alla fine riesce a prendere possesso del cuore.

Strega delle lande il castello errante di Howl

Perché Howl non la caccia?

Ci possono essere varie motivazioni, ma una in particolare è la più comprensibile: come Chihiro in La città incantata, Howl ha la capacità di vedere la vera natura delle persone – e non solo.

Per questo si rende conto che la Strega, ormai senza poteri, non può fargli del male e che non ha neanche effettive cattive intenzioni: è semplicemente ossessionata, ma anche pronta ad arrendersi per il bene di Howl stesso.

Heel il castello errante di Howl

Heel in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per lo stesso motivo, Howl non caccia Heel.

Per quanto abbia paura di Sullivan, Howl è anzitutto sicuro di essere protetto dalla sua magia e da Calsifer, quindi accetta quasi giocosamente di avere la maga alle calcagna – avendo fra l’altro la testa su tutt’altro obbiettivo.

Ma, soprattutto, Howl capisce le vere intenzioni del cagnolino, che è naturalmente riconoscente a Sophie, di cui ha visto la natura generosa e temeraria, e che per questo non vuole boicottare – e infatti non lo fa.

Il castello errante di Howl rapa

Una storia molto secondaria è quella di Testa di Rapa.

Un personaggio apparentemente molto di contorno, in realtà fondamentale in molti momenti: dopo che Sophie l’ha salvato, le fornisce un aiuto per camminare, le trova una casa e le recupera anche lo scialle.

E, oltre alla tenerissima scenetta in cui la aiuta col bucato, è il personaggio che di fatto salva la vita a tutti i personaggi quando stanno per cadere in un dirupo, mettendosi lui stesso in pericolo…

E, proprio in quel momento, Sophie gli dimostra finalmente affetto e lui può tornare alla sua vera forma così da fermare la guerra, pur dovendo accettare un amore non ricambiato…

Anche dal punto di vista artistico, Il castello errante di Howl è uno dei prodotti che più apprezzo della filmografia di Miyazaki.

Insieme a Yubaba, Sophie nella sua versione anziana è uno dei migliori visi anziani gestiti nella filmografia del maestro, ricchissimo di particolari e con delle animazioni stupefacenti:

Nonostante per i personaggi di Howl e Sophie – da giovane – Miyazaki utilizza dei modelli piuttosto standardizzati, senza particolari note di merito, non manca una cura particolare nei dettagli e nell’uso delle ombre, oltre che nel loro cambiamento durante il film:

Ma uno dei punti più alti è sicuramente la rappresentazione degli ambienti, sia esterni che interni.

Il castello in particolare è pieno zeppo di particolari, sia nella sua visione esterna che interna, sopratutto nei momenti di distruzione e cambiamento:

Così mi ha sempre fatto sognare la bellezza e la profondità con cui Miyazaki è riuscito a raccontare visivamente gli spazi esterni, in particolare la città reale:

Ma forse quello che mi piace di più di questo film è la rappresentazione del cibo e soprattutto dei personaggi che lo mangiano:

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La principessa Mononoke – Caos naturale

La principessa Mononoke (1997) è il primo film del terzetto delle opere più ambiziose di Hayao Miyazaki – insieme ai successivi La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004).

Una pellicola che ottenne un ottimo riscontro internazionale, raddoppiando i risultati commerciali finora ottenuti da Miyazaki: a fronte di un budget di circa 23 milioni (2,1 miliardi di yen), ne ha incassò quasi 170 in tutto il mondo.

Di cosa parla La principessa Mononoke?

Il giovane principe Ashitaka rimane vittima di un attacco da parte di un cinghiale-demone, che lo porta a cercare una cura lontano da casa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La principessa Mononoke?

La principessa Mononoke e Moro in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Anche se devo ammettere che è uno dei prodotti non solo più complessi, ma anche più impegnativi di Miyazaki, è comunque un’opera piena di fascino, che racchiude la totalità dei temi cari a questo regista, raccontati però in una forma più matura.

Una trama piuttosto intricata, affollata di tanti e diversi personaggi, focalizzata sulla tematica dell’ambientalismo, ma anche sulla caoticità, imprevedibilità, nonché la temibilità della natura, e delle conseguenze del provare a distruggerla…

Insomma, non un film facile, ma un film da vedere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di La principessa Mononoke il pericolo è medio-alto.

Infatti, il doppiaggio è una barzelletta: oltre alle solite forzature, è il caso più iconico dell’incapacità di Cannarsi di scrivere degli adattamenti, con la traduzione del Dio della Foresta con Dio Bestia – e tutta l’ilarità correlata.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La natura caotica

La principessa Mononoke e Moro in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

La principessa Mononoke riprende alcune tematiche e dinamiche centrali di Nausicaä della Valle del vento.

Ma le riscrive con un’ottica del tutto nuova.

Se infatti nella sua opera prima Miyazaki rappresentava una natura vista come nemica e distruttiva, ma solamente perché gli umani non erano capaci di comprendere i danni che le avevano inferto, e il tentativo della stessa di curarsi.

Diversamente nella pellicola del ’97 la natura è semplicemente caotica, financo temibile: animali giganteschi e aggressivi, quasi preistorici, testardi ed indomabili, pronti persino a sacrificare sé stessi in nome della salvezza del proprio ambiente.

La principessa Mononoke e Okkoto di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

In particolare, le due divinità, la lupa Moro e il cinghiale millenario Okkoto: bestie enormi, ricchissime di particolari, dei capi saggi, ma anche incapaci di scendere a compromessi e sempre pronti ad aggredire il nemico – anche solo presunto.

Al contempo, Re della Foresta, che rappresenta la Natura, racchiude al proprio interno sia la vita che la morte, come si vede chiaramente dal suo incedere: nelle sue orme la natura sboccia immediatamente rigogliosa, ma altrettanto velocemente perisce.

La violenza chiama la violenza

Lady Eboshi in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Se la natura è violenza, l’umanità è distruzione.

L’ambientazione storica non è casuale: la pellicola si ambienta nel Periodo Muromachi (XIV-XVI sec.), in cui il Giappone vide un indebolimento del potere centralizzato, con una scena politica dominata invece dagli shōgun, i capi dell’élite militare.

Ma, soprattutto, fu l’epoca in cui il Giappone conobbe le armi da fuoco.

E infatti Lady Eboshi è proprio una shogun – una signora della guerra, se la volessimo dire all’occidentale – a capo della Città di Ferro, specializzata proprio nella produzione di queste armi moderne e micidiali.

Lady Eboshi in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Ma Eboshi è anche il personaggio più tridimensionale della pellicola.

Anche se apparentemente è solamente un capo spietato e senza cuore – come testimoniato dal fatto che non raccoglie neanche i cadaveri dei suoi uomini dopo il primo attacco dei lupi – si mostra anche come protettrice degli ultimi degli esclusi.

E infatti la sua città accoglie non solo gli uomini, ma anche i lebbrosi e le prostitute, i suoi veri sostenitori. Quindi si potrebbe dire che basa il suo potere sulle armi e sull’essere una sorta di capopopolo.

Ma è vera benevolenza o semplice sete di potere?

Due anonimi protagonisti

La principessa Mononoke e Ashitaka in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Come ho apprezzato Lady Eboshi come personaggio, ho molto meno gradito i due protagonisti.

Anche a fronte di uno screentime abbastanza ridotto per quelli che dovrebbero essere gli eroi della storia, li ho trovati molto più anonimi e bidimensionali di quanto si sarebbero meritati. Portano infatti sulle spalle entrambi tematiche e questioni piuttosto interessanti e non facili da trattare, ma si comportano anche con la massima ingenuità.

Da un certo punto di vista penso sia un aspetto anche voluto, per contrapporre agli antagonisti due eroi testardi e indomabili, effettivi motori della trama per molti tratti, così da seguire una strada tutto sommato semplice verso la conclusione, a fronte di una trama invece piuttosto complessa.

E a questo proposito…

Una trama (troppo) complessa

Forse anche nella sua volontà di voler rappresentare in maniera molto realistica e credibile il periodo storico scelto, Miyazaki ha scritto una trama per certi versi veramente troppo complessa.

E non era veramente necessario.

Infatti, si poteva facilmente alleggerire il lato degli antagonisti – non dovendo intrecciare addirittura tre gruppi di personaggi – e riequilibrare il lato invece degli eroi, offrendogli una maggiore personalità e tridimensionalità.

Soprattutto perché di fatto la storia non è di per sé così complicata, ma è stata inutilmente appesantita.

La principessa Mononoke e Ashitaka in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Nondimeno ho apprezzato molto il finale.

Il Dio sacrifica se stesso, dopo aver rischiato di distruggere la sua stessa foresta, e ridona il verde alla valle, concedendogli una seconda occasione per prosperare. E come spiega proprio Ashitaka, il Dio non è morto, ma è la vita stessa che continua a vivere e a rinascere.

I due protagonisti scelgono due vie diverse, per ricreare sia il mondo della Natura, sia la realtà degli uomini, con la speranza che possano coesistere in armonia. E l’apparizione del kodama alla fine fa ben sperare…

Cosa significa Mononoke in La principessa Mononoke

Anche se emerge molto meno nella traduzione sia italiana che inglese, Mononoke non è un nome proprio – e infatti la protagonista si chiama San – ma ha un significato preciso.

I mononoke ((物の怪) sono degli spiriti, in particolare spiriti maligni che prendono possesso di altri esseri viventi per causargli dolori e sofferenze.

In questo caso è possibile che si intenda la parola anche come yōkai, ovvero esseri soprannaturali del folklore giapponese, come termine ombrello per raccontare il mondo spirituale della foresta, con i suoi spiriti e i suoi dei (kami)

All’interno di un’opera così ambiziosa, era quasi scontato che il lato artistico di Miyazaki migliorasse ulteriormente.

Anzitutto, si vede un’interessante evoluzione nel rappresentare i volti femminili, riuscendo davvero a differenziare Lady Eboshi da San:

Fra l’altro il modello di Lady Eboshi è stata una rappresentazione talmente interessante per Miyazaki da utilizzarla in maniera quasi identica nel successivo La città incantata:

Al contempo, interessanti sperimentazioni per i volti maschili, evolvendo il modello di base utilizzato finora, che poi si ritrova sempre nel film successivo:

Ma soprattutto con l’introduzione di un modello del tutto nuovo, rappresentato in questo caso da Jiko-Bō, in La città incantata da vari personaggi maschili:

Ma le sperimentazioni più interessanti riguardano sicuramente la rappresentazione degli animali, ricchissimi di particolari e di tecniche del tutto nuove, che si evolveranno in maniera diverse sia in Il castello errante di Howl, sia in La città incantata:

E lo stesso vale anche per i corpi giganteschi e gelatinosi, qui per il Dio della Foresta, in la Città Incantata con il Senza-volto nella sua forma finale:

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Tàr – Andante impetuoso

Tàr (2022) di Todd Field è un film thriller che ha acquisito un’inaspettata popolarità nella stagione dei premi 2023. E questo anche per merito di un’attrice protagonista d’eccezione: Cate Blanchett.

A fronte di un budget (stimato) di 35 milioni di dollari, ne ha incassati finora appena 19 in tutto il mondo – ma c’era da aspettarselo per una pellicola di questo genere, quasi introvabile nei cinema italiani a due settimane dall’uscita.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Tàr (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attrice protagonista
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio
Migliori fotografia

Di cosa parla Tàr?

Lydia Tàr è una famosa e incredibile direttrice d’orchestra, che non si è mai fatto scrupoli nell’utilizzare la sua posizione a suo vantaggio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tàr?

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

Assolutamente sì.

Per quanto – per vari motivi – Tàr non sia esattamente un film per tutti i palati, per me è stata un’esperienza incredibile.

E lo è stata nonostante la durata piuttosto robusta (due ore e quaranta), che però non mi è pesata per nulla. Ed è stato possibile grazie al profondo coinvolgimento che mi ha regalato la pellicola, merito anche del montaggio frenetico e dell’incredibile interpretazione di Cate Blanchett.

Se vi appassionano i prodotti enigmatici e complessi, che lasciano spazio allo spettatore per portare le proprie conclusioni e giudizi, non ve lo dovete davvero perdere.

Una stronza?

Cate Blanchett e Nina Hoss in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

La protagonista è una stronza.

Ce lo racconta lo stesso film, mettendo in bocca questo giudizio ad un personaggio apparentemente positivo, ma che Lydia scredita totalmente, etichettandolo come il classico millennial che si nutre e si conforma alla narrazione dei social media.

Nonostante sia evidente – e lo diventa sempre di più nel corso della pellicola – che Tàr non sia una persona di specchiata moralità, non ho potuto che sentirmi vicina alla sua visione del mondo.

Infatti Tàr respinge totalmente un pensiero che cerchi di etichettare ed escludere determinati artisti per via delle loro posizioni politiche – senza considerare, fra l’altro, il contesto storico di riferimento. E lo fa indubbiamente in maniera assai tagliente ed aggressiva, ma esprimendo concetti che in gran parte mi sento di condividere.

Nonostante la stessa sia del tutto condannabile per le sue azioni.

Presagi oscuri

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

In qualche misura, la protagonista è consapevole di essere colpevole.

Lo si vede bene dal profondo contrasto fra gli ambienti puliti e meticolosi, che si scontrano con realtà invece disordinate, selvagge, pericolose. Un mondo di suoni e pericoli: le urla lontane di una donna al parco, il suono ritmico della macchina che tiene in vita una vecchia morente, oggetti che si spostano…

…e una costante sensazione di essere osservata.

Un sottosuolo di immagini – che spesso è davvero sottoterra – che rivela una realtà ben più marcia, che racconta la verità sulla protagonista. Una donna geniale e talentuosa, che però utilizzava – e utilizza – la sua posizione per ottenere dei favori sessuali, come un Harvey Weinstein qualunque.

E allora la pellicola ci mette davanti a due domande fondamentali

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

È giusto che Tàr non possa più dirigere un’orchestra?

È il solito discorso di distinguere l’artista dalla sua vita personale: un discorso per cui non esiste una risposta giusta. Con l’esclusione di Lydia, il mondo della musica ha perso una direttrice d’orchestra con un’abilità difficilmente ritrovabile altrove.

Ma d’altronde la colpa non è del colpevole?

Oltre a questo, possiamo ancora essere vicini alle sue idee, nonostante lei stessa sia parte del problema? Tàr può facilmente essere tacciata di ipocrisia e le sue opinioni potrebbero essere cancellate, svalutate. Ma in questo caso non sarebbe più giusto considerare le idee solamente come idee, non dando peso a chi le abbia formulate?

Un intreccio verboso

A latere, vale la pena di analizzare la messinscena.

Il film di Todd Field è scandito soprattutto da dialoghi frequenti e complessi: discorsi che confondono facilmente lo spettatore, ma che al contempo danno valore alla pellicola. Infatti quest’opera non vuole piegarsi ad una semplificazione a favore del pubblico, ma vuole anzi mettere in scena un mondo con le sue regole e i suoi discorsi, pure se complessi da seguire.

E il risultato è una rappresentazione realistica e credibile di una realtà lontana dalla maggior parte di chi guarda, con una rete di relazioni complesse, discorsi pieni di tecnicismi e riferimenti a prima vista incomprensibili.

E sta allo spettatore mettere insieme i pezzi.

Tàr spiegazione

In chiusura, un tentativo di spiegare per filo e per segno la storia di Tàr.

Lydia ha la brutta abitudine di cercare favori sessuali nelle persone a lei sottomesse, in cambio di supporto di altro tipo. Un comportamento ben noto nell’ambiente e ben chiaro nell’assegnazione delle borse di studio create da Tàr stessa per favorire le donne nel settore.

Krista era l’eccezione.

Con ogni probabilità la ragazza si era rifiutata di sottostare alle richieste di Lydia, e per questo aveva perso ogni possibilità di far carriera e di inserirsi in questo mondo – come le email ben testimoniano. Le stesse email sono la prova fondamentale per incastrare Tàr, motivo per cui la donna controlla il PC di Francesca per essere sicura che le abbia cancellate.

Cosa succede nel finale di Tàr

E la cosa le si rivolta contro.

Anche se non è del tutto esplicito, evidentemente Lydia aveva sedotto Francesca, arrivando infine – per motivi non chiari – a non darle il ruolo da lei tanto sperato. Così la stessa si è licenziata e ha consegnato alla polizia la corrispondenza fra Tàr e Krista.

Contemporaneamente, Tàr cerca di far entrare nelle sue grazie Olga, la talentuosa violoncellista cui assicura l’assolo. Anche con lei prova ad avere favori sessuali, ma la ragazza si sottrae esplicitamente, in particolare quando rifiuta l’invito a cena, ma poi comunque esce la stessa sera senza dirle nulla.

Le motivazioni potrebbero essere duplici: Olga potrebbe aver scoperto, tramite il video incriminante sui social, le accuse nei confronti della donna e per questo l’avrebbe evitata.

Al contempo, data la sua posizione già di per sé privilegiata, potrebbe non aver considerato conveniente sottomettersi alle sue richieste.

Infine Lydia viene condannata, viene esclusa dalla Filarmonica di Berlino – nonostante cerchi di riprendersi violentemente il posto – e la moglie le toglie la possibilità di vedere la figlia. Infine è costretta a ricostruire la sua immagine, cominciando dalla direzione di un’orchestra in evento di fan di Monster Hunter.

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Fight Club – Distruzione e rinascita

Fight Club (1999) di David Fincher è stato il quarto film della sua carriera, nonché uno dei maggiori titoli di culto da lui diretti, insieme a Seven (1995).

Con un budget simile a quello del titolo da lui precedentemente diretto (The Game) – 64 milioni di dollari – fu anche in questo caso un discreto flop: poco più di 100 milioni di incasso. Infatti, il culto intorno a questa pellicola nacque solo con il suo rilascio in home video.

Di cosa parla Fight club?

Il protagonista, dal nome ignoto, è il classico impiegato frustrato dal lavoro e dalle aspettative della società. Grazie all’incontro con l’enigmatico Tyler, la sua vita cambierà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fight club?

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Sì, e con attenzione.

Fight club è un film terribilmente denso di contenuti, di spunti narrativi e di riflessioni su una realtà sociale che è ancora drammaticamente attuale – forse anche più del momento in cui fu girato il film. Una narrazione e uno svolgimento che travolge lo spettatore, con un tocco surreale che non poteva mai mancare nelle prime produzioni di Fincher.

Insomma, se non l’avete mai visto, guardatelo senza informarvi oltre.

Dentro una casella

Edward Norton in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Il punto di partenza del protagonista è l’anonimato.

Ma un anonimato socialmente accettabile: è perfettamente incasellato nelle aspettative sociali, con un lavoro ordinario e monotono, scandito da una routine scialba e ripetitiva. L’unico sbocco di felicità sembra nella stabilità degli oggetti acquistati – o che la società in cui siamo immersi ci spinge a comprare.

Gli oggetti che rappresentano il nostro status sociale.

Particolarmente azzeccato è il racconto della nuova pornografia, rappresentata dal catalogo IKEA. Una dinamica che oggi potrebbe essere facilmente accostata al fenomeno di Tik Tok e degli influencer, che ci spingono a desiderare tanti – troppi – oggetti di cui non abbiamo nessun bisogno, ma che ci definiscono positivamente agli occhi degli altri.

Autodistruzione

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Inconsapevolmente stanco di questa condizione, il protagonista procede alla sua autodistruzione.

E, infine, alla sua rinascita.

Il primo passo è liberarsi da ogni elemento che lo definiva come uomo ordinario schiavo del consumismo capitalista, con un’azione violenta ma necessaria: dare fuoco a tutti i suoi possedimenti che gli facevano vivere una vita sicura e socialmente accettabile.

Ma anche un’esistenza miserabile.

E così sceglie un’altra strada, molto più folle, dissociata e isolata: una stamberga nella periferia della città, del tutto caotica nella sua struttura e del tutto diversa dal grigio appartamento in cui viveva prima – che, anzi, manca quasi dei servizi essenziali.

Il passo fondamentale che si accompagna ad un altro elemento cardine della sua rinascita: l’alienazione.

Alienazione

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Incapace di essere totalmente responsabile della sua scelta, il protagonista sceglie di mettere qualcun altro al centro della propria vita.

Tyler è una figura totalmente anarchica e distruttiva, cosciente di tutti gli inganni socialmente accettabili. Proprio per questo è un personaggio che è un continuo sabotatore, che inquina ogni ambiente che invade: le nuove indicazioni di emergenza sugli aerei, i frame porno nei film per bambini…

Al contempo, è anche una figura ammirabile, eroica, che riesce dove il protagonista sente di fallire, in particolare in due ambiti: il sesso e la violenza. E invece infine viene svelato come il protagonista fosse sempre stato al centro dell’azione, anche in contesti dove si era immaginato ai margini.

E l’ultimo atto, nel tentativo di totale distruzione di sé stesso, fallisce e invece porta al vero trionfo auspicato da Tyler – e quindi dal protagonista stesso.

La distruzione della società dalle fondamenta e dai suoi simboli.

Cos’è il Fight club?

Il Fight club che dà il titolo al film è molto più importante di quanto potrebbe sembrare.

In prima battuta il protagonista, per risolvere la sua insonnia e quindi la sua ansia sociale di essere sempre attivo e presente, sceglie di frequentare degli spazi sicuri in cui può lasciarsi andare, dove è socialmente accettabile piangere anche per un uomo, dove si può essere veramente ascoltati.

Una scelta che gli permette di continuare il suo ruolo sociale.

Jared Leto e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Il Fight club è un ribaltamento di queste realtà.

Altrettanto sicuro e protetto, ma anche privo di regole, tranne una: tutti possono e devono combattere, senza pagare nulla, ma il combattimento termina quando uno dei combattenti lo chiede.

Di fatto, è il luogo dove chiunque può decidere di sfogare le sue ansie sociali, essere libero dalle proprie ansie e problemi – e secondo i suoi tempi.

Ma anche senza trovare una soluzione agli stessi.

Il significato del sapone in Fight club

Il sapone è uno degli elementi cardine e racconta molto bene il tema di fondo del film stesso.

Infatti, se pensiamo ad una saponetta, ci vengono in mente concetti come pulizia, candore, bellezza. Ma sappiamo veramente di cosa è fatto quel sapone? In Fight club i due protagonisti fanno i soldi creando del sapone dai disgustosi scarti industriali, proprio quelli di cui la società si vorrebbe liberare.

Proprio per questo, il sapone rappresenta la società stessa: vuole apparire splendida e desiderabile all’esterno, in realtà è composta dal marciume e dagli scarti, sorretta proprio da quegli elementi umani che cerca di emarginare, che in realtà sono il motore della società stessa.

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White noise – Un puzzle incompleto

White noise (2022) di Noah Baumbach è una produzione Netflix di genere difficilmente definibile: mischia una sorta di surreale e disaster movie con una forte riflessione di fondo. Dal regista di Storia di un matrimonio (2019) personalmente mi aspettavo un film simile, se non superiore in qualità.

Non è stato così.

Di cosa parla White noise?

Jack è professore di Hitlerologia, facoltà da lui stesso fondata, e vive la sua vita fra il matrimonio apparentemente felice con Babette e il suo successo accademico. Ma qualcosa di inaspettato metterà in moto una serie di eventi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere White noise?

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Probabilmente no.

Il problema di questo film è che non è di per sé un film brutto, ma una bella costruzione con spunti narrativi anche interessanti…che però non vengono effettivamente portati fino in fondo.

Quindi personalmente non mi sento di consigliarlo, perché in ultimo mi ha lasciato con un cattivo sapore in bocca, di aver visto qualcosa di non finito…

Aprire bellissime porte…

Adam Driver, Don Cheadle e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Il primo atto del film racconta una bellissima costruzione tematica, con tre elementi: il fascino dell’incidente stradale, il potere delle icone e la morte.

Il film propone un interessantissimo parallelismo – quasi accademico – fra questi elementi, che sfocia nell’intrigante montaggio alternato in cui Jack viene acclamato per il suo discorso, e si alternano immagini del discorso di Hitler, della folla concitata di Elvis e dell’incidente stradale che sta al contempo avvenendo.

Ero veramente affascinata da questa costruzione e mi aspettavo...

…qualcosa che non è mai arrivato.

…e aprirne altre ancora

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Nel secondo atto il film mette in scena un secondo tassello: l’incidente stradale e la conseguente piccola apocalisse.

Per la maggior parte le scene sono interessanti e ottimamente dirette, con una fotografia pazzesca, costruiscono una discreta tensione, gettano degli spunti di parallelismo uno dei figli di Jake, che intrattiene la folla con un parallelismo ancora una volta con Hitler…

E basta.

Questi semi, insieme a tutti gli affascinanti discorsi iniziali, non portano di fatto a nulla.

Qual è il punto?

Adam Driver n una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Arrivati al terzo atto, ero nella totale confusione.

Mi sembrava che mi mancasse qualcosa, o che stesse per succedere qualcosa che avrebbe dato un senso a tutta la narrazione e a tutto quello che era stato raccontato fino a quel momento. Invece mi sono trovata ancora una volta davanti ad una messinscena veramente interessante, ma che di fatto portava il film ad essere una sorta di narrazione tematica sulla paura della morte.

Elemento che era anche accennato all’inizio, ma che appariva complessivamente l’elemento meno interessante di tutto il racconto.

E la mia confusione si può ben raccontare da una battuta del film stesso:

What’s the point I want to make?

Anderson, sei tu?

Se anche voi avete avuto una strana sensazione di déjà-vu, la motivazione è semplice: per alcuni elementi sembra un film di Wes Anderson.

In particolare, i bambini molto più intelligenti e avuti per la loro età.

E non è così strano se si pensa che Noah Baumbach è stato sceneggiatore di due film di Anderson – Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Fantastic Mr. Fox (2009). Non un aspetto che mi ha dato fastidio di per sé, però un altro elemento utile alla tram fino ad un certo punto…

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Bardo – Alla ricerca del nulla

Bardo La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu è un film di genere surreale misto al biopic, prodotto e distribuito da Netflix. Il regista, che ha avuto il suo successo internazionale con Birdman (2014) e The Revenant (2015), torna sui suoi passi con un’opera più intima e personale.

Forse anche troppo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Bardo – La cronaca falsa di alcune verità (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliore fotografia

Di cosa parla Bardo?

Silverio è un giornalista e documentarista messicano, che verrà premiato negli Stati Uniti per il suo ultimo documentario. E questo gli crea diversi ripensamenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bardo?

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Tendenzialmente, no.

Avendo avuto già una complessiva piacevole esperienza con il cinema di Iñárritu, riesco ad essere leggermente più morbida nella valutazione di questa pellicola, e non cadere nel totale respingimento come era stato per Madre! (2017).

E per certi versi i due film non differiscono molto.

Mi sono trovata davanti, in entrambi i casi, a due prodotti con un’interessante idea alle spalle, che però il regista è stato incapace di portare sullo schermo in maniera veramente interessante, diventando eccessivo e inutilmente ridondante.

È il classico film che potrebbe essere adorato da alcuni, anche per affezione nei confronti del regista, e invece odiato da altri. Se vi sentite molto vicini al suo cinema e ad Iñárritu umanamente parlando, e sopratutto vi piacciono i film con taglio profondamente onirico e surreale, potrebbe anche piacervi.

Io, personalmente, non lo consiglio.

Il problema del surreale

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Il genere surreale è uno dei miei preferiti, a livello davvero crossmediale: che sia cinema, fumetti, libri, è un taglio narrativo che apprezzo quasi sempre.

Proprio amandolo così tanto, sono anche consapevole che sia un’arma a doppio taglio: alla base di un racconto di questo tipo ci deve essere un’idea forte, che funzioni, e che riesca ad essere distribuita organicamente all’interno di una storia.

E non è così semplice.

Se non si riesce a gestirla con la giusta capacità e intelligenza, si rischia facilmente di andare ad impelagarsi in una narrazione che appare fine a se stessa, che magari ha un significato di base, ma che alla fine non si riesce a trasmettere.

E questo è un po’ tutto il problema di questa pellicola.

Inaccessibile

Daniel Giménez-Cacho García e Fabiola Guajardo in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Per quanto un autore voglia arroccarsi nella sua torre d’avorio e sentirsi incompreso, se la sua opera non viene letta e fruita, scompare.

E così, se un film è comprensibile solo per il suo autore, è un film solo per se stesso.

In Bardo troviamo un racconto fondamentalmente autobiografico e sicuramente sentito, ma che per molte parti diventa comprensibile solamente al regista stesso. Se infatti lo spettatore può complessivamente comprendere il messaggio di base, si perde inevitabilmente nell’oceano di riferimenti e di costruzioni della pellicola.

Ovviamente non mancheranno molti spettatori che avranno solo che piacere a perdersi nell’immensità del racconto dell’interiorità del regista, andandone a scovare tutti i significati nascosti.

Non è il mio caso.

Mancanza di interesse

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

A livello di esperienza personale, il film non solo mi ha confuso, ma ha smesso di interessarmi praticamente da subito.

Infatti ho seguito la narrazione di Iñárritu fin dove questa mi intrigava, ma mi sono bloccata davanti alla mancanza di chiavi di lettura possibili e a questa narrazione sicuramente intima e sentita, ma inaccessibile e, in ultimo, poco interessante.

Esistono diverse opere – anche al di fuori dal mondo del cinema – che sono difficili da leggere e che presentano diverse chiavi di lettura. È il caso ad esempio di I’m Thinking of Ending Things (2020), uno dei film più complessi che abbia mai visto in vita mia. Tuttavia, in quel caso, mi sono trovata davanti ad un’opera aperta e piena di significati, che avevo interesse di scoprire.

In questo caso, l’unico modo per comprenderla sarebbe farmela spiegare dal regista stesso.

Mettere le mani avanti

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

C’è solo un elemento che mi ha fatto veramente arrabbiare di questa pellicola.

Come anche abbastanza comprensibile, davanti ad un’impresa così complessa come questa produzione Iñárritu si è sentito già sommerso dalle critiche che avrebbe potuto ricevere. E per questo ha deciso di rispondere alle stesse nella pellicola.

E nella maniera più antipatica e pretenziosa possibile.

Durante la festa infatti, il protagonista parla col pomposo Luis, che critica pesantemente il suo documentario. Così, metanarrativamente parlando, critica l’opera stessa di cui fa parte, dando voce a delle critiche che sinceramente io mi sento abbastanza di avvallare:

I think it’s pretentious. It’s pointless oneric. It’s oneiric cover up for your mediocre writing.

È pretenzioso. Inutilmente onirico. Lo è per mascherare la scrittura mediocre.

E davanti alla scena in cui il personaggio, e quindi il regista stesso, silenzia questa opinione – letteralmente – mi sono sentita personalmente colpita.

E non positivamente.